"Storia della camorra" 

di Achille della Ragione

I capitoli: "Secondigliano: Bronx o Eldorado" e "Secondigliano e la camorra"
sono tratti dal libro di Achille della Ragione, di prossima pubblicazione sulla storia della camorra

Clicca per inviare questo articolo ad un tuo amico segnala questo articolo ad un amico

Clicca per stampare l'articolo stampa una copia di questo articolo 

Clicca per mandare una email con un tuo commento invia un commento a questo articolo

torna indietro alla pagina del download 

Secondigliano: Bronx o Eldorado?

La Napoli del Rinascimento, cara a Mirella Barracco ed a Gerardo Marotta, come a Bassolino ed a tutta la nomenklatura oggi al potere, è divenuta un prodotto di esportazione per riabilitare a fini turistici l’immagine della città. Molti sforzi sono stati meritoriamente compiuti per valorizzare il centro storico, ma le grandi periferie da Pianura a Soccavo, da Chiaiano a Miano, da Piscinola a Marianella, da San Pietro a Patierno a Secondigliano fino a Barra, Ponticelli e San Giovanni a Teduccio sono state dimenticate ed abbandonate al loro triste destino di abbiezione e sottosviluppo.
Grandi manifestazioni culturali hanno suggellato il bicentenario della rivoluzione del ’99, culminante in un oratorio drammatico composto ad hoc dal maestro De Simone e messo in opera al San Carlo, in un clima apologetico e trionfalistico, con in platea una parata di autorità e vanità celebranti se stesse.
Oggi pochi pseudo-intellettuali in combutta con il potere si trastullano a discutere di filosofia, senza tener conto dei bisogni delle grandi periferie degradate e senza speranza e delle loro mille tragedie quotidiane, delle aspirazioni deluse dei loro giovani senza lavoro e senza futuro, dei bisogni non più differibili di gran parte della popolazione.
Napoli è giustamente ricca di giacimenti culturali, ma la vera ricchezza della città è costituita dal gran numero di giovani, la maggiore concentrazione di energia vitale del mondo occidentale, una molla tesa in grado di sviluppare una forza propulsiva di inaudite dimensioni, un magma impetuoso da fare impallidire quello che cova minaccioso sotto le pendici del sonnecchiante Vesuvio.
Questi giovani oggi si trovano, per la quasi totalità, concentrati nelle grandi periferie dell’hinterland ed un caso emblematico è costituito da Secondigliano, temuto Bronx, che potrebbe rivelarsi, ne siamo sicuri, se sapientemente esorcizzato, il nostro vero Eldorado.
Oggi dal Vomero con la metropolitana si arriva in pochi minuti da piazza Vanvitelli e via Scarlatti a via Bakù e via Ghisleri, dagli eleganti negozi e dai tanti cinema sempre affollati, al deserto più assoluto di esercizi commerciali e di luoghi di aggregazione.
Salendo le scale della moderna «Metrò» ci imbattiamo in un cielo grigio e basso con all’orizzonte ciò che rimane delle famigerate Vele, grandioso esempio di insipienza urbanistica prima e di scellerato spreco delle risorse poi.
Scritte sui muri e, dovunque, graffiti, disegni sguaiati, ma soprattutto il segno di un messaggio di odio giurato verso tutti: i ladroni, i padroni, i benpensanti, i venditori di morte, i cravattari.Se cerchiamo notizie del quartiere su libri, enciclopedie, raccolte di giornali e riviste, recuperiamo poche e sconsolate parole, segno di una rimozione e di un disinteresse generale.
Secondigliano per il Lessico della Treccani è semplicemente un sobborgo settentrionale di Napoli (a sette km) situato a 99 metri sul livello del mare, ai piedi delle ultime propaggini dei Flegrei. Il centro risale all’ottavo secolo. Stazione ferroviaria sulla linea Napoli-Capua. 
Di Scampìa non si sospetta nemmeno l’esistenza, mentre nei celebri volumi di Romualdo Marrone sulle strade napoletane, vera miniera di notizie, che dedicano intere pagine a vie e piazze del centro storico, per via Bakù, arteria principale del quartiere e simbolo stesso di Secondigliano, pochi e lapidarî righi: «dalla strada statale Appia al Centro Direzionale rione 167, quartiere Secondigliano. La strada è dedicata al capoluogo dell’Azerbaigian sovietico, città sul Mar Caspio con cui Napoli ha stretto un patto di gemellaggio il 21 luglio 1972». E aggiungerei patria del campione mondiale di scacchi Kasparov.
La caratteristica che più colpisce l’osservatore è l’assenza di negozi e la difficoltà in cui si dibattono i pochi che ancora resistono.
È un segno inequivocabile dell’economia stagnante e della piaga dell’usura mai combattuta, alla quale molti, tanti, commercianti sono stati costretti a rivolgersi in assenza di qualsiasi sistema creditizio a sostegno delle iniziative locali. E molti di questi bottegai sono divenuti oramai ostaggi degli strozzini, i terribili cravattari, ai quali hanno ceduto i sogni, i progetti, le stesse speranze. Sono negozianti dalle facce tutte uguali, solcate dalle stigmate di antiche tribolazioni, dallo sguardo abbassato ed assente, sepolti vivi di un tempo difficile, senza memoria del proprio passato e senza certezza del futuro, ma solamente angosciati da un esasperato senso del presente.
La metropolitana era la grande promessa, qualcuno si illudeva che sarebbero addirittura arrivati anche i turisti, ma qui non si avventurano neanche i napoletani, perché impauriti dalla sinistra fama dei luoghi, anche se, spavaldi, hanno affrontato senza timore i quartieri più malfamati di Londra e New York, di Istanbul e di Calcutta.
Qui, alle spalle della fermata della metropolitana, vi sono fango e fogne otturate, roulottes di zingari e tanta infinita tristezza e malinconia.
Il turismo si è svolto all’incontrario e così il Vomero si è trovato inondato da torme di giovani vocianti e questa invasione pacifica, ma tanto temuta dai benpensanti, è stata magistralmente raccontata da Beppe Lanzetta, uno dei pochissimi intellettuali, assieme ad Edoardo Bennato e Pino Daniele nelle loro canzoni ed a Piscicelli nei suoi film, struggenti di angoscia e mal di vivere, che ha descritto questo dimenticato angolo di Napoli. «La ciurma da paura, festosa, puzzolente, colorata, borchiata, griffata, prezzolata, falsa, figlia dei R.E.M., Ramones, U2, orfana dei Clash, figlia dei cantanti napoletani più gettonati sui matrimoni e battesimi, tifosa ad oltranza del Napoli, arriverà da voi, si presenterà, farà storcere il muso, farà discutere, darà fastidio, mescolerà deodoranti prendi tre paghi due con colonie di Guerlain, farà imprecare contro i tempi moderni, le alte velocità, vi farà dire: ma era proprio necessaria questa metropolitana? E allora rimpiangerete i tanto vituperati autobus dell’Atan, il 160 nero, il 34, il 118 e soprattutto il 185 che quando lo volevi non passava mai, mai, mai...».
Un’altro problema del quartiere, sentito qui più che altrove, è la presenza di una malavita che, oltre ad impaurire, detta regole e codici di comportamento i quali, se fossero adottati anche dai giovani, troncherebbero qualsiasi speranza di riscatto o di rinascita. Ma per fortuna a Secondigliano la stragrande maggioranza dei Tonino e dei Totore, delle Assuntine e delle Annarelle sono ragazzi puliti, generosi, con nel portafoglio la foto dell’idolo preferito, che è sempre un campione positivo, anche se è un cantante, un calciatore, o una diva di soap-opera. E dietro di loro vi è un’enorme massa di brava gente, lavoratori, quando è possibile, pensionati, piccoli commercianti e mammecoraggio, che sono nate qui, come aggregazione spontanea nell’alveare disumano dei grandi edifici della 167, un pollone spontaneo sgorgato all’improvviso per innalzare un argine alla diffusione della droga. Tutte persone oneste che con il loro comportamento costituiscono un esempio edificante per i giovani.
Nelle mani delle autorità cittadine e nazionali vi è oggi un’enorme responsabilità nei riguardi di questi giovani, ai quali bisognerà costruire un futuro attraverso il lavoro, che non potrà essere certo quello di contrabbandiere, posteggiatore abusivo, lavavetri, taglieggiatore, spacciatore, le uniche prospettive che si presentano oggi.
Il futuro di Napoli non si gioca soltanto a via dei Mille o in piazza Plebiscito, bensì in questi rioni periferici zeppi di giovani, che attendono soltanto di essere istradati, ma assolutamente privi di tutto: cinema, circoli culturali, consultorî, giardini, luoghi di aggregazione.
Senza ripetere i disastrosi errori del passato, con cattedrali nel deserto e migliaia di miliardi erogati scriteriatamente a pioggia ed in gran parte finiti nelle tasche della camorra e di politici corrotti, bisognerà cercare la vera inclinazione dei napoletani, che non sono certo le catene di montaggio, bensì quelle attività che sono state per secoli la ricetta vincente della nostra economia: agricoltura, artigianato, industrie di trasformazione, alle quali bisognerà aggiungere turismo e terziario avanzato.
Sembra una ricetta semplice, quasi l’uovo di Colombo, ma su queste indicazioni bisognerà meditare a lungo ed agire con determinazione ed anticonformismo.
Lo richiede il futuro della città, ma principalmente lo invocano tanti giovani privi di bussola, con tanta voglia di fare, ansia di realizzare e di realizzarsi, ai quali bisognerà offrire più opportunità ed incoraggiamento.
Solo se sarà vinta questa sfida coraggiosa Secondigliano non sarà più il nostro Bronx, bensì un Eldorado felice ed i suoi figli cesseranno di essere considerati figli di un Dio minore.

Torna su


 

Secondigliano e la camorra

Fino ad ora abbiamo descritto un quartiere tranquillo, ricco di fermenti e di contraddizioni, ma relativamente calmo; da qualche mese però, a Secondigliano ed a Scampia è scoppiata una guerra senza esclusione di colpi per il controllo del traffico della droga, un commercio che negli ultimi anni ha prodotto guadagni vertiginosi per i gruppi criminali che oggi si combattono alla media di un morto al giorno. I mass media, senza pietà, a tutte le ore del giorno, divulgano alla nazione i bollettini di guerra, che raggiungono le prime pagine dei giornali europei, con effetti devastanti per l’immagine della città, spaventando i flussi turistici, che potrebbero essere l’ultima speranza per la nostra economia agonizzante. I politici, con il capo dello Stato in prima fila, la magistratura, gli intellettuali si avvicinano al capezzale del malato, fanno la loro diagnosi, infausta quanto imprecisa, ed  invocano le loro terapie, velleitarie, utopiche, inadeguate, irrealizzabili, approssimative, assolutamente inefficaci, dimostrando in maniera inequivocabile, non solo di essere in malafede, ma soprattutto di non aver capito niente dell’attuale fenomeno criminale!
Si invoca un irrigidimento delle norme repressive, già tra le più severe in Europa, dimenticando che il processo penale dura anni ed anni, mentre la carcerazione preventiva scade molto prima della fine del giudizio, circostanza che permette ai pochi  criminali arrestati, una volta scarcerati, di rendersi irreperibili.
Si invoca l’aiuto della gente onesta, senza tenere conto che i comuni cittadini si sentono e sono stati abbandonati dallo Stato al loro destino e solo degli eroi possono collaborare attivamente con la giustizia, in attesa di testimonianze segretate.
Si invoca la ricetta del lavoro, come se il delinquente, che guadagna milioni al giorno, al pari dei disoccupati organizzati, lo cercasse, ignorando che tutte le indagini sociologiche più recenti ed accreditate hanno dimostrato inequivocabilmente che il camorrista, chiamiamolo così per semplicità, di qualunque livello gerarchico, trova il suo terreno di cultura, non nella povertà, ma solo e soltanto nell’ambiente criminale, in cui nasce e si sviluppa.
Vogliamo provare ad esaminare sotto una nuova luce il fenomeno camorra, cercando di conoscerlo meglio, per poterlo eventualmente combattere con reale efficacia?
Sorvoliamo sulle origini della camorra, curiosità che lasciamo ai libri, poco importa se nasca nel Cinquecento o nel Seicento, se la introducano gli Spagnuoli o abbia una germinazione spontanea; certo subito dopo l’Unità d’Italia, quando i conquistatori piemontesi si posero il problema del controllo dell’ordine pubblico nella nostra città, non ci pensarono due volte ad affidarlo a Liborio Romano, un personaggio equivoco, il quale, per formare la Guardia Cittadina,  si rivolse  alla malavita organizzata, fornendole  un’investitura ufficiale deleteria per il futuro di Napoli e del Mezzogiorno.
Fu l’apice della potenza per la vecchia camorra, come il baratro fu toccato nel 1912, quando, grazie al capitano dei carabinieri Carlo Fabbroni ed alle confidenze, più o meno veritiere, di Gennaro Abbatangelo, i vertici della camorra furono decapitati con la sentenza del memorabile processo Cuocolo.
Dopo gli anni Ottanta, caratterizzati dal dominio incontrastato di Raffaele Cutolo, oggi, nel terzo millennio, i gruppi criminali che dilagano a Napoli ed in Campania, somigliano più alle bande di gangster, che imperversarono senza regole negli anni Trenta nelle principali città americane, che ai membri di una consorteria criminale, nostalgica e moralistica, che amava presentarsi come onorata società.
Sono saltate tutte le norme di comportamento ed annullate le gerarchie. Oggi quello che i giornalisti continuano a chiamare camorra è un coacervo di bande, alcune centinaia censite sul territorio, in acerrima lotta tra loro, senza che personaggi autorevoli, al di sopra delle parti, possano mediare o trovare compromessi.
Ogni banda fa capo ad una famiglia, spesso già numerosa, accresciutasi in due o tre generazioni, attraverso una sapiente ragnatela di matrimoni. Non esiste quasi mai un capo assoluto, il leader, sempre giovane d’età, è un primus inter pares tra fratelli, cugini, cognati e comparielli vari, tutti coetanei. Una prima significativa differenza con la mafia, una struttura piramidale da sempre spiccatamente verticistica.
Il modello di riferimento e di comportamento è di tipo feudale e, paradossalmente, aristocratico, con vassalli, valvassori e valvassini.  I boss amano mostrarsi potenti agli occhi di tutti gli abitanti del quartiere, dai quali pretendono rispetto e reverenza e del destino dei quali, lavorativo o di semplice sussistenza, si arrogano in diritto di dire l’ultima parola. In occasione di matrimoni interminabili tappeti accompagnano la sposa delle famiglie che contano lungo tutto il percorso tra casa e chiesa, nè più, nè meno di come amava comportarsi la nostra scalcinata nobiltà durante i secoli del vicereame spagnolo.
Il gruppo ha una forte identità con il territorio e con il quartiere di appartenenza, che non lascia mai, anche se diventa ricco e potente, perché nel rione ove è nato e cresciuto il novello delinquente può contare su di una rete di protezione ed omertà impenetrabili.
La “famiglia” malavitosa è tanto più potente quanto più alto è il capitale di violenza posseduto e nel gruppo la posizione occupata dalle donne non è di secondo piano, come avviene nelle strutture mafiose. Basterebbe ricordare i nomi di Pupetta Maresca e di Rosetta Cutolo per convincersene. La donne napoletane sono state oramai contaminate dalla modernità ed hanno dato un impulso decisivo alla dinamicità delle strutture familiari. Divorziano, hanno amanti, mettono gli uomini l’uno contro l’altro, prendono in mano le redini degli affari, quando i maschi sono costretti ad essere assenti dalla scena, perche carcerati o latitanti, o addirittura perché passati a miglior vita.
A Napoli da sempre le donne sono state delle grandi protagoniste  della storia e spesso la gioia, i dolori ed i furori della città hanno trovato espressione in personaggi femminili dalla forza impulsiva, dalla irruenza generosa, dallo slancio materno. Nei secoli la realtà e la fantasia hanno dato luogo a degli archetipi ideali della città femmina: da Marianna “A capa e Napoli” a Marianna a “Sangiovannara”, dalla Medea di Porta Medina a Filumena Marturano, fino a giungere alle “Madri coraggio”, nate nei quartieri spagnoli e diffusesi, novelle don Chisciotte, ovunque ci sia da combattere la impari  battaglia contro la droga ed, ideale contraltare, le signore della camorra, tutte a riprodurre una sorta di primato simbolico della donna nella cultura e nella subcultura napoletana.
La donna educa i figli nella tradizione ed è la prima, se non unica, responsabile del perpetuarsi di comportamenti malavitosi. Ha assunto da vari anni un ruolo che potremmo definire di femminismo antifemminista; è depositaria quasi esclusiva della vendetta, una implacabile vestale, custode dei valori della famiglia, di cui tiene perennemente acceso il fuoco, anche, se necessario, col fuoco delle armi. Paradigmatico il comportamento di Pupetta Maresca e l’eco straordinaria che tuttora conserva la sua vicenda nell’immaginario popolare. Ella interpetra in senso moderno il codice della vendetta: non delega ai parenti maschi il compito di santificarla, ma si fa giustizia da sola, affrontando in pieno giorno ed a viso scoperto il colpevole della morte del marito con la furia di una leonessa. Una tragedia sofoclea trapiantata senza cambiamenti ai nostri giorni, con l’opinione pubblica che ebbe grande comprensione e compassione, nel senso greco del termine, verso la protagonista e la stessa magistratura che, nell’infliggere una pena non eccessiva, ebbe a riconoscere, nelle motivazioni della sentenza, la mitezza della condanna, perché:“ella ha agito esclusivamente per amore e per desiderio di giustizia, spinta a farsi vendetta da sola a causa dell’incerto andamento e delle lungaggini delle prime indagini”.
La struttura familiare malavitosa ricalca un modello da sempre presente nella nostra società, quello delle attività artigianali e commerciali in cui sono occupati, con vari ruoli, tutti i parenti, giovani e vecchi, uomini e donne. Pensiamo ai guantai oppure ai magliai e non dimentichiamo che all’inizio del secolo scorso la cittadina di Secondigliano, allora comune autonomo, viveva e modicamente prosperava, proprio del lavoro dei magliai, che, attraverso una rete fittissima di venditori, i famosi magliari, portava il prodotto in tutto il mondo, fino alla lontana America.
Secondigliano era un borgo tranquillo e bucolico, ce lo descrive con lirica accorata Arturo Capasso, nativo del luogo, uno dei pochi scrittori che ha dedicato la sua attenzione a Scampia, definita terra fertile ed ubertosa: “Nei giardini c’erano le caprette, mentre sui terrazzi c’erano i colombi. Ma nel giardino c’erano anche le galline, e imparai ben presto a vedere se tenevano l’uovo. Bisognava isolarle, bisognava metterle una specie di calza intorno al becco, altrimenti pizzicavano l’uovo appena fatto. Era un mondo semplice, ordinato, molti andavano in bicicletta. C’erano quattro, cinque famiglie di grossi commercianti e piccoli industriali, poi una fascia media ed una molto bassa che abitava vicino al cimitero, nella località detta dei Censi”.
Che differenza con il quartiere di oggi, senza numeri civici, dove molte strade aspettano ancora dalla commissione di toponomastica un nome, mentre quelle che lo hanno, sono prive delle targhe segnaletiche. Strade dove bancherelle di frutta e verdura confinano senza problemi con i banchetti dei contrabbandieri di sigarette, strade dove la maggior parte dei tassisti rifiuta di raccogliere viaggiatori, dopo aver subito infinite rapine.
Fontane da sempre senza acqua e parchi pubblici senza mamme con i bambini al passeggio, anzi senza alcun visitatore, zone senza alcuna identità o, viceversa con un’identità troppo imbarazzante, il tutto all’ombra di palazzoni altissimi da oscurare il cielo, i casermoni dell’Apocalisse, le tanto famigerate Vele.
La perentorietà della notizia ci obbliga ad aprire una parentesi per commentare in diretta l’ultimo flash sul pianeta camorra: la foto di Cosimo Di Lauro imperversa sui video telefonini dei teenager ed ha soppiantato le icone di moda, alle quali i giovani riservano la loro venerazione, da Colin Farrel a Leonardo Di Caprio, da Johnny Depp  a Brad Pitt. E l’immagine del bel tenebroso  riscontra eguale successo tra ragazze e ragazzi, le prime colpite dal fascino magnetico degli occhi e dalla leggenda delle numerose fidanzate, che a frotte rendevano meno noiosi i giorni dell’inevitabile latitanza, i secondi stregati dall’inconfondibile volto da duro, abituato a risolvere con la forza dello sguardo qualsiasi controversia. La colpa naturalmente è dei mass media che per primi hanno diffuso in maniera martellante la foto del boss catturato dai carabinieri, senza tener conto della straripante bellezza del personaggio e del messaggio di fierezza promanante dal volto greco del Di Lauro. Vogliamo seguire la ricetta dei nostri politici che credono al miracolo del lavoro? Proviamo ad offrire a Cosimo, appena uscirà, fra poco, da Poggioreale, in attesa del processo, una parte da protagonista nella “Squadra” o in qualche altro serial televisivo. Avrà sicuramente un grandissimo successo e tutti noi saremo felici che le sue imprese siano virtuali, figlie della fantasia e non della triste realtà di Secondigliano.
Alcuni anni fa una faida simile a quella che attualmente impazza a Secondigliano ed a Scampia insanguinò le strade dei quartieri spagnoli, allora regno della famiglia Mariano, che si trovò a dover contrastare le mire espansionistiche degli scissionisti. Anche in quella occasione vi furono morti innocenti tra i passanti e si ripetette la stessa penosa trafila e si vide lo stesso monotono copione al quale siamo assuefatti da secoli: prima gli omicidi, sempre più efferati, sparando nel mucchio, l’allarme nell’opinione pubblica, montante giorno dopo giorno e proporzionale alla quantità di notizie vomitate senza sosta da giornali e televisioni, poi le minuziose inchieste giornalistiche con descrizione accurata del degrado dei luoghi, illustrate con foto di volti patibolari, quindi, senza fretta, le operazioni delle forze dell’ordine, spettacolari quel tanto da rassicurare i benpensanti, gli arresti, gli interrogatori e la libertà provvisoria o definitiva per la maggioranza degli indagati, poi le pompose dichiarazioni degli amministratori locali, le immancabili giaculatorie degli intellettuali, sdegnati di doversi occupare di tali lordure, infine gli interventi dei parlamentari dell’opposizione seguiti a ruota da quelli del governo e la ciliegina finale del discorso del ministro degli Interni, grondante orgoglio e tronfio di dati riguardanti le operazioni repressive della polizia e dei carabinieri. Restava da sentire la voce della magistratura, ma per ascoltarla bisognava, come sempre, attendere l’inaugurazione dell’anno giudiziario, allorquando, nel baluginio di colori delle eleganti toghe di ermellino, il Procuratore generale faceva sentire la sua autorevole voce, preoccupata oltre misura, lanciare, in un gelido silenzio, un inascoltato grido di dolore.
Appena il clamore diminuiva un poco, ecco il perentorio invito, intellettuali in testa, a non abbassare la guardia e quando poi giungeva il momento di indicare colpe e rimedi, la scena diveniva kafkiana, con un pietoso scaricabarile, tra le categorie preposte a risolvere il problema.
Se andiamo faticosamente a scavare in emeroteca o nella raccolta dei discorsi parlamentari, potremo riesumare interventi sull’argomento di sorprendente attualità, non solo sulle modalità degli episodi criminosi, ma, ed è stupefacente, sui sottili intrecci che già nell’Ottocento legavano come un’edera la camorra alle più disparate classi sociali, ai commerci, sia all’ingrosso che al dettaglio, alle pubbliche amministrazioni, ai politici di calibro nazionale.
E non si può non rimanere meravigliati, come ha sottolineato Amato Lamberti, per anni a capo di un osservatorio istituzionale sul fenomeno, di come un’ inestricabile organizzazione criminale, che per comodità continuiamo a chiamare camorra, abbia compiuto indenne un viaggio durato secoli: sopravvivendo a governi eterogenei, dalla monarchia assoluta a quella costituzionale, dalla dittatura fascista alla democrazia parlamentare ed inoltre al trauma della guerra civile, che sui libri di scuola scopriamo fu chiamata Risorgimento, due disastrose guerre mondiali, che sconvolsero e trasformarono profondamente la società. Senza contare i travolgenti terremoti sociali che hanno scandito il passaggio da una società agricola, imperniata nel sud sul latifondo, ad una industriale prima e post industriale e dei servizi poscia. E nulla hanno inciso la scolarizzazione di massa, la radio, la televisione, il computer ed il rivoluzionario avvento di internet.
Ma torniamo alla famiglia Mariano ed alla faida che insanguinò i quartieri spagnoli. Una docente di storia contemporanea della nostra università, la professoressa Gabriella Gribaudi, studiò per mesi il fenomeno delinquenziale, che caratterizzò Montecalvario e zone limitrofe, introducendo un approccio metodologico alla problematica del tutto nuovo, a metà tra l’indagine sociologica e l’introspezione antropologica. Valutò pazientemente per mesi i documenti anagrafici dei personaggi coinvolti, scoprendo una ragnatela di parentele, acquisite attraverso matrimoni combinati negli anni tra i componenti di spicco delle varie famiglie, che venivano così ad acquisire maggiore potenza ed un allargamento della zona di influenza.
Con certosina pazienza, spulciando tra le carte processuali, interrogando magistrati, funzionari di polizia ed ufficiali dei carabinieri, giornalisti specializzati e tanti normali cittadini, negli anni la Gribaudi è divenuta la massima esperta dei fenomeni delinquenziali presenti nella nostra regione ed ha dimostrato la sua competenza con  numerosi articoli di fondo sui quotidiani napoletani e nel corso di conferenze tenute negli istituti culturali cittadini.
Spesso questa rete di parentele acquisite, tra esponenti di famiglie gravitanti su quartieri lontani, non si trasforma in alleanze durature, in mancanza, come abbiamo sottolineato, di una leadership cittadina. A volte basta uno sgarro, una gelosia, un malcelato desiderio di supremazia per scatenare battaglie senza esclusione di colpi tra famiglie alleate e legate anche da vincoli di sangue. Episodi legati alla circostanza che le organizzazione criminali napoletane hanno una struttura orizzontale e non verticale come la mafia.
Il reclutamento di nuovi adepti avviene per chiamata diretta…quando esiste un legame di parentela, oppure in alcuni serbatoi privilegiati, carceri in primis. Da sempre la pena detentiva, lungi dal preoccuparsi del recupero del condannato, come previsto chiaramente dalla nostra Costituzione, mira all’abbrutimento del reo, il quale cade vittima di leggi non scritte, ma rigorosamente applicate, codificate dai boss, che regnano incontrastati nei nostri penitenziari. E questo da sempre, nelle spaventose carceri spagnole, nelle oscure galere borboniche, fino a giungere a quel raccapricciante inferno dantesco rappresentato da Poggioreale, come sempre un record di abiezione per la nostra sfortunata città.
Il secondo luogo di reclutamento è costituito dalle bische, dove molte persone si trovano all’improvviso a dover chiedere prestiti per ripianare debiti di gioco e poi, presi nel vortice degli interessi usurai, a trovarsi impossibilitati ad onorare il debito contratto con persone poco raccomandabili. La prospettiva di saldare cifre considerevoli con un piccolo favore… costituisce quasi sempre un’attrazione fatale e, di favore in favore, spesso ci si trova invischiati in imprese più grandi di quanto si poteva immaginare inizialmente. L’usura, dal radicamento diffuso e dalla lunga tradizione nell’area napoletana, costituisce il terreno favorevole nel quale, gente disperata per i debiti, cresciuti in maniera logaritmica, è costretta a fare cose incredibili, pur di avere una breve dilazione dei pagamenti.
Un altro bacino di arruolamento è il mondo dei drogati, dove è facile trovare disperati, in crisi di astinenza,  disposti per una dose anche ad uccidere. In ogni caso, notizie riservate di cui siamo venuti a conoscenza, pare abbiano confermato che, nella faida attualmente in corso a Secondigliano, le parti in lotta abbiano assoldato un numero considerevole, oltre cento, di killer professionisti albanesi ed alcuni mercenari provenienti dai servizi segreti di nazioni ex comuniste. Sono queste realtà che inducono i magistrati impegnati in prima linea nella lotta ad appalesare, nelle loro interviste alla stampa, il più profondo pessimismo di poter fermare in tempi brevi, pur disponendo di forze ingenti, i gruppi di fuoco oramai scatenati ed in grado di colpire a piacimento, nonostante le migliaia di agenti schierati, anche nei giorni in cui il presidente Ciampi, coraggiosamente, aveva portato con la sua autorevole presenza un messaggio di speranza e di presenza da parte di uno Stato per troppo tempo latitante.
Il contrario del reclutamento, il dissociarsi dalla malavita, per gli iscritti automaticamente per appartenenza familiare, è quanto mai difficile, tanto pressante è nei giovani la sollecitazione a proseguire in attività con guadagni enormi ed immediati, mentre i coetanei cercano disperatamente una qualsiasi occupazione. Provocatoria a tale proposito la proposta di un magistrato che, alcuni giorni fa dalle pagine napoletane di un diffuso quotidiano nazionale, lanciava l’idea di “trasferire con la forza i figli dei camorristi in una lontana località, e lì costruire con loro e per loro una possibile esistenza”. Una sorta di piano Marshall per il futuro di Napoli. E leggendo queste amare parole non ho potuto non ricordare una mia lettera inviata due anni fa ai principali quotidiani italiani e che fu pubblicata da alcune testate senza produrre alcun risultato:“Vorrei lanciare attraverso le pagine del suo gionale un S.O.S. per cercare di salvare Napoli, antica e gloriosa capitale, che, giorno dopo giorno, precipita in un baratro più profondo e cupo, nell’assordante silenzio dei mass media e nel disinteresse del governo. Una città da oltre un mese paralizzata quotidianamente da manipoli di pochi disoccupati di mestiere, prezzolati e manovrati dalla camorra, mentre il prefetto surclassa Ponzio Pilato nel non prendere decisioni. Una società di politici inconcludenti, corrotti e privi d’idee, che da decenni litiga su come spartirsi i finanziamentidi per Bagnoli, un quartiere dove si gioca il futuro dei Napoletani. Un’area del paese detentrice di numerosi record, dal traffico più caotico alla microcriminalità più audace, al racket più opprimente, dal disordine edilizio più devastante alle densità abitative più alte delle metropoli asiatiche.
A fronte di tante carenze una misconosciuta ricchezza: la più alta concentrazione di giovani del mondo occidentale, uno straordinario propellente che, se correttamente adoperato, potrebbe cambiare il volto di una civiltà.
Napoli non ha bisogno di elemosine, ma di un’attenzione mediatica e degli uomini migliori a disposizione. Perché lo Stato non decide, con una modesta spesa, di lanciare una crociata in favore di questa città, una sorta di piano Marshall post bellico, mandandoci i funzionari più validi, i poliziotti ed i carabinieri più motivati, oltre naturalmente a questori, prefetti e magistrati disposti ad impegnarsi in una sfida entusiasmante, che i napoletani da soli non riescono a vincere”.
La struttura della camorra urbana è profondamente diversa  rispetto a quella della provincia ed ancora più diversa rispetto a quella che alligna nelle zone rurali. L’una trova le principali fonti di reddito nel racket delle tangenti alle attività commerciali e nello spaccio della droga, l’altra si dedica prevalentemente a indirizzare e taglieggiare i grandi appalti pubblici. Da questa sostanziale differenza, identifichiamo anche un diverso grado di collusione con la politica: trascurabile e poco interessato in città, assolutamente indispensabile in provincia, dove tra l’altro una dimostrazione di quanto asserito è venuta anche, e di recente, da clamorose sentenze, che se hanno assolto i big, i ministri ed i pezzi da novanta, hanno inflitto condanne esemplari all’entourage, che pascolava all’ombra dei grandi della prima repubblica. 
La differenza di interessi ed obiettivi spiega anche il perché la lotta per il predominio si è localizzata negli ultimi anni solo nella nostra città, con il rischio di allargarsi a breve ad altre famiglie malavitose e ad altri quartieri. In città si tratta la droga, una fonte di guadagno in grado in brevissimo tempo di produrre enormi profitti e di conseguenza un enorme potere economico, riciclato da tempo in larga misura in attività lecite. Infatti negli ultimi anni la delinquenza ha acquistato, o è divenuta tacitamente proprietaria di attività precedentemente taglieggiate o sottoposte a prestiti usurai. Hanno comperato case ed interi palazzi, negozi, supermercati, bar e discoteche, pizzerie e ristoranti alla moda ed inoltre società finanziarie, utili a far perdere le tracce di denaro sporco e di import- export, necessarie per diffondersi ed impossessarsi dei vergini mercati dell’Europa dell’est, oltre a rafforzarsi naturalmente in attività gestite da sempre in condizioni di monopolio, come la raccolta e la distruzione dei rifiuti, senza trascurare naturalmente le sostanze tossiche, trattate con nonchalance e se necessario le stesse scorie nucleari!
Tutto questo è avvenuto perché l’attenzione dello Stato è stata per troppo tempo debole e si è così permesso a queste società criminali di crescere oltre misura, divenendo un vero stato nello Stato, che si avvia a governare con le proprie leggi, spietate, e con i propri uomini, decisi a tutto. Una situazione non nuova per l’Italia, basti pensare alla Sicilia degli anni Settanta, prima che comparissero all’orizzonte i vari Chinnici, La Torre, Falcone e Borsellino. 
Più volte l’allarme sulla criminilità napoletana come modello di organizzazione economica è stato lanciato dal superprocuratore Vigna, ma è rimasto senza eco, come pure il grido di dolore del senatore Maritati, membro della commissione parlamentare antimafia, che di recente ha sottolineato “ quel che accade a Napoli è più tragico, più drammatico e più vasto della farsa politica da resa dei conti in atto tra centrodestra e centrosinistra”.
Oggi la camorra ha stretto legami ed accordi con la mafia russa e con quella cinese, con gli Ucraini, per il controllo del mercato del lavoro e con i Nigeriani per forniture di droga fuori dai tradizionali cartelli internazionali. Ha creato una zona franca dell’Italia, abitata da quattro milioni di cittadini, che devono rivolgersi a loro non solo per parcheggiare, ma anche e soprattutto, per cercare un lavoro o un prestito, bancario o usuraio non fa differenza, per avere una licenza di commercio o di tassì, fra poco forse anche per respirare.
Giorno dopo giorno si sta creando un modello sociale aberrante, che prende ogni giorno sempre più radici. Un’organizzazione di centinaia di migliaia di persone, che lavorano ad un modello economico parallelo, dalla produzione allo smercio in tutta Europa di falsi marchi e di falsi prodotti: giubbini, scarpe, borse, cd, dvd, macchine fotografiche, orologi svizzeri…, una massa di prodotto, che sfuggendo a qualsiasi imposizione fiscale, cammina grazie a migliaia di venditori, italiani ed extracomunitari, che se valgono, diventano a loro volta imprenditori, perpetuando il perverso modello economico. Una sfida alle istituzioni di portata rivoluzionaria, un pericoloso programma sociale e criminale, un’economia parallela che, come un cancro è in grado di attecchire ad altre latitudini, globalizzandosi ed intessendo alleanze internazionali devastanti. Questo modello ha vinto, e da tempo, la sua battaglia nel debole tessuto dell’economia napoletana, nei quartieri abbandonati a sè stessi, tra le classi sociali disgregate e senza speranza, ma rischia di vincere ovunque, in assenza di una sfida da parte dello Stato, garante della legalità.
A Napoli e provincia una quota cospicua della popolazione è occupata a spacciare droga, ad indurre donne alla prostituzione o, nei casi veniali, a vendere film pezzottati e griffe false nel più assoluto anonimato fiscale, ma la cosa più grave, segno inequivocabile della situazione drammatica in cui siamo precipitati, è costituita dal fatto che la restante popolazione acquista droga, fa la fila per accoppiarsi a prostitute, meglio se minorenni, acquista merce falsa di ogni genere e si fa vanto di vedere soltanto prime visioni di contrabbando. Da questo coacervo inestricabile tra delinquenti ed onesti… difficilmente verremo fuori, senza un mea culpa di ognuno di noi ed una rivoluzione culturale di portata galileiana.
E giungiamo alla parte più difficile, che in genere manca in tutti i libri che trattano la storia della camorra: i possibili rimedi. 
Vogliamo provare a proporne qualcuno, originale, diverso da quelli in genere proposti da politici e mass media. 
In via preliminare è necessaria un’attenzione, costante e costruttiva, da parte dei mass media e del potere politico sul problema Napoli, che deve assumere una priorità nazionale. Se i nostri problemi non diventeranno, ed al più presto, problemi di tutti gli Italiani la lotta è persa in partenza. Analisi serie del fenomeno da parte di studiosi che facciano da volano ad una sequela di iniziative di carattere economico, sociale e legislativo.
Non bisogna aspettarsi molto da proposte di inasprimento delle pene ad eccezione delle pene comminate per il  reato di estorsione, attualmente punito in maniera non molto severa dalle norme vigenti. Chi predica la tolleranza zero, volendo imitare la politica anti crimine instaurata negli anni scorsi dalla città di New York, non deve dimenticare che alle nostre latitudini tale atteggiamento è stato adottato, ma con risultati scarsi o nulli, già dai Borbone, che arruolavano a viva forza sulle loro navi camorristi e delinquenti comuni, da Silvio Spaventa, sul finire dell’Ottocento, che fu l’artefice di capillari operazioni di sradicamento e deportazione in massa sulle isole di furfanti e malfattori, per finire con le guerre civili di annientamento del brigantaggio, volute dai Savoia e condotte dal giovane Stato italiano, fino all’epoca di Giolitti ed alle operazioni militari messe in atto dal fascismo, che fallirono sia in Sicilia, ove regnò il prefetto Mori, che nell’area napoletana.
La storia deve insegnarci che il problema della plebe in epoca moderna ha sempre angustiato la nostra città, detentrice da secoli del poco invidiabile primato di maggiore concentrazione di poveri del mondo occidentale. I problemi strutturali legati a tale situazione di vecchia data, non risolvibile in tempi brevi, derivano dalla complessa e contrastata vicenda storica della città, nel Seicento e nel Settecento popolosa quanto Parigi e più di Londra, capitali di imperi, che hanno esportato  la loro plebe per il mondo , mentre Napoli piange ancora per la perdita del suo ruolo di gloriosa capitale, costretta anche nel passato a dover fare i conti tra risorse, modeste e numero di abitanti, esorbitante. E da noi la plebe, con i suoi umori volubili, ha sempre tenuto in scacco il potere ed è stata in grado di incutere un proverbiale timore reverenziale, dai tempi di Masaniello ai giorni nostri, con i cortei dei disoccupati organizzati padroni della piazza, senza che nessuna autorità osi affrontarli, per timore della rivolta.
Mentre la malavita impazza e spara senza remissione, Napoli è oggi afflitta da due tipologie di reato: l’estorsione, oramai generalizzata, e tutta una sequela di reati: dallo scippo, al furto e alla rapina, praticati da una micro delinquenza che assedia il cittadino ad ogni ora ed in ogni angolo della città. Una massa di disperati costretti quotidianamente a procacciarsi i soldi per la droga.
Per il reato di estorsione è opportuno un incremento della pena , ma soprattutto bisogna favorire l’associazionismo tra le vittime, con polizze assicurative, agevolate dallo Stato per risarcire eventuali danni e ritorsioni, naturalmente soltanto per chi presenta regolare denuncia, che in alcuni casi potrebbe essere segretata. La presenza a Napoli, come consulente, di Tano Grasso, che mette la sua esperienza a nostra disposizione, ci fornisce una ragionevole speranza che la situazione, con un impegno congiunto di cittadini ed istituzioni, possa migliorare anche in tempi brevi.
Fortunatamente…,come ci hanno testimoniato commercianti napoletani fuggiti in passato al nord per sfuggire alla morsa del pizzo, il racket, in pochi anni, ha dilagato in mezza Italia: non vi è locale della riviera romagnola che non paghi la tangente e la situazione è poco dissimile nelle grandi metropoli  padane, sotto il regno di Bossi. Mal comune mezzo gaudio, ma soprattutto la certezza che un problema del sud, divenuto ubiquitario, possa interessare il mondo politico, abituato a guardare soltanto verso Roma o Milano.
Per i reati legati ai drogati, divenuti legioni sempre più numerose, non vi è che da percorrere, con cautela , la via della liberalizzazione, proprio il contrario dell’attuale orientamento del governo, teso a criminalizzare ulteriormente il tossicodipendente.
Bisogna rendersi conto, anche se con tristezza, che in Italia, non solo a Napoli, alla base di oltre il 50% dei reati vi è l’ombra dei paradisi artificiali, più di metà dei carcerati è ospite dello Stato per reati connessi agli stupefacenti, la metà delle forze dell’ordine e della magistratura è occupata da problemi legati a spaccio e consumo di droga. 
Vogliamo finalmente provare almeno a discutere della possibilità di liberalizzarla? Una vecchia proposta radicale che non è stata mai dibattuta seriamente dai mass media e sempre avversata dai partiti, forse perché la forza dell’antistato, con i suoi guadagni superiori al bilancio di tante nazioni, è divenuta talmente potente da essere in grado di corrompere chiunque.

                                             Torna su