Le grandi pale d’altare del Beltrano

di Achille della Ragione

 

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La più antica opera che viene attribuita al Beltrano è la grande pala d’altare raffigurante il Martirio dei SS. Gennaro, Filippo e Procolo (fig.1), eseguita per la Cattedrale di Pozzuoli intorno al 1635 su committenza di Martino Leon y Cardenas, vescovo della diocesi flegrea per circa venti anni dal 1631 al 1650.


fig.1 - Miracolo di S. Alessandro 1640 o 1646

Per datare i dipinti di vari autori che facevano della Cattedrale di Pozzuoli una vera e propria pinacoteca ci si attiene a quanto riferito nelle quattro Relationes, visite che venivano fatte al patrimonio artistico periodicamente, i cui risultati sono conservati presso l’Archivio Segreto Vaticano e sono state studiati su microfilm e parzialmente pubblicati dalla Novelli Radice. Esse si sono svolte nel 1635, nel 1640, nel 1646 e nel 1649.
Già nella prima il dipinto in esame viene citato, per cui a quella data era già in sede, in seguito nel 1646 si avanza come autore il nome di Guido bolognese “SS. Titularium Proculi et Ianuariy episcopi tabulam a Guidone Bononiense dipinta”, un ipotetico allievo del Lanfranco, che sappiamo attivo nella committenza assieme a Paolo Finoglia, Massimo Stanzione ed Artemisia Gentileschi. In quella del 1649 infine la tela viene descritta senza citare più il nome dell’artista, da alcuni identificato come Guido Reni.
In seguito la critica ha proposto per la cona la paternità dello Schonfeld, ma un attento raffronto con altre due tele eseguite per la Cattedrale, firmate e datate dal Beltrano: il Miracolo di S. Alessandro (fig.2) e l’Ultima cena (fig.3) ci permettono di assegnare al Nostro Agostino con certezza il dipinto, il quale costituisce la sua prima opera certa, già sintomatica di una maturità di mezzi espressivi.
La tela presenta caratteri schiettamente naturalistici con forti contrasti di luce, che evidenziano le figure in primo piano immerse in un ambiente classico con sullo sfondo superbe colonne, per le quali si può pensare ad un contributo del Codazzi e con la folla: monelli, contadinelle, matrone e uomini togati che assiste al supplizio. Da notare sulla destra la figura del soldato a cavallo con la lancia, che oltre a presentarsi in altre opere del Beltrano, come nel Martirio di San Sebastiano di collezione della Ragione, sarà una costante in tutte le tele del Gargiulo aventi come soggetto scene di supplizio.
La Novelli ha sottolineato l’influenza sul lavoro del Beltrano delle tele che negli anni immediatamente precedenti eseguiva Poussin a Roma. In particolare il Trionfo di Davide, oggi conservato a Dulwich, datato dalla critica agli anni 1633 – 34.
La composizione sviluppata nel senso dell’altezza risulta drammaticamente concitata e divisa in tre piani successivi con una moltitudine vociante sullo sfondo, al centro i soldati, impegnati ad evitare tumulti ed in primo piano i protagonisti in ordinato disordine. I colori sono particolarmente vivaci ed il suo realismo contenuto è immune da influenze stanzionesche, denotando già un personale indirizzo stilistico, che lo avvicina alle esperienze coeve del Falcone, suo coetaneo e della sua bottega. Ci si comincia lentamente ad allontanare dai rigorosi dettami caravaggeschi e le nuove soluzioni, pur sempre naturaliste ed in chiave di misurata eleganza, tendono a sviluppare un’adesione al dato reale, interpretando il sacro come aspetto della vita quotidiana.
Il riferimento più cogente di questo aggiustamento stilistico che va sviluppandosi in questi anni, il quale caratterizzerà la fase prettamente falconiana dell’artista, è rappresentato dalle grandi tele eseguite dall’Oracolo: il Concerto e la Cacciata dei mercanti dal tempio, oggi conservate al Prado segnate da un originale uso della luce “ trattata con prevalenza dei chiari sugli scuri nel concreto spazio atmosferico in cui i particolari realistici, calati nella densità del colore, esaltano il sentimento di immaginose ma umanissime vicende” (Novelli).
Un’influenza percepita in egual misura anche dal Finoglia, attivo anche lui proprio nel 1635 nella Cattedrale, dove esegue un San Pietro che battezza S. Aspreno, nel quale evidente è la sintesi tra forme antiche espresse in maniera moderna con la figura del santo circondata da un fremito di vita descritto con lucida evidenza.
Nel Miracolo di S. Alessandro (fig. 2) il pittore si mostra invece con uno stile pervaso da un naturalismo temperato, che lentamente si aprirà alle suggestioni del pittoricismo ed alle soluzioni del classicismo romano bolognese. La tela è firmata ed anche se fosse apocrifa rispecchierebbe un’antica tradizione orale. La data presenta l’ultima cifra abrasa, per cui è diversamente collocata al 1646 o – 49. L’Ortolani la leggeva, quando forse era ancora visibile, 1646. Essa risulta presente solo nell’ultima Relationes, quella del 1649, per cui questa è la data più probabile.
Il Bologna vedeva nella pala una forte impronta del Falcone e forse del Grechetto napoletano, inoltre sono visibili i segni di un graduale avvicinamento allo stile stanzionesco, sebbene molte figure, in particolare quella del santo, evidenzino ancora palesi similitudini con l’opera più antica. Si confronti infatti la figura di San Procolo, in attesa dietro San Gennaro già inginocchiato, con quella si S. Alessandro che compie il miracolo di far sgorgare l’acqua dalla roccia, mentre lo stanno conducendo al supplizio, uguali gli atteggiamenti, sovrapponibili le fisionomie.
Un altro personaggio patognomonico (fig. 02 bis), che compare identico, sia nell’affresco del Pagamento del tributo a Sennacherib, documentato al 1644 – 45, in S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone, sia nel Martirio di S. Apollonia in collezione Mauro Calbi, è costituito dal fantolino a braccia protese in primo piano.
Il dipinto è realizzato con una pennellata decisa, che dirige una luce marcata a costruire i profili delle spalle ed i visi di alcune figure come quella posta a sinistra nell’Ultima cena(fig. 3), un’altra delle opere eseguite dall’artista per la Cattedrale, firmata e datata 1648 e nominata nella Relationes del 1649.


fig.2 - Martirio dei Ss Procolo e Gennaro


fig.02 bis - Particolare - Miracolo di S. Alessandro 1646 o 1649


fig03 - Ultima cena firmata e datata 1648 - Cattedrale di Pozzuoli

Il quadro, di forma irregolare, imita e gareggia con quello eseguito da Stanzione per la chiesa dell’Eremo dei Camaldoli; esso, sconosciuto agli stessi specialisti per il lunghissimo periodo di segregazione in deposito e mai pubblicato, è una vera e propria galleria di volti estremamente espressivi ed utili per avanzare raffronti verso altre opere del Beltrano o per tentare nuove attribuzioni, come di recente il Leone de Castris, il quale ha attribuito al Nostro un Pescatore con cesta di pesci di collezione privata per la stingente somiglianza tra la fisionomia del barbuto e calvo pescatore e quella di alcuni apostoli raffigurati nella tela puteolana.
La sobria tavola imbandita è un’altra dell’esercitazioni come generista di Agostino, che vedremo all’opera altre volte nel realizzare bellissimi fiori alla base di tele mariane, come nella Madonna col Bambino e San Nicola da Tolentino e la Madonna con San Gaetano Thiene.
Un’altra tela eseguita per il Duomo di Pozzuoli e purtroppo perduta nel rovinoso incendio del 1964 è il San Martino che taglia il mantello per il povero (fig. 4), di cui ci rimane tristemente solo una foto, nella quale possiamo apprezzare un significativo brano di paesaggio con un frondoso albero che domina la scena.

fig.04 - San Martino dona il suo mantello

Il quadro dovette probabilmente sostituire un’opera precedente, poiché è citata nella Relationes del 1649 la quale afferma: “altra più elegante e nell’aspetto bellissima del beato Martino qui stando a cavallo, aggiungemmo”.
Il santo appare nelle vesti di un raffinatissimo giovane con largo cappello piumato, concreto ritratto della classe privilegiata del tempo.
Il San Martino di Pozzuoli, inopinatamente sfuggito all’esame degli storici dell’arte, sembra essere ancora lontano da altri più illustri modelli e mostra una viva personalità, un impianto ancora libero ed arioso, a differenza del compassato Carlo di Tocco, già pienamente ingabbiato dal modello stanzionesco.
Esso rappresenta un modello dal quale l’artista derivò il più celebre Ritratto equestre di Carlo di Tocco, eseguito dopo il 1642 e conservato nella quadreria del Pio Monte della Misericordia. Il cavallo che compare nel San Martino è lo stesso presente nel Martirio di San Sebastiano di collezione della Ragione con le narici dilatate e sbuffanti.
Un dipinto collegato al San Martino è il Ritratto equestre di Carlo di Tocco (fig. 5 ), assegnato al Beltrano dal Causa e conservato nella quadreria del Pio Monte della Misericordia, donato da Donna Maria Sofia Capece Galeota della Regina. Esso, per la precisione fisiognomica del personaggio raffigurato, va inquadrato nel panorama della ritrattistica napoletana del Seicento, che le fonti riferiscono molto ampio, ma che purtroppo è giunto a noi con pochi esemplari.


fig.05 - Ritratto equestre di Carlo di Tocco

Per il grande formato e per la particolare iconografia non si contano molti esempi nella pittura italiana dell’epoca ed i referenti più illustri vanno ricercati nella coeva produzione spagnola.
Per trovare un termine di paragone nel panorama artistico napoletano, il Causa cita un Ritratto equestre attribuito a Massimo Stanzione e conservato a Madrid nell’Istituto di Valencia de don Juan, raffigurante Don Inigo Lopez de Guevara, viceré di Napoli
dal 1648 al 1653, già citato dal Perez Sanchez nel suo importante riepilogo sulla pittura italiana del XVII secolo, pubblicato nel 1965.
Un altra fonte ispirativa può essere stato il Ritratto equestre di don Juan Josè d’Austria, eseguito dal Ribera e conservato nel Palazzo Reale di Madrid.
Nella tela, oltre ad un imprintig stazionesco, per quanto legnoso, si apprezzano spiccati segni di naturalismo, che lo avvicinano ai modi pittorici del Falcone.
Carlo di Tocco possedeva una sfilza di titoli nobiliari da fare invidia al principe De Curtis (in arte Totò): duca di Sicignano, conte di Montaperto, principe di Montemiletto, decano del Consiglio collaterale e tanti altri ancora, ma soltanto nel 1642 gli venne attribuito dal Duca di Medina las Torres il Toson d’oro, del quale si fregia nella tela, per cui quella data rappresenta il termine post quem per l’esecuzione del ritratto.
La Madonna delle anime del Purgatorio (fig. 6), conservata nell’eponima chiesa di Nola, è una delle opere meno studiate del Beltrano, nonostante documentata con precisione agli anni 1646 – 47 da due polizze di pagamento pubblicate dal Rizzo.


fig.06 - Madonna delle anime del Purgatorio - Nola chiesa del Purgatorio

fig06 bis - Stanzione

fig.06 -tris Autoritratto criptato

fig.06 quater - S.Nicola comunica i fedeli - Copia

Il tema iconografico è molto diffuso a Napoli, dove tra vivi e morti esiste un filo sottile e dove messe di suffragio in gran quantità vengono fatte celebrare dai parenti dei defunti per accorciare la permanenza in un luogo di pene moderate…
Il referente per il lavoro di Agostino è senza dubbio la celebre pala(fig. 6 bis) eseguita da Massimo Stanzione per l’altar maggiore della chiesa napoletana del Purgatorio ad Arco, sulla cui data di esecuzione non vi è accordo tra gli studiosi, anche se viene generalmente collocata a metà degli anni Trenta.
La tela sembra un riepilogo della scuola del divino cavaliere, con i volti pacecchiani e la Madonna che sembra eseguita dal Marullo, con il suo caratteristico cono d’ombra sulla guancia sinistra ed il Bambinello che punta imperioso le tre dita della mano. Ma la scoperta più stupefacente è stata la scoperta che ho fatto dell’autoritratto del pittore(006 tris)nella parte bassa della tela; è bastato ingrandire l’immagine e confrontarla con le sembianze tramandataci dal Giannone e con quelle presenti (fig. 006 quater) nell’affresco di San Nicola comunica i fedeli nella Pietà dei Turchini.
Nel 1649 il Beltrano realizza due grosse tele di diverse dimensioni per la chiesa di S. Maria del popolo agli Incurabili raffiguranti l’Incoronazione della Vergine, entrambe firmate e datate. Non piacquero alla Novelli, che nel suo fondamentale articolo sull’artista le definì brutte, in verità, dopo il recente restauro di una (fig. 7) delle due, il giudizio appare inutilmente severo.
Esse ci permettono di riconoscere nell’affresco (fig. 7bis) in S. Maria la Nova la decorazione del Beltrano che si credeva perduta, anche tenendo conto del particolare della testa del Padre eterno(fig. 7 tris) che ci rammenta a viva voce analoghe teste dipinte dal pittore ed infine di riconoscere la piena autografia del Nostro, come collaboratore di Stanzione in uno (fig. 7 quater) dei 15 rametti che circondano la Madonna del Rosario nella cappella Cacace in San Lorenzo Maggiore.


fig.07 - Beltrano-Incoronazione della Vergine (Napoli, S. Maria del Popolo agli Incurabili)

fig07 bis - Incoronazione Vergine S. Maria la Nova

fig.07 tris - Particolare


fig.07 quater - Incoronazione della Vergine

La pala, rigorosamente stanzionesca, risponde a quelle esigenze di spettacolarizzazione della sacralità tanto sentite dal pubblico dell’epoca. Come su di un palcoscenico si agitano mimi e teatranti, folletti fuoriusciti da un drappo nero, così
da una nuvola minacciosa sgorgano un nugolo di candidi angioletti, mentre la bianca colomba assiste dall’alto alla cerimonia dell’incoronazione.
Una fastosa macchina teatrale concepita per catturare lo sguardo del fedele e per captarne la benevolenza emotiva.
Le due tele eseguite nel 1649 per la cappella funeraria dei fratelli Filippo, Orazio e Niccolò Schipani nella chiesa di S. Agostino degli Scalzi: la Madonna col Bambino e San Nicola da Tolentino (fig. 8) e San Girolamo e l’Angelo del giudizio (fig. 9) sono la lampante dimostrazione che il Beltrano si esprimeva simultaneamente seguendo stili completamente diversi; infatti la prima, posta sulla parete sinistra è squisitamente stanzionesca, mentre la seconda, posta di fronte, risente dell’influsso del Ribera.


fig.08- Madonna con bambino e San Nicola da Tolentino  1649


fig09 - S.Girolamo e l'angelo (Napoli, Museo Diocesano)

fig.09 bis - Francesco Gessi - S. Girolamo ascolta tromba giudizio

Nella Madonna con San Nicola, firmata, datata 1649 e documentata, dolcissimo è il volto della Vergine, che richiama a viva voce quello della tela conservata nella chiesa dei SS. Apostoli, mentre il teschio del memento mori ed il crocifisso posti sul ripiano dell’inginocchiatoio evocano intensamente le virtù ascetiche del santo piceno, ritratto con i suoi attributi tradizionali.
In primo piano sulla sinistra, e più piccolo sulla destra, sono visibili due eccellenti inserti di natura morta floreale, eseguiti con tale maestria da far ipotizzare la collaborazione di uno specialista, mentre lo scorcio di cielo, molto ridotto, si presenta chiaro e luminoso, spadariano, a differenza di altri quadri, in primis, il Loth e le figlie di collezione Molinari Pradelli, dove si presenta corrusco e nuvoloso.
Lo stato di conservazione del dipinto è stato a lungo precario fino al recente restauro nel 2006, che lo ha restituito ai colori originali ed ha colmato anche un vistoso buco nella testa della Madonna. In passato le offese del tempo avevano talmente reso irriconoscibile la tela, che anche un occhio esperto come quello dell’Ortolani, nelle vesti di catalogatore per conto della sovrintendenza del patrimonio della chiesa, lo aveva giudicato”assai mediocre” e lo aveva assegnato ad un ignoto napoletano attivo intorno al 1650. Rivedendo la tela, dopo una parziale pulitura, lo studioso, in occasione della mostra del 1938, sottolineò la somiglianza della Vergine con quella dell’Adorazione dei Magi dipinta da Artemisia Gentileschi per il coro del duomo di Pozzuoli.
Viceversa le guide antiche, dal De Lellis (1654) al Celano(1692), avevano molto lodato il quadro, al punto di attribuirlo al più celebre Mattia Preti.
La recente riscoperta della data e della firma hanno confermato l’attribuzione al Beltrano, già certa grazie alla pubblicazione di un documento pubblicato nel 1912 dal D’Addosio.
Il gemello posto sulla parete destra della cappella, il San Girolamo e l’Angelo del giudizio(fig. 9), è anche esso firmato e datato 1649, anche se oggi non si distinguono le cifre. Esso fu esposto alla mostra Civiltà del Seicento e rappresenta il santo in meditazione nel deserto, con il leone ai piedi ed i suoi amati libri, nel momento in cui l’Angelo del giudizio lo distoglie dai suoi studi, annunciandogli, al suono della tromba, l’imminente fine del mondo.
Il dipinto si ispira a modelli iconografici resi celebri dal Ribera in più redazioni, conservate a Capodimonte ed all’Ermitage ed è impregnato da un sano naturalismo, che trasuda dalle pagine accartocciate dei libri e dai sottili giochi di chiaro scuro sul teschio, due splendidi inserti di natura morta.
Un altro riferimento ispirativo, sicuramente visto dal pittore, è il quadro eponimo(fig. 9 bis), eseguito da Gessi nel 1621 e conservato nella chiesa dei Gerolamini.
Del dipinto, oltre all’Ortolani nel catalogo della mostra del 1938, hanno parlato in seguito la Novelli Radice, nel 1974, la quale, nelle pagine della rivista longhiana Paragone, fece notare “il rigoroso impianto naturalistico con un arioso andamento memore dei contatti lanfranchiani” e più di recente Spinosa, nel 1989, che riteneva l’opera caratterizzata da forme di consumato naturalismo riberesco e di stanca accademia, forse riferendosi alla figura del santo, chiaramente stereotipata.
La tela, completamente restaurata, è ora esposta presso il museo diocesano di Napoli, in attesa forse di ritornare nella collocazione originaria nella chiesa di S. Agostino degli Scalzi, da pochi giorni riaperta al pubblico dopo decenni di criminale abbandono. Nel catalogo la scheda è compilata da Stefano Causa, il quale, colloca l’opera nella piena maturità dell’artista” il San Girolamo, annunciato dal vistoso cinabro del mantello, costituisce l’attardata parafrasi di un soggetto più volte replicato dal Ribera. I dettagli della natura morta ed il viso dell’eremita sono deviati in una vulgata riberesca, ai limiti dell’intenzione parodistica, pure il disegno enfatico dei panneggi e il dinamismo della composizione denunciano un’esperienza barocca già in atto”.
Del 1650 è una scialba tela, firmata per esteso e datata 1650, raffigurante S. Antonio da Padova ed il Bambin Gesù (fig. 10 ), conservata nella chiesa eponima di Afragola.


fig10 - S. Antonio e Bambin Gesù -Afragola

L’opera è stata pubblicata dall’Ambrosio, la quale ha chiarito un dubbio sulla data di esecuzione, che dopo un restauro era stata corretta in 1630, anche grazie ad una testimonianza di uno studioso locale, il Giacco, il quale, in una Guida del 1938, segnalava che il quadro era situato nell’abside, dietro l’altare maggiore ed era firmato e datato 1650.
Il dipinto trasuda uno stanzionismo di maniera con la figura del santo stancamente accademica, mentre “ lo schema compositivo, seppur molto più semplificato e scarno e con il Santo rivolto verso destra è lo stesso del S. Nicola da Tolentino documentato al 1649 e del S. Gaetano, della chiesa dei SS. Apostoli, riferito al 1655 – 56, così come la coppia di angioletti abbracciati che figura in alto a destra nella tela è molto simile a quella che compare a sinistra nell’affresco di S. Maria la Nova con l’Incoronazione della Vergine, databile agli anni dopo il 1647”(Ambrosio).
Sull’altare della terza cappella, entrando a sinistra, nella chiesa dei SS. Apostoli trova posto una Madonna col Bambino e San Gaetano Thiene (fig.11), firmata e collocata cronologicamente dallo Strazzullo intorno agli anni 1655 – 56.


fig.11 - madonna e san Gaetano

Essa rappresenta il santo inginocchiato ai piedi della Vergine, mentre un corteo di angioletti svolazza allegramente. La tela è chiaramente di matrice stanzionesca con il volto soave della Madonna molto simile a quello ritratto nella tela di S. Agostino degli Scalzi. Anche qui, come nell’altra pala del Beltrano, vi è, in primo piano sulla destra, un delicato inserto di natura morta floreale. Lo scorcio di panorama è tipico del pittore, con nuvole cariche di pioggia che si alternano a squarci di sereno, la stessa veduta parziale che si apprezza nel celebre Loth e le figlie di collezione Molinari Pradelli.
Il 29 dicembre 1653 il Beltrano stipula un contratto con il Dottor Francesco Antonio Lantaro per l’esecuzione di una pala d’altare, descritta dettagliata e puntualmente eseguita per la cappella di famiglia nella chiesa di S. Maria della Sanità. Essa rappresenta per la precisione San Biagio, tra San Raimondo di Penafort e S. Antonino arcivescovo di Firenze (fig. 12) ed in essa si può apprezzare un naturalismo temperato alle suggestioni pittoricistiche e alle prime soluzioni del classicismo romano bolognese, che in quel periodo cominciano ad avvertirsi nell’ambiente napoletano.


fig12 - Sant Antonino 1654

L’opera era stata richiesta nel 1653 al pittore Beato, morto nello stesso anno. Nella stessa occasione al Beltrano venne commissionato un Eterno Padre con angeli, che alcuni pagamenti, tra il 1612 ed il 1614, documentano come lavoro di Giovan Bernardo Azzolino, ma che Aurora Spinosa ipotizza possa trattarsi della cimasa del quadro del Beltrano, che probabilmente non fu mai collocata nella cappella. Nel 1655, infine, il Lantaro commissionò al Nostro anche degli affreschi per la cupola antistante la cappella, che sono andati distrutti, durante una ristrutturazione ottocentesca.
La pala, citata in quasi tutte le guide sulla città, viene ricordata anche dal De Dominici, che, nell’apprezzare l’imitazione della bella tinta di Guido (Reni), ipotizza una collaborazione con la moglie Diana, del tutto impossibile ora che conosciamo la data della morte della pittrice.
La Novelli Radice nel descrivere la pala sottolineava:” gli apporti culturali e una pallida reminescenza del Novelli e del Lanfranco che vi si dissolvono nei termini dell’ultima voga. Questi elementi dovettero caratterizzare molta parte della sua produzione matura e motivare così la sua fama di fedele scolaro”.
In alto sulla cona si affollano un corteo di angeli musicanti, una reminescenza di alcuni lavori di Ippolito Borghese che vedremo puntualmente riprodotti in più di un dipinto di Paolo Finoglia e che rivedremo nella Trinità che appare a Sant’Agostino, firmata Agustinus Beltranus e datata 1656, conservata in una collezione privata spagnola a Sitio de Valvedere (Burgos).
Nel 1956 il Beltrano firma e data la Trinità che appare a S. Agostino (fig. 13), una composizione di grandi dimensioni, nata quasi certamente come pala d’altare per qualche cappella e finita chi sa come e quando in una collezione privata spagnola a Sitio de Valvedere(Burgos), come ci segnala il Perez Sanchez, che per il primo pubblica la sua foto, purtroppo troppo rossa.

fig13 Sant. Agostino 1656

L’influsso di Stanzione è palpabile, come pure compaiono di nuovo sulla scena cori di leggiadri angeli musicanti, che, tra smaglianti cromatismi intonano il loro canto gioioso. Li abbiamo già descritto nella tela conservata in S. Maria della Sanità.
La tela, sempre sfuggita agli studi sull’artista, presenta una certa importanza nel suo percorso, perché ci conferma che nel 1656, anche se non sappiamo in quale mese, egli era ancora vivo, vegeto ed attivo.
L’Immacolata Concezione con Papa Alessandro VII e Filippo IV (fig. 14), si trova sulla parete destra dell’altar maggiore nella chiesa di S. Maria la Nova e versa in precarie condizioni di conservazione ed in una zona poco illuminata, per cui spero di poter essere parzialmente scusato per l’orribile foto che sono costretto a pubblicare. Essa in passato è stata assegnata dalla Novelli Radice al quasi sconosciuto Giuseppe Beltrano, fratello di Agostino, in base ad un livello di qualità dell’opera molto modesto.


fig.14 Beltrano-Immacolata Concezione con Alessandro VII e Filippo V (Napoli, S.Maria la Nova)

È viceversa facile constatare come la tela in esame trasudi lo stile di Agostino da tanti dettagli: dal volto della Vergine, identico a quello delineato nell’affresco della Incoronazione della Vergine ed a quello dei due dipinti di analogo soggetto conservati nella chiesa di S. Maria del popolo agli Incurabili, al gruppo degli angioletti simile nei contorsionismi a tanti altri che possiamo rintracciare anche in dipinti da cavalletto ed infine la fisionomia del re Filippo IV, immortalata più volte dal Velázquez, col suo caratteristico prognatismo, che richiama a viva voce il ritratto equestre di Carlo Di Tocco, conservato al Pio Monte della Misericordia, il quale fu eseguito dopo il 1642.
In particolare dobbiamo considerare i due personaggi raffigurati ai piedi della Vergine, il Papa Alessandro VII, il quale si espresse definitivamente sull’iconografia rappresentata nel dipinto l’8 dicembre 1661 con la Sollicitudo omnium ecclesiarum ed il re Filippo IV che fece pressioni a lungo sul pontefice affinché si pronunciasse sulla questione.
Risulta pacifico concludere che l’opera in esame non ha potuto vedere la luce prima del 1662, in accordo con il De Dominici che riferisce che l’artista morì nel 1665. Bisognerà perciò accettare l’ipotesi che Beltrano superò indenne l’infuriare della peste e visse molti anni dopo il fatidico 1656, che i libri di storia dell’arte continuano ad indicare come data del suo decesso.

Achille della Ragione

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