MISCELLANEA II

di Achille della Ragione

 

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Regalo di Natale

Per le feste di Natale ho pensato di fare un omaggio ai miei lettori, raccogliendo una parte dei miei articoli e delle lettere al direttore pubblicati nel 2009.
L’indice permette di leggere solo ciò che interessa ed è possibile anche spedire ai propri amici e conoscenti la piccola miscellanea.
Mancano gli scritti di arte e, salvo 3 - 4 eccezioni, le recensioni cinematografiche per non appesantire troppo la lettura. Per chi fosse interessato a questi argomenti basta consultare l’archivio di www.napoli.com e digitare il mio cognome, si potranno così leggere oltre 600 articoli e guardare circa 5000 foto.

Buona lettura
Achille della Ragione



INDICE
1.   Un video hard inesistente ed un passato a luci rosse consistente
2.   D’amore si vive, un libro da regalare a Natale
3.   Dio non abita qui
4.   Presentato il calendario Pirelli 2010
5.   Ludmilla Radchenko, una imperatrice nuda a Milano
6.   Un mondo alla rovescia
7.   La tenacia dell’amore senile
9.   Una soffiata maliziosa su Maria Stella Gelmini
10. Sull’invivibilità delle nostre carceri
11. Il fascino perverso del transessuale
12. Intervista allo scrittore Andrej Longo
13. Baarìa un esaltante capolavoro
14. Addormentarsi con un Caravaggio
15. Rivisitiamo il Risorgimento
16. I danni della sessuofobia
17. RU 486 un’opportunità per cambiare la legge 194
18. Post colonialismo di rapina
19. Lo strapotere dei computer negli scacchi
20. Il perché dell’intolleranza
21. Festival Internazionale di Scacchi “Panza – Isola d’Ischia”
22. Arrivederci Arturo
23. Pigrizia intellettuale
24. Un flagello ubiquitario: i writers
25. Vincere, una torbida pagina di storia
26. sull’obiezione di coscienza
27. Angeli e demoni, un trionfo annunciato
28. Il nostro turismo: una risorsa incommensurabile
29. Proposte del governo per nuove carceri
30. L’ultima frontiera del copyright
31. Spes ultima dea
32. La cecità
33. Requiem per il Karama
34. A tu per tu con Mike
35. Una entusiasmante gara di braccio di ferro
36. Il pillolo soppianterà la pillola?
37. Essere scrittore a Napoli dopo Gomorra
38. La pratica del sesso nei disabili
39. Diario di una ninfomane
40. Quale mondo dopo la crisi?
41. Il sovrintendente Spinosa abdica?
42. Passeggiando per antichi casini
43. Generazione 1000 euro
44. La forza di una tradizione millenaria
45. Truffa sul referendum
46. Una festa di Carnevale indimenticabile
47. La finanza vola mentre l’economia arranca
48. Garbata replica
49. Proverbi napoletani di latina origine
50. Un poco noto primato napoletano
51. La bellezza è necessaria?
52. Bentornato bigliettaio
53. Il Tempio della memoria
54. Vergogna Marrazzo
55. Il napoletano è una lingua, non un dialetto
56. L’epicedio del Banco di Napoli
58. Vecchi senza fine
59. Trenta navi cariche di scorie radioattive al largo della Calabria
60. Singolare o plurale, Borbone senza pace
61. Le carceri scoppiano, non solo in Italia
62. San Gennaro superstar
63. Lettera aperta alla direttrice della Galleria Corsini
64. Un nuovo libro su Achille Lauro
65. Il male assoluto e l’angelo custode
66. Napoli capitale mondiale delle reliquie
67. Addio Mike sovrano incontrastato del quiz
68. Un’ondata di violenza gratuita
69. L’amore per i nostri cromosomi
70. La maledizione del decoder
71. Le brune surclassano le bionde
72. Caritas in veritate, un invito alla lettura
73. Una rivoluzione pacifica ma necessaria
74. Un prezioso manuale da consultare
75. Basta con la favola della Resistenza
76. Il definitivo tramonto del lavoro
77. Testamento biologico, riparliamone
78. Benedetto terremoto
79. Un vocabolario maschilista
80. Quale mondo dopo la crisi?
81. Obiezione di coscienza: diritto o prevaricazione?
82. Emanuele Filiberto di Savoia trionfa a Ballando sotto le stelle
83. Droga libera, appello provocazione all’Onu
84. Nazionalizzare necesse est
85. Una legge anacronistica
86. Chiavette internet:truffa o progresso?
87. I love shopping
88. Stupro culturale
89. Le grotte Platamonie ed i riti orgiastici
90. I confini della vita
91. Il falso mito della democrazia
92. Il mendace trionfo dell’evoluzionismo
93. Possibili rimedi alla vecchiaia
94. Chi comanda nel mondo
95. Elogio del tiranno
96. Videocracy, uno spietato ritratto di una società alla deriva
97. La crisi dell’utopia di internet
98. Il caso dell’infedele Klara

 


Un video hard inesistente ed un passato a luci rosse consistente
Oramai la lotta politica in Italia si fa a base di ricatti e di video compromettenti. Inutile perdere tempo a discutere di riforme e di contenuti è più facile infangare l’avversario attraverso notizie ad effetto, meglio se a sfondo erotico perverso. Dopo i video su Marrazzo, nei giorni scorsi è circolata ad arte la voce di un filmato che riprendeva la procace Alessandra Mussolini durante un incontro ravvicinatissimo con un collega di partito. Gli interessati hanno smentito vigorosamente e sembra si sia trattato di una panzana, ma solo dopo che stampa e media avevano massacrato la reputazione dei presunti protagonisti.
Peccato, perché legioni di guardoni avrebbero gradito ammirare le grazie di una delle poche donne impegnate in politica, che, nonostante l’età non più verde, conserva un sexy appeal di tutto rispetto.
Col pensiero sono ritornato ad una cassetta di alcuni minuti, mangiata letteralmente con gli occhi, visionata a casa di un amico collezionista di video scollacciati, il barone Maffettone, noto arrapato dai gusti raffinati.
Ricordo, come fosse ieri, alcune sequenze nella quali la futura onorevolessa, mostrava generosamente poppe vigorose, fianchi provocanti ed un sedere da favola, senza lasciare alcun centimetro del suo giovane corpo alla fantasia dello spettatore.
Niente da meravigliarsi, la fanciulla voleva seguire le orme cinematografiche della celebre zia ed i suoi inizi, come sempre capita, furono nel cinema a luci rosse.
Lasciate ogni speranza di poter visionare su you tube il filmato, il barone sarà pure un voyeur immarcescibile, ma è innanzitutto un gentiluomo e la cassetta non uscirà dalla sua lussuosa dimora di Piazza Dante.
Poi Alessandra si accorse di possedere uno straordinario cognome e decise di darsi alla politica.
Si rivolse a Riccardo Monaco, celebre abortista di via Caracciolo, che all’epoca finanziava il M.S.I e dall’incontro…, per chi vuole sapere cosa successe fra i due non vi è che andare su internet e leggere un mio scritto sull’argomento” Un personaggio dimenticato da non dimenticare”. Buona lettura.

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D’amore si vive, un libro da regalare a Natale
Cosa vi può essere di più elegante(ed economico) che regalare per le prossime festività un libro, soprattutto se il volume in questione può rappresentare anche una chiara allusione ed uno stimolo ad apprendere, parafrasando Woody Allen, tutto ciò che avremmo voluto sapere sul sesso e non abbiamo mai avuto il coraggio di chiedere.
D’amore si vive è una interessante antologia di 890 pagine, che per soli 15 euro, raccoglie 100 novelle erotiche di 44 autori, tra cui illustri specialisti del settore come Giovanni Boccaccio, Pietro Aretino, Giacomo Casanova e Gabriele D’Annunzio, ma anche letterati insospettabili quali il patriota Luigi Settembrini, lo storico Federico De Roberto o la giornalista Matilde Serao, unica voce femminile in un consesso di soli scrittori.
I racconti spaziano per mezzo millennio, dal Trecento all’Ottocento e tra le pagine troviamo un caleidoscopio di tipologie talmente vasto e composito, ma soprattutto attuale, da convincerci che alcuni fenomeni, dai trans alle escort, dai pedofili agli incestuosi, che credevamo fossero un esito della moderna corruzione dei costumi, apportata dal crollo dei valori, sono sempre esistiti e tollerati, ieri forse più di oggi.
Scorre così una galleria di monachelle dal pube voglioso, di monaci arrapati, di contadinelle sverginate, di mariti cornuti ed a volte anche mazziati, di contadinotti sodomiti, soprattutto con gli animali da cortile e poi legioni di ruffiani impertinenti, incestuosi immarcescibili, stupratori incalliti, senza considerare quelle festose brigate di ragazze e giovanotti, che si appartavano per giorni e giorni e senza inibizioni o censure si raccontavano a vicenda storielle licenziose a sfondo sessuale, come ci riferisce il Decamerone ed oggi la televisione col Grande Fratello.
Il curatore della raccolta è un raffinato intellettuale che risponde al nome prestigioso di Guido Davico Bonino, il quale spiega nell’introduzione la nascita del proibizionismo letterario con il Concilio di Trento e l’istituzione dell’indice dei libri proibiti, mentre in precedenza, memori della licenziosità del paganesimo, il sesso veniva interpretato come un’esplosione di sana vitalità, senza distinzione di classi sociali, anche se era raro che una marchesa concedesse le sue grazie ad un moro o ad un poveraccio, anche se ben dotati.
Il Decamerone diventa il modello di tutti i novellieri licenziosi che seguiranno, anche se la censura cercherà di mitigare la fantasia del racconto, ma la prosa riflette la vita e la vita è sesso più o meno nascosto o esibito.
Un merito precipuo dell’antologia è quello di farci conoscere alcuni dei nostri misconosciuti libertini seicenteschi e tra questi spicca la scrittura agile di Ferrante Pallavicini, autore di numerose novelle amorose e di un impareggiabile Retorica delle puttane, un vero e proprio trattato dedicato alle meretrici, alle quali vengono dati opportuni consigli, la cui lettura risulterà oltremodo utile anche per le escort ubiquitarie dei nostri giorni: “Farsi credere sfinita dopo l’orgasmo maschile e recitare nello stesso tempo frasi di supremo godimento”. Accoppiarsi davanti ad uno specchio ed incoraggiare l’uomo al possesso posteriore, una penetrazione sempre gradita per stuzzicare l’orgoglio maschile. Ed inoltre mostrare sentimenti genuini come affetto e comprensione. Un prezioso consiglio inconsciamente recepito dai moderni viados, che pare riescano ad attrarre più delle donne facendo leva su virtù una volta tipicamente femminili.
L’autore di questi fecondi suggerimenti pagò con la vita, decapitato dal boia, la sua audacia letteraria, ma si dimostrò un vero libertino, difendendo le proprie idee con coraggio fino alla fine.
Arrivati al Settecento vi saranno i resoconti delle mille imprese erotiche del prode Casanova e il tentativo di eguagliare il maestro da parte di Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart e tombeur de femme, reso famoso da un recente film a lui dedicato. Sarà un secolo però meno spumeggiante dei precedenti per via della morigerata serietà lombarda e piemontese che domina la scena.
E con l’Ottocento, improntato alla verecondia manzoniana, un alone di finto perbenismo ottunderà le terrificanti esplosioni di gioia che solo un sesso libero da regole può apportare, ne risentiranno gli amplessi più o meno proibiti ed il racconto che di essi fecero i pochi cronisti di quei decenni malinconici.

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Dio non abita qui
Da troppi anni a Napoli sono gli omicidi a scandire ritmicamente il calendario, mentre tutto il territorio sfugge completamente al controllo dello Stato, che da tempo ha abdicato alle sue funzioni, vicariato dalla delinquenza organizzata, che detta legge oramai in ogni faccenda pubblica e privata. Il Comune e la Regione sono entità astratte prive di ogni potere. L’assoluta incertezza del diritto fa sì che gran parte dei malavitosi siano certi di farla franca e di dover rispondere al massimo ai rimorsi della propria coscienza, un tribunale, almeno da Dostoevskij in poi, di tutto rispetto, ma purtroppo, non ancora parificato agli ordinamenti di una moderna Repubblica.
I giovani fuggono in massa verso un destino meno amaro, una diaspora di dimensioni bibliche che preclude ogni speranza di miglioramento futuro; restano soltanto i vecchi borghesi, pensionati e piccoli commercianti che oramai si sono arresi.
Leopardi che pure l’amava la definì “terra di lazzaroni e di pulcinella” e tanti altri insigni personaggi, da Campanella alla Serao, condivisero pareri negativi, senza parlare dei tanti viaggiatori stranieri, in visita a Napoli, quando la capitale era una delle mete obbligate del Gran Tour. Si giunse così al laconico giudizio di “ un paradiso abitato da diavoli”, coniato quando la camorra non era ancora divenuta una delle organizzazioni criminali più feroci della Terra.
Eppure nonostante questa antica maledizione gravi come un macigno, non esiste città dove disorganizzazione e gioia di vivere convivano con maggiore armonia. Ed è questa la colla che tiene ancora uniti tutti coloro che amano svisceratamente il loro luogo natio, la loro patria e soffrano una struggente malinconia quando sono costretti a cercare altrove pane e tranquillità.
E’ probabile che la nostra città rappresenti un laboratorio dove affrontare una serie di tematiche che da noi hanno da tempo raggiunto e superato il livello di guardia, ma che interessano tutti gli Italiani: traffico, disoccupazione, delinquenza organizzata, smaltimento dei rifiuti, abusivismo, ecc.
I Napoletani sono gente antica, che non ha reciso le radici col passato e che ha rifiutato vigorosamente le suadenti sirene della modernità. Rappresentiamo una delle ultime tribù della terra in lotta contro la globalizzazione.
Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il frangersi del mare sulla scogliera sottostante.
Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la forza dei Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente.
 

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Presentato il calendario Pirelli 2010
Trionfo del nudo adolescenziale e dell’eros sfacciato

Il nuovo calendario Pirelli, presentato a Londra in anteprima mondiale ad una scelta platea di 800 ospiti vip, è un inno gioioso al nudo adolescenziale, alla perfezione delle forme anatomiche acerbe, alla straripante vitalità di 11 lolite(fig. 01), tutte giovanissime, che in una lussureggiante spiaggia esotica brasiliana si sono docilmente affidate agli scatti di un celebre fotografo americano: Terry Richardson, conosciuto nell’ambiente come Terry il terribile ed anche come il ritrattista ufficiale di Obama.
Il risultato è una sequenza di immagini conturbanti, dal doppio senso sfacciato, adatte a risvegliare i lubrici desideri di un pubblico assopito di rudi camionisti, più che di raffinati guardoni dai gusti prelibati.
Abbiamo così Abbey Lee Kershaw, modella australiana, con un piercing sul capezzolo alla Federica Pellegrini, che copre timidamente il pube glabro con una coppa di champagne; Gracie Carvahlo nella classica posa sotto la doccia; la platinata Ana Beatriz Barros mentre si gusta una fetta di cocomero, incurante del dolce succo che le gocciola sul seno e sul ventre o, in un’altra foto, mentre lecca vogliosa la cresta di uno spaventato gallo nero o Daisy, in topless e jeans sbottonati, con un rigido tubo di gomma tra i seni, che le innaffia vigorosamente il volto e la bocca, spalancata e con la lingua protesa nell’ansia di ingurgitarne il getto. Ed infine la più eclatante, la ragazza del mese di agosto, l’ungherese Eniko Mihalik, che si gusta felice una banana mentre fissa docile l’obiettivo(fig. 2), naturalmente completamente nuda incluso il pube rigorosamente depilato.
La sorpresa maggiore per noi è stata ammirare l’inglese Lily Cole, già vista come interprete del film Parnassus, nel quale interpreta la parte di una quindicenne vergine e casta, destinata a divenire preda prelibata del diavolo e soprattutto dove per qualche attimo compare completamente nuda con delle forme appena accennate, mentre sul calendario sfodera un seno alla Sophie Loren(fig. 3), di debordanti proporzioni. Non contenta di questa metamorfosi pare abbia chiesto ai giornalisti presenti di non pubblicare la sua foto a petto in fuori, per il timore che l’università che frequenta, Cambridge, molto tradizionalista, abbia a prendere qualche provvedimento disciplinare.
Mesi più castigati sono luglio, con la classica luce del sole che deborda sul seno(fig. 4) di Marloes Horst, modella olandese preferita da Prada, ottobre, con la serba Georgina Stojilikovic in felice connubio con un robusto bradipo(fig. 5).
Nel backstage scorrono immagini più castigate, come quella fascinosa della fanciulla già vista alle prese con il sole e qui in posa ammiccante davanti all’obiettivo di Richardson(fig. 6), le due ragazze siamesi per via di un pneumatico di camion(fig. 7), la minorenne in posa fatale(fig. 8), la spilungona spogliata al punto giusto(fig. 9), la credente nella forza del fattore B(fig. 10), la bella tra i rovi(fig. 11), la scontrosa ripresa da dietro(fig. 12) e per finire, niente paura non stanno affogando, stanno facendo la cura dei fanghi.

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Ludmilla Radchenko, una imperatrice nuda a Milano

Generalmente rifuggo dalle gallerie d’arte moderna, ma l’altro giorno a Milano ho avuto una piacevole esperienza, tale da farmi cambiare parere.
Avevo conosciuto via mail una studentessa russa, la quale voleva ragguagli per una sua tesi di dottorato sulla pittura del Seicento napoletano da discutere a Brera. Ci sentimmo per telefono e dalla voce suadente intuì che fosse utile conoscere personalmente la ragazza. Infatti l’incontro, seguito da molti altri, fu fecondo, perché la fanciulla, oltre che intelligente e colta, era di una straripante bellezza e dotata di un fascino misterioso.
Un pomeriggio, dopo ore trascorse a discutere di Ribera e di Stanzione, mi invitò a visitare in anteprima un vernissage di una sua zia, che eseguiva collage con le tecniche più varie ed anche ritratti di tipo tradizionale, spesso di grandi dimensioni, anzi, vedendomi poco entusiasta e sperando in una mia recensione,(credeva fossi un critico di grande levatura) mi disse che la sua parente, solo per me, avrebbe dal vivo interpretato un personaggio da lei dipinto più volte: Caterina, la grande imperatrice di Russia in versione osé.
Lo spettacolo che si è presentato ai miei occhi è stato superiore alle più rosee aspettative, come possono accertarsi anche i miei lettori e tale da convincermi di aver conosciuto un’artista in grado di fondere abilmente contemporaneità e tradizione, ma soprattutto di saper rivisitare e spogliare(in senso non solo metaforico) i celebri personaggi raffigurati e farceli conoscere sotto una diversa prospettiva.
La mostra è ancora aperta e seguite il mio consiglio andate a visitarla, non ve ne pentirete.
 

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Un mondo alla rovescia
Il caso Marrazzo è stato emblematico nel rappresentarci una contemporaneità allo sbando nella quale la realtà supera la finzione, l’apparire conta più dell’essere, il denaro, e non più l’uomo, è misura di tutte le cose, mentre l’eccezione diventa la regola e l’eccentricità viene scambiata per la normalità.
Un mondo in coma dominato da confusione ed inversione di ruoli, dove si tende a scambiare sempre più spesso la figlia per la moglie, l’uomo per la donna, l’animale per l’umano, il privato per il pubblico ed il pubblico per il privato.
Un teatrino dell’assurdo animato da attori abili a recitare il copione degli altri con tutori della legge che si trasformano in estorsori, politici amanti della famiglia che si dilettano con squallidi pervertiti ed altri politici che li mettono in guardia invece di denunciarli, giornalisti che non cercano più notizie, ma gossip ed hanno sostituito i commenti con chiacchiere da donnicciole.
Ed inoltre magistrati che vogliono fare i politici, politici che si dilettano a fare gli economisti, finanzieri che pensano solo a fregare il prossimo.
E nel frattempo religione ed ideologia vanno in soffitta, la morale e la giustizia diventano merce rara e nessuno sa se abbiamo raggiunto il fondo o dobbiamo ancora precipitare in un baratro più avvilente.

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La tenacia dell’amore senile

Dedicato ad Elvira

L’amore può resistere in eterno ed in questo si differenzia dall’attrazione fisica, destinata a finire con lo scorrere inesorabile degli anni e con le ingiurie che essi, impietosi, arrecano al corpo, quando la lunga ed allegra cavalcata della gioventù cede il passo agli acciacchi ed al perfido filo tessuto dalle Parche.
Proprio allora una lunga storia d’amore può vivere i suoi momenti più esaltanti anche se la passione iniziale è svanita, sostituita però da complicità, comprensione, rispetto, amicizia, affetto, autoironia, attributi caratteristici di ogni autentica, libera, fortunata avventura amorosa.
La donna che sa di essere amata incede sicura di sé tra la gente con il passo felpato di chi si muove leggero tra le nuvole, come una superba ragazza senza età, incurante delle rughe, che pure hanno solcato il suo volto come capricciose onde marine o come campi di grano dopo l’aratura.
La bellezza l’aveva resa affascinante e potente, è stata, a secondo dei giorni e delle notti Sherazade e Mata Hari, Sophia Loren e la fata Morgana, ha prodotto sogni, estasi ed affabulazioni, ma anche dannazione e tormento; ora vuole semplicemente perdersi nell’amore del suo innamorato. Bisogna vivere senza drammi l’incedere delle lancette dell’orologio dell’universo, perché chi ama ed è amato vive al di fuori di quelle fugaci convenzioni rappresentate dallo spazio e dal tempo.

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Una soffiata maliziosa su: Maria Stella Gelmini
Gentile dottore,
un lettore da Desenzano del Garda, mi ha inviato una notizia riguardante un personaggio famoso con preghiera di diffonderla. Non si tratta del solito scandalo a luci rosse, una squallida storia condita da escort e transessuali, ma forse qualcosa di ancora più grave. Siamo nel mese di marzo del 2000 e il presidente del consiglio comunale di Desenzano sul Garda è una piacevole quanto inefficiente signorina, per la quale il suo stesso partito, Forza Italia, chiede l’espulsione per “manifesta incapacità ed improduttività politica ed organizzativa”.
La ridente località turistica è dotata di un sito nel quale è possibile consultare tutte le delibere e la n. 33 del 31 – 3 – 2000 conferma la notizia, con l’unica differenza che la mozione di sfiducia venne proposta dall’opposizione, ma accettata dalla maggioranza, per cui tutti erano d’accordo sul provvedimento.
La signorina in questione, Maria Stella Gelmini, non rimase a lungo inoperosa, perché, scoperta da Berlusconi per le sue doti sconosciute ai suoi concittadini, è divenuta uno dei più importanti ministri della Repubblica, quello della Pubblica Istruzione.
Probabilmente per esprimere a pieno le sue qualità organizzative una piccola cittadina aveva frontiere troppo ristrette ed era necessario dimostrarle su tutto il territorio nazionale.


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Sull’invivibilità delle nostre carceri
Gentile dottore,
Dichiarare ogni giorno che si costruiranno nuove carceri, che le pene diverranno più severe e soprattutto certe, sono dichiarazioni che fanno aumentare la popolarità del governo, anche se poi alle parole non seguono i fatti e non potrebbe essere altrimenti, perché per costruire nuovi penitenziari ci vogliono decenni e l’attuale situazione di invivibilità delle nostre galere ha da tempo superato il livello di guardia e, soprattutto, sono necessarie risorse finanziarie che non ci sono e non ci saranno per anni. E se anche si costruissero, ci vorrebbero ulteriori fiumi di denaro per farle funzionare decentemente.
Lo stesso riguardo le pene e la loro esecuzione, che attendono da tempo una moderna revisione del codice di procedura penale, tale da fornire una serie di misure alternative alla detenzione, in grado di creare un percorso non solo punitivo, ma anche riabilitativo, come chiaramente sancito dalla nostra Costituzione.
Invece si blatera sul reato di immigrazione clandestina da punire con la reclusione, un’affermazione che, se applicata, vedrebbe centinaia di migliaia di nuovi galeotti.
Negli ultimi giorni i quotidiani hanno segnalato casi di suicidio e di sevizie avvenute in carcere, ma non si tratta certo di casi isolati: negli ultimi dieci mesi i suicidi sono stati 61 e gli atti di automutilazione sono un migliaio ogni anno.
Cifre da brivido che lasciano stupefatti gli operatori del settore(secondini, educatori, medici, cappellani e gli stessi direttori) non perché siano tanti, bensì come mai siano così pochi!!
L’opinione pubblica non vuole sentir parlare di questi argomenti e plaude solo alla spettacolarità delle dichiarazioni di una sempre maggior severità.
Nessuno vuole intendere che la capienza massima dei nostri istituti di pena può accogliere 41.000 detenuti ed oggi, ammassati come animali, ne sono ospitati 66.000 e se non vi fosse stato l’indulto sarebbero oltre 90.000.
Nessuno vuole capire che un terzo di questi reclusi è in attesa di processo e di conseguenza innocente fino a sentenza definitiva, che molte migliaia hanno diritto, secondo le norme vigenti, a misure alternative che arbitrariamente non vengono concesse.
Quando si entra in un carcere si perde ogni dignità umana e si diventa un numero.
Bisogna consegnare all’ufficio matricola non solo lacci e cinture, foto dei propri cari ed effetti personali, ma anche la propria anima per divenire una bestia. Si viene denudati, sottoposti ad una vigorosa esplorazione rettale ed avviati in cella, dove, se tutto va bene, si divideranno 15 – 20 mq con altre 10 – 12, a volte anche 20 persone.
Letti a castello fino al soffitto ed uno spazio per potersi muovere da invidiare i polli in batteria.
Ogni anno 30.000 persone entrano in questi gironi infernali per uscirne entro tre giorni, dopo aver subito questa annichilente liturgia.
E vogliamo parlare dei maltrattamenti? Un argomento tabù sul quale eccezionalmente la magistratura riesce a fare luce, tra omertà impenetrabile e paura di nuove più squassanti sevizie: il detenuto è caduto dalle scale…,la camera di sicurezza non è certo un albergo a cinque stelle, ma che massacro era un semplice richiamo verbale.
Queste sono le più comuni giustificazioni del personale di sorveglianza.
Per chi volesse approfondire la tematica consiglio la lettura del capitolo Storie incredibili di matta bestialità dal libro Le tribolazioni di un innocente (consultabile in rete).
Ma poi che vogliono questi rompiballe, si lamentano di aver trascorso l’estate chiusi per 22 ore al giorno dentro celle dalle sbarre arroventate con temperature superiori ai 40° ed un’umidità dell’aria da sauna, anche noi abbiamo sopportato il caldo mentre eravamo al mare. E poi non vi è da preoccuparsi, a giorni la temperatura li rinfrescherà nelle loro gabbie senza vetri alle finestre ed un freddo glaciale li ristorerà per tutto l’inverno.

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Il fascino perverso del transessuale
I recenti squallidi episodi di cronaca che hanno visto importanti uomini politici colti in fallo…, mentre, pur essendo ammogliati, cercavano tra le braccia di un transessuale qualcosa che la moglie, la famiglia, la società, nella quale era membri… di rilievo non erano in grado di dargli, ha riproposto all’attenzione generale ed al necessario dibattito culturale tra gli esperti una spinosa problematica, che rischia di far saltare i delicati equilibri sui quali poggia la nostra società.
Tre termini, ritenuti erroneamente sinonimi, occupano spesso le pagine dei giornali e le trasmissioni televisive: travestito, transessuale, transgender.
Tutti sono pervasi da una voglia di cambiamento della propria identità sessuale, come si evince chiaramente dal prefisso comune trans, ma mentre i travestiti amano semplicemente assumere i vestiti ed i comportamenti tipici dell’altro sesso(come ad esempio i celebri femminielli della tradizione napoletana), i transessuali anelano, con l’aiuto della chirurgia, di variare la propria anatomia genitale, per farla corrispondere a quella psicologica, mentre infine i transgender negano la dicotomia sessuale e ritengono di poter assumere contemporaneamente anatomia ed identità sia maschile che femminile. Un comportamento sfacciatamente sovversivo per i canoni della nostra civiltà, che si rifà all’antico mito degli androgini, creature bisessuali, descritte da Aristofane nel Simposio di Platone o alla figura di Tiresia, che divenne donna per sette anni, per poi ritornare ad essere uomo.
Prima di proseguire è necessaria un’ulteriore precisazione scientifica: nella nostra specie, a differenza di altre, non esiste la figura dell’ermafrodito ed alcune patologie, legate a tare genetiche, danno luogo ad individui con un duplice corredo di attributi sessuali, ma in nessun caso essi sono in grado di funzionare alternativamente come maschio o femmina. Alcuni soggetti presentano pene ed utero rudimentale, oppure il cosi detto ovotestis, la presenza nell’ovaio di tessuto testicolare primordiale.
Per cui le trasformazioni praticate al tavolo operatorio non sono in grado di sovvertire ciò che la natura non ha previsto.
Ma l’interrogativo che sempre più incalzante si presenta in questi giorni è cosa cerchino tanti uomini potenti tra le braccia(e tra le cosce…) di questi misteriosi individui. E come mai non capiscano quanto sia facile essere oggetto di un ricatto. Basta una cimice, una microtelecamera nascosta, un pedinamento e si finisce oggetto di minacce ed estorsioni, se non sulle pagine dei quotidiani.
La nostra morale li disprezza e considera disdicevole frequentarli, per cui il rischio di essere colti in fragrante rappresenta un concreto pericolo, che pare non spaventi più di tanto i loro più assidui clienti, addirittura eccitati dal rito della trasgressione.
Non esistono attendibili studi scientifici sulla psicologia del transessuale, se non alcune datate considerazioni di Foucault, per cui dobbiamo affidarci a quel che hanno raccontato sull’argomento registi e scrittori.
Il transessuale si differenzia dall’omosessuale che conserva l’ortodossia del soggetto attivo e di quello passivo nella dinamica sessuale, come capitò a Verlaine quando lasciò sua moglie per Rimbaud divenendo, la “vergine folle” del suo “sposo infernale”.
Il transessuale è un uomo in fuga dalla sua identità, che cerca di trasferirsi nell’altro sesso senza rinunciare al suo, spesso per necessità contingenti legate al suo triste mestiere. Lapidarie a tal proposito le parole che Almodovar mette in bocca ad Agado, il protagonista del suo film Tutto su mia madre, il quale, alla domanda perché non si faccia asportare chirurgicamente quell’imbarazzante appendice che gli ricorda la sua mascolinità, risponde candidamente: ” E poi come lavoro, i miei clienti vogliono una donna col pisello”.
Ancora più clamorosa è un’altra dichiarazione del regista spagnolo, tra i primi a denunciare il problema sociale del transessuale: “ Trans fu quel Dio che si fece uomo restando Dio”.
La nostra società vive sull’apparenza più che sulla sostanza, per cui il trans diventa, più che fenomeno da baraccone, curiosità da esibire in pubblico, dal Grande Fratello al Parlamento. E poiché in un’epoca da basso impero e di finta democrazia come la nostra spuntano come funghi difensori di ogni causa, anche la più strampalata, perché non concedere loro di farsi una famiglia, di adottare dei figli, di costituire un modello di riferimento per le nuove generazioni?
Alcuni paesi Europei, apparentemente all’avanguardia, vorrebbero concedere loro il doppio congedo, uno di maternità ed uno di paternità, già ora la mutua rimborsa integralmente le spese per il cambio del sesso, ma anche per loro non sarà facile creare un ordine in un campo dove regna sovrana l’anarchia.
Altrimenti saremmo costretti a gettare alle ortiche migliaia di anni di civiltà, riscrivere Bibbia e Corano, oltre a mitologia e psicoanalisi, filosofia greca e poesia provenzale.
Si aprirebbe un futuro da incubo dominato da istinto e permissività e non più da razionalità e morale.

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Intervista allo scrittore Andrej Longo

Uno scacchista pizzaiolo lanciato verso la celebrità
Andrej Longo, ischitano doc, occupa una posizione eccentrica nel panorama degli scrittori partenopei ed attraverso i suoi libri: Adelante, Dieci e ora Chi ha ucciso Sarah? sta indagando il composito universo della napoletanità, non solo il mondo degli emarginati e della delinquenza più o meno organizzata, ma anche la vita dei quartieri bene della città. Infatti nella sua ultima fatica letteraria è passato dalle periferie degradate al salotto buono arroccato sulla collina di Posillipo, dove la borghesia vive nel benessere, guardando da lontano i problemi sempre più gravi che stanno facendo letteralmente affondare quella che fu una gloriosa capitale, dalla spazzatura ubiquitaria al traffico impazzito, dalla criminalità dilagante alla disoccupazione crescente. Inoltre è passato da una raccolta di racconti brevi al romanzo, adoperando sempre la prima persona dell’io narrante ed un linguaggio originale, diverso dal dialetto, che fa grande uso del dativo etico e dei verbi intransitivi in forma transitiva.
Conosco da sempre Andrej e sono a lui legato non solo da una sincera amicizia, ma soprattutto da una comune passione: gli scacchi, uno sport della mente nel quale entrambi abbiamo il titolo di maestro, per cui ogni volta che ci incontriamo, prima di cominciare qualunque conversazione, ci affrontiamo con energia per ore sulla scacchiera ed otteniamo quasi sempre un risultato complessivo di parità.
Più che un’intervista con l’autore le domande e risposte che seguono rappresentano perciò uno scambio di idee tra due napoletani che hanno a cuore le sorti della propria città e si interrogano su come opporsi ad una deriva generalizzata, la quale, come un morbo incurabile sta devastando abitudini e mentalità di una antica civiltà.
Essere scrittori a Napoli dopo Gomorra è un’impresa difficile?
Ho letto il tuo saggio sull’argomento e francamente lo condivido solo parzialmente, certamente dopo il successo planetario ottenuto da Saviano e l’aura di mistero che circonda l’autore è difficile per chiunque ottenere la stessa attenzione da parte dei media, ma vi sono settori della città ancora da esplorare e lo dimostra il mio ultimo libro, Chi ha ucciso Sarah?, ambientato a Posillipo, che indaga il mondo dell’imprenditoria, degli intellettuali e dei professionisti, i quali, chiusi nelle loro case eleganti e nei loro circoli esclusivi, hanno fatto dell’omertà, della corruzione e dell’odio di classe i loro strumenti di sopraffazione.
Molti ritengono che a Napoli convivano due tribù, un tempo assolutamente separate e che oggi si contaminano, prendendo ognuna il peggio dell’altra, sei d’accordo?
Esiste una Napoli della criminalità e dell’illegalità, solitamente identificata con le periferie ed i quartieri popolari ed una Napoli della borghesia, la quale è mancata clamorosamente al suo ruolo di guida. Sono due facce di un’unica medaglia ed hanno in comune gli stessi non valori, entrambe perseguono lo stesso obiettivo: l’arricchimento rapido e veloce.
Nel tuo romanzo mi pare che tu voglia però delineare un’altra Napoli, di solito poco rappresentata e che viceversa rappresenta la maggioranza.
Certamente vi è la Napoli delle persone normali che lavorano, si arrangiano, ma riescono ad andare avanti con fatica e dignità ed a questi napoletani ho voluto dare corpo e voce con i personaggi del poliziotto e del commissario, ma anche della stessa Sarah, figlia della borghesia, costretta a pagare la sua disponibilità verso gli altri.
Recentemente a Posillipo sono avvenuti fatti di sangue che rappresentano una assoluta novità per il quartiere, hai preso ispirazione da essi?
Il romanzo era già completato quando sono avvenuti, in certo senso, vi è stata una sorta di premonizione.
Scrivere per Adelphi, oltre che un traguardo, rappresenta una garanzia per l’autore che si vede accompagnato per mano verso il successo, dalle recensioni sulle grandi testate ad un giro ben organizzato di presentazioni ed un trattamento di riguardo quando si debbono assegnare premi e riconoscimenti.
Sono molto grato alla casa editrice che ha puntato sul mio lavoro e ciò rappresenta uno stimolo ad impegnarmi per non tradire le aspettative.
Quali sono i tuoi autori preferiti?
I miei gusti sono cambiati nel tempo, giovanissimo sono stato fulminato da Kafka, la cui opera ho riletto numerose volte, vi è poi stato il periodo dei grandi narratori russi da Tolstoi a Gogol, oggi leggo soprattutto libri di inchiesta e tra i giovani scrittori italiani prediligo Valeria Parrella: Mosca più balena mi è molto piaciuto.
Tra i giornalisti che segui vi è qualche firma in particolare?
Michele Serra mi fa letteralmente impazzire e tra i cronisti sportivi Gianni Clerici.
Stai lavorando ad un nuovo romanzo?
Certamente, ma per il momento titolo ed argomento sono rigorosamente top secret.
Vogliamo un po’ parlare della favola del pizzaiolo scrittore e vogliamo rivelare ai lettori la vera essenza di Andrej Longo, laureato al Dams, collaboratore per anni della Rai, maestro di scacchi ed intellettuale attento alla realtà che lo circonda?
Certamente non mi considero un intellettuale ed infornando pizze ho avuto tutto il tempo per meditare, posso affermare che molti passi dei miei libri sono nati impastando tra una margherita ed un calzone.
Sei anche un ottimo cuoco?
Si, ma soltanto per pochi fidati amici.
Allora finita la conversazione non ci resta che accomodarci davanti ad un piatto di spaghetti alla carbonara e ad uno spezzatino con patate in grado di far risuscitare i morti, per poi passare altre ore a combatterci sulle 64 caselle della scacchiera.

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Baarìa un esaltante capolavoro
A volte la trepidante attesa per vedere un film sul quale i giornali hanno versato fiumi d’inchiostro, tessendo lodi ed entusiastici apprezzamenti, si traduce in una delusione
ma ciò non capita certo con Baarìa, un vero capolavoro che ci restituisce la gioia del grande cinema e ci dimostra come i grandi riconoscimenti siano falsi simulacri e mentre il vincitore della mostra di Venezia non viene neanche preso in considerazione dai distributori, il lavoro di Tornatore, oltre a poter ben rappresentare il nostro cinema agli Oscar, sarà, al di la di una possibile statuetta, ampiamente ricompensato dai risultati del botteghino e verrà a lungo riproposto dalle televisioni.
Una cinquantina di anni di vita bagariota focalizzati su tre generazioni di appartenenti alla famiglia Torrenuova vengono raccontati con la forza della poesia, che, unita alla musica travolgente di Morricone e ad una fotografia perfetta, riescono ad emozionare
e ad avvincere lo spettatore per i centocinquanta minuti abbondanti della proiezione.
I due protagonisti Francesco Sanna e Margareth Made sono volti nuovi destinati a divenire famosi, ma con loro partecipano a costituire un grande affresco una moltitudine di attori famosi impegnati in straordinari cammei, a volte anche di pochi secondi, ricostituendo quel delicato tessuto connettivo, che i maestri neorealisti erano soliti approntare utilizzando una schiera di impareggiabili caratteristi, una specie necessaria e da tempo scomparsa. Scorrono perciò sullo schermo il politico Michele Placido, il giornalista Raul Bova, il guitto Vincenzo Salemme, la veggente Lina Sastri, il compagno con il cappotto pesante Leo Gullotta, lo scalcagnato assessore Nino Frassica, l’ossessivo Beppe Fiorello cambiavalute clandestino e tanti altri a formare un indimenticabile mosaico.
La sequenza dell’assessore all’urbanistica non vedente, che si fa portare i piani regolatori in braille e li apprezza solo dopo aver intascato l’ineludibile mazzetta è anche essa memorabile e rammenta alcune scene di Mani sulla città.
I dialoghi sono in dialetto, ma francamente non me ne sono accorto e penso capirà tutto anche un seguace di Bossi, il quale sarà contento, che il dibattito politico sul tema possa rinfocolarsi fino a divenire una priorità nazionale.
Le immagini ci portano dietro nel tempo in un microcosmo popolare e picaresco dove il pranzo è pane e cipolla, i disperati si martellano un piede per non andare a combattere, il popolino sbeffeggia i federali ed ama ascoltare i poemi cavallereschi declamati dal pastore nella stalla. È un coro prettamente siciliano, che però acquista i caratteri dell’universalità con la forza di tanti piccoli paesi, dove in uno spazio ristretto è più facile distinguere il male dal bene, l’essere dall’ apparire, il sogno dalla delusione.
La regia riesce ad equilibrare il racconto di un paese con quella di una famiglia, la storia con la cronaca, la realtà dalla fantasia, la memoria con la riflessione, la religione con la superstizione, la fascinazione con la mostruosità ben espressa dalle temibili statue di villa Palagonia.
Si intravedono gli sviluppi cruciali e le nobili origini della lotta comunista tra liturgie dirigistiche e semplificazioni ideologiche, immortalate dalla candida affermazione del protagonista:”Cercare di cambiare il mondo senza tagliare la testa a nessuno”.
Un vero kolossal dell’anima che parla ai cuori con le ombre e con la luce, sperando che finalmente la Sicilia sappia liberarsi da suoi antichi mali e riesca a sprigionare tutta la sua vitalità creatrice.

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Addormentarsi con un Caravaggio
Visita senza immagini ad una straordinaria collezione di dipinti
Il personaggio di cui voglio parlarvi è un vero principe della cultura, esperto di storia dell’arte e tra i massimi specialisti del pittore oggi alla moda, l’unico in grado anche con un solo suo dipinto in mostra di attirare fiumi di visitatori, desiderosi di sostare davanti ad un suo quadro e poter poi raccontare: era un vero capolavoro.
L’incontro era fissato per il pomeriggio, grazie ai buoni uffici di Pietro, un professore mio amico, che si era offerto di presentarci.
Il principe abita in una stradina della vecchia Roma, un palazzo apparentemente modesto. Saliamo al quarto piano con l’ascensore e quando entriamo veniamo accolti da una marea debordante di libri d’arte, che occupano ogni angolo della casa, straripando dagli scaffali ed impossessandosi di ogni spazio disponibile, al punto che muoversi è una vera impresa, anche perché l’abitazione è posta su due livelli con lunghi corridoi e temerarie scalinate, che si affrontano con timore reverenziale, a stento rincuorati sapendo che di recente sono state scalate con successo anche dal centenario Denis Mahon, una leggenda della storia dell’arte. Alcune stanze si aprono su piccoli e grandi terrazzi e su uno di questi ci accomodiamo per trascorrere alcune ore di colta conversazione, pasteggiando una bottiglia di prosecco di Valdobiadene veramente squisita, intitolata dalla ditta produttrice al nome del grande pittore e regalata in cospicue quantità all’esimio studioso per onorare uno dei massimi conoscitori dell’artista.
Avevo portato con me il Secolo d’oro della pittura napoletana, una mia fatica in dieci tomi per farne dono al padrone di casa, speranzoso fosse un adeguato biglietto di presentazione.
Passiamo oltre un’ora in un entusiasmante giochetto culturale, cercando di indovinare il nome degli autori rappresentati nella prima e quarta di copertina dei vari fascicoli.
Pietro partecipa fuori gara, conoscendo già da tempo l’opera, mentre l’anfitrione e la sua giovane e colta compagna Ferdinanda (nome di fantasia) alternano nomi precisi a vistose cantonate.
Il tempo vola letteralmente nella conversazione, tra progetti di visite a mostre, collezioni private ed importanti rassegne antiquariali prossime ad inaugurarsi.
La casa, oltre a possedere 40 - 50.000 libri, è ricca di un centinaio tra dipinti e disegni, la quasi totalità inedita e tutti di grandissimo interesse e di straordinario valore venale.
Naturalmente è d’obbligo una visita guidata dall’esimio proprietario, il quale di ogni opera conosce vita, morte e miracoli.
Per assoluta mancanza di spazio solo metà dei quadri è affissa alle pareti, mentre molte decine, anche se di autori degni di figurare in un museo, sono malinconicamente accatastati in attesa di una superficie libera.
Gli autori rappresentati coprono tutta la pittura europea del ‘600 e del ‘700 e descriverli sarebbe impresa improba, in mancanza anche delle foto, per cui mi limiterò a commentare i quadri napoletani, ricordando che sono tutti inediti. Parto da uno spettacolare San Sebastiano curato dalle pie donne del Ribera, di grosse dimensioni e di altissima qualità, del quale ricordo, nei depositi di Capodimonte, una rovinata copia attribuita al Giordano nel regesto uscito di recente. Vi è poi una replica autografa, sempre di Luca, della Maddalena penitente conservata al Prado, che i curiosi potranno vedere da me pubblicata sul Secolo d’oro(vol. 5, pag. 304).
Di autori considerati napoletani d’adozione: Mattia Preti ed Artemisia Gentileschi vi sono poi una figura di Santo, non ricordo se fosse San Pietro ed una muscolare Aurora, che fu esposta alla mostra di Roma sull’artista ed è reperibile tra le pagine del catalogo. Entrambe le tele appartengono però al tempo dei soggiorni romani dei due pittori.
Di Salvator Rosa vi è uno splendido disegno, visibile in una stanzetta che funge da esposizione del settore grafica e dove vi sono una ventina di fogli.
Un bozzetto di Solimena non mi ha entusiasmato particolarmente, forse perché realizzato intorno al terzo decennio del Settecento e dell’artista prediligo la sua produzione seicentesca.
Il Luca Forte, pubblicato come tale in un catalogo antiquariale e raffigurante dei funghi posti su di un piano dì appoggio, mi ha lasciato perplesso per l’attribuzione, perché non ho percepito avvicinandomi alla tela quell’afrore napoletano, che colgo quasi sempre, una sorta di sindrome di Sthendal, ogni qual volta mi soffermo ad ammirare un quadro realizzato all’ombra del Vesuvio. Ritengo, anche per il soggetto, trattarsi di pittura settentrionale, forse lombarda, al massimo, come latitudine, fiorentina.
Tra i quadri in attesa di uno spazio espositivo vi è poi un San Gennaro pubblicato da Michael Stougthon come Battistello Caracciolo dopo l’uscita dell’opera omnia a cura di Stefano Causa. Una tela a carattere devozionale che non suscita particolari emozioni e che mi lascia qualche ragionevole dubbio sull’autografia.
Infine vi sono poi due eccezionali Stanzione, il primo una fanciulla dal seno prorompente, parzialmente coperto da un manto trasparente che esalta maggiormente la nudità e che si offre candidamente allo sguardo libidinoso dell’osservatore. Un primo piano da perdere la testa, al quale non avrei saputo rinunciare se lo avessi conosciuto prima di scrivere il mio saggio sul Seno nell’arte dall’antichità ai nostri giorni.
L’altro Stanzione è un piccolo bozzetto, certamente autografo, anche se sono rimasto sbalordito sentendo il mio ospite affermare trattarsi del modello preparatorio di un’opera perduta, che si trovava a Roma nella chiesa di San Lorenzo in Lucina.
La visita guidata si completa arrivando nella stanza del principe, piccola, con un letto matrimoniale e tanti quadri esposti, i più cari, e tra questi mi soffermerò su un’originalissimo Poussin di argomento mitologico, che propone in primo piano una invitante fanciulla nuda con le cosce divaricate, che fanno chiaramente vedere quella che poeticamente Courbet denominava l’ origine del mondo.
Il quadro quando venne comprato, negli anni Cinquanta, proveniva da un monastero laziale ed un mano pietosa, aveva ricoperto in tempi remoti le sfacciate fattezze della giovinetta, trasformandola in una martire addormentata, per non turbare i pensieri casti delle monachelle, costringendole a riparatrici contrizioni. Un accorto restauro aveva poi svelato lo spirito primitivo della composizione, un inno pagano che esaltava la bellezza del corpo femminile.
Una piccola natura morta, che ho saputo poi presenta sul retro una firma strepitosa, attirò la mia curiosità, ma alla mia richiesta su chi fosse l’autore, ho ricevuto una diplomatica quanto laconica risposta:”Non lo so”.
Il soggetto rappresentato sono dei fiori variopinti in una boccia di cristallo, la quale è realizzata in maniera mirabile con una lucentezza ed una trasparenza che tradiscono una mano famosa. Ho pensato al Maestro di Hartford, una figura prestigiosa, attiva a Roma, a cavallo tra XVI e XVII secolo ed ancora non ben delineata dalla critica. La parte superiore con dei fiori spampanati ed alieni alla nostra flora mi hanno fatto invece pensare ad un francese, ma lo stridente contrasto di qualità tra contenitore e contenuto, continuano a lasciarmi perplesso.
L’ultimo dipinto è religiosamente preservato da una tendina, come una reliquia, come un’immagine sacra davanti alla quale pregare o sostare in meditazione.
La sorpresa lascia stupefatti quando si può finalmente ammirare l’oggetto così accuratamente conservato.
Si tratta di un Caravaggio, il celebre Fanciullo che monda un frutto, uno dei pochissimi esemplari fuori dai musei. Se la memoria non mi tradisce ve ne è soltanto un altro, di non certa attribuzione, nella collezione di una stramiliardaria americana, mentre il nostro è confessato e comunicato, ultra documentato ed ineccepibile. E parlando di vile denaro, il principe, bisogna oramai che lo chiami così, mi ha confessato di aver rifiutato per il suo quadro, anni fa, un’offerta di decine di miliardi.
E sono certo abbia fatto la scelta migliore, perché, anche potendosi coricare con Ferdinanda, una ragazza più giovane di trenta anni, addormentarsi guardando un Caravaggio è un privilegio unico, indimenticabile, inestimabile.


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Rivisitiamo il Risorgimento
Mentre incombono le celebrazioni per i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, previste per il 2011, si alzano voci autorevoli per segnalare l’assoluta mancanza di fondi, per cui la manifestazione avverrà senza dubbi in tono minore, anche per l’ostruzionismo praticato dalla Lega, la quale interpreta in senso negativo quella serie di avvenimenti che portarono al sorgere dell’Italia come nazione.
La pagina più nera della nostra storia è ancora coperta dal segreto militare a distanza di oltre 140 anni dagli avvenimenti. Nonostante il Risorgimento stia lentamente subendo un processo di rivisitazione in chiave neoborbonica, grazie all’impegno di alcuni storici coraggiosi,che lavorano in contrasto all’ortodossia accademica, a Roma, presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, si conservano, inaccessibili agli studiosi, 150.000 pagine che contengono la verità sull’insurrezione meridionale contro i piemontesi: quel controverso periodo capziosamente definito brigantaggio.
I documenti che potrebbero finalmente fare luce sulla distruzione di interi paesi, sulla deportazione dei suoi abitanti e sulla fucilazione di migliaia di meridionali subiscono ancora “il complesso La Marmora”, dal nome del generale che diresse per anni la repressione nel Mezzogiorno, prima di divenire capo del governo.
Negli archivi militari americani si può tranquillamente conoscere ogni dettaglio del genocidio degli indiani, in quelli francesi indagare sugli aspetti più oscuri del colonialismo,in quelli tedeschi sapere tutto sul nazismo. Da noi nel 1967,dopo i prescritti 50 anni di segretezza, abbiamo potuto meditare sulla dolorosa disfatta di Caporetto, ma sulla ”conquista” del Sud da parte del Nord vige ancora un silenzio assordante ed una vergognosa chiusura degli archivi pubblici alla consultazione!


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I danni della sessuofobia
Le religioni orientali hanno sempre intrattenuto con il sesso un rapporto cordiale ed equilibrato a differenza dei grandi monoteismi:cristianesimo, ebraismo, islamismo, i quali hanno costantemente demonizzato il rapporto con il piacere, anche quello innocente della gola.
Il cristianesimo, ed in particolare il cattolicesimo, hanno utilizzato non solo l’arma dei sermoni domenicali e i penitenziali consigli dati nei confessionali, ma hanno anche monopolizzato le arti figurative, che da secoli sono sature di martiri, crocifissioni, torture, vergini gloriose ed altre mortificazioni corporee, mentre l’arte tantrica ed i templi di Khajuraho in India sono uno inno alla beatitudine terrena, ottenuta attingendo col sorriso sulle labbra alle naturali gioie dell’accoppiamento.
Nell’iconografia indiana il seno è radioso, rigonfio, debordante, accattivante, bombato, desiderabile, innocente e sembra reclamare a viva voce la carezza della mano vogliosa dell’uomo, non certo la boccuccia del poppante, come la sferica mammella nel capolavoro di Jean Fouquet, men che mai la tenaglia sadica del torturatore, come possiamo constatare in infiniti quadri sul martirio di S. Agata.
Tanti secoli di oscuro proibizionismo e di eros mortificato hanno fortemente condizionato il nostro rapporto con il piacere, identificato con il peccato e tributario della contenzione cristiana.
I nostri sogni erotici subiscono una censura inconscia, che fa oramai parte del nostro Dna. Il cristianesimo è riuscito ad immaginare angeli senza attributi e chiede alle donne di prendere a modello la madonna, capace di generare senza copula. Un simile modo di pensare non poteva sfociare se non in una nevrosi generalizzata, mentre le sapienze orientali celebravano il corpo e le sane gioie del sesso, immortalate in quella bibbia laica ed illustrata costituita dal Kamasutra.
Se sulla nostra coscienza abbiamo l’Inquisizione e milioni di streghe mandate al rogo, la religione islamica non è meno colpevole, con leggi scritte dagli uomini, che tengono in vergognosa subordinazione sotto il dominio dei maschi ed usurpando il nome di un dio, mezzo miliardo di donne.
Regole assurde ed anacronistiche, fonte di prigionia, di mortificazione, di esclusione dalla vita sociale, di discriminazione, di sottomissione continua, spesso di lutti, come di recente le cronache italiane hanno raccontato, con un padre assassino della figlia, perché non rispettosa della ortodossia morale imposta dalla religione.
Il mondo fortunatamente cammina ed ogni giorno scalfisce questi assurdi tabù, anche se ci vorranno secoli prima che frusta, bastone e coltello diventino un orribile ricordo del passato ed il sano disordine della libertà abbia la meglio su norme arcaiche decrepite e fuori di ogni logica.
La superstizione e la costrizioni sono dure a morire, ma la forza pulsante dell’eros non può essere imbrigliata all’infinito e prima o poi scardinerà le regole assolute dei padri padroni.
Gentile dottore,
tre episodi apparentemente isolati, avvenuti nell’arco di poche ore, dimostrano in maniera inconfutabile l'incertezza del diritto che regna in Italia e soprattutto le difficoltà incontrate dai giovani che vogliono appartarsi per scambiarsi effusioni senza dover spendere una cifra per adoperare una camera di albergo.
Il primo episodio avviene sulla collina di Posillipo al Parco delle Rimembranze, un posticino romantico scelto dalle coppiette in vena di peripezie erotiche nell’angusto spazio concesso dall’abitacolo di un’auto, dopo aver tappezzato i finestrini con vecchi giornali allo scopo di garantirsi un minimo di intimità. Entrano in azione gli agenti del locale commissariato, i quali, trascurando la repressione di ben più gravi reati, si dedicano per alcuni giorni ad elevare contravvenzioni ai rocamboleschi amanti: tariffe particolarmente salate fino a 311 euro, mezzo stipendio di un giovane precario.
Vicino Pomigliano d’Arco nello stesso tempo in cui si somministrano pesanti intimidazioni economiche alle focose coppiette, dei feroci rapinatori con un martello infrangono i vetri di un’auto dove due giovani stanno facendo l’amore e non contenti del provento economico della loro bravata decidono di approfittare della fanciulla, ma il fidanzato è un vigilante armato e nel tentativo di difendersi uccide i due delinquenti, applicando senza volere quello che dovrebbe essere un principio condiviso da tutti: la legittimità della legittima difesa.
Terzo episodio a Roma, dove la Suprema Corte di Cassazione pontifica in campo di morale sessuale un paradigma stupefacente, assolvendo un individuo, il quale, con pervicace costanza palpeggiava le colleghe di lavoro, anche se unicamente con intenti ludici ed eventualmente per accrescere il bagaglio di conoscenze anatomiche, ma senza intenti libidinosi.
Per cui possiamo dedurre come la libidine sia la delicata linea di confine che demarca ciò che è lecito da ciò che è vietato: toccare la propria fidanzata è punibile, mentre approfittare delle grazie di colleghe bonazze, anche se non consenzienti è lecito, forse anche auspicabile, almeno secondo la giurisprudenza sancita dalla Suprema Corte.
Ogni commento è superfluo, mentre opportuno è un invito ai sindaci di tutte le città italiane: create dei parchi dell’amore, delle aree protette, eventualmente a pagamento, dove sia possibile appartarsi senza il rischio di guardoni, rapinatori e censori pubblici bacchettoni, potendo usufruire di calma e tranquillità, oltre a condom, zabaioni energetici e per i più attempati e deboli di reni muniti di prescrizione medica anche Viagra e Cialis in dosi necessarie.

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RU 486 un’opportunità per cambiare la legge 194

In ritardo di anni rispetto al mondo civile anche nella farmacopea italiana è stato registrato lo RU 486, il discusso prodotto che induce l’aborto per via farmacologica. La Chiesa si è letteralmente scatenata, facendo ricorso tra i tanti anatemi, anche alla scomunica, dimenticando che l’Italia è un paese laico e facendo somigliare il nostro paese all’Iran di Khomeini o all’Afganistan dei talebani, ma non è di questo che vogliamo parlare, bensì di alcuni argomenti fondamentali dei quali la stampa, impegnata nella consueta diatriba tra laici e cattolici, non ha trattato e sui quali viceversa è necessario meditare.
a) Il farmaco va assunto entro la settima settimana di gestazione, per intenderci quando la donna ha pochi giorni di ritardo e si è appena accorta della gravidanza, mentre la legge prevede tutta una serie di ostacoli burocratici, dalla riflessione di sette giorni ai colloqui ed alle analisi, che costringono la paziente spesso vicino al limite dei tre mesi, in ogni caso costantemente oltre il periodo nel quale il farmaco è efficace. Senza un cambiamento della normativa vigente sarà come discutere sul sesso degli angeli.
b) Il prodotto ha un costo di pochi euro e potrebbe far risparmiare allo Stato i circa 2000 euro che rappresentano il costo di un’interruzione di gravidanza in ospedale, essendo del tutto inutile il ricovero della donna per tre giorni fino al completamento dell’espulsione del materiale abortivo.(In nessuno dei paesi dove lo RU486 è adoperato si usa questo protocollo).
c) Il vero effetto scatenante dell’aborto è dato dalla dose di prostaglandina che viene somministrata dopo due giorni, basterebbe questo farmaco, eventualmente associato ad un contratturante uterino ad ottenere lo stesso risultato,come il sottoscritto ha dimostrato da quasi venti anni, pubblicando i risultati su riviste scientifiche internazionali. (Per chi volesse approfondire l’argomento cfr. ilparoliere.ilcannocchiale.it/.../le_ragioni_didella_ragione_il.html)
d) Il gravoso problema dell’obiezione di coscienza tra il personale medico e parasanitario, che assilla e paralizza tanti ospedali, sarebbe alleviato da tale metodica, perché è ipotizzabile che le donne possano da sole introdursi in vagina le candelette di prostaglandina e finalmente dell’aborto non dovrebbero più interessarsi legislatori e preti, medici ed assistenti sociali, facendo sì che questa scelta, difficile e quasi sempre dolorosa, riguardi unicamente la donna e la sua coscienza.


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Post colonialismo di rapina


Gentile dottore,
l’unica via per arginare la diaspora dell’immigrazione dall’Africa verso l’Europa è basata sul miglioramento delle condizioni di vita di un miliardo di disperati in fuga da terre desertificate, rese inabitabili dai cambiamenti climatici e dal dissennato utilizzo delle risorse naturali.
Urge un piano Marshall organizzato dai paesi ricchi del vecchio continente, che debbono dedicare una quota del loro reddito per inviare ingegneri, medici, volontari e personale specializzato, ma soprattutto tecnologia per rendere di nuovo fertili i campi e sono improcrastinabili gigantesche opere di idraulica per imbrigliare le acque e condurle dove ve ne è urgente necessità, al limite recuperandola dal mare e desalinizzandola.
Sono necessari cospicui capitali, ma basterebbe dedicare qualche punto percentuale del reddito per salvare milioni di uomini e per frenare un esodo, che avrebbe effetti devastanti per tutti.
Si tratta di una scelta obbligata in sintonia con quanto preconizzato dal pontefice nella sua ultima enciclica, ma questi investimenti debbono avere l’ottica di aiutare gli africani e non di continuare a sfruttarli come in una sorta di post colonialismo di rapina si apprestano a fare alcune multinazionali onnipotenti ed alcuni stati, in primis Cina ed India, che stanno acquistando pezzi di territorio, estensioni enormi, alcune più grandi delle più grandi regioni italiane, per organizzare culture intensive basate prevalentemente sull’utilizzo degli ogm, al solo scopo di produrre reddito e prodotti da esportare, lasciando agli indigeni, utilizzati con ritmi di lavoro da schiavi, la miseria di un tozzo di pane. Naturalmente senza investimenti che migliorino la produttività e scegliendo i pochi terreni ad alta redditività, possibilmente in paesi politicamente tranquilli come il Madagascar o il Senegal.
Naturalmente si tratta di una scelta dettata dal più bieco capitalismo, agli antipodi degli interventi urgenti dei quali abbiamo accennato prima e che aggrava ulteriormente le condizioni di vita delle popolazioni locali.


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Lo strapotere dei computer negli scacchi
Karpov 58 anni e Kasparov 46 , hanno deciso di sfidarsi di nuovo nel sequel del loro primo storico incontro , il più lungo ed estenuante della storia scacchista : in palio, 25 anni fa , c’era il titolo di campionato del mondo , detenuto da Karpov, presidente dei giovani pionieri dell’Urss e pupillo di Breznev. A settembre a Valencia, dove i due hanno deciso d’incontrarsi, c’è un conto sospeso. All’epoca la sfida fu interrotta, perché non se ne intravedeva la fine, dopo 5 mesi e 48 partite, di cui 40 nulle. Campomanes, presidente della federazione, mandò a casa i due il 25 febbraio 1985 e decretò che il titolo doveva restare a Karpov. Tutti sapevano che lui aveva vinto perché era il campione del regime sovietico e Kasparov era il giovane che non accettava la disciplina del partito. Il mondo si divise. Chi era il più forte Kasparov o Karpov? Il talento con il gioco scintillante fatto di sacrifici e di varianti estreme o quello metodico e razionale. Dal 21 al 24 settembre lo decideranno 12 partite, 4 a ritmo veloce, 8 a blitz. Oggi Karpov non gioca in competizioni ufficiali, preso com’è dal business, mentre Kasparov ha chiuso la sua attività agonistica nel 2005 e si è concentrato sulla carriera politica , fiero oppositore di Putin.
Siamo certi che la sfida non attirerà più di tanto l’interesse dei mass media, come capitò alcuni fa ad un'altra rivincita ancora più clamorosa, tra Fischer e Spaski, quando il fuori classe americano distrusse l’egemonia della scuola sovietica scombussolando regole e comportamenti durante l’epocale confronto di Reykjavík del 1972 , in piena Guerra fredda, per poi scomparire dal mondo divenendo un mitico ectoplasma.
In questi venticinque anni trascorsi dalla mitica sfida dei due titani della scacchiera una vera rivoluzione ha devastato il nobile gioco con l’avvento ed il perfezionamento dei computer, che giocano da tempo in maniera perfetta al punto da sconfiggere, non solo nel gioco veloce, anche i più abili campioni. Da tempo le partite che prima duravano anche settimane, aggiornate dalla “mossa in busta”, devono concludersi col finale rapido, perché gli analisti artificiali sconvolgerebbero il risultato con il loro esame esaustivo delle varianti.
Anche la preparazione del giocatore si basa oggi prevalentemente sull’allenamento al computer, in grado di competere a diversi livelli di efficienza e di valutare aperture, medio gioco e finale in maniera inconfutabile. I libri di teoria vengono scritti, non più dai grandi maestri e dai teorici, bensì da queste onnipotenti intelligenze artificiali.
La bellezza del gioco ne ha risentito non poco ed una grossa umiliazione è stata inflitta all’orgoglio dell’uomo, il quale riteneva che queste macchine pensanti tutto avrebbero potuto fare, senza mai però competere con lui in una disciplina nella quale, oltre a memoria e calcolo, grande importanza hanno caratteristiche propriamente umane, quali l’intuizione, la fantasia, addirittura la capacità di correggere i propri errori.
Invece è successo e presto altri campi verranno invasi dai computer, se verranno programmati e se lo si riterrà necessario, pensiamo alla lettura delle radiografie e degli elettrocardiogrammi, al riconoscimento della paternità di un dipinto, alla composizione di un’opera letteraria o di un componimento sinfonico nello stile di un grande autore come Dante o Beethoven. Molti scrittori di grido si fanno già oggi predisporre i testi dei loro racconti, che a volte diverranno gettonatissimi best seller da programmi predisposti a ripetere pedissequamente il loro stile. Soprattutto la musica sarà fra poco invasa dalle creazioni di questi temibili concorrenti, perché note ed accordi sono uno spazio determinato con un numero enorme, ma non infinito di combinazioni, né più né meno delle posizioni che possono assumere i pezzi sulle sessantaquattro caselle di una scacchiera. Già oggi vediamo che numerose contestazioni di plagio nelle note e nei testi delle canzoni vengono giustificate con la considerazione che un compositore moderno si vede costretto a ripercorrere sentieri già esplorati da altri per una finitezza del campo musicale.
Sarà uno sconvolgimento al quale culturalmente non siamo preparati, ne trarremo indubitabili vantaggi, principalmente nelle applicazioni mediche, ma il nostro orgoglio di essere gli unici a saper creare, emuli della divinità, subirà uno scossone decisivo e ci farà comprendere il potere smisurato del silicio dei circuiti e degli algoritmi in confronto alla fragilità del carbonio dei nostri cervelli.

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Il perché dell’intolleranza

Molti intellettuali blaterano che gli Italiani, antichi migranti, dovrebbero accogliere con fraternità i nuovi arrivati, più degli inglesi, dei francesi o dei tedeschi che non hanno conosciuto questa pagina buia nel loro passato.
Dopo l’Unità d’Italia nel corso di pochi decenni circa 25 milioni di Italiani sono stati costretti all’emigrazione oltre oceano. Soltanto pochissimi sono ritornati. La stragrande maggioranza di questi disperati proveniva dalle regioni meridionali e lo Stato sabaudo, dopo aver combattuto il brigantaggio con metodi militari, incoraggiò questo silenzioso genocidio, del quale invano cercheremo notizia nei libri di storia.
Oggi la storia si ripete all’incontrario ed ecco legioni di disperati che vedono nelle nostre città e nelle nostre campagne la terra promessa.
Il nostro passato di emigranti è dimenticato, seppellito nel più profondo inconscio, complici le istituzioni, che non hanno realizzato un museo che ci rammenti gli anni in cui eravamo carne da macello, pronta a qualsiasi lavoro, anche il più umile e pericoloso, quando dal porto di Napoli, per un’eternità sono partiti i bastimenti, carichi di disperazione e di nostalgia, di ansia di riscatto e di antica dignità.
Non vogliamo ricordare il passato, anche se sarebbe utile per spegnere in noi qualsiasi seme di razzismo e di becero leghismo.
Oggi gli Italiani non soffrono più i morsi della fame, vestono abiti nuovi, anche se spesso acquistati nei mercatini e vogliono sembrare benestanti. Il ricordo della passata povertà ci rende intolleranti. I disperati che arrivano da fuori assomigliano troppo al nostro passato, che vogliamo rimuovere e dimenticare, essi incarnano la fatica di sopravvivere, le difficoltà del presente, l’incertezza del futuro.
Diverso è il discorso per gli immigrati di colore, dove giocano difese ataviche verso il diverso basate sull’odore e su istinti primordiali e nei riguardi dei rom, un popolo sostanzialmente diverso dagli altri, nomade in una società stanziale e povero, salvo poche eccezioni, in paesi che sono o vogliono apparire ricchi.
Per affrontare i problemi dell’immigrazioni bisogna essere generosi ed avere coraggio e lungimiranza, altrimenti saranno guai seri, soprattutto per i paurosi e per gli avari che verranno travolti e spazzati via.


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Festival Internazionale di Scacchi “Panza – Isola d’Ischia”
Con una punta di malinconia mi appresto a parlare del Festival Internazionale di Scacchi “Panza – Isola d’Ischia” svoltosi nelle sale dell’Hotel Galidon di Forio Panza, il quale ha ereditato il torneo da me organizzato per anni.
La manifestazione che si svolgeva nella mia villa di Ischia era principalmente un’occasione conviviale, riservata a poche decine di partecipanti, i quali potevano giocare in un ambiente particolare tra tuffi in piscina e piacevoli degustazioni di spuntini e bevande ghiacciate, mentre il festival organizzato dall’amico Miragliuolo e l’associazione giochi di Natale è stato un importante raduno di forti giocatori, tra cui numerosi grandi maestri, provenienti da ben 12 nazioni: Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Polonia, Serbia, Macedonia, Russia, India, Perù, Lettonia e Ucraina, suddivisi in due tornei: un torneo principale (Open A) con 30 partecipanti, e un torneo secondario (Open B) con 37 partecipanti.
Da un punto di vista tecnico, i giocatori più rappresentativi sono stati i Grandi Maestri Naumkin (Russia), Mejiers (Lettonia), Bakre (India); e i Maestri Internazionali Gaponenko (Ucraina), Dragojlovic (Serbia), Kizov (Macedonia) e Martorelli (Italia).
Notevole la partecipazione femminile: nell’Open A, oltre alla già citata Gaponenko, erano presenti la campionessa italiana Under 20 in carica, Maria De Rosa, e la tedesca Manuela Schmitz, entrambe Maestri FIDE femminili. Nel torneo B giocano invece Valentina Tomasi e la piccola ucraina Violeta Gaponenko, di soli 9 anni.
Nutrita ed agguerrita la pattuglia dei giocatori ischitani, in particolare nel torneo secondario.
Alla fine, dopo una lotta serrata ed avvincente ha vinto una donna, superba ed affascinante: la maestra internazionale Inna Gaponenko, giunta dalla lontana Ucraina, a dimostrazione che il gentil sesso è in grado di prevalere anche in gare considerate appannaggio degli uomini, nelle quali sono necessarie aggressività, concentrazione, calcolo e grande intelligenza.
Deludente la prova degli italiani, soprattutto del maestro internazionale salernitano Antonio Martorelli, giunto con propositi bellicosi e finito al dodicesimo posto, mentre molto valida è stata la prestazione del maestro romano Saverio Farina, l’unico concorrente che ha partecipato a tutte le precedenti competizioni svoltesi nell’isola verde.
Impeccabile la terna arbitrale composta da Sergio Pagano, Claudio Miale e Peppe Bonocore, che ringrazio per avermi fornito in tempo reale risultati e classifica.
Durante la settimana dedicata agli scacchi, sono state programmate diverse iniziative collaterali a beneficio degli scacchisti e dei numerosissimi accompagnatori: un giro dell’isola in battello,un ingresso gratuito in un complesso termale, un torneo lampo serale, una serata in pizzeria allietata da melodie napoletane, una cena di gala.
La perfetta riuscita di questa prima edizione ha invogliato gli organizzatori a prevedere per il prossimo anno una seconda edizione, sempre nel periodo di inizio estate e ci auguriamo baciata dal successo come questa conclusasi sabato.

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Arrivederci Arturo
Improvvisamente è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari Arturo Capasso, scrittore e giornalista, ma soprattutto uomo buono, amato da tutti.
Laureato in Scienze politiche si era dedicato per anni alla gestione del negozio di famiglia, uno dei più importanti della città nel commercio dei tessuti, ma la sua passione era stata sempre la scrittura. Le sue ricerche ed i suoi viaggi in terre lontane erano iniziati nel 1956, quando si imbarcò su una nave mercantile diretta verso l’India. Passò poi lunghi periodi in Svezia ed in Unione Sovietica, dove usufruì di una borsa di studio dell’università di Mosca. Nacquero così i suoi primi saggi di natura sociologica e la sua fama di sovietologo, che gli permise di compilare alcune voci per l’Enciclopedia Minerva. Si dedicò poi attivamente al giornalismo come inviato speciale collaborando con numerose riviste.
La sua firma compare su una miriade di testate, di respiro nazionale come Gente e di nicchia come La Nostra Gazzetta, l’unico periodico in lingua russa che si pubblica in Italia e Scena Illustrata di cui è stato anche condirettore.
Parlava correttamente svariate lingue ed aveva licenziato alle stampe vari libri e negli ultimi anni aveva raccolto i suoi scritti in una trilogia: Cose antiche e cose nuove, Pensieri in corso, Piano Concerto, oltre al saggio Comprendere e l’ultima fatica Il mio Gesù.
Convertitosi al web era infaticabile nel commentare, con garbo ed acuto spirito di osservazione, le tante sfaccettature dei difficili tempi che viviamo.
Aveva un culto per l’amicizia da gentiluomo d’altri tempi e mancherà ai tanti che gli hanno voluto bene ed hanno potuto godere delle sue colte conversazioni e che da oggi saranno più poveri e più soli.
Credeva in Dio sinceramente e la fede gli è stata di conforto in questi ultimi tempi che un male subdolo lo aveva ghermito.
Arrivederci Arturo, ci rivedremo e continueremo per l’eternità le nostre discussioni lì dove non esiste il tempo e gli animi sono dediti solo alle cose belle.


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Pigrizia intellettuale
La Napoli che nessuno racconta


Vi è un’altra Napoli, diversa da quella raccontata da Roberto Saviano, ma non meno tragica e disperata, della quale nessuno parla. Una faccia della città dominata non dalla droga e dalla delinquenza organizzata, quanto dal degrado civile, da giovani senza futuro, dai riti esasperati del consumismo e dalla disperazione.
Napoletani inquinati dalla televisione spazzatura, dal Grande fratello e da Maria De Filippi, che idolatrano miti negativi e li propongono incessantemente ad un pubblico privo di barriere critiche, facendo trionfare un rude maschilismo, una virilità antiquata e spudoratamente esposta nei suoi attributi più eclatanti, dai tatuaggi ubiquitari ai piercing più sfacciati, un bullismo degenerato e frotte di donne che litigano per i favori di un tronista sultano.
Si viene così a creare un nuovo immaginario popolare, il quale sostituisce l’antica oleografia di pizza e mandolini con canzoni neomelodiche fracassone e sguaiate, folle squattrinate che si danno appuntamento nei megacentri commerciali, novelli agorà, dove si guarda e non si compra, pseudo stelle delle televisioni locali che si credono divinità e folle di giovani sfaccendati delle immense periferie dormitorio passeggiare senza sosta e senza metà con le loro divise tutte eguali fatte di jeans sdruciti, borchie pacchiane e camicette multicolori, senza accorgersi del tanfo della monnezza materiale e morale che li avvinghia in una stretta mortale.
E nessuna voce che si sollevi a denunciare questo silenzioso epicedio di una città antica capitale, sprofondante ogni giorno di più in un gorgo senza fondo che sdegnoso si rifiuta di inghiottirla.

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Un flagello ubiquitario: i writers
Da tempo le mura private e pubbliche di tutte le città italiane sono umiliate da scritte demenziali e disegni osceni e lo stesso dicasi delle carrozze ferroviarie, delle statue e dei monumenti anche i più famosi, imbrattati da vernici colorate, che penetrando in profondità creano danni irreversibili. Una situazione intollerabile, sconosciuta all’estero, dove tali scempi non solo non sono tollerati, ma nemmeno immaginabili.
Alcuni cattivi maestri, che si credono critici d’arte, hanno in passato tessuto le lodi di questa arte povera ed espressiva ed hanno cercato di spiegarci che si trattava di pittori incompresi, una fandonia alla quale stesso loro non credevano, ma blateravano in giro queste idiozie per mostrarsi alla page e anticonformisti.
Questa scriteriata devastazione deve essere fermata al più presto e per farlo, in attesa di una auspicabile normativa che preveda pene esemplari per i writers, basterebbe applicare la legge, imputando i trasgressori di danneggiamento aggravato e, quando molto spesso agiscono in gruppo, prevedere anche l’ipotesi dell’associazione a delinquere, che permette l’arresto, un escamotage ben noto alla magistratura quando vuole eseguire dei provvedimenti con grande risalto mediatico.
Non dovrebbe essere difficile raggiungere lo scopo, gli avversari da battere sono semplicemente dei giovani disadattati, non certo pericolosi criminali, per cui una eventuale sconfitta contro tali scalcagnati personaggi rappresenterebbe per le istituzioni una cocente sconfitta e la lampante dimostrazione di non saper gestire nemmeno l’ordinaria amministrazione.


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Vincere, una torbida pagina di storia
Accolto tiepidamente dalla critica italiana, Vincere, di Marco Bellocchio sulla stampa specializzata straniera è stato viceversa salutato come uno ottimo film in grado di gareggiare alla pari con i favoriti per la conquista del palmares.
La trama rende conto di un aspetto poco noto della nostra storia, un amore giovanile di Benito Mussolini con Ida Dalser, sancito da un matrimonio civile e dalla nascita di un figlio riconosciuto dal duce. Un episodio sul quale dubito che gli storici abbiano posto il loro imprimatur definitivo e che fu trattato alcuni fa in un servizio televisivo che fece grande scalpore.
La narrazione scorre come un gigantesco affresco con i toni di uno struggente melodramma, intercalato da immagini di repertorio celebri, dalle cruente battaglie della prima guerra mondiale alle inqualificabili scorrerie delle squadracce in camicia nera, dai discorsi del duce dal balcone di Palazzo Venezia alla firma del Concordato.
L’interpretazione di Giovanna Mezzogiorno è semplicemente superba, sia quando ci mostra ripetutamente, completamente nudo, il suo esile corpo, sia quando lavora magistralmente con un volto espressivo ed un uso degli occhi da cinema muto.
All’inizio vi sono numerosi, quanto gratuiti, amplessi tra un giovane ed aitante Benito e la Dalser, conditi da sonori ed imbarazzanti mugolii di orgasmi, a rafforzare la fama iperviriloide del futuro dittatore. Poi la inaspettata gravidanza, il matrimonio, la nascita del bastardello dal nome altisonante, riconosciuto, ma non gradito.
La donna non rinuncerà al suo amore ed ai suoi diritti con una tenacia ed una perseveranza che la condurranno al manicomio, sana di mente, pazza solo della sua passione sviscerata per un uomo che non la desiderava più e divenuto potente decise di annientarla.
I fotogrammi scorrono solenni come in una funesta odissea nella quale ambizione e solitudine ci riportano ad un’Italia che pochi oramai possono dire di aver conosciuto di persona. Ci mostrano la dolorosa parabola di una donna che, nell’illusione di un amore finito, ebbe il coraggio di combattere da sola contro il potere, trascinando anche il figlio nello stesso triste destino. Moriranno infatti entrambi tra le mura di un manicomio, Ida nel 1937, Benito nel 1942.
Impagabili sono le scimmiottature che il figlio fa del celebre genitore, mimando la sua grottesca retorica, fatta di gesti ridicoli e di una mimica folle e disarticolata; sembra quasi di rivedere il divino Totò in una delle sue inimitabili imitazioni. Penose sono invece le scene di vita manicomiale dove le sventurate recluse, nude e legate ai loro lettini, sono costrette ad un’esistenza misera e senza speranza di redenzione.
Un film che ci restituisce un Mussolini inedito, spietato e crudele, mentre la sua fama di maschio superdotato ne esce visibilmente rafforzata, anche se non ha mai subito incrinature, al punto che le compagne della infelice Ida le chiedevano curiose quanto fosse grosso l’uccello dell’infaticabile condottiero.


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sull’obiezione di coscienza


Gentile dottor Pepe,
vorrei aggiungere alcune considerazioni nel dibattito scaturito sull’obiezione di coscienza prevista dalla legge 194. In Italia l’applicazione della legge è di fatto paralizzata dall’altissima percentuale di obiettori sia tra i medici che nel personale parasanitario, una facoltà adoperata spesso per motivi utilitaristici. Nel resto del mondo l’interruzione di gravidanza può essere praticata non solo in ospedale, ma anche in clinica privata, per cui l’obiezione di coscienza, dovunque molto frequente, non influenza minimamente i tempi di attesa.
Tra le modifiche, alcune molto urgenti, da apportare alla legge, vecchia di oltre trenta anni e frutto all’epoca di un ipocrita compromesso tra cattolici e laici, si impone perciò la possibilità di abilitare all’esecuzione delle interruzioni anche tutte le strutture private che ne facciano richiesta.
Ne guadagnerebbero tutte le donne che vivono l’esperienza come un trauma profondo, e sono la maggioranza, aggravato da interminabili attese, da interrogatori inquisitori e da un’atmosfera poco serena in momenti particolarmente delicati.

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Angeli e demoni, un trionfo annunciato
Preannunciato da mesi come il film dell’anno, Angeli e demoni non ha tradito le attese e da giorni sta letteralmente sbancando il botteghino con cinema affollati come ai bei tempi ed un trionfo completamente meritato.
Il film con la regia di Ron Howard e l’interpretazione di Tom Hanks, un binomio perfetto, si avvia a superare gli incassi del Codice da Vinci, del quale ricalca gli stessi ingredienti di successo, suspence dal primo all’ultimo minuto,contaminazione di storia e fantasia, lotta tra il bene ed il male ed una trama anticonvenzionale in grado di provocare vibrate proteste da parte delle gerarchie vaticane.
La pellicola è ricavata da un best seller di Dan Brown, lo stesso autore del Codice da Vinci e si svolge nella fascinosa cornice di una Roma rinascimentale e barocca, con le sue chiese grandiose ed i suoi capolavori artistici, i quali scorrono come in un’ideale visita guidata densa di colpi di scena, che aumentano gradualmente la tensione e siamo certi apporterà un cospicuo vantaggio turistico alla Città eterna, la quale vedrà nei prossimi anni fiumane ancora più incontenibili di quelle attuali ripercorrere i luoghi dove si volge la trama di Angeli e Demoni.
Il messaggio del film è moderato e conciliatorio riguardo ai complessi rapporti tra scienza e religione, tra fede e ragione, dicotomie non risolte dalla modernità e che creano dubbi ed incertezze all’uomo dei nostri giorni. La stessa lotta tra bene e male sempre presente in ogni storia lascia perplesso lo spettatore e non gli permette di prendere chiaramente posizione.
La narrazione si svolge mentre, simultaneamente, al Cnr di Ginevra viene rubato da una setta massonica, gli Illuminati, un dispositivo contenente una scintilla primordiale, un frammento di antimateria in grado di produrre una gigantesca deflagrazione ed a Roma si sta svolgendo un conclave per nominare un nuovo pontefice, essendo morto, e si scoprirà assassinato, il precedente, che fa pensare per molte circostanze a papa Luciani. Nel frattempo vengono rapiti i quattro cardinali favoriti alla successione e gli Illuminati minacciano di far esplodere la Città del Vaticano per vendicare l’antica offesa patita da Galileo.
Durante la sede vacante le principali funzioni di supplenza sono svolte da un giovane camerlengo, pupillo del papa scomparso, che egli con amore filiale chiamava padre, volendo intendere un genitore nel senso biblico e non spirituale, né più né meno di come Noemi appella papi il nostro superdotato Berlusca.
Viene chiamato per risolvere la difficile situazione il professor Langdon, interpretato da Tom Hanks, il superesperto di simbologia e sette segrete, laico e miscredente inveterato. Comincia una lotta contro il tempo per evitare la catastrofe con una serie di colpi di scena continui al di fuori di ogni logica storica e scientifica, ma non per questo meno entusiasmanti per lo spettatore, il quale rimane avvinto fino all’imprevedibile finale.
Un grande film che farà discutere a lungo teologi e ben pensati, ma che ci riconcilia con il grande cinema.

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Il nostro turismo: una risorsa incommensurabile
Difendiamo un tesoro indifeso


In un momento di crisi economica mondiale e di difficoltà per le nostre esportazioni, disponiamo di una immensa risorsa da tutelare e da sfruttare con intelligenza e lungimiranza: il turismo, che quest’anno ci darà grosse soddisfazioni, perché moltissimi italiani rinunceranno al costoso viaggio all’estero per godere delle molteplici attrattive offerte dall’Italia, dal mare alla montagna, ma soprattutto le nostre città zeppe di arte e di storia.
Dopo aver dilapidato per decenni questo ingente patrimonio, cementificando senza criterio le nostre inimitabili coste ed inquinando i nostri mari, dobbiamo adoperarci ad offrire servizi qualificati a prezzi competitivi, ma soprattutto dobbiamo impegnarci tutti, cittadini ed autorità, nella difesa di un tesoro che tutto il mondo ci invidia e rappresenta un’inestimabile fonte di guadagno per le future generazioni.
La diffusione della moda del bed e breakfast ha permesso un sensibile abbattimento dei costi di un soggiorno nelle nostre città e nello stesso tempo costituisce una fondamentale risorsa per molte famiglie, che hanno così modo di integrare i propri introiti, fronteggiando con più risorse le difficoltà della crisi economica.
Questo inizio della stagione turistica ha creato numerosi allarmi per la tutela dei nostri monumenti più famosi, sempre più spesso lasciati in ostaggio di folle debordanti di visitatori, incuranti del rispetto delle più elementari regole del vivere civile.
Piazza San Marco ha visto improvvisati bivacchi, siti archeologici come Pompei o i Fori romani sono stati sommersi da cartacce impregnate ancora dell’odore di robuste frittate, statue di uomini illustri sono state ripetutamente imbrattate da spray micidiali e scritte demenziali, monumenti e fontane più o meno famosi sono divenute vette da scalare per torme di ragazzini arrampicatori e piscine di fortuna per gitanti accaldati.
L’assalto più insistente ha riguardato Fontana di Trevi: prima le scriteriate performance pseudo artistiche, quindi le invasioni barbariche di folle incontenibili; dopo l’acqua tinta di rosso siamo all’appropriazione fisica dell’opera, il tutto naturalmente sotto gli occhi indifferenti dei vigili urbani.
Purtroppo sia i cittadini che le autorità preposte a vigilare sul loro comportamento non capiscono l’interesse a proteggere i propri tesori, che racchiudono la loro memoria storica e rappresentano una vitale risorsa economica.
Sarebbe auspicabile una campagna di sensibilizzazione da parte dello Stato che partisse dalle scuole, dove viceversa si abolisce o si umilia lo studio della storia dell’arte. In attesa che questa necessaria campagna di evangelizzazione si attui non resta che aumentare la vigilanza da parte di personale qualificato e motivato.
I numerosissimi stranieri in visita alle nostre città d’arte, davanti all’assenza quasi completa di controlli e di disciplina subiscono un contagio imprevedibile e così possiamo osservare tranquilli giapponesi, miti scandinavi, severi anglosassoni, organizzati russi ed americani abbandonarsi al brivido della trasgressione, salendo sul bus senza biglietto, cercando di evitare le file, schiamazzando senza ritegno ad ogni ora del giorno e della notte.
Stiamo divenendo una meta di turismo allegro e disorganizzato, dove tutto è permesso, una vera e propria vacanza dalle regole, che umilia la nostra storia e la nostra dignità. Da tempo non siamo più un popolo di santi e navigatori, bensì di osti e bottegai, ma(o tempora o mores)non deve bastarci che circoli tanto denaro.


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Proposte del governo per nuove carceri
Il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Franco Ionta ha presentato il piano del governo per far fronte all’emergenza carceraria, che da tempo ha superato abbondantemente il livello di guardia straripando in un marasma ingovernabile con un numero di reclusi superiore di oltre ventimila unità la capienza massima. La notizia viene accolta con soddisfazione con la speranza che trovi quanto prima attuazione e che l’opinione pubblica, presa da altri problemi, non si dimentichi dell’urgenza della questione. A giorni, mentre gran parte della popolazione partirà per le vacanze, nelle celle, dove stipati come bestie sono ammassati i detenuti, la temperatura supererà costantemente i 40°, gli stessi ambienti, privi di vetri alle finestre, nei quali durante l’inverno si gelava dal freddo.
Gran parte delle strutture carcerarie italiane sono fatiscenti e collocate in antichi monasteri, conventi o seminari, come se lo Stato avesse volto delegare all’aura di sacralità di quei luoghi il compito, inevaso, di influire positivamente sulla rieducazione e sul recupero dei reietti.
Né più né meno di ciò che è successo a Napoli nello stridente contrasto tra il nome altisonante di alcune strade e lo squallore che le circonda, indirizzi beffardi a Secondigliano per abitanti costretti a vivere gomito a gomito con la criminalità organizzata. La più grande piazza per lo spaccio della droga d’Europa che confina con Il posto delle fragole o Il giardino dei ciliegi, mentre le vedette della camorra si stagliano prepotenti in via La certosa di Parma o I racconti di Pietroburgo. A Ponticelli, altro Bronx invivibile, si passeggia in strade desolate che richiamano un lontanissimo mondo di favola da via Walt Disney a via Marilyn Monroe o viale Fratelli Grimm. Come se i nostri incauti amministratori avessero voluto affidare ad un’improbabile toponomastica il compito improbo di rendere quei luoghi inospitali, vivibili e civili.
Tra le novità del piano vi è anche la proposta di utilizzare delle navi, attraccate nei porti, come carceri galleggianti. Una soluzione che avrebbe il vantaggio di essere rapidamente esecutiva. Dopo aver sfruttato per tanti anni le isole, da Procida all’Asinara, senza mai raggiungere la fama funesta di Alcatraz, perché non seguire questa linea solo apparentemente rivoluzionaria, essendo stata già prescelta da altre nazioni. Anche l’ipotesi di far lavorare i galeotti nei lavori di ristrutturazione delle celle solo a prima vista può apparire romantica, tenendo conto delle notevoli valenze educative.
Ma l’idea più dirompente è quella basata sulla vendita delle vecchie e famigerate strutture penitenziarie, situate spesso nel centro della città, a società immobiliari decise a trasformarle in alberghi lussuosi o in centri commerciali, collaborando in cambio alla costruzione di nuove carceri con criteri di efficienza e modernità.
Una soluzione vincente che permetterà un giro dell’orrido, ripercorrendo i padiglioni di Poggioreale, un via vai di pellegrini a Regina Coeli, dove Giovanni XXIII recitò messa o nella cella di Vallanzasca a San Vittore, nella quale il fascinoso bandito pasteggiava a champagne.


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L’ultima frontiera del copyright
Il copyright compie trecento anni entrando in una crisi comatosa per la quale non si intravede un rimedio efficace, mentre le griffe sono da tempo in grave difficoltà per l’invasione di una quantità crescente di vestiti, borse, scarpe e profumi di marca clonati, in gran parte in Oriente e distribuiti poi in Occidente a prezzi stracciati.
Un affare di decine, se non centinaia di miliardi di euro ogni anno, che finisce in larga misura nelle tasche della delinquenza organizzata.
Volendo circoscrivere l’analisi a libri, dischi e film possiamo far risalire l’origine del fenomeno alla nascita e diffusione delle fotocopiatrici e dei registratori audio e video, ma l’esplosione della pirateria si è avuta con internet, quella terra di tutti e di nessuno, che non tollera regole e restrizioni.
L’ultimo album degli U2 “No line on horizon” è finito misteriosamente sul web due settimane prima della sua pubblicazione ed eguale sorte è spettata al film “X - Men le origini: Wolverine” scaricabile in rete 20 giorni prima del debutto.
L’industria discografica è in prima linea in questa disperata battaglia in difesa del diritto d’autore ed essendo quasi impossibile arrivare ai singoli ladri di suoni, ha deciso di attaccare legalmente i siti peer to peer, che consentono lo scambio dei file ed i grandi gestori telefonici proprietari delle strutture dove si consuma il delitto…, in Italia sul banco d’accusa sono Telecom, Infostrada e Fastweb.
Corte di giustizia europea( Dove, quando, come, perché?)


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Spes ultima dea
La Corte di giustizia europea è l’organismo internazionale che cerca di tutelare i diritti dell’uomo. Essa esiste da 50 anni ed ha già emesso 10.000 sentenze.
Ad essa il cittadino, che ritiene sia stato leso un suo diritto, può ricorrere direttamente senza necessariamente essere assistito da un legale, purché il procedimento a cui si riferisce abbia esaurito i gradi del processo con sentenza definitiva.
La domanda va presentata entro 6 mesi dalla conclusione del giudizio.
La Corte di Strasburgo nasce nel 1959 e comprende 47 Stati membri tenuti al rispetto della Convenzione; essa rappresenta l’ultima speranza per godere di una tutela giuridica per i diritti umani violati ed ha visto negli ultimi anni crescere in maniera esponenziale le richieste di giustizia ed a fronte dei 10.000 verdetti emessi, ha dovuto esaminare 332.000 pratiche.
Oltre la metà dei ricorsi sono stati presentati contro 4 Stati: Federazione russa, Turchia, Romania ed Ucraina, mentre l’Italia è stata ripetutamente condannata per la lungaggine dei processi, perché la legge Pinto prevede degli indennizzi risibili, tali da indurre i cittadini esasperati a ricorrere a Strasburgo per vedersi assegnare un risarcimento maggiore. Tra le altre principali violazioni contestate al nostro Paese vi sono quelle riguardanti il diritto alla proprietà privata e nel campo penale il contestato articolo 41 bis, che prevede la detenzione in regime di isolamento dei condannati per reati gravi come l’associazione mafiosa con pesanti rischi per l’equilibrio psichico dei carcerati, una normativa assente in altre legislazioni, la quale ha fatto gridare a vari associazioni il nome di tortura. Vi è inoltre una situazione di invivibilità nei nostri penitenziari, dovuta principalmente al sovraffollamento, che ci pone agli ultimi posti del mondo civile, alla pari di Paesi più volte condannati come la Turchia e la Russia.
Molte nazioni, anche insospettabili, come la Svezia o l’Olanda, sono state più volte condannate per misure contro l’immigrazione clandestina, uno degli altri grossi problemi con il quale l’Europa deve confrontarsi.
Purtroppo l’entusiasmo del dopoguerra e della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si sono affievoliti ed è necessario riaffermare solennemente e praticamente il rispetto di tali diritti, per cui sarebbe necessaria una vasta campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica ed una conferenza programmatica di alto livello tra gli Stati europei per rilanciare alcuni principi basilari di tutela di quei valori irrinunciabili per gli uomini protagonisti del XXI secolo.
Gian Filippo della Ragione


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La cecità
La più terebrante delle maledizioni


La cecità è il più grave flagello che possa colpire l’uomo, anche nell’animale essa rappresenta una condizione devastante, ma la natura, preveggente, ha previsto, dopo breve intervallo, la morte, mentre nella nostra specie la pietà fa proseguire una vita non più degna di essere vissuta.
La scienza fino ad oggi non è stata in grado di trovare un valido rimedio e siamo ancora lontani dal giorno in cui si troverà una soluzione risolutiva.
L’utilizzo delle cellule staminali per reintegrare i danni alla retina e la creazione di una minuscola telecamera in grado di inviare al cervello gli stimoli visivi sono lodevoli filoni di ricerca, purtroppo ancora in fase embrionale e bisognevoli di cospicui investimenti, che le istituzioni e le università dei paesi ricchi non elargiscono volentieri, perché la cecità colpisce prevalentemente gli abitanti di nazioni povere.
Nell’attesa che la medicina sia capace di venire in soccorso di questi sventurati, alcuni palliativi potrebbero essere facilmente escogitati per rendere più tollerabile la vita di chi è colpito da questa terribile menomazione.
Una delle cause più diffuse di cecità è provocata in Africa dall’oncocercosi, un’infestazione che colpisce le popolazioni dimoranti vicino ai fiumi ed in un continente in agonia alla disperata ricerca dell’acqua gran parte della popolazione vive sulle sponde dei pochi fiumi non ancora in secca. Sarebbe relativamente facile per la ricerca farmacologica ideare dei medicinali, anche di basso costo, idonei a sconfiggere queste così diffuse patologie, ma i potenziali utenti sono quasi tutti indigenti ed in un mondo che segue solo le egoistiche leggi del profitto le aspettative di questi infelici non trovano ascolto. Anche la cataratta, che in Occidente si risolve con un intervento di routine di pochi minuti, negli sperduti villaggi sub sahariani costringe al buio perenne centinaia di migliaia di uomini, che non godono di alcuna assistenza sanitaria. Il Mali ha il tasso di cecità più alto del mondo con il 27% della popolazione con problemi oculistici, aggravati da carenze alimentari e precarie condizioni climatiche, un esercito silenzioso costretto a vegetare tra le tenebre.
Tantissimi ciechi riescono a sopravvivere grazie ad un aiuto inconcepibile ai nostri occhi, che gridiamo scandalizzati ad una subdola forma di schiavismo: al posto e ben più efficienti dei cani guida vengono utilizzati dei bambini, a volte parenti o più spesso venduti dalle famiglie per questo triste ufficio. Questi fanciulli, perdono così la loro infanzia, divenendo i silenziosi ed affidabili compagni del non vedente loro affidato, mangiano e dormono con lui, lo accompagnano dappertutto per le strade a chiedere l’elemosina o nella moschea per pregare. Questo triste lavoro che esclude dalla scuola e dal gioco rientra nelle consuetudini di molte popolazioni africane che, a differenza delle società basate solo sul denaro, le quali spesso considerano vecchi e malati una inutile zavorra, ritengono gli anziani una grande ricchezza, perché depositari della storia e delle tradizioni, tramandate a voce, per cui è normale consuetudine per tutta la famiglia essere al loro servizio.
Il bambino guida il cieco tirandolo con un bastone, una immagine antica da parabola evangelica, che richiama a viva voce lo splendido quadro di Brueghel conservato nel museo di Capodimonte, il quale immortala sulla tela la dolente fissità dello sguardo verso l’alto e l’artificio del bastone, ma i suoi ciechi ruzzolano l’uno sull’altro…,mentre questi fanciulli africani rappresentano una bussola affidabile.
Da noi questi pietosi angeli custodi sono sostituiti da fedeli cani specializzati e negli ultimi tempi sono stati sperimentati anche i pony. Pochi sanno quanto impegno e quanto denaro siano necessari per istruire un cane prima che possa essere affidabile e vi è da meravigliarsi, in un epoca di elettronica e gps, che a nessuno scienziato sia venuto in mente di costruire un bastone elettronico in grado di sostituirsi a questi accompagnatori viventi, siano essi umani o animali.
Sarebbe una meritoria scoperta degna del Nobel, in ogni caso al generoso studioso andrebbe il plauso incondizionato di tanti infelici e l’imperitura riconoscenza di tutti gli uomini di buona volontà.

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Requiem per il Karama
Distrutta la leggendaria barca del Comandante Achille Lauro


Uno scontro con una pala meccanica ed il Karama, il leggendario veliero di Achille Lauro, è andato in frantumi e con lui tanti ricordi nostalgici legati a questo titanico personaggio che attende ancora, paziente, una rivalutazione storica completa fino ad ora negata per l’ottuso ostruzionismo di una sinistra in avanzato stato di decomposizione.
Tanti aneddoti su questa superba reginetta dei mari mi sono stati raccontati mentre compilavo il mio libro sul Comandante “Achille Lauro superstar”(consultabile su internet) ne ho scelto un paio che ci restituiscono il ritratto di un uomo genuino amante delle bellezze della natura e della vita.
Achille, quando compariva in pubblico amava vestire sempre con grande eleganza, profumatissimo, in doppio petto con l’immancabile fazzoletto a triangolo nel taschino, tutto firmato dalla camicia alle mutande di seta preziosa, siglate con le iniziali. Spesso si cambiava più di una volta da capo a piedi, se doveva partecipare a diverse cerimonie.
D’estate questa regola era stravolta e volentieri egli amava vestirsi in maniera casual, come solo i veri ricchi possono permettersi senza scadere di tono.
Con la sua barca, il Karama, amava veleggiare lungo la costa azzurra, con a bordo 11 marinai e l’affascinante Eliana. Quando scendeva a terra gli bastavano un paio di rumorosi zoccoli, un calzoncino ed una canottiera colorata, oltre ad un basco messo di tre quarti che gli donava una certa aria francese. Spesso comprava personalmente il pesce, mostrando grande competenza nell’esaminare il colore delle scaglie e la lucentezza degli occhi. Scambiato per un cuoco, i negozianti si meravigliavano quanto assomigliasse al suo padrone: il mitico Comandante.
Questa divisa poteva forse andare bene per il mercato, un po’ meno per fare acquisti da Cartier, ma il nostro eroe, avendo adocchiato nella vetrina uno scintillante monile, che riteneva potesse essere degno di adornare il seno prosperoso della sua bella, non esitò ad entrare nel favoloso negozio per chiederne il prezzo. I commessi furono incerti se fosse il caso di rispondere ad un personaggio così poco raccomandabile, ma alla fine, per dovere di ufficio, sciolsero il quesito: 95 milioni.
“E’ un po’ caro, ma se me lo date per 90 milioni lo prendo”.
Ancora più meravigliati dalla proposta, i commessi consultarono il direttore, che sdegnato esclamò: “Cartier non fa sconti!”.
Lauro non batté ciglio e tornò sulla sua barca .
Gli impiegati della esclusiva gioielleria raccontarono divertiti l’episodio a più di un cliente e rimasero di sasso, quando uno di questi, un noto camorrista in libera uscita, identificò nel canuto vegliardo il Comandante, da lui incontrato poche ore prima sul molo.
Il direttore si affrettò a far pervenire a Lauro la preziosa collana impacchettata con cura presso il Karama, con un fascio di fiori per la signora ed una lettera di scuse, in cui si spiegava che il prezzo era naturalmente 90 milioni, da pagare con comodo.
Il vecchio capitano sorrise sornione mentre cingeva orgoglioso la collana al collo della sua amata amante; nel pomeriggio poi da Napoli il fido Manfellotto, con un bonifico internazionale, provvide a saldare l’improvviso capriccio del suo padrone.
Michele Cappiello, motorista del Karama, lo splendido veliero privato di Lauro, rievoca la bonaria severità che regnava a bordo, ove l’ordine e la pulizia erano imperativi categorici da rispettare.
Il grande capo voleva che tutti gli ottoni luccicassero a furia di olio di gomito. L’equipaggio, per lavorare di meno, aveva escogitato di salvaguardare tutta la superficie da lucidare con dei panni di copertura, da mettere la sera e togliere al mattino, ma non aveva calcolato le sveglie antelucane di don Achille, il quale, scoperto lo stratagemma, volle punire i marinai per la loro ingenua furbizia.
“Qual è la vostra cena questa sera?”
“Un uovo sodo soltanto!”
“Bene mangerete mezzo uovo a testa!”

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A tu per tu con Mike
Una memorabile partecipazione a Rischiatutto


Milano, 11 maggio 1972 ore 21, sono passati meno di quaranta anni, ma al sottoscritto sembra ieri, quando, spavaldo laureando in medicina, partecipai alla trasmissione Rischiatutto presentata da Mike Buongiorno assistito dalla bella Sabina Ciuffini.
Avevo ventiquattro anni e credevo di avere tutto il mondo ai miei piedi dopo aver superato brillantemente una doppia serie di selezioni, la prima a Napoli con una raffica di 200 domande di cultura generale e la seconda a Milano, dove si simulava una gara in piena regola al cospetto del mito vivente, con tanto di pulsante per scegliere sul tabellone con 6 materie i quiz e le domande finali di raddoppio in cabina.
Nel primo test, che comprendeva i quesiti più astrusi, da quando una lettera diventa pacco alle commedie minori dell’Ariosto, ottenni una prestazione eccellente da sbalordire gli stessi esaminatori, i quali dissero che avrei subito partecipato alla seconda prova, nella quale fui particolarmente fortunato, perché scelsero le domande di una vecchia puntata, che ricordavo perfettamente, per cui sbaragliare gli avversari non richiese alcuna fatica.
Mike dopo la trasmissione simulata mi disse che ero stato prescelto ed a breve avrei partecipato, anzi vista la mia prestazione mi confidò che avrebbero cercato di favorirmi, mettendo sul tabellone qualche argomento che avevo indicato tra i preferiti e scegliendomi degli avversari non irresistibili. Vi era solo un problema sulla materia da me prescelta: la storia della medicina, essendo attinente alla mia futura professione; risposi che potevano sceglierla loro tra un ventaglio di una ventina, dall’atletica leggera alla geografia, dalla letteratura alla storia di Napoli. Alla fine ne fu prescelta una originale: i premi Nobel, una richiesta da parte di Mike che accolsi senza problemi.
Attesi trepidante alcuni mesi la convocazione ed all’arrivo del telegramma che indicava il giorno della gara mi sembrò di toccare il cielo con un dito, ma purtroppo mia madre, da tempo malata, si aggravò all’improvviso ed io non mi sentii di lasciarla sola ed inviai un telegramma dando forfait. Fu l’unica volta nella storia del Rischiatutto che venne chiamata all’ultimo momento una riserva.
Mike puntava molto su di me e dopo alcune settimane mi telefonò personalmente per chiedere di partecipare all’ultima puntata in assoluto della stagione, confidandomi che la ripresa del programma in autunno era incerta ed avrei perso un’occasione d’oro.
Mia madre, che si era in parte ripresa, mi invogliò a partire ed io con due delle mie sette zie, con l’ispettore Lombardi, vecchio amico di famiglia e con Elio Fusco, fidato amico d’infanzia, salii sul treno.
La mattina della gara registrai uno speciale Rischiatutto per la Rai di venticinque minuti nel quale mi vennero fatte una serie di domande, in particolare perché avevo scelto i premi Nobel come materia di base e come esercitavo la mia memoria.
Spiegai che si rammentano con facilità solo le nozioni che ci interessano, per cui è necessaria una grande curiosità culturale per poter ricordare agevolmente, inoltre bisogna dedicare costantemente molte ore al giorno allo studio, un’abitudine da me praticata sin dagli anni del liceo, dove avevo le materie preferite nelle quali ero imbattibile, mentre ero impacciato in matematica e negato per le lingue straniere, che consideravo aliene, amando solo di parlare il vernacolo o al massimo l’italiano. L’unico exploit culturale fu la mia partecipazione, prima della maturità, in rappresentanza della mia scuola, al concorso nazionale per il miglior tema su un argomento letterario, dove ottenni il primo premio con relativo articolo su alcuni importanti giornali.
Simulai poi per gli ascoltatori un giochetto con il quale sbalordivo solitamente gli astanti in occasione di balletti e feste varie: mi facevo dare il nome di un oggetto (pentola, sedia radio, fiore, automobile ecc.) da ognuno dei presenti e lo facevo annotare da un volontario in veste di notaio, fino ad un totale di 40 – 50. Quindi tra la meraviglia generale li ripetevo dal primo all’ultimo o viceversa, inoltre ero in grado di dire l’oggetto n 24 o 35. Vi è un piccolo trucco, che vi rivelerò in un’altra occasione, ma ci vuole anche una memoria robusta se non eccezionale.
In un primo momento dovevo sfidare il campione Paolini, un barbiere al quale in caso di sconfitta avrei offerto in olocausto barba e capelli, infatti in quel periodo esibivo una chioma fluente ed una cespugliosa vegetazione pilifera sulle guancie da far esclamare a Mike, quando comparsi al suo cospetto:” Ecco l’uomo delle caverne”.
Il ritardo nella mia partecipazione dovuto alla malattia di mia madre mi fece viceversa incontrare con un modesto campioncino, che addirittura nella tenzone al tabellone finì sotto zero e non potette partecipare (caso unico nella storia del Rischiatutto) alle domande di raddoppio ed una simpatica e procace giornalista sportiva con la quale feci il mio ingresso mano nella mano. Il celebre presentatore esclamò:” Entrano i fidanzatini”, mentre la mia cortese accompagnatrice si giustificò con la scusa che volevamo solo darci coraggio. Lesse nel futuro perché tra noi due scoppiò una scintilla e nonostante lei fosse in procinto di convolare a nozze ed io avessi ben due fidanzate ufficiali, ci rincontrammo in campeggio a Marina di Doronatico e furono notti indimenticabili.
Lo svolgimento della trasmissione perde molto raccontandola senza l’ausilio della visione, per cui rimando chi volesse vederla e chi è curioso di come si concluse ad andare sulla sezione video del mio sito www.guidecampania.com/dellaragione


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Una entusiasmante gara di braccio di ferro
Capodanno del 1989, mentre caduto il muro di Berlino il mondo conosceva una nuova era, il sottoscritto, con la sua famiglia, assaporava il fascino esotico di una vacanza al mare, al sole dei tropici, quando in Italia imperversava il vento e la pioggia.
La meta prescelta il villaggio Valtur Les Palativie in Costa d’Avorio, un posto da sogno dove passammo quindici giorni indimenticabili tra bagni in acque incontaminate, pranzi pantagruelici con annesse libagioni, balli sfrenati fino all’alba e quotidiane gare sportive, dal nuoto al calcetto, dalle bocce al braccio di ferro. Ed è proprio di queste ultime due competizioni che voglio brevemente raccontarvi.
Io partecipavo a tutte le competizioni, unica eccezione miss topless per mancanza di attributi. Nel nuoto venivo costantemente superato da giovani siluri ed anche, a volte da avvenenti ondine, nel calcio inesorabilmente dribblato e nel tennis surclassato, unica soddisfazione un secondo posto nella gara di bocce miste in coppia con una valchiria, che mirava al bersaglio con teutonica precisione.
Grande attesa vi era poi per la sfida di braccio di ferro, che si svolgeva dopo cena nell’anfiteatro tra una folla plaudente, un tifo da stadio e le note del film di Stallone Over the top.
Vi era una competizione tra ultra quarantenni ed un trofeo assoluto. Scelsi di tentare la sorte nel torneo principale dotato di un cospicuo premio in denaro, rinunciando ad una coppa sicura, ma a casa, vinte a scacchi o a poker, ne ho talmente tante da non avere più spazio.
Facevo affidamento non tanto sulla residua forza dei bicipiti, che da tempo si era affievolita, quanto su un’abilità tecnica di vecchia data e sulla notevole lunghezza del braccio: il trucco infatti consiste nel creare una leva più alta dell’avversario, cercare di fargli ruotare la mano verso il basso e poi il più è fatto.
Tra i concorrenti all’alloro vi erano numerosi palestrati, ma in particolare incuteva timore un gigante di oltre due metri con 48 di bicipite, la misura di Steeve Reeves quando prestava ad Ercole il suo corpo statuario per interpretare le leggendarie sette fatiche.
Ognuno di questi energumeni poteva contare poi su una claque di fanciulle scatenate, le quali urlavano a squarciagola speranzose nella vittoria del loro idolo, mentre io potevo fare affidamento, oltre che su mia moglie Elvira e sulle mie figlie Tiziana e Marina, su poche signore attempate che mi lanciavano languidi sguardi di incoraggiamento.
Rimasi sorpreso dalla facilità con la quale superai lo scoglio delle prime prove e mi trovai, quasi senza accorgermene, alla finalissima con il temuto avversario che aveva scelto il nome d’arte di Attila.
Dopo un doppio zambaione rinforzato al rhum ed aver posto sulla testa un cappellino affrontai senza paura l’ultimo ostacolo, al suo cospetto mi accorsi che al di là della massa muscolare egli possedeva in un alito pestifero, la sua arma segreta.
Mi rivolsi a lui spavaldo, girando all’indietro la visiera alla Sylvester Stallone ed esclamai:”Ti torcerò il braccio”. Quindi gli piegai la mano e cercai di tenere la mia al di sopra. Resistetti al suo impeto disordinato per alcuni minuti, fino a quando, spompato fu alla mia mercé e cadde come una mela fracida.
L’applauso che salutò il mio trionfo fu interminabile, tutte le ragazzine che puntavano su di lui ora erano pazze per il mio successo, inclusa miss topless, incaricata di premiarmi, che oltre alla fascia mi gratificò con un bacio saporitissimo.
Per chi non credesse alle mie parole, oltre alle foto vi è un breve video della serata che si può consultare sul mio sito www.guidecampania.com/dellaragione


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Il pillolo soppianterà la pillola?
Periodicamente i mass media, a corto di scoperte scientifiche importanti, sulla base di articoli pubblicati su riviste internazionali più o meno autorevoli, strombazzano notizie che viceversa richiederebbero un’analisi più accurata prima di essere divulgate e date per certe. L’ultimo caso è costituito dal pillolo, un prodotto contraccettivo per l’uomo, il quale viene presentato come sicuro e privo di effetti collaterali.
Il farmaco consiste in un’iniezione periodica di testosterone che renderebbe infertili i soggetti a cui viene praticata durante il periodo di somministrazione, con la possibilità di ritornare fecondi poco tempo dopo l’interruzione del trattamento.
Il prodotto viene dalla Cina ed è comparso sulle pagine del Journal of clinical endocrinology and metabolism: si somministrano ciclicamente dosi di 500 milligrammi di testosterone, il quale blocca alcuni ormoni ipotalamici deputati alla produzione dello sperma.
Non si tratta di una novità, come riferito dalla stampa d’informazione, infatti da oltre trenta anni si sperimentano prodotti analoghi, che non sono mai arrivati nelle farmacie perché presentano numerosi effetti collaterali, tra i quali, il più imbarazzante, la diminuzione della libido, il pabulum indispensabile nel rapporto sessuale, senza considerare sicure interferenze sul sistema cardio vascolare, sulla funzionalità prostatica e sul comportamento.
Fino ad ora il peso della contraccezione, unica vera profilassi dell’aborto, è gravato completamente sulle spalle delle donne, ad eccezione del profilattico, fastidioso, del coito interrotto, poco sicuro e della vasectomia, irreversibile.
Ogni nuova scoperta nel campo degli anticoncezionali deve essere vista con interesse, ma non bisogna trascurare gli studi sui sistemi di sterilizzazione reversibile, sia maschile che femminile, i quali presentano numerosi vantaggi, sia economici che nei confronti della salute, evitando l’assunzione di farmaci per decenni.
In Italia purtroppo esiste un’antiquata legislazione restrittiva sul problema, ereditata dal codice Rocco, che impedisce qualsiasi sperimentazione. A tal proposito ricordo ancora le difficoltà legali che incontrai personalmente e l’ostracismo accademico, quando negli anni Settanta ideai e pubblicai una metodica di sterilizzazione femminile reversibile, basata sull’occlusione delle tube con una sostanza siliconata(Silastic) facilmente rimuovibile.


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Essere scrittore a Napoli dopo Gomorra
il crepuscolo delle coscienze


Napoli è stata per secoli una capitale europea, alla pari di Londra e di Parigi, con il vantaggio di essere posta sul Mediterraneo, una posizione centrale favorevole per gli scambi non solo commerciali, ma anche culturali; a differenza delle altre grandi città non ha però avuto celebri scrittori della statura di Balzac o Hugo o Dickens, che ne abbiano saputo raccontare la storia e le storie. Pochi i nomi che potremmo citare, come Mastriani o la Serao, ma parliamo sempre di narratori d’appendice che scrivevano in dialetto o si interessavano di problematiche prive di un respiro universale.
Il motivo di questa carenza va ricercato, oltre che nel carattere autoreferenziale che ha sempre caratterizzato la nostra cultura, nella circostanza, comune a tutte le società povere e con molti analfabeti, di utilizzare come principale forma espressiva il teatro e la musica popolare con le sue canzoni struggenti e malinconiche, vivaci ed appassionate.
Il cuore palpitante di Napoli ha trovato degni interpreti in Viviani, attento ai bisogni del sottoproletariato, che affollava i vicoli brulicanti di passioni e di umanità ed in Eduardo acuto osservatore della piccola borghesia con i suoi pregi ed i suoi difetti.
Tra gli scrittori del secolo scorso in grado di portare le vicende napoletane, per quanto squallide, all’attenzione di una platea internazionale, vi è il solo Curzio Malaparte, oggi in parte dimenticato, ma all’epoca in grado di incendiare il dibattito sulla città.
Dopo il successo planetario di Gomorra la letteratura napoletana, già povera di firme prestigiose, ha inseguito un solo tema: la camorra, con la segreta speranza, fomentata dagli stessi editori, di sfruttare l’effetto Saviano.
Abbiamo avuto un diluvio di pubblicazioni, tutte brutte copie dell’originale, dal libro della giornalista Capacchione a quello del pluriscortato giudice Cantone, oltre ai testi di Simone Di Meo, che rivendica alla sua penna di cronista interi brani di Gomorra.
Il risultato è stato un aumento di prestigio dei clan, dotati ora di una celebrità gratuita legata a libri, film e spettacoli teatrali.
Napoli ha un disperato bisogno di autori che sappiano raccontare una società in trasformazione dopo essere stata immobile per secoli, al punto da far pronunciare a Pasolini la celebre frase che “I Napoletani sono l’ultima tribù che lotta contro la modernità”.
Nessuno ha saputo raccontare le immense periferie, che sono cresciute come funghi e palpitano di mestieri e di piccoli commerci, di amori impossibili e di sogni infranti, di dolore e di ansia di vivere; nessuno ha saputo raccogliere e fare suo il grido di dolore che proviene dalla Napoli vera, che non compare mai sui giornali: quella dei disoccupati cronici, dei giovani senza futuro, dei pensionati alla fame, dei commercianti strangolati dal pizzo, dei lavoratori al nero per 500 euro al mese, la folla degli onesti costretti in un angolo dalla prepotenza dei vincitori; nessuno si interessa a far conoscere le antiche chiese cadere in rovina, gli abusi edilizi ubiquitari, l’esercizio spietato della prevaricazione dei burocrati come regola di vita.
Nessuna voce, né indigena né aliena, ha saputo captare quel coacervo di suoni, odori, sapori, sensazioni che promana potente come un afrore inebriante dai tanti immigrati, di colore o meno, che a decine di migliaia hanno sostituito i napoletani nel centro storico.
Aspettiamo ancora quell’intellettuale il quale, invece di limitarsi a descrivere, sappia spiegarci il perché in tanti quartieri della città vi sia un odio verso le forze dell’ordine, verso lo Stato e verso la legge, visti come carnefici, come persecutori, come custodi di norme incomprensibili. Come in così vasti settori della popolazione vi sia un’idea di aggregazione limitata a pochi isolati, a poche famiglie e non si riconoscano regole che non siano quelle dettate da secoli di ignoranza e di incuria pubblica e dove si perpetuano usanze tribali, portando inesorabilmente verso il degrado, la povertà e la subordinazione alla malavita, che a sua volta considera la polizia come un esercito straniero e le vittime degli scontri caduti in guerra.
Negli ultimi decenni la città si è dilatata in una periferia anonima, un mondo grigio di palazzi tutti eguali, abitati da centinaia di migliaia di persone che non si conosco più come nel vicolo, un popolo senza memoria storica e senza un ragionevole progetto per il futuro, costretto a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente.
Un universo che somiglia a tante periferie del sud del mondo con le stesse ansie e gli stessi problemi, ma che a Napoli non poteva non avere il suo lato comico nello stridente contrasto tra il nome altisonante di alcune strade e lo squallore che le circonda, indirizzi beffardi a Secondigliano per abitanti costretti a vivere gomito a gomito con la criminalità organizzata. La più grande piazza per lo spaccio della droga d’Europa che confina con Il posto delle fragole o Il giardino dei ciliegi, mentre le vedette della camorra si stagliano prepotenti in via La certosa di Parma o I racconti di Pietroburgo. A Ponticelli, altro Bronx invivibile, si passeggia in strade desolate che richiamano un lontanissimo mondo di favola da via Walt Disney a via Marilyn Monroe o viale Fratelli Grimm. Come se i nostri incauti amministratori avessero voluto affidare ad un’improbabile toponomastica il compito improbo di rendere quei luoghi inospitali, vivibili e civili.
Ed infine in questo disperato crepuscolo delle coscienze attendiamo un valido cantore di una borghesia malata e collusa e dell’intreccio inestricabile tra imprenditori voraci e politici corrotti, mentre magistratura ed opinione pubblica non si accorgono di nulla.


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La pratica del sesso nei disabili
Marianna, una puttana misericordiosa


La notizia comparsa su alcuni giornali di Marianna, una matura prostituta spagnola, che da anni si è dedicata a soddisfare i bisogni erotici dei disabili, creando scandalo e l’oscuramento del sito dove propagandava la sua attività, mi ha portato indietro nel tempo agli anni del mio corso di sessuologia tenuto all’università di Napoli per gli specializzandi in ginecologia nel quale mi interessai per primo in Italia dell’argomento, illustrando in alcune lezioni la necessità di non trascurare nei soggetti portatori di gravi handicap la pratica sessuale.
Il direttore dell’istituto ufficialmente mi invio una lettera di biasimo, ma in un colloquio privato mi disse di non tenerne alcun conto e di continuare senza problemi.
Anche a livello internazionale la letteratura sul tema era quasi inesistente e vi erano solo alcuni lavori basati unicamente sulla teoria.
Nel 1982 un olandese condannato alla sedia a rotelle fondò vicino Utrecht un ente di assistenza sessuale per disabili, negli anni successivi analoghe iniziative sorgeranno in Svizzera ed in Svezia, dove attualmente esiste a carico dello Stato un servizio condotto da assistenti, sia uomini che donne, i quali danno conforto ai disabili attraverso massaggi e giochi erotici.
Anche in Italia questa esigenza è molto sentita, come dimostra un recente sondaggio tenuto su un sito specializzato, che ha rivelato che otto disabili su dieci gradirebbero una sorta di assistenza sessuale.
Naturalmente si tratta di un argomento doppiamente tabù, perché di sesso, seriamente, è meglio non parlarne e lasciare che si esprima scompostamente in televisione o sui cartelloni pubblicitari, ugualmente qualsiasi problema del mondo degli handicap non trova ascolto sui mass media, che cercano di evitare tematiche poco accattivanti.
Tenuto conto di queste difficoltà l’unica speranza è legata all’iniziativa spontanea di qualche escort particolarmente sensibile la quale voglia, pur con un adeguato riconoscimento economico, specializzarsi in questo tipo di prestazioni, che richiedono molta pazienza e piena disponibilità.
Esprimere le proprie pulsioni più profonde, oltre che un’esigenza, possiede anche in molti casi una fondamentale funzione terapeutica, in particolare nei portatori di deficit psichici e la pratica del sesso o alcuni giochi erotici possono apportare considerevoli benefici


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Diario di una ninfomane
Giunge nelle sale, dopo un interminabile battage pubblicitario, il Diario di una ninfomane e possiamo affermare che alla fine la montagna partorì un topolino; infatti si tratta di un prodotto appena decente, al limite tra la denuncia pseudo femminista e le luci rosse.
Tratto dal best seller autobiografico della scrittrice francese, spagnola d’adozione, Valérie Tasso, la pellicola ripercorre le peripezie erotiche della protagonista, dalla deflorazione, avvenuta senza particolari emozioni a quindici anni, alla redenzione finale, che riscatta la storia, quando incontra un disabile alla ricerca di tenerezza e gli si dona con tutta la sua carica erotica e vitale, cercando disperatamente di sopperire alle menomazioni dello sfortunato cliente.
Tra l’inizio e la fine vi è una serie interminabile di nudi integrali del corpo esile dai seni appena accennati della debuttante Belén Fabra nei panni(si fa per dire) di Valérie, infiniti amplessi, per la gioia visiva dei voyeur, alcuni cunnilinctus, una originale fellatio subacquea ed una sodomizzazione alla pecorina, giusto per concludere.
Un prezioso cameo è offerto da Geraldine Chaplin, la nonna di Valérie, che consiglia alla nipote di tenere un diario delle sue esperienze sessuali e la invita a non perdersi alcuna occasione:”Approfitta della giovane età, tutto il lasciato è perso”, “Il matrimonio e la prostituzione sono la stessa cosa, nel primo la dai ad un solo uomo che ti paga per tutta la vita, nel secondo la dai a tanti che ti pagano volta per volta”. Una filosofia spicciola della quale fa tesoro l’intraprendente ed insaziabile fanciulla, che comincia a mettere ko schiere di giovani e focosi amanti, nessuno dei quali riesce a mantenere i suoi ritmi forsennati ed i suoi orgasmi a ripetizione. Si salva tra i tanti messi alle corde Hassan, un poderoso negro, iperdotato, che periodicamente viene a trovarla, naturalmente in senso biblico.
Incontrerà poi una miriade di uomini, tra i quali nevrotici, violenti e sado masochisti, fino a quando, perso più volte il lavoro, prima di impiegata poi di commessa, matura la decisione di prostituirsi, un po’ per infliggersi un’autopunizione, ma soprattutto per guadagnare, placando nello stesso tempo la sua irrefrenabile ninfomania. Si rivolge alla navigata maitress di una casa d’appuntamento alla page nel cuore di Barcellona e comincia la sua nuova esperienza, fino all’incontro con il disabile che la riscatterà, aprendole gli occhi sulle bellezze della vita per chi, come lei, ha la fortuna di essere sano.
Un finale inaspettato che riabilita il film e lo rende degno di essere visto.

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Quale mondo dopo la crisi?
Nessuno aveva previsto la tempesta finanziaria che si è abbattuta come una folgore sui mercati internazionali e nessuno ha la ricetta giusta per uscire dalla crisi, né i governi, né le banche centrali, nonostante previsioni contrastanti si accavallino: depressione, deflazione, cenni di ripresa. Il giocattolo con il quale si sono dilettati per anni i boss della finanza criminale si è rotto e certamente non si potrà riparare. Il signoraggio mascherato che si è praticato spudoratamente sulla pelle di centinaia di milioni di sprovveduti risparmiatori non potrà ripetersi.
L’aver creato per anni falsi bisogni, in omaggio al moloch insaziabile del consumismo, aver alimentato un indebitamento spropositato dei cittadini per comprare beni dei quali non avevano reale necessità, ha innestato un meccanismo perverso che non poteva non deflagrare con effetti disastrosi. La formula che si sta seguendo attualmente di curare il debito con un altro debito non porta da nessuna parte; i governi hanno nazionalizzato le banche, utilizzando un denaro che non possiedono ed hanno semplicemente trasformato un debito privato in un debito pubblico, ipotecando pericolosamente il futuro e con grave nocumento per i nostri figli e nipoti.
Dalle ceneri di un capitalismo sfrenato e senza regole dovrà necessariamente sorgere un mondo nuovo, tutti noi dobbiamo impegnarci che sia un mondo migliore, ci vorranno una ferrea volontà e la consapevolezza di essere gli artefici di una rivoluzione culturale che, dimenticando l’economia centralizzata di tipo sovietica, già fallita negli anni Ottanta e l’economia di mercato senza restrizioni e controlli, la quale sta crollando miseramente sotto i nostri occhi, sia in grado di creare un nuovo modello di sviluppo, rispettoso delle improcrastinabili esigenze ecologiche e dell’esaurimento delle risorse , capace di procurare benessere più che beni materiali e che cerchi di colmare le diseguaglianze di reddito tra i cittadini e tra i popoli.
La crisi potrà allora rappresentare un’opportunità per arginare i rischi mortali di una globalizzazione anarchica, che in breve avrebbe travolto la nostra ideologia basata sull’egoismo e sull’individualismo e messo in discussione la stessa democrazia, dimostratasi inadeguata a gestire il caos nelle transazioni internazionali di merci e denaro.
Il futuro del mondo è legato all’istaurarsi di un’economia mista, nella quale pubblico e privato sappiano convivere, ma fondamentale resta la necessità di un diritto ed un governo planetario, che garantisca una più equa ripartizione delle risorse. I mercati finanziari, globali per definizione, non possono resistere senza una normativa internazionale e senza uno Stato sovranazionale che la faccia rispettare.
Siamo al day after di una guerra nucleare che ha distrutto le nostre certezze, ma ha lasciato in piedi le fabbriche ed i vita i lavoratori, bisogna approfittare di questa circostanza ed impegnarsi, in primis politici ed intellettuali, a disegnare un mondo migliore, che superando la crisi garantisca benessere ed uguaglianza universali.


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Il sovrintendente Spinosa abdica?
L’annuncio, dato dallo stesso interessato, che Nicola Spinosa, lascia in anticipo il ponte di comando della sovrintendenza napoletana, dopo 25 anni fecondi di dittatura incontrastata ha sorpreso e nello stesso tempo deluso i napoletani.
Tutti attendevano, come più volte promesso, che Spinosa concludesse la sua formidabile carriera organizzando l’anno prossimo il revival di Civiltà del Seicento, una mostra che solo lui può realizzare, ottenendo con la sua autorità i necessari prestiti dai musei di tutto il mondo.
Profondo studioso, grande esperto del Seicento e soprattutto del Settecento napoletano, autore di decine di monografie, infinite introduzioni e presentazioni, dotato di una prosa ciceroniana ed accattivante, ma soprattutto indefesso organizzatore di mostre che a decine negli ultimi anni hanno tenuto alto il nome della città a livello internazionale, seguendo una luminosa tradizione inaugurata dal suo mitico predecessore, il compianto Raffaello Causa.
Spinosa ha sempre avuto un carattere burbero ed autoritario, ha sempre retto la sovrintendenza come un pontefice, un difetto che si trasforma in dote quando si tratta di organizzare un evento, coordinando il lavoro di decine di collaboratori.
Se non dovesse recedere dalla sua decisione Napoli si vedrà orbata di uno dei suoi figli migliori e continuerà il suo inarrestabile declino: dopo la chiusura di antiche librerie e di storici megacinema, la più grave delle perdite quella dei migliori cervelli.
Un solo auspicio, se si dovrà pensare alla successione, che il Ministero, non potendo scegliere nessuna delle sue valenti collaboratrici, prive della necessaria idoneità, sappia nominare una personalità esperta della pittura napoletana e che ami la città e le sue gloriose tradizioni.


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Passeggiando per antichi casini

Rimembrando le memorabili giornate di Monumenti porte aperte, numerose associazioni organizzano visite guidate, non solo alle testimonianze artistiche e storiche della città, ma anche all’immenso patrimonio culturale di tradizioni e leggende; in questa scia va collocata l’iniziativa di Insolitaguida, che si propone di far conoscere gli antichi casini napoletani attraverso un originale percorso che prevede, in 90 minuti, la scoperta di un mondo perverso ed affascinante, ricordato con struggente nostalgia da tutti i napoletani con i capelli bianchi, assidui frequentatori del peccato consentito dalle leggi dello Stato.
L’itinerario contempla una tappa in alcuni ambienti dello storico ritrovo di salita Sant’Anna di palazzo, dove si ascolteranno i racconti su alcuni prestatrici d’opera dell’epoca, da Anastasia a friulana a Nanninella a spagnola, famose per le loro prestazioni particolari che venivano incontro ai desideri inconfessabili dei clienti, né più, né meno delle meretrici di Pompei, che esponevano, con disegni inequivocabili le specialità della ditta.
Attualmente la vecchia casa di tolleranza La Suprema è stata trasformata nel Chiaja hotel de charme, con alcune stanze che portano ancora il nomignolo delle donne dispensatrici di lussurioso piacere.
Si passa poi al Monferrante, altra casa di tolleranza tra le più ambite della città, dove saranno narrati sfiziosi aneddoti e si parlerà delle regole e delle tariffe applicate nei bordelli partenopei.
Una differenza che verrà sottolineata è quella tra le case eleganti del quartiere Chiaja, frequentate da commercianti e professionisti e quelle, a buon mercato, dei vicini quartieri spagnoli dove i prezzi venivano incontro alle improcrastinabili esigenze del popolo.
Napoli è stata a lungo capitale della prostituzione sia maschile che femminile ed in passato si è dotata di leggi lungimiranti per confinare in alcune aree della città la pratica del più antico mestiere del mondo. In passato, come apprendiamo dalla Storia della prostituzione del Di Giacomo, vi erano luoghi, stabiliti dall'Autorità, dove travestiti e prostitute potevano liberamente esercitare...A lungo questa zona fu l'Imbrecciata, che si trovava nei pressi di Porta Capuana.
Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell'area vennero progressivamente localizzati tutti i postriboli partenopei. Infine, in un editto emanato nel 1781, l'Imbrecciata fu riconosciuta come l'unico quartiere dove era ammesso il meretricio. Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello d'accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni attività poco prima della mezzanotte. Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in altri quartieri. Nell'ambito di questo rione off limits vi era una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per l'appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri. L'utopia di creare un quartiere separato per la prostituzione è l'orientamento odierno di numerosi paesi del nord Europa dove, attraverso consuetudini e regolamenti, il sesso a pagamento viene limitato in quartieri a luci rosse,il colore della lanterna che serviva a segnalare le cortigiane napoletane, come raccontava nel 1785 Charles Dupaty nel suo Lettres sur l'Italie.
Dopo l’Unità d’Italia si cercò di porre un argine al dilagare delle malattie veneree aprendo i famosi casini, tenuti dallo Stato, che ne regolava l'attività e fissava le tariffe, dando poi l'appalto, come un qualsiasi genere di monopolio, ad un privato, la famigerata maitresse. Sul funzionamento di queste case abbiamo memorabili descrizioni di Francesco Mastriani nel suo celebre romanzo i Vermi, mentre la storica Lucia Valenzi compulsando gli archivi ha reperito le poche notizie documentarie che ci illuminano sulle terribili condizioni di vita delle puttane dell'epoca (una situazione che, purtroppo, ai nostri giorni ha subito un precipitoso peggioramento).
La provenienza delle ragazze di piacere era per metà cittadina, dai vicoli più bui e malfamati e per metà dai paesi del contado, dove spesso una fanciulla disonorata non aveva altra scelta che il bordello. Per lavorare bisognava iscriversi nei ruoli, ricevere una libretta ed entrare poi nel giro, che prevedeva un via vai in numerosi postriboli su e giù per l’Italia, cambiando luogo ogni sette, massimo quindici giorni. La prestazione delle ragazze veniva compensata con la famosa marchetta, un gettone forato al centro acquistato dalla maitresse e consegnato in camera prima del rapporto.
Erano previste tariffe particolari a tempo e la famosa doppia. Nel 1891 Giovanni Nicotera stabilì che dalle finestre non ci si potesse più mostrare, per cui le persiane chiuse divennero un contrassegno delle case chiuse.
I casini napoletani avevano fama di arredamenti sontuosi, dal velluto alla seta e trattamenti particolari; ne parlano entusiasti, non solo i viaggiatori del Grand Tour, ma anche intellettuali famosi nell’Ottocento e nel Novecento; meno entusiasta è invece la descrizione che traspare dall’inchiesta giornalistica di Jessie White Mario nel suo libro la Miseria di Napoli, una testimonianza cruda ed spietata.
La guerra con l’arrivo degli Americani, carichi di dollari e sigarette, fece esplodere il mercato aumentando l’offerta con le signorine che si vendevano per contrastare i morsi della fame; è la triste epoca delle tammurriate nere e del meretricio praticato in centinaia di bassi, magistralmente descritto da Malaparte nella Pelle. Poi cinquanta anni fa, febbraio 1958 entrava in vigore la legge Merlin e, pur con la lodevole intenzione di liberare le prostitute da un giogo secolare, non si faceva altro che gettarle in pasto ai lenoni, mentre gli Italiani, come sintetizzava magistralmente il film di Totò, erano costretti ad arrangiarsi. Per pochi bacchettoni, difensori della morale, fu una conquista civile di portata storica, per molti una inutile ipocrisia che renderà la prostituzione una giungla feroce senza igiene, senza regole, senza pietà.
A Napoli si ebbero giganteschi falò con i materassi dei casini pieni di ricordi e di pidocchi. Allora le prestatrici d'opera provenivano in gran parte dalla provincia e prevalevano, in un'Italia perbenista e bigotta che non esiste più, le sedotte ed abbandonate. Oggi siamo obbligati a confrontarci con un turpe ritorno allo schiavismo, gestito dalle mafie straniere, con punte di ferocia impensabili mezzo secolo fa.
Per chi volesse approfittare di queste visite guidate telefonare per la prenotazione al 338 9652288, per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di consultare su internet alcuni miei scritti: per la prostituzione maschile il mio saggio i Femminielli per l’atmosfera dei casini Nostalgia dei casini ed il Casino di Santa Chiara, per un quadro generale del fenomeno Breve storia della prostituzione a Napoli dal Cinquecento ai nostri giorni e per la situazione attuale un Esercito di puttane colorate nel regno dei casalesi.

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Generazione 1000 euro
Una incalzante denuncia del lavoro precario


Un film amaro condotto con sottile ironia da Massimo Venier, che si avvale di attori bravi nell’ interpretare le ansie, i desideri repressi, l’incertezza del futuro, il mal di vivere della generazione dei trentenni alle prese con il lavoro precario.
Una commedia all’italiana che rincorre una realtà complessa e la rappresenta semplificandola eccessivamente.
Un cameo gustoso è costituito dalla presenza di un improbabile cattedratico nei panni, debordanti, di Paolo Villaggio, che sembra uscito letteralmente da una pellicola di Frank Capra.
I personaggi che danno vita al racconto sono tutti laureati brillantemente e costretti ad adattarsi ad un lavoro spesso diverso da quello per il quale si erano preparati, ma soprattutto con contratti aleatori che possono interrompersi da un momento all’altro per il capriccio di un capoccia.
Il lavoro precario è una maledizione per i giovani, i quali non hanno più punti fermi che permettano di fare progetti per il futuro: formarsi una famiglia, fare dei figli, comprarsi una casa con un mutuo, godere un domani della pensione.
Anche il Papa ha fatto sentire la sua autorevole voce sul problema, ma purtroppo, più che lamentarsi del fenomeno, non è riuscito ad avanzare alcuna proposta risolutiva.
Molti credono che il lavoro precario sia una triste prerogativa dell’Italia, viceversa esso è una regola in tutti i paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti, dove la estrema mobilità del lavoro è considerata la ricetta dello sviluppo economico.
La scuola fino a quando il problema non avrà trovato una soluzione dovrà impegnarsi a fornire ai giovani una preparazione multidisciplinare, in previsione che, nel corso della vita, siano costretti più di una volta a cambiare completamente tipo di attività.
Lo Stato ed i sindacati devono impegnarsi ad elaborare e rispettare una legislazione che preveda la possibilità reale di licenziamento per giusta causa, allo scopo di sfatare il pregiudizio(in gran parte vero) che un datore di lavoro che assuma un dipendente lo debba assumere a vita. Bisogna convincersi che una strenua difesa del lavoro comporta una palpabile penalizzazione per chi lo cerca.
Gli economisti debbono spiegarci se la precarietà è una condizione favorevole dello sviluppo economico e prospettarci modelli alternativi, nei quali un maggiore rispetto dei diritti del lavoratore sia compatibile con un incremento della produzione.
I politici debbono recepire la gravità del problema e, coraggiosamente, proporre soluzioni anche contro i poteri forti, spesso sopranazionali e sempre onnipotenti. Il loro compito è il più gravoso e necessita di un grosso appoggio per evitare il senso di solitudine delle scelte decisive, in mancanza delle quali non esisterà un futuro, non solo per i giovani, ma per la nostra civiltà.


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La forza di una tradizione millenaria
I Fujenti una sorprendente contaminazione di riti arcaici


Per fare una sortita nel medioevo o ancora più indietro all’epoca della colonizzazione della Magna Grecia non è necessaria alcuna mirabolante macchina del tempo, basta recarsi il lunedì in Albis a Sant’Anastasia al santuario della Madonna dell’Arco ed assistere al rito dei Fujentes, una tradizione che sfida i secoli, un rito collettivo tra furore e superstizione, che sopravvive imperterrito alle sirene della modernizzazione.
A due passi dalle fabbriche di auto e di componenti aerospaziali per la Nasa, una moltitudine di pellegrini di tutte le età provenienti da ogni angolo della Campania accorre vestita di bianco, a piedi scalzi e sventolando variopinti stendardi tappezzati di banconote.
Una imprevedibile umanità che vive fuori dalla logica e dalla storia celebra ogni anno imperterrita un rito pasquale contaminato dalle antiche festività pagane, una resurrezione di Cristo, che si coniuga con il rifiorire della natura e delle messi.
Quasi duecentomila persone si mettono in moto all’alba e corrono per ore fino a raggiungere l’immagine della Madonna conservata nel celebre santuario, costruito sulle fondamenta di un antico tempio pagano, per sfruttarne imperscrutabili linee di forza, un segreto tenuto gelosamente celato dagli antichi costruttori.
Al canto di nenie mielose e ritmiche litanie, che ricordano la melopea fenice ed araba, ingagliardite da uno squassante rullio di tamburi, i pellegrini arrivano alla meta esausti, moltissimi in trance, alcuni strisciando con la lingua a terra, quindi, dopo l’adorazione, cominciano con rinnovato vigore la via del ritorno, intervallando il percorso con soste dedicate a vorticanti tarantelle ed estenuanti tammurriate.
Il rito è uno stupefacente fossile vivente di antichi culti praticati su lontane sponde di quello che fu il Mare nostrum, dalla Grecia al nord Africa, fino alla lontana Andalusia.
Dall’alba al tramonto è una marea incontenibile di arcaiche energie sopite che esplodono all’improvviso tra pianti, preghiere, implorazioni disperate e voci assordanti, che rimembrano il richiamo del muezzin e le tradizionali grida dei venditori ambulanti.
A questa folla dolente ed esaltata negli ultimi anni si sono affiancati migliaia di nuovi arrivati: filippini, polacchi, latino americani e tantissimi rom, a tangibile dimostrazione della capacità delle antiche tradizioni di calamitare sorprendentemente sempre nuovi devoti.
Questi originali pellegrini chiedono spesso una grazia alla Madonna e sono prodighi di ex voto, un fiume in piena conservato nella chiesa dal Cinquecento ad oggi. Spesso si richiede la fertilità, come reclamavano le fanciulle sterili che si affollavano ai piedi della dea Cibele o nei secoli successivi baciavano ardentemente il pesce di Nicolò, ma negli ultimi anni, segno dei tempi mutati, si implora sempre più spesso di liberarsi dal flagello della droga, una nuova esigenza testimoniata dalle numerose siringhe d’argento appese in bacheca tra gli ex voto, come se un sottile filo volesse collegare nell’immaginario popolare le austere Matres matutae, oggi visibili nel museo di Capua alle coraggiose madri dolorose presenti nelle squallide periferie dove la vita è lotta e molti vengono travolti.

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Truffa sul referendum


Gentile dottore,
la dimostrazione più lampante della deriva democratica nella quale sta rovinosamente precipitando l’Italia è la spavalderia con la quale il governo sta trattando la questione del referendum, arrivando nei giorni scorsi ad ipotizzare addirittura uno slittamento della consultazione all’anno prossimo.
Il timore che accorpare i quesiti referendari alle elezioni europee faccia raggiungere facilmente il quorum, induce a far slittare le date, con uno spreco di denaro pubblico scandaloso, ma la Lega ha minacciato una crisi e Berlusconi ha dovuto cedere.
I celoduristi sono giustamente preoccupati, perché una delle questioni sulle quali è chiamato ad esprimersi il corpo elettorale riguarda il premio di maggioranza, attualmente assegnato alla coalizione vincente, che verrebbe a premiare invece, in caso di vittoria dei si, il partito più votato.
Bossi diventerebbe inutile ed il suo potere verrebbe falcidiato, per cui il truce lombardo non vuole sentire ragioni.
E la volontà popolare, il desiderio dei cittadini di far sentire la propria voce? Argomenti futili che i partiti calpestano indecorosamente, certi dell’impunità.
Ma per quanto tempo ancora (parafrasando Cicerone) tutti noi permetteremo al sistema di funzionare in questo modo maldestro?


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Una festa di Carnevale indimenticabile
La tradizione del Carnevale risale ai tempi lontani della Serenissima, quando era famosa in tutta Europa, ma riprese in grande stile a partire dal 1980, quando riempì del suo eco il mondo intero.
Soltanto Venezia, una città senza futuro, può rivivere pienamente il passato, dove il bello è a diretto contatto con la fine. Dietro l’essere nel suo pieno fulgore c’è solo il fantasma della morte. Se le persone indossassero sempre maschere in un luogo che vive più di passato che di presente sarebbero il tragico specchio di essa.
Eppure Venezia la senti sotto pelle quando ne indossi il passato. Da quando celebrò lo Sposalizio col Mare sul regale Bucintoro, essa si legò ad un destino superiore e dai fasti splendori iniziò a decadere progressivamente. Alcuni dipinti ed affreschi ricordano nostalgicamente la sua maestà trascorsa: il Canaletto, il Guardi, il Bellotto, ne hanno magistralmente immortalato la bellezza. E niente è ridicolo, trasgressivo, impossibile nelle vie dove gli insetti ti pungono, o lungo i canali dove i topi galleggiano e i mendicanti, prima di morire, magari ubriachi, tendono ancora la mano perché sanno che la vita è generosa, mentre loro sono ormai sul triste ponte, dove la Signora vestita di nero con la falce in mano li attende.
Venezia a prima mattina è ancora un po’ dormiente, va svegliandosi gradualmente verso l’imbrunire come se nel tempo l’uomo “gaudens” l’avesse abituata al proprio ritmo circadiano. Dopo il crepuscolo incomincia a rianimarsi, ma soltanto a cena consumata le sue energie sono pronte e disponibili. Allora i vizi escono dalla prigione e si liberano in tutte le direzioni, dal gioco d’azzardo del Casinò alle cortigiane notturne, che hanno solo cambiato abitudini rispetto al passato, in cui famose ad ogni angolo erano le belle veneziane che desideravano il piacere e ad esso si offrivano. Le maschere diventano provocanti e la città rivela la sua indole più pagana che cristiana.
In passato partecipare alle favolose feste in maschera al Cipriani era un’impresa impegnativa, non solo per il costo del biglietto, proibitivo, per la necessità di indossare un costume in sintonia con il tema prescelto, ma soprattutto perché bisognava prenotarsi con un anno di anticipo.
Rammento nel 1984, quando per la prima volta decidemmo di trascorrere il Carnevale a Venezia e sentimmo parlare di queste feste favolose, la mia ricerca spasmodica per procurare gli inviti. La direzione alla mia richiesta sorrise perché i biglietti erano esauriti da mesi e potevo eventualmente acquistare quelli per il 1985. Era l’anno di un gemellaggio tra Venezia e Napoli e mi venne l’idea di telefonare a nome di un personaggio influente per ottenere in extremis la possibilità di partecipare ad uno dei veglioni in maschera.
Scelsi di spacciarmi per l’onorevole Gava e nel ristorante dove cenavamo assieme ai nostri amici Vittoria e Gino chiesi dove fosse il telefono(erano gli anni preistorici prima dell’invenzione dei cellulari). Il cameriere mi disse che non dovevo alzarmi perché avrebbe portato a tavola l’apparecchio ed infatti, munito di un interminabile filo, comparve un elegante telefono bianco. Imbarazzato per la presenza di tanti occasionali ascoltatori composi il numero e, fingendo prima la voce femminile di una segretaria, mi feci passare il direttore del Cipriani, al quale, qualificandomi per il vegliardo senatore, chiesi un paio di biglietti per una coppia di ospiti importanti ed influenti che desideravano, pagando regolarmente, ardentemente partecipare alla festa; non li avrei accompagnato perché molto stanco.
Il direttore si mise a disposizione, ma volle per forza fornire dei biglietti omaggio, che purtroppo non potetti utilizzare, timoroso, una volta scoperto di essere accusato di truffa, mentre se avessi potuto averli pagando non vi sarebbero stati problemi, dato che a Carnevale ogni scherzo vale. Vidi con malinconia la lancia con un impiegato con i biglietti dirigersi verso l’albergo che avevo indicato come dimora di questa coppia importante alla quale non si poteva dire di no.
Per l’anno successivo ci preparammo in tempo acquistando i biglietti con grande anticipo e preparando i travestimenti per le tre feste che avevano temi diversi: la prima, il venerdì, la lunga notte indiana Achille maragià, Elvira odalisca, la seconda, il sabato, il grande circo, io pagliaccio, la mia consorte domatrice, l’ultima, il martedì, di tendenza trasgressiva, prete e coniglietta; abbigliamento talare che adoperai anche per la serata di domenica quando ci recammo al casinò, dove all’ingresso volevano vietarmi di accedere, perché privo della cravatta; evidentemente avevano scambiato un luogo di vizio e perdizione per il Parlamento. Io indossavo una giacca rossa con il collo chiuso e non si vedeva che da sotto vi era l’abito da prete. Protestai vivacemente per il divieto che volevano impormi:” Giovanotto, ma cosa vuole, che indossi una cravatta sulla mia divisa?” Fu chiamato un dirigente che, per quanto meravigliato dal fatto che fossi in compagnia di due signore, giovani, belle e scollacciate, mi autorizzò ad entrare ed a sedermi ai tavoli da gioco. Feci prima un giro nei vari locali, alternandomi al braccio delle mie accompagnatrici, tenendole strette ed accarezzandole appassionatamente tra lo stupore generale. Mi sedetti poi ad un tavolo di roulette e cominciai a vincere una cifra considerevole. Il mio stato laicale fu scoperto soltanto quando, fatta una cospicua puntata sul 28 ed uscito il 29, bestemmiai vigorosamente le principali divinità delle religioni monoteiste.
Attirati dal fascino misterioso del Carnevale negli anni successivi ci recammo altre tre volte a Venezia negli anni Ottanta, naturalmente approfittando dell’occasione anche per visitare mostre e rivedere palazzi, musei, campi e campielli. Ed inoltre Tintoretto e le Procuratie Vecchie a Piazza San Marco così suggestive quando c’è il fenomeno delle acque alte, le quali si specchiano su quella ingannevole superficie che raddoppia in un fallace rimando all’infinito i portici e gli archi già così numerosi. Il richiamo delle attività culturali così intense a Venezia è poi cosa nota in ogni luogo: dal Festival del Cinema alle Biennali di Arte e di Architettura, dalle anteprime teatrali a tavole rotonde sugli argomenti più disparati, ma l’attrattiva irresistibile era sempre costituita da quelle feste magiche in maschera che si tenevano in uno degli alberghi più esclusivi del mondo: il Cipriani.
Nel 1995 Achille ed Elvira, memori delle favolose feste degli anni Ottanta alle quali avevano partecipato, decisero di ritornare a Venezia all’Hotel Cipriani per cercare di nuovo un’occasione di divertimento e di trasgressione. Compagni di baldoria Sonia e Diego, una coppia di amici di vecchia data, simpatica e soprattutto carica di denaro, perché il biglietto per la serata di gala nel principesco albergo costava un milione a persona.
In passato partecipare alle feste in maschera al Cipriani era un’impresa impegnativa, non solo per il costo del biglietto, proibitivo, per la necessità di indossare un costume in sintonia con il tema prescelto, ma soprattutto perché bisognava prenotarsi con un anno di anticipo.
Come era nella nostra consuetudine ci prenotammo per la famosa festa all’hotel Cipriani, che si svolgeva in una cornice di pubblico selezionato, per la maggior parte tutti clienti dell’albergo, oltremodo esclusivo.
Dopo una cena pantagruelica alla fine della serata era prevista la sfilata per la premiazione della maschera più bella. Quella sera annunciarono il premio anche per la maschera più divertente, anzi affermarono che poiché il Carnevale è soprattutto divertimento era stato previsto un premio record di dieci milioni. Io ero vestito da diavolo, un travestimento semplice basato su una calzamaglia rosso fuoco, che andava indossata direttamente sul corpo e che, facendo trasparire le forme anatomiche, non lasciava molto all’immaginazione, inoltre vi era una coda rigida che si poteva far ribaltare in avanti simulando ben altro organo.
Due graziose hostess dell’albergo in divisa rossa furono attirate dal colore del mio abito e, dopo avermi fornito il numero per la gara, mi invitarono a fare con loro un giro tra gli ospiti per procacciarmi voti a favore.
Passando tra i tavoli feci un po’ di moine alle signore, soprattutto a quelle di annata, che erano la maggioranza ed a molte feci toccare l’appendice caudale, promettendo in caso di voto positivo, una tastata ben più coriacea e dirompente ed eventuali nottate di fuoco; il tutto tra lo scrosciare di applausi entusiasti ed un’andatura ancheggiante, che rivaleggiava con quella leggendaria di Totò.
Dopo le 22 avvenne la premiazione, alla quale non pensavo oramai più, al punto che con alcuni amici incontrati alla festa, tra i quali Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, ci eravamo trasferiti su un terrazzo a discutere animatamente, in egual misura, di arte e di mondanità. Da lontano sentii più volte una voce che scandiva un numero e lo invitava sul palcoscenico, solo dopo vari richiami capii che si trattava del mio numero: avevo vinto il primo premio, una vera sorpresa perché al veglione erano presenti circa mille persone.
Non si trattava di un premio in vile danaro, ma del soggiorno gratuito di quattro giorni per una coppia da trascorrere nell’hotel Cipriani, dove per inciso una giornata a pensione completa costava un milione e mezzo a persona.
Decidemmo di trascorrere questi giorni di svago nel mese di ottobre e di nuovo compagni(per loro a pagamento) Sonia e Diego, i quali poi per uno sciopero degli aerei da Roma saltarono l’appuntamento.
Dovetti fare numerose telefonate per fissare la camera, perché l’albergo era quasi sempre esaurito. Naturalmente non segnalavo nel prenotarmi che saremmo stati ospiti a sbafo. Sonia, la nostra amica, voleva assolutamente una camera con vista sul canale, che per inciso era gravata da un supplemento di un milione al dì e questa preferenza rendeva ancor più difficile la disponibilità.
Appena giunti in albergo fummo accolti con tutti gli onori, che non scemarono quando io presentai il coupon che ci garantiva il soggiorno gratuito.
Preso possesso della suite mi accorsi che il balcone si affacciava sul canale, per cui, memore del salato supplemento, mi precipitai alla reception per rammentare la nostra posizione di non paganti, ma fui accolto da un malizioso sorriso.
Ci apprestavamo a valutare piacevolmente l’elasticità dei materassi, quando bussò alla porta ed una cameriera ci consegnò un gigantesco fascio di rose, Elvira credette per un attimo ad un mio cortese pensiero, ma la fantesca chiarì trattarsi di un benvenuto della direzione ai graditi ospiti.
Di nuovo a letto pronti a passare a vie di fatto e ad una memorabile tenzone amorosa, quando di nuovo il campanello ci interrompe: un valletto ci consegna una bottiglia di Moet Chandon con i complimenti del direttore.
Brindiamo al nostro soggiorno e fummo folgorati dalla certezza che quei giorni sarebbero stati un dolce e prezioso momento di grande amore, vissuto tra rose, champagne e serenate col violino serali.
Elvira provava nel momento in cui si allontanava dai rumori del clima carnascialesco, una sensazione drammatica di coesistenza tra il sublime e la negazione di esso, come un trancio improvviso. Nella patria della Serenissima la vita s’immergeva sensuale nel vortice delle passioni tumultuose, dalle quali con fatica risorgeva all’alba, dimentica dei piaceri notturni, ma forse con una invisibile ferita in più sul volto, profondamente segnato dall’insieme di esse.
E le nebbie, che di giorno accompagnavano stancamente i passanti non ancora ben desti, i quali risentivano ancora dei bagordi trascorsi nella notte, chiudevano in alto un mondo senza schiarite di orizzonti futuri.
Era il mal di Venezia che prende gli uomini, li contagia e li isola nella laguna morente, che grida la sua fine mentre il mondo la ignora. E se partono, fatalmente ritornano perché l’attrazione può essere come la morte che sa aspettare ma prima o poi esige lo scotto da pagare.
Elvira dormiva poco a Venezia, lasciava Achille ancora a letto e lievemente stordita per la mancanza di sonno, ma spinta dal desiderio di non perdersi il risveglio lento e pigro della città, si dirigeva verso piazza San Marco al Caffè Florian, dove nel torpore di ogni mattina, oltre alla pausa per la cosa con la curiosità di un obiettivo fotografico alla ricerca di segreti custoditi gelosamente da chi per l’amore di quella città si era trasformato in una sua cariatide. Tali apparivano ad Elvira alcuni strani personaggi seduti dietro la vetrata Art Dèco con lo sguardo fisso nel vuoto e il cuore stretto pateticamente nella loro solitudine. Anche lei si sedeva non solo per capire ma per assaporare l’atmosfera che le piaceva. Ordinava l’Irish Coffee, che secondo lei i barman preparavano in modo divino, scorreva qua e là le notizie del quotidiano e poi rientrava in albergo.
In seguito non le piacque più Venezia quando il Carnevale si volgarizzò, anche quel palpito vitale si spense. Le sarebbero mancate le maschere, quei volti non umani, espressioni grottesche e seriose, sculture drammatiche, immagini evocanti un passato che non le apparteneva, ma le piaceva perché aveva un’anima che esprimeva la gioia di vivere. Ricordava quando improvvisamente sbucavano dal nulla, imponendosi al suo sguardo e alla sua riflessione, oppure, quando imboccava la penombra di un sottoportego e all’uscita la luce le faceva notare la presenza angosciante di un essere umano, che portava a spasso una butta sul suo volto: un “memento mori” e subito dopo magari incrociava la maschera radiosa del sole, un disco dorato e paffuto sulle guance con tanti raggi intorno: miraggio ambiguo della nostra interiorità.
Purtroppo quel soggiorno a Venezia per noi è stato l’ultimo, ma fin quando c’è vita c’è speranza.
Achille della Ragione – Elvira Brunetti

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La finanza vola mentre l’economia arranca
I ricchi godono ed i poveri piangono


Una situazione paradossale venutasi a creare in questi ultimi tempi è costituita dal fatto che, mentre banchieri e finanzieri hanno ricominciato a guadagnare copiosamente ed i titoli in borsa sono tornati a volare, l’economia reale arranca, la disoccupazione cresce e, nonostante l’incauto ottimismo del governo, i cittadini non vedono la fine della crisi, anzi temono che il peggio debba ancora venire.
La considerazione più amara è che i soldi che stanno ingrassando le banche di tutto il mondo sono soldi nostri, carpiti dalle nostre tasche con la scusa che bisognava salvare dal fallimento il sistema creditizio, altrimenti non vi era che attendere l’apocalisse.
I governi di tutti i paesi occidentali hanno elargito cifre smisurate alle banche, aumentando oltre ogni limite il debito pubblico ed ipotecando il futuro delle nuove generazioni. Inoltre hanno abbassato il costo del denaro, favorendo spericolate speculazioni da parte dei soliti squali della finanza internazionale, i quali, da un lato lesinano il prestito al sistema industriale, dall’altro si impegolano in spericolati acquisti di obbligazioni asiatiche, da vendere a breve, realizzando colossali plusvalenze.
Nessuno crede alla favola che gli istituti di credito siano pronti a prestare denaro alle aziende meritevoli di fiducia, il loro interesse è lucrare su operazioni di ingegneria finanziaria senza alcun addentellato con la produzione di beni e servizi.
Alla smisurata liquidità ed al basso costo del denaro, praticamente zero, si è aggiunta l’accentuata debolezza del dollaro, all’origine dell’impennata della quotazione del dollaro e delle materie prime, senza che i mercati siano in grado di trovare delle regole che non siano quelle della giungla e così gli Stati Uniti stanno creando una nuova gigantesca bolla finanziaria, che prima o poi deflagrerà, travolgendo quel poco che resta della nostra disastrata economia.


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Garbata replica


Gentile direttore,
Le chiedo, non per polemizzare ma per una doverosa precisazione, di poter replicare brevemente al commento sul mio intervento a favore del metodo Karman pubblicato ieri da parte di un anonimo lettore, rifugiatosi sotto la sigla di un’improbabile associazione.
Davo per scontato che l’interruzione volontaria di gravidanza prevista da una legge, confermata da ben due referendum, fosse un diritto della donna e non desideravo assolutamente entrare nel merito di un’annosa diatriba tra laici e cattolici. Intendevo unicamente, da addetto al settore, da trenta e più anni in prima linea sul problema dell’aborto e non nella comoda retroguardia dalla quale incessantemente pontificano giornalisti e politici e dopo aver pagato un prezzo altissimo per questa mia scelta, fornire una serie di informazioni tecniche sia ai lettori che agli stessi specialisti, che ignorano i benefici della metodica.
L’anonimo lettore vuole viceversa terrorizzare le donne con immagini raccapriccianti e con dati statistici falsi e vorrebbe che esse tornassero ad abortire dalle mammane con la sonda o con l’antiquato raschiamento, pur di non banalizzare una scelta sempre difficile e dolorosa.

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Proverbi napoletani di latina origine
4000 modi di dire comparati tra vernacolo e lingua di Cicerone


Il napoletano è una lingua, non un dialetto, con la sua grammatica e la sua letteratura, ma come tutti gli idiomi ha debiti verso le parlate precedenti, principalmente il latino, come dimostra con molteplici esempi Roberto Vigliotti, autore di una colta raccolta di proverbi napoletani, per ognuno dei quali corrisponde un’antica dizione nella nobile lingua di Cesare e di Cicerone.
Vigliotti è un ingegnere edile in pensione, da sempre appassionato di Napoli e delle sue tradizioni linguistiche, coltivate sin da ragazzo, il quale, dopo aver preso appunti per una vita, ha dato alle stampe in questi giorni un volume di ben 750 pagine, una vera e propria summa sull’argomento: Antique sententiae nun falliscene maje con prefazione di Renato De Falco, l’avvocato a tutti noto come la Cassazione del dialetto napoletano.
L’autore nella prefazione spiega come la lingua napoletana non sia altro che il volgare latino della regione, come il toscano per la Toscana, al quale si sono poi sovrapposte le parlate degli invasori. Una vera novità, infatti basta sfogliare qualsiasi vocabolario etimologico del nostro vernacolo per constatare come per la maggior parte delle parole sia stata ipotizzata una radice spagnola o francese. Nessuno studioso era fino ad oggi andato così a ritroso nel tempo alla ricerca delle nostre origini linguistiche.
Il libro, nonostante le rispettabili dimensioni, è di facile consultazione: parte da una storia del proverbio dall’antichità ad oggi, e poi divide in 16 capitoli per argomento(canzoni, donna, famiglia, religione, sentimenti) i 4000 proverbi e modi di dire napoletani, per ognuno dei quali recupera l’etimo latino.
Molto divertenti gli esempi citati, alcuni addirittura risalgono alla Bibbia come ” qui parcit virgae, odit filium suum”, che in napoletano recita” chi se sparagna ‘a mazza, nun vò bbene ‘e figlie” ; chi non educa i figli non vuole il loro bene oppure “A àceno a àceno s’appara ‘a macena” un detto derivato da “ multae guttae implent flumen” che in italiano vuole ammonire che le cose importanti si fanno con pazienza, una virtù sconosciuta ai giovani di oggi.
Sorprendenti i collegamenti con Totò, che nella sua celebre canzone Malafemmena diceva ”te voglio bene e t’odio” come Catullo diceva della sua Lesbia “odi et amo” ed addirittura il concetto espresso nella sua più famosa poesia “a morte è ‘na livella”, già espresso dal poeta Claudiano due millenni prima nel De raptu Proserpinae “omnia mors aequat”.
Un libro che non deve mancare nella biblioteca degli appassionati delle tradizioni napoletani e che deve ammonirci a conservare il nostro passato e i nostri dialetti, anche se tutti dobbiamo oramai parlare la stessa lingua, con buona pace di Bossi e dei suoi scriteriati colonnelli.

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Un poco noto primato napoletano

Napoli, soprattutto sotto i tanto bistrattati Borbone, è stata in primo piano con importanti innovazioni nel campo industriale e scientifico; tra i tanti primati ricordiamo la prima ferrovia italiana (seconda nel mondo) la Napoli Portici, inaugurata nel 1839. Il Seicento viene viceversa ricordato come un secolo buio, segnato da una crisi economica strisciante e da precarie condizioni di vita per la numerosa popolazione, che faceva di Napoli, con circa 400.000 abitanti, la seconda metropoli europea dopo Parigi.
Un libro di Daniele Casanova: Fluent ad eum omnes gentes. Il Monte delle Sette opere della Misericordia nella Napoli del Seicento ci illumina su un aspetto poco noto della benemerita istituzione, celebre per aver commissionato a Caravaggio la superba pala d’altare illustrante le Sette opere della Misericordia, una tela che diffonderà tra gli artisti partenopei un nuovo messaggio pittorico, che diverrà verbo e condizionerà positivamente gli sviluppi del secolo d’oro della pittura all’ombra del Vesuvio.
In quegli anni tutta l’Europa conosce, alle soglie della modernità, i morsi della fame e la miserevole condizione della povertà, per un cospicuo incremento della popolazione e per un lungo periodo di stasi nella produzione agricola ed industriale.
La pauperizzazione, un termine caro agli studiosi del fenomeno, mette a nudo diseguaglianze sociali ed anacronistici privilegi ed impone un programma di assistenza da parte dello Stato verso le legioni di nuovi poveri.(Una situazione di imbarazzante attualità che vede oggi ghermiti dalla crisi finanziaria mondiale sempre più persone, abituate ad una vita dignitosa, verso il baratro della più opprimente povertà).
Nella Napoli alle soglie del Seicento lo Stato è lontano e sordo alle esigenze dei cittadini, essendo la gloriosa capitale un vice regno, amministrato dagli spagnoli unicamente con l’obiettivo di trarne risorse per la loro politica imperiale. Necessita perciò un’azione vicaria da parte della nobiltà e dei ricchi, basata su un imperativo etico che i napoletani non lasciano inascoltato. Sorgono perciò, già nel Cinquecento, numerose istituzioni caritatevoli che si propongono di aiutare i più bisognosi, prestando denaro su pegno, i tanti Banchi che confluiranno poi nel Banco di Napoli o i Pellegrini, che ospitano e curano tutti coloro che si spostano verso Roma ed altri luoghi di fede ed anche in campo sanitario con gli Incurabili sorgerà un ospedale efficiente invidiato per secoli anche all’estero.
L’autore, attraverso l’esame di numerosi documenti conservati nell’archivio del Pio Monte, ha dimostrato che, a fianco all’attività caritatevole, nel tempo, la famosa istituzione, che ancora oggi esercita le sue funzioni, ha praticato il credito derivante dalle numerose donazioni in maniera discreta quanto efficiente, al punto da identificarsi con un vero e proprio istituto finanziario.
Un’amministrazione scrupolosa di investimenti, prestiti e gestione del patrimonio, che ha creato un virtuoso intreccio tra carità e finanza, a dimostrazione di un dinamismo imprenditoriale, come sottolinea Aurelio Musi nell’introduzione, in contrasto con l’immagine stereotipata di un meridione immobile economicamente durante il Seicento, mentre il sud e la sua capitale decadevano sempre più.
Dai numerosi libri dei conti, come in campo artistico dal capolavoro di Caravaggio, ci rimbalza la scoperta piacevole di una città che seppe accettare le sfide della modernità e seppe porsi, ieri più di oggi, tra le più importanti città europee.

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La bellezza è necessaria?

La bellezza della quale vogliamo parlare non è quella più o meno ideale dell’arte, bensì quella ordinaria che regola, attraverso il gusto più o meno variabile nel tempo, i rapporti interpersonali.
La natura, con la sua proverbiale saggezza, ha posto nell’istinto sessuale il motore per perpetuare le specie animali, incluso l’uomo, ma alla base dell’attrazione ha posto delle condizioni completamente stravolte dall’avvento della società e della cultura, che si manifesta con parametri del tutto diversi da quelli previsti.
La prima rivoluzione che ha mutato la scena della seduzione è stata l’uso dei vestiti ed in seguito l’abolizione, attraverso la diffusione dell’igiene personale, degli odori, che in passato rivestivano un ruolo fondamentale nel formarsi della coppia, anche se solo per l’espletamento della copula.
I ferormoni, che rimangono decisivi nell’accoppiamento tra gli animali, nella nostra specie sono trascurabili e addirittura le zone encefaliche specializzate alla percezione olfattiva(rinocefalo) nell’uomo hanno subito una significativa riduzione.
Anche la funzione visiva, che abbracciava l’intero corpo del potenziale partner, incluso i genitali, è mortificata dagli abiti, i quali non permettono di valutare quei segnali che costituivano una bussola necessaria per indirizzare le pulsioni sessuali nel momento più favorevole alla fecondazione.
L’attenzione viene oggi posta principalmente sul volto(quando non è coperto da veli più o meno opprimenti, come è raccomandato da alcune confessioni religiose) e rivestono meno importanza tutta una serie di fattori, dalla massa adiposa alla procacità delle mammelle, che rappresentavano in passato un indice, anche se grossolano, di fecondità e di capacità di allattare la prole.
Gli uomini cercano nella donna principalmente la giovinezza, ubbidendo ad un imperativo genetico che condiziona le loro scelte a favore di una maggiore probabilità riproduttiva, ma sono particolarmente attratti dalla bellezza di un viso e trascurano una fanciulla, per loro brutta, anche se in possesso di uguali capacità procreative.
Essi non conoscono quale carica d’amore si nasconda nelle donne brutte, che ansia di dedizione, che riconoscenza anche per una sola parola pietosamente galante, per un gesto gentile. Ma loro guardano, affascinati, gli occhi e il nasino, il seno e le gambe delle donne belle e si schiantano per avere i brandelli di un cuore che tanti altri, prima di loro, si sono divisi. Le donne brutte, intanto, sfioriscono, con il cuore gonfio e intatto.
Un altro fattore precipuo della nostra specie, che in parte condiziona l’attrazione tra maschio e femmina, è costituito dall’innamoramento e dall’amore, un’emozione sconosciuta agli animali, un gioco capriccioso dei sensi, un malanno contagioso che ci penetra all’improvviso, nel momento meno prevedibile e può darci una febbricola di pochi giorni o un morbo incurabile.
Le regole dell’amore sono spesso diverse da quelle dell’attrazione ed a volte, soprattutto per le donne, basta un particolare insignificante per far scoccare a Cupido la sua freccia fatale: degli occhi malinconici, un sorriso radioso, dei capelli precocemente brizzolati, delle mani particolarmente curate, perfino un volto brutto, ma interessante.
Per quanto la bellezza che presiede al formarsi della coppia risponda a criteri quanto mai soggettivi, per motivi di selezione naturale, poiché tutti, gli uomini ma anche le donne, cercano un partner con caratteri piacevoli, potremmo sperare nella predominanza sempre maggiore della bellezza nelle nuove generazioni, fino a quando la bruttezza diverrà uno spiacevole ricordo del passato, di un medioevo dalle regole feroci, il quale, purtroppo, rappresenta il nostro presente che siamo costretti ogni giorno a vivere e che per molti rappresenta sofferenza ed esclusione.

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Bentornato bigliettaio


Gentile dottore,
si potrebbero creare immediatamente diverse migliaia di posti di lavoro se, con una leggina, si obbligassero le società che gestiscono i trasporti urbani a ripristinare la antica figura del bigliettaio. I vantaggi sarebbero molteplici ed i costi completamente coperti dal recupero delle somme evase dai portoghesi che viaggiano a sbafo, divenuti falangi, come può accertarsi chiunque abitualmente adopera mezzi pubblici.
Si risparmierebbero anche le percentuali erogate a tabaccai e giornalai dove abitualmente si è costretti ad acquistare i biglietti, spesso incontrando difficoltà se si viaggia di domenica o nelle ore serali, ma principalmente aumenterebbe la sicurezza a bordo, divenuta negli ultimi tempi alquanto precaria.
Alcuni comuni, tra cui Roma, hanno previsto su alcune linee molto frequentate di dotare le vetture di un addetto ai biglietti ed al controllo dei passeggeri, segno evidente che si comincia ad avvertire la impellente necessità di tornare all’antico.

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Il Tempio della memoria
Finalmente apre a Roma il museo dell’emigrazione italiana


Finalmente, dopo tanti progetti accantonati e tante promesse non mantenute, apre a Roma nel complesso del Vittoriano il museo nazionale dell’emigrazione, a testimoniare un esodo doloroso durato oltre un secolo di 29 milioni di Italiani, dei quali meno di un terzo è ritornato in patria e che in alcuni momenti, per le dimensioni macroscopiche del flusso e per le condizioni disumane con le quali è avvenuto, si è configurato come un vero e proprio genocidio.
Visitarlo è importante per meditare sulla circostanza, sottolineata ieri dal Presidente Napolitano all’inaugurazione, che l’Italia è un paese di emigrazione prima che di immigrazione. Questo magmatico fenomeno, segnato da infinite vicissitudini, ha trovato ora un luogo concreto, dal pregnante valore simbolico, dove possa essere raccontato alle nuove generazioni, che sono invitate a conoscere il nostro passato per sapersi adeguatamente comportarsi oggi, che siamo divenuti un paese in grado di offrire lavoro e benessere ad altre popolazioni.
Il percorso espositivo si avvale delle più avanzate tecnologie in campo di comunicazione audio visiva e tecnologia virtuale ed è suddiviso in cinque sezioni, che coprono diversi periodi storici dal periodo pre unitario ai nostri giorni.
Le antiche emigrazioni, quando l’Italia era costituita da una miriade di piccoli stati, rappresenta una interessante sorpresa anche per chi ha già letto e studiato l’argomento e le mete erano rappresentate principalmente dalla Francia e dalla Germania.
Dal 1861 al 1915 cominciano i giganteschi esodi verso l’America ed il centro Europa, è l’epoca eroica dell’emigrazione, durante la quale si sono spostati un numero considerevole di Italiani, spesso accompagnati dalla propria famiglia.
Viene poi esaminato il periodo tra le due guerre mondiali, in rapporto al fascismo, al colonialismo ed alle migrazioni interne, tenuto conto che con la grande depressione del 1929 negli Stati Uniti furono varate norme restrittive.
Segue poi l’esame dei flussi nel secondo dopo guerra, quando il miracolo economico provocò, oltre a ondate migratorie verso l’estero, anche un epocale spostamento di popolazione da sud a nord.
Infine l’attuale realtà della presenza italiana all’estero, fatta da quattro milioni di unità, caratterizzata da un’elevata qualificazione: cervelli pregiati ed imprenditori.
Questo cammino nel dolore di un popolo costretto a trovare lontano dalla patria i mezzi per sopravvivere è corredato da tabelle esplicative, fotografie, documenti, giornali, manifesti, video, film storici, oggetti caratteristici, vecchie cartoline, valigie di cartone ed altri cimeli di famiglia. In alcuni punti è possibile ascoltare antiche canzoni o vedere piccoli quanto rari filmati dell’istituto luce.
Vi è poi una ricca biblioteca specializzata con oltre 500 testi sul’emigrazione utile per studenti e studiosi desiderosi di approfondire l’argomento ed una sala dove è possibile assistere ad un documentario di un’ora con interviste a dieci celebri registi da Salvatores a Squitieri, da Montaldo a Crialese, che si sono interessati al problema intervallate da brani dei loro film.
Non manca un settore dedicato a coloro che oggi cercano fortuna e lavoro in Italia con 60 foto che ci rammentano come il dramma dell’emigrazione non cambia con il tempo: i raccoglitori di pomodori nel foggiano o gli anonimi vu cumprà che affollano le strade ed i mercati delle nostre città.
Le immagini più commoventi sono però quelle che si riferiscono alle vicissitudini dei nostri antenati, quando per la penisola giravano 30.000 procacciatori di carne umana, che organizzavano questi viaggi oltre oceano, con modalità che ricalcano quelle dei moderni negrieri, utilizzando piroscafi vecchi di decenni, stipati fino al doppio della capienza ed in assenza di qualunque presidio igienico sanitario.
Vengono rammentati alcuni episodi dimenticati come il naufragio nel 1891 davanti al porto di Gibilterra della nave Utopia con la morte dei 576 passeggeri tutti meridionali o il caso della Matteo Brazzo, che nel 1884 fu accolta a cannonate nel porto di Montevideo, perché a bordo vi erano alcuni ammalati di colera.
Paradigmatico che il Brasile divenne meta dei nostri emigranti dopo il 1888, quando venne abolita la schiavitù e vi era necessità di nuovi schiavi.
Le partenze nei primi decenni dopo l’Unità avvenivano prevalentemente dal porto di Genova, perché le regioni più interessate al fenomeno erano, oltre al Veneto, anche il Piemonte e la Lombardia, quasi a sfatare definitivamente l’immagine stereotipata di un nord ricco che aveva civilizzato il sud. Quando poi la questione meridionale scoppiò in tutta la sua gravità e venne affrontata con metodi militari, cominciò l’esodo delle popolazioni meridionali e fu da Napoli che cominciarono a partire i famigerati bastimenti carichi di un’umanità dolente, carica di disperazione e di nostalgia, di ansia di riscatto e di antica dignità, anche se questa realtà trova difficoltà ad essere documentata con precisione per un incendio che anni fa ha distrutto gli archivi del porto napoletano.
Nell’immaginario popolare più corrente il binomio emigrante - meridionale, divenuto quasi un termine equivalente, risale a quegli anni dolorosi ed ha avuto poi un rinforzo quando nel secondo dopoguerra è avvenuto un esodo di dimensioni bibliche dal sud, sempre più povero, verso il nord divenuto ricco.
Questo splendido museo, che anticipa le celebrazioni per i 150 dell’Unità d’Italia, dovrebbe essere clonato e divenire itinerante, affinché tutti i cittadini possano visitarlo e soprattutto gli alunni di tutte le scuole, spesso accompagnati ad inutili mostre di arte contemporanea, mentre rimangono ignoranti di questa sofferta quanto interminabile parentesi del nostro passato.

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Vergogna Marrazzo


Gentile direttore,
speriamo che dopo che la squallida vicenda del presidente della regione Lazio Marrazzo è venuta alla luce in tutta la sua miserevole completezza cesseranno gli attacchi da parte della sinistra alla vita privata di Berlusconi. Alcuni giornali comincino a vedere la trave nei loro occhi: il seguito dell’episodio riguardante Sircana, ammogliato e braccio destro di Prodi, mai destituito, anche dopo essere stato fotografato in compagnia di robusti transessuali prezzolati.
E non meravigliamoci poi che gran parte degli Italiani nel loro inconscio continuino ad identificarsi con il prode Silvio, sciupa femmine attempato e non con un pervertito che cerca il soddisfacimento dei sensi tra le braccia di un transessuale.

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Il napoletano è una lingua, non un dialetto
Nei giorni scorsi un europarlamentare napoletano, Enzo Rivellini, ha pronunciato un discorso a Strasburgo in perfetto vernacolo, scatenando il panico tra gli interpreti e lo stupore dei colleghi. Intervistato dalla stampa internazionale candidamente ha affermato che il napoletano non può essere assolutamente considerato un dialetto, bensì una lingua a tutti gli effetti, con la sua grammatica e la sua letteratura ed, aggiungeremo noi, con un suo patrimonio canoro conosciuto ed apprezzato in tutto il mondo, grazie ad alcuni celebri ambasciatori, tra i quali, negli ultimi anni, il compianto Pavarotti.
La parlata di Basile, di Viviani, di Eduardo non è certo sottocultura, perché essa è stata definita nei secoli da Vico ”lingua filosofica”, da Galiani ”il volgare illustre d’Italia degno degli ingegni più vivaci”, da Croce “gran parte dell’anima nostra” senza parlare della poesia animata da vivacità e fantasia, passione ed amore, in grado di essere intesa anche da chi non ne riconosce correttamente le parole.
Sarebbe quanto mai opportuno che a Napoli finalmente si pensasse ad un museo della canzone partenopea, il quale, con gli opportuni ausili audio visivi, riesca a preservare per le future generazioni un patrimonio inestimabile da Bovio e Caruso a Di Giacomo, Viviani, Murolo, Bruni, fino a Pino Daniele e gli Almamegretta.
Ed in attesa che le istituzioni si muovano, tutti possono godere di un ottimo spettacolo “Novecento napoletano” che girerà i teatri di tutta Italia.
Esso ricapitola, con rigore filologico in tre ore di musica, la ricca tradizione della canzone popolare napoletana, la cui produzione raggiunse l’apice nella seconda metà dell’Ottocento, per decadere tristemente con la seconda guerra mondiale.
Di fronte allo spettatore si apre una messinscena complessa con oltre cinquanta interpreti ed una sontuosa coreografia ricostruita grazie alle opere di artisti come Scoppetta, Matania e Dal Bono.
Il musical debuttò al Politeama nel 1992 e per anni ha incantato le platee di Tokyo, Parigi e Buenos Aires.
L’insieme di emozioni, atmosfere, ricordi, poesia diventa repertorio popolare di una napoletanità autentica e rituale e ci permette di apprezzare la festa di Piedigrotta, le folli corse dei fuientes, la forza espressiva della sceneggiata, le figure mai dimenticate del pazzariello e dei posteggiatori e soprattutto il dramma dell’emigrazione, che in alcuni decenni ebbe la dimensione di un vero e proprio genocidio dimenticato, con milioni di uomini e donne che partivano dal porto di Napoli con i famigerati bastimenti, carichi di disperazione e di nostalgia, di ansia di riscatto e di antica dignità.


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L’epicedio del Banco di Napoli
Cronaca dettagliata di una criminale spoliazione


Scrivere sull’epicedio del Banco di Napoli, su quella vergognosa operazione di spoliazione del più antico istituto di credito del mondo da parte di una politica dominata dalle ragioni del nord e da un apparato burocratico servo dei diktat del Tesoro e della Banca d’Italia non è stato facile per me, nonostante provenga da una famiglia che da generazioni ha servito onorevolmente nel Banco: mio fratello, già direttore ed oggi pensionato, ma ancora con entusiasmo attivo nel sindacato e nella stesura del battagliero periodico Senatus, mio padre, all’epoca vice direttore della sezione di credito industriale, mio nonno, impiegato e prematuramente scomparso durante l’epidemia di spagnola nel 1918. E senza salire oltre nell’albero genealogico ho respirato da ragazzo quell’atmosfera di rispetto che circondava il dipendente del Banco di Napoli, forte di stipendi lauti e delle sue quindici mensilità. Una situazione sociale distante anni luce dall’approssimazione e dalla sciatteria che contraddistinguono oggi i rapporti con la clientela.
Della crisi del Banco avevo poi due personali esperienze da cui partire: la perdita secca del 100% del capitale(44 milioni) investito in azioni dell’Istituto, l’unica volta che, consigliato dal mio germano, avevo giocato in borsa e la conoscenza di una paradossale gestione di un debito di quasi cento miliardi verso la banca da parte di un mio amico rampante finanziere, il quale, insolvente, ha continuato per decenni(forse ancora oggi) a percepire i fitti su circa cinquecento immobili dati in garanzia e sottoposti a sequestro.
A squarciare il velo sull’assordante silenzio che ha coperto l’operazione è giunto fortunatamente in libreria un volume scritto, con competenza e precisione, da Emilio Esposito, docente universitario e Antonio Falconio, già direttore centrale, i quali hanno documentato le tappe dello smantellamento del sistema bancario meridionale ed in particolare del Banco di Napoli.
Il volume contiene anche quattro dotte presentazioni da parte del rettore Guido Trombetti, del presidente della Fondazione Banco di Napoli Adriano Giannola, del presidente dell’attuale Banco di Napoli Spa Enzo Giustino e del direttore del quotidiano economico Il Denaro Alfonso Ruffo, i quali, con le loro puntuali chiavi di lettura, collaborano ad illuminare questa opera di spoliazione perpetrata ai danni dell’economia meridionale.
Alcuni capitoli ripercorrono la storia del Banco, sorto nel 1539 dall’unione degli otto Banchi meridionali presenti in città, dando luogo a quella che è stata la più lunga istituzione creditizia del mondo occidentale, mentre altri descrivono la situazione negli anni precedenti la crisi, per giungere poi al fatale triennio 1994 – 96, con la scomparsa del marchio fagocitato da un processo di accorpamento del credito, per comparire di nuovo, recentemente, anche se solo nel nome, per assecondare i desideri di una clientela di vecchia data, che si sentiva castrata nell’entrare in filiali dove, oltre a non trovare più volti noti, nei quali riponeva la sua incondizionata fiducia, capeggiava la scritta delle banche conquistatrici.
Nell’introduzioni gli autori sottolineano che scopo del loro libro è quello di preservare la verità per le nuove generazioni, ben sapendo che la storia la scrivono i vincitori, i quali, spesso, servendosi di cronisti asserviti, occultano documenti scomodi e favoriscono che sull’accaduto si sedimenti la damnatio memorie.
A tale scopo sono citati ampiamente anche tutti gli atti parlamentari di quei pochi meridionalisti che difesero la centralità dell’operato del Banco di Napoli, a difesa degli interessi di tanti piccoli imprenditori del sud, anche se rimasero inascoltati, perché cominciava a premere la questione settentrionale e tutto il Mezzogiorno veniva quotidianamente descritto dalla stampa come il luogo del clientelismo e dell’inefficienza.
Venne adottato il sistema dei due pesi e due misure, con un’eccessiva prudenza contabile, che condusse all’azzeramento del patrimonio ed alla successiva scomparsa del Banco di Napoli. Il sud perse la sua banca di riferimento secolare e migliaia di imprese furono costrette al fallimento con gravi contraccolpi sull’occupazione e con un grave impoverimento socio culturale.
Fu uno dei danni più gravi inferto ai danni del Mezzogiorno in nome della supremazia del mercato, proprio alla vigilia di una drastica inversione di rotta degli Stati più liberisti del mondo, che hanno adottato la ricetta delle partecipazioni statali immettendo ingente liquidità per salvare traballanti colossi della finanza e dell’economia.
Alcuni aspetti tecnici dell’operazione, per quanto chiaramente esposti dagli autori, sono difficilmente afferrabili dal lettore meno versato in economia, anche se risalta come truffaldino il criterio adottato all’epoca per valutare il Banco di Napoli, da parte dell’advisor del Tesoro, la Rotschild, la quale nel 1977 ritenne equo il prezzo di 61 miliardi di lire per acquistare il 60% del glorioso istituto da parte dell’Ina e della BNL e dopo circa due anni ritenne altrettanto equo un prezzo di 3600 miliardi per la vendita del 56% dello stesso Banco al Sanpaolo – Imi, dando luogo ad una vergognosa plusvalenza.
Non è il solo punto oscuro del criminale atto di sabotaggio e di desertificazione verso il sud ed aspettiamo tutti che sull’argomento voglia quanto prima scrivere una penna alla Saviano, che voglia gridare tutta la rabbia repressa dei meridionali, dimostrando che i delinquenti non si annidano solo nell’inferno di Scampia o Secondigliano, ma anche tra i colletti bianchi che siedono boriosi al Tesoro o nei consigli di amministrazioni delle grandi banche del nord.

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Vecchi senza fine

Il numero dei vecchi sta salendo da anni in maniera esponenziale, non solo nel mondo occidentale, ma anche nei paesi del terzo mondo; una circostanza che provoca problemi sociali ed economici da far tremare le vene ai polsi. Infatti la percentuale di giovani sulle cui spalle vi è il carico di provvedere a questi eserciti sterminati, le cui file si ingrossano giorno dopo giorno, tende a divenire sempre più bassa. Pochi anni fa tre lavoratori concorrevano a pagare la pensione per un anziano, fra poco un lavoratore dovrà mantenere tre vecchi.
Nei giorni scorsi sull’autorevole rivista Lancet è stata pubblicata una ricerca secondo la quale la maggior parte dei bambini di oggi sono destinati a divenire centenari, una prospettiva sconvolgente, che metterebbe in forse lo stesso futuro dell’umanità.
Una catastrofica pandemia di sopravvivenza sta per abbattersi sul mondo senza speranza di salvezza in antidoti o vaccini e con l’unica allucinante soluzione di un’eutanasia di massa, programmata ed obbligatoria.
Il premio Nobel per la medicina quest’anno è stato assegnato a tre scienziati americani, due dei quali donne, che hanno dedicato la loro vita allo studio dell’invecchiamento cellulare, segno inequivocabile di come il problema sia tenuto in grande considerazione, ma nessun medico ha pronta una terapia per lo stupore dell’uomo che continuerà a vivere invece di morire. Egli dovrà prepararsi a diventare poco ingombrante, ad essere tollerato, compatito, inascoltato. Lo specchio gli fornirà un’immagine nella quale stenterà a riconoscersi, dovrà dimenticare di essere stato maschio o femmina, perché la senilità nei suoi gradi più accentuati ci fa somigliare un po’ agli angeli, almeno nella mancanza di un sesso, vicino ai cento anni ridiventiamo come i neonati nella culla, distinguibili unicamente per il colore della maglietta.
Molti saranno costretti ad invocare la morte per mettere fine ad un’esistenza fuori da ogni logica ed al di là dei programmi della natura, tornerà di moda l’invocazione di San Francesco a sorella morte corporale, pietosa risolutrice di imbarazzanti situazioni.
La società dovrà già da ora prepararsi a reggere l’impatto di questa pandemia sul sistema previdenziale, ad organizzare un sistema assistenziale che supplisca ai compiti di una famiglia patriarcale oramai un pallido ricordo del passato, mentre la medicina dovrà cercare disperatamente di aggiungere vita agli anni, dopo aver contribuito con le proprie scoperte ad aggiungere soltanto anni alla vit

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Trenta navi cariche di scorie radioattive al largo della Calabria
La settimana scorsa i giornali hanno riportato la notizia che al largo delle Calabria, a breve distanza dalla costa, in un mare dove ogni estate milioni di bagnanti si immergono ed una moltitudine di pesci ci vive prima di finire nelle nostre padelle, giacciono ben trenta navi colme di rifiuti tossici e scorie radioattive, affondate dalla ndrangheta.
A distanza di pochi giorni, nonostante l’enormità dell’episodio, del quale si è venuto a conoscenza grazie alle confidenze di un pentito, nessuno sembra più interessarsi della cosa. Mi sembra di ripercorrere una storia già vissuta, quando alcuni anni orsono nel mio libro di denuncia Monnezza viaggio nella spazzatura campana(consultabile in rete) segnalavo che in centinaia di pozzi del casertano la camorra aveva depositato un egual carico di veleni e di morte e nel corso delle presentazioni in tutta Italia il pubblico apprendeva incredula la notizia, senza che nessuno: magistrati, autorità, giornalisti si impegnassero per controllarne la veridicità e prendere gli opportuni provvedimenti. E dire che sulla copertina del libro era riportata una pecora a due teste, uno squallido trofeo fotografato nella casa di un camorrista di Casal di Principe, a tangibile dimostrazione delle mutazioni genetiche provocate dall’uranio e le immagini di Beatiful cauntry, un film coraggioso, che quasi nessuno ha potuto vedere, perché maldestramente distribuito, mostrassero che in ogni gregge nella terra dei casalesi vi fosse qualche esemplare affetto da mostruosità.
Cosa aspettiamo ad indignarci e poi indagare e soprattutto provvedere?



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Singolare o plurale, Borbone senza pace
La scomparsa di Alfonso Scirocco, celebre storico specialista di alcuni protagonisti del nostro Risorgimento, mi ha fatto tornare alla mente la sua partecipazione, alcuni anni orsono, in veste di relatore, nel salotto culturale di mia moglie Elvira, quando, nel corso del dibattito, gli fu posta la domanda se lui ritenesse più corretta la dizione Borbone o Borboni ed il professore, senza esitazioni, si pronunciò per la forma al plurale. Un parere in linea con quello del professor Galasso, come ebbi modo di constatare nel corso di una presentazione di un libro alla Saletta rossa Guida a Portalba, mentre Paolo Mieli sposava la tesi del singolare. Ne seguì un colto articolo sul Mattino di Titti Marrone, presente come moderatrice, molto equilibrato, che aveva una conclusione equidistante tra le due ipotesi.
In seguito ebbi il privilegio di accompagnare Umberto Eco in una visita guidata al museo di Capodimonte e così approfittai per chiedere il suo parere, che fu decisamente per il singolare. Convenimmo di comune accordo che Benedetto Croce era all’origine di questa confusione, perché aveva scritto sull’argomento più volte adoperando il plurale.
Spesso viene citata una lettera di Ferdinando II con la firma Borboni, naturalmente non fa testo, ben conoscendo il livello culturale del sovrano, come pure la lunga disquisizione sulle famiglie europee che acquisiscono la dizione Bourbon al plurale, essendo nozione elementare che alcune lingue, ad esempio inglese o francese, a volte hanno il plurale per i cognomi, errore gravissimo per l’italiano.
A conferma di ciò che pensavo richiesi tempo fa un parere all’ancora attiva ed autorevolissima Accademia della Crusca, la quale si espresse senza esitazioni per la forma singolare, conclusioni che comunicai alla stampa e pubblicata da numerosi giornali, anche non napoletani.
Nonostante questa autorevole dichiarazione, che dovrebbe chiudere definitivamente la questione, sono certo che la lunga diatriba linguistica continuerà certamente immutata, avendo sulle opposte sponde autorevoli personaggi, da un lato i professori Scirocco e Galasso, dall’altro Mieli ed Eco e troverà una soluzione definitiva solo nel tempo, essendo la nostra una lingua viva, che macina lentamente le parole.


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Le carceri scoppiano, non solo in Italia
La situazione drammatica delle carceri italiane, che letteralmente esplodono per l’aumento oltre ogni limite dei detenuti, è stata richiamata all’onore delle cronache da una sentenza della Corte di giustizia europea, la quale ha condannato lo Stato per aver costretto un ladruncolo bosniaco, anni fa, a convivere in penitenziario con altri cinque soggetti, in un ambiente ristretto di 16 metri quadrati, ben al di sotto della soglia di 7 metri a persona, ritenuta il minimo compatibile con la dignità umana, altrimenti si parla senza mezzi termini di tortura.
Bisognerà pagare 1000 euro e la sentenza costituisce un importante precedente per coloro che vorranno adire alla Corte europea dei diritti dell’uomo per aver subito un trattamento analogo, la situazione nella quale si trovano in questo momento tutti i 64000 detenuti ospiti dei nostri penitenziari, nessuno escluso.
Il ricorso può essere presentato direttamente dall’interessato senza necessità di assistenza legale e consiglio a tale scopo di consultare preliminarmente sul web l’articolo di mio figlio Gian Filippo Corte di giustizia(dove, quando, come, perché).
Una mole di condanne internazionali potrebbe essere uno stimolo dirompente per il governo che, dopo tante chiacchiere deve decidersi ad affrontare una situazione assolutamente intollerabile.
Se l’Italia piange la California non ride, infatti anche nella ricca America ai galeotti è riservato un trattamento non certo con i guanti, ma lì vi è un giudice coraggioso, il quale ha sentenziato che se le condizioni di vita nelle carceri non migliorerà sensibilmente nei prossimi mesi bisognerà liberare il 30% dei detenuti. Una bancarotta in piena regola che da noi farebbe gridare allo scandalo, ma quando uno Stato non riesce a garantire i diritti più elementari non resta che abdicare.

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San Gennaro superstar


Gentile dottor Romano,
in riferimento alla lettera di una vostra lettrice, la quale ironizzava sulla stupefacente puntualità della liquefazione del sangue di San Gennaro, vorrei segnalare una curiosità poco nota, che fa di Napoli l’indiscussa capitale delle reliquie: la presenza in città di oltre cento ampolle contenenti grumi sanguigni di santi ed eremiti, i quali con cronometrica precisione vanno incontro al fenomeno di scioglimento per ritornare poi allo stato solido: le ampolle sono conservate in numerose chiese, ma anche nelle cappelle gentilizie di antiche famiglie napoletane.
Un esempio tra tanti quello di S. Patrizia che subisce periodiche liquefazioni, ma di questi sorprendenti fenomeni ne potremmo citare altre decine, meno conosciuti: il sangue di Santo Stefano, custodito nel monastero di Santa Chiara, che si liquefa il 3 agosto ed il 25 dicembre, quello di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, conservato nella chiesa della Redenzione dei Captivi, che si scioglie il 2 agosto, quelli di San Pantaleone e di San Luigi Gonzaga, nel Gesù Vecchio, attivi entrambi il 21 giugno
Questa moltitudine di eventi prodigiosi rappresenta per il credente un valido motivo di orgoglio, ma anche per i laici deve rappresentare un’occasione di profonda meditazione, perché le spiegazioni fino ad ora proposte dalla scienza, per cercare di dare una spiegazione razionale al fenomeno, sono poco più che risibili.
E nell’attesa che parte del mistero che circonda i sacri grumi possa dissolversi attraverso l’indagine della scienza resta l’oggettività del prodigio sotto gli occhi di tutti, credenti e scettici, a fornire agli uni il coraggio della fede, agli altri una giusta dose di meditazione e riflessione.

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Lettera aperta alla direttrice della Galleria Corsini, alla Soprintendenza di Roma ed al Ministro dei Beni culturali


L’altro giorno mi sono recato alla Galleria Corsini(fig. 1) con il desiderio di poter ammirare uno dei capolavori del Ribera: Venere ed Adone(fig. 2), oltre naturalmente ad altre 300 opere di tanti importanti pittori italiani e stranieri, che fanno del museo romano un vero scrigno prezioso per gli amanti dell’arte e per i forestieri.
Con il timore di indicare solo i nomi più importanti ricordiamo il Beato Angelico(fig. 3), Fra’ Bartolomeo, Jacopo Bassano, Caravaggio(fig. 3), Annibale Carracci, Reni, Guercino, Preti, Andrea del Sarto, Salvator Rosa, Giordano, Piazzetta, Maratta e tra gli stranieri Rubens, Van Dyck, Murillo, Poussin, Dughet, senza considerare la camera da letto della regina Cristina di Svezia con splendidi affreschi del XVI secolo(fig.5)
Giunto alla biglietteria vengo a sapere che da oltre un’ora per un guasto è venuta a mancare la corrente e non si può stampare il tagliando; attendo per molto tempo, sono l’unico visitatore, fino a quando decido di entrare egualmente, lasciando i soldi dell’ingresso per stampare in seguito il biglietto e sperando, con l’apertura delle finestre, tutte rigorosamente chiuse, di poter lo stesso ammirare tante meraviglie.
Vengo allora avvertito che su otto sale solo metà sono visibili e che tale limitazione non è una novità, ma persiste da tempo immemorabile.
Mi contento di vedere ciò che è visibile ed incontro difficoltà per l’assenza di targhette con la didascalia dei dipinti, i quali, come in molte altre gallerie romane, antiche residenze nobiliari, hanno conservato una disposizione sulle pareti a più livelli, per cui, anche per un occhio esperto, riconoscere i quadri posti in alto è estremamente difficile.
Decido allora di acquistare il catalogo per un aiuto nella lettura delle opere, ma la pubblicazione, uscita nel 2000, riporta una collocazione completamente diversa da quella attuale.
Scoraggiato, mi limito ad una visita frettolosa, senza poter approfondire ciò che è esposto nel completo anonimato.
La situazione della Galleria Corsini non è eccezionale, ho trovato una identica chiusura generalizzata, pochi mesi fa sia nella Galleria Barberini che nel Palazzo Ducale di Venezia, senza parlare di Brera o del museo di San Martino. Uno sfascio che grida vendetta per il modo maldestro con il quale viene amministrato un patrimonio unico al mondo, che dovrebbe essere fonte di ricchezza per il richiamo irresistibile esercitato sugli appassionati di arte italiani e soprattutto stranieri, mentre rappresenta una fonte di vergognoso imbarazzo.
La mancanza di fondi dovuta alla crisi economica, che ha investito ogni settore, non può essere una scusante, perché mettere dei cartellini sotto i dipinti o aggiornare le guide, ha un costo irrisorio e se lo Stato non è più in grado di garantire il minimo non resta che abdicare e dare un’opportunità ai privati di investire in un settore fondamentale per l’andamento del nostro turismo.


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Un nuovo libro su Achille Lauro
Finalmente un grande editore, Mondadori, ha dedicato un libro a quel personaggio vulcanico ed ancora misconosciuto che fu Achille Lauro: grande armatore e sindaco plebiscitario per molti anni all’ombra del Vesuvio, oltre che editore, creatore della prima televisione privata italiana, presidente del Napoli, uomo politico di rilievo nazionale e tante altre cose ancora.
A ricordarcene le gesta, in un nuovo disperato tentativo di sdoganarne l’immagine, offuscata da tanti decenni di propaganda denigratoria da parte della sinistra, giunge un libro(o’Comandante, vita di Achille Lauro) di Carlo Maria Lomartire, giornalista specializzato in biografie, avendo già scritto su Mattei e sul bandito Giuliano, ma soprattutto un grande editore capace di una massiccia e capillare distribuzione, come ho potuto personalmente constatare telefonicamente tramite amici, che hanno potuto acquistare il volume anche in piccoli centri sia nel nord che nel centro Italia.
Dall’uscita nel 2003 del mio Achille Lauro superstar(consultabile su internet) quasi ogni anno è uscito un nuovo libro sul Comandante, a volte ricordi di umili uomini della sua flotta, altre volte contributi su particolari aspetti della sua poliedrica attività, come quello di Gaetano Fusco su Lauro produttore cinematografico o l’indagine di Fabio Gentile sulla sua carriera politica, ma servendosi sempre di modeste case editrici locali, prive di un’adeguata distribuzione e senza poter contare su recensioni sulla stampa.
O’ Comandante, vita di Achille Lauro, viceversa, grazie al potere mediatico della Mondadori, ha già avuto, ancor prima dell’uscita in libreria, attestazioni di fiducia di importanti testate, a partire da Il Mattino che l’altro giorno gli ha dedicato un’intera pagina.(Ricordo che all’epoca per avere sullo stesso giornale quattro righe di recensione dovetti far intervenire più di un amico redattore).
Il libro di Lomartire espone in maniera semplice e lineare la parabola di Lauro, dall’esordio giovanissimo come mozzo sulla nave paterna, fino al malinconico tramonto culminato con il fallimento della flotta e la morte all’età di 95 anni.
Dopo aver raccontato gli esordi e la sua attività durante il fascismo, l’attenzione è fissata sugli anni del grande successo politico, quando in un’Italia ancora sospesa tra modernità e sottosviluppo, tra promesse di ricostruzione ed ampie sacche di clientelismo, la figura di Lauro segna un’intera stagione della politica del Mezzogiorno e non solo. Con spregiudicato equilibrismo, assiste alla fine del centrismo di De Gasperi, al quale riesce a strappare la legge speciale per Napoli, è avversario di Fanfani, ma sostiene lealmente i governi democristiani moderati, dialoga con Almirante fino a riunire sotto le insegne del Partito democratico di unità monarchica, da lui fondato, i nostalgici della corona.
Il testo, preciso in molti dettagli, purtroppo manca di un approfondimento su alcuni aspetti fondamentali della sua attività e non risponde ad una domanda che a lungo ha costituito la punta di diamante dei suoi detrattori: in che misura fu coinvolto nella speculazione edilizia degli anni Sessanta, immortalata nel celebre film di Rosi” Le mani sulla città”.
Modesto è il corredo fotografico, solo 18 scatti, quasi tutti però mai visti prima, mentre una pecca molto grave è la mancanza di un’introduzione e soprattutto di una bibliografia, tenendo conto che l’autore ha attinto a piene mani dal testo dei principali libri scritti in precedenza sull’argomento.
Un libro al quale auguro di avere tanti lettori ed attraverso un suo successo si possa riparlare di dedicare una piazza di Napoli ad Achille Lauro, una vergognosa dimenticanza, che pesa come un macigno sull’amministrazione partenopea, la quale si è sempre caparbiamente rifiutata anche solo di discutere in consiglio le varie proposte che nel tempo sono state presentate, con la speranza che una città dove esiste via Kagoscima e via Jan Palach, via dei Chiavettieri al Porto e via dei Chiavettieri al Pendino possa giustamente ricordare un così esimio personaggio.


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Il male assoluto e l’angelo custode

Il Male impregna la nostra vita come un’energia misteriosa che si oppone imperiosa alle forze del Bene, e non si tratta semplicemente del piccolo tedioso male della realtà quotidiana, bensì l’incanto che diffondono le grandi ali nere, ancora bagnate di luce, di Satana e degli angeli decaduti, anche nel cuore del XXI secolo.
Il Male assoluto macina inesorabile la sua opera nefasta, compie sino in fondo la sua esperienza tremenda, esercita il suo fascino irresistibile, seduce, corrompe, uccide. Sembra identificarsi con il tutto e nel momento di diventarlo, rivela di non essere altro che il vuoto, quel vuoto gelido che produce vertigini, illimitato e senza confini, che offusca le coscienze e si impadronisce delle anime e degli intelletti di gran parte del mondo contemporaneo.
L’unica divinità nella quale, laico inveterato, sono portato a credere, è quella costituita dall’Angelo custode. Non saprei spiegarmi altrimenti la prodigiosa incolumità che protegge la vita spericolata di milioni di giovani prostrati nelle più spericolate movide notturne, tra fiumi di alcol, quantità smisurate di ectasy, folli corse in moto, insonnie invincibili, copiose scariche di adrenalina, danze sfrenate fino all’alba.
Ogni mattina avviene un miracolo con il ritorno a casa incolume di questo esercito disordinato costituito dai nostri figli, in guerra perpetua contro le insidie del destino, che può riservarci una terribile sorpresa ogni momento, eppure, esposti a tanti strapazzi, tanti rischi, tante tentazioni, vengono quotidianamente salvati dal potere luminoso della vita in lotta dal tempo dei tempi con la perfida evenienza della morte, che si annida insidiosa dietro ogni curva.
I lutti, in questa bolgia sfrenata rappresentata dal delirio della giovinezza, sono eccezionali al cospetto della enormità dei pericoli e non possiamo non credere che il caso, sempre cieco e spietato, non venga governato da una protezione benevola che sovraintende al destino di questi ingovernabili scapestrati. E perché non credere che questa entità superiore non sia quell’Angelo custode, al quale da bambini ci affidavamo con tanta fiducia e con quella dolce preghiera, più intensa del Credo e dell’Ave Maria, che tutti noi ricordiamo e che recita:” Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina, custodisci, reggi e governa me che ti fui affidato dalla pietà celeste. Amen”.

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Napoli capitale mondiale delle reliquie
Nell’imminenza del biannuale prodigio della liquefazione del sangue di San Gennaro, conservato in due ampolline nella Cappella del Tesoro del Duomo, previsto per il 19 settembre, onomastico del venerato martire, vogliamo rammentare i risultati di alcune nostre ricerche, parzialmente già pubblicati, sulla presenza all’ombra del Vesuvio di un numero stupefacente di grumi di sangue, più o meno miracolosi, che va incontro a cadenze stabilite al fenomeno dello scioglimento, per tornare poi allo stato solido.
Napoli è da oltre cinquecento anni capitale mondiale delle reliquie, in particolare custodisce circa duecento ampolle contenenti grumi di sangue di santi, martiri ed asceti. Infatti, dopo la caduta dell’Impero romano d’Oriente, avvenuta nel 1453, immagini religiose di ogni tipo e reliquie varie affluirono copiose nella nostra città e da allora non si sono più mosse, pur cadendo lentamente nell’oblio.
Molti di questi grumi presentano la stupefacente caratteristica di liquefarsi con una precisione anche superiore a quella del celeberrimo Santo patrono e senza la necessità di quel corteo di preghiere ed invocazioni che qualcuno ha proposto come spiegazione parapsicologica del fenomeno.
Il sangue di San Gennaro, conservato in due balsamari vitrei di foggia diversa, databili al IV secolo, si scioglie costantemente, a partire dal 1389, il 19 settembre, anniversario del martirio, avvenuto come è noto nella Solfatara il 305 ed il primo sabato di maggio, con qualche sporadico fuori programma il 16 dicembre, anniversario della apocalittica eruzione del Vesuvio del 1631, quando la lava giunse a lambire Napoli e venne fermata sul ponte della Maddalena dal pronto intervento del Santo, da allora indiscusso patrono della città ed eccezionalmente anche il 14 gennaio, in ricordo del ritorno a Napoli delle spoglie del martire, nascoste a Montevergine sino al 1497.
La fama universale del sangue di San Gennaro, un prodigio osservato nei secoli da tanti smaliziati visitatori stranieri, a Napoli per il Grand Tour, scettici ed illuministi, ma sempre cauti nel cercare una spiegazione razionale del fenomeno, ha rubato la scena alle numerose altre testimonianze del fenomeno liquefattivo, che si ripete da secoli in numerose chiese napoletane e nel segreto di cappelle gentilizie di antiche e nobili famiglie.
Cominceremo ora un’ appassionante carrellata attraverso l’affascinante universo esoterico partenopeo, partendo da alcune tra le reliquie più note quali: il sangue di Santo Stefano, custodito nel monastero di Santa Chiara, che si liquefa il 3 agosto ed il 25 dicembre, quello di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, conservato nella chiesa della Redenzione dei Captivi, che si scioglie il 2 agosto, quelli di San Pantaleone e di San Luigi Gonzaga, nel Gesù Vecchio, attivi entrambi il 21 giugno o quello di Santa Patrizia, il più dinamico in assoluto, conservato in San Gregorio Armeno.
Sorprendente è il comportamento del sangue del Battista, scioltosi per la prima volta nel 1554 durante la celebrazione della messa nel convento di Sant’Arcangelo a Baiano, dove era custodito, proveniente dalla Francia, sin dal Duecento. Quando il convento venne soppresso, per il leggendario comportamento licenzioso delle monache, il sangue del santo, diviso ab antico in due ampolle, venne affidato alle monache di San Gregorio Armeno e di Donnaromita. Il primo continua regolarmente a sciogliersi, mentre il secondo ha cessato ogni attività dal Seicento. Quando anche il monastero di Donnaromita venne soppresso, l’ampolla “inattiva” ritornò vicino alla gemella conservata in San Gregorio Armeno e stranamente ha ricominciato a manifestarsi anche se in formato ridotto, con un semplice arrossamento, in occasione della festa del Santo.
Questa moltitudine di eventi prodigiosi rappresenta per il credente un valido motivo di orgoglio, con il sangue che tanti martiri versarono per la loro fede, il quale si riversa, come una pioggia ristoratrice, su tutti noi, in un periodo così difficile per la Chiesa e per l’umanità tutta; ma anche per i laici deve rappresentare un motivo di profonda meditazione, perché le spiegazioni fino ad ora proposte dalla scienza, per cercare di dare una spiegazione razionale al fenomeno, sono poco più che risibili.
Basta leggere le conclusioni del Cicap, un’associazione scientifica che si propone di trovare la soluzione ai tanti quesiti ancora aperti della parapsicologia, per convincersene. Si è dato grande risalto ad una pubblicazione, nell’ottobre del 1991, sulla prestigiosa rivista Nature, di una equipe dell’università di Pavia, guidata dal ricercatore Garlaschelli, che riteneva di saper riprodurre il fenomeno del passaggio dallo stato solido allo stato liquido in un fluido, adoperando poche sostanze elementari già note agli alchimisti medioevali, dal carbonato di calcio al cloruro di ferro in soluzione, per ottenere una sostanza gelatinosa ”reversibile” a piacimento, purché dall’esterno venga fornita energia attraverso lo scuotimento del contenitore; condizione del tutto assente nella liquefazione di gran parte dei grumi di sangue dei santi precedentemente descritti, incluso lo stesso San Gennaro, che si “manifesta” nelle più diverse condizioni.
Un’ipotesi alchemica, affascinante, ma forse vicina alla verità, era stata avanzata dal compianto Mario Buonoconto, uno studioso autore di un prezioso libretto sulla Napoli esoterica, ancora reperibile sulle bancarelle in edizione economica, profondo conoscitore della antica scuola napoletana specializzata nell’apertura della materia e nella possibilità di trasformare gli elementi naturali in maniera reversibile, come ridurre il ferro malleabile o le interiora umane dure come il marmo.
Lo stesso famoso, quanto famigerato, principe di Sansevero, chimico e letterato, massone e scienziato, pare fosse in grado di replicare il “miracolo” nel suo laboratorio, posto nell’angolo più segreto del suo palazzo in San Domenico Maggiore, per la meraviglia dei suoi amici più fidati e delle belle dame che gli facevano visita.
Naturalmente per studiare più approfonditamente il fenomeno della prodigiosa liquefazione del sangue dei santi, sarebbe necessario aprire le ampolle, per sottoporre il contenuto ad indagini di laboratorio e ciò è naturalmente impensabile per quelle del venerato ed amatissimo San Gennaro, ma perché non analizzare qualche grumo di sangue di santi meno venerati tra i tantissimi che si conservano nella nostra città, non solo in chiese, ma anche di proprietà di antiche famiglie napoletane?
Credo che nessuno potrebbe opporsi a degli esami eseguiti su ampolle di sangue conservate nelle cappelle gentilizie di famiglie disposte a placare una insopprimibile sete di conoscenza.
“Pulcra sunt quae videntur, pulchriora quae sciuntur, longe pulcherrima quae ignorantur”.
E nell’attesa che parte del mistero che circonda i sacri grumi possa dissolversi attraverso l’indagine della scienza resta l’oggettività del prodigio sotto gli occhi di tutti, credenti e scettici, a fornire agli uni il coraggio della fede, agli altri una giusta dose di meditazione e riflessione.

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Addio Mike sovrano incontrastato del quiz
Improvvisamente è venuto a mancare Mike Bongiorno, gran signore e per oltre cinquanta anni icona incontrastata del piccolo schermo.
Egli, giunto in Italia giovanissimo, dopo aver lavorato negli States nelle tv commerciali, fece da mallevadore alla nascente televisione italiana, ideando alcune trasmissioni quali Lascia o raddoppia? e Rischiatutto, che per anni inchiodavano davanti al video metà dell’Italia con punte di 25 milioni di telespettatori.
I cinema il giovedì sera dovevano collocare in sala un televisore ed interrompere la programmazione per seguire la puntata condotta da sua maestà Mike.
Dopo anni alla Rai Bongiorno era passato a Mediaset, continuando a mietere allori ed oggi, a 85 anni, aveva previsto una riedizione del Rischiatutto, che doveva cominciare in autunno e per la quale era stato selezionato il sottoscritto.
Oltre ad un’ammirazione assoluta di Mike avevo un piacevole ricordo per avere con lui partecipato alla sua trasmissione di maggior successo nel 1972.(Per chi volesse vedere il video ed il racconto di quell’esperienza può consultare sul mio sito l’articolo”A tu per tu con Mike”.
In quella occasione durante le prove simpatizzammo e lui mi invitò a cena, durante la quale parlammo a lungo di molteplici argomenti. Ero un giovane laureando in medicina di ventiquattro anni e rimasi estasiato dai suoi racconti, ma rimasi particolarmente colpito dalla sua fede, fortificatasi nel periodo convulso di fine guerra, quando, imprigionato dai tedeschi, più volte era stato vicino alla morte. Era certo che la fortuna degli anni seguenti era una sorta di riparazione per quanto aveva sofferto.
Sono seguiti decenni di successo incontrastato e di apprezzamento da parte non solo dal pubblico, ma anche dai colleghi, che lo consideravano poco meno di una divinità.
Addio Mike, senza di te la televisione, in un’era dominata da anchorman d’assalto e spudorate veline, si sentirà orbata del suo personaggio storico di maggior spicco, di una memoria condivisa da più generazioni.
Ci mancherà la tua professionalità, il tuo garbo, la tua signorilità, ma soprattutto la tua sobria allegria.
 

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Un’ondata di violenza gratuita
 

Gentile dottore,
viviamo in una clima dove la violenza scandisce le ore del giorno e della notte tra rapine, minacce, estorsioni, borseggi, stupri ed incresciosi episodi di pedofilia, ma quella che più ci avvilisce è l’ondata di violenza gratuita che sembra esplodere senza un motivo plausibile come un fiume in piena. Ragazzi annoiati che danno fuoco a barboni addormentati, ultra scatenati che si accaniscono a coltellate contro i tifosi avversari o qualche poliziotto trovatosi isolato, leghisti scriteriati alla caccia di extra comunitari, bulletti di borgata decisi a farla pagare a pacifici omosessuali. Una cagnara cinica ed oscena con la quale una plebe, inselvatichita dalla civiltà dei consumi e dalla deriva di ogni regola di vita civile, crede di divertirsi, confrontandosi con un male del quale non riesce nemmeno ad identificare forma e contenuti.
In questi giorni tra tanti episodi inqualificabili si è stagliata con vigore la bravata di Svastichella, un pericoloso teppista romano, il quale ha aggredito senza motivo due giovani colpevoli di essere diversi ai suoi occhi deliranti. Il suo soprannome risveglia momenti tragici della nostra storia, pur essendo, nello stesso tempo, una buffa caricatura da maschera della commedia dell’arte, una capacità di rendere cialtrona anche la memoria delle pagine più buie del nostro passato.
Arrestato numerose volte è sempre stato immediatamente liberato, perché ”seminfermo di mente” e non idoneo alla vita nei gironi infernali rappresentati dai nostri infami penitenziari. Un’assurdità kafkiana resa possibile dalla chiusura di strutture manicomiali intermedie, per cui decine di matti pericolosissimi vagano indisturbati e compiono con cinica sfrontatezza impuniti abusi di ogni genere, mentre la permanenza in carcere avrebbe per questi loschi individui una pregnante valenza pedagogica, non certo per la capacità di rieducazione delle nostre istituzioni, del tutto evanescente, bensì per le ferree norme etiche in vigore tra i galeotti, i quali, con sonori paliatoni, saprebbero rieducare e restituire alla dimensione umana questi viscidi pseudo dementi.


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L’amore per i nostri cromosomi
La paura di un mondo senza futuro


La civiltà occidentale soffre di un tasso di infertilità ogni anno più alto, mentre sono sempre di più coloro che decidono di non avere figli per sfiducia nel futuro, per difficoltà economiche, ma principalmente per egoismo. Una visione del mondo basata sull’individualismo, che non tiene conto di un progetto insito nel nostro Dna, quello di moltiplicarci e di vivere in funzione della nostra discendenza, un amore sviscerato verso i nostri cromosomi, nei riguardi di individui lontani nel tempo e nello spazio, che non conosceremo personalmente e che danno un significato alla nostra esistenza.
Le persone che non percepiscono in pieno il senso di questa missione tendono a vivere alla giornata, sfruttando al massimo ogni risorsa attuale, senza fare progetti per un futuro che travalichi la loro aspettativa di vita.
Da questa sempre più diffusa condotta deriva la crisi spirituale, che attanaglia le grandi religioni, infatti sia l’ebraismo che il cristianesimo sono basati sulla promessa di redenzione, su un percorso comune, il quale dalla Genesi ci conduce verso un culmine glorioso.
Anche il mondo dei laici si basa sull’impegno di intere generazioni che si sono sacrificate per assicurare un futuro migliore ai propri discendenti, tanti personaggi straordinari hanno affrontato sfide titaniche perché pensavano ai loro eredi. Tutti i leader, i grandi scrittori, gli artisti più ambiziosi hanno inseguito la fama, il desiderio irrefrenabile che il loro nome e le loro imprese fossero ricordati nel tempo.
Senza l’amore verso i posteri non vi sono né progetti esaltanti, né vertiginose ambizioni. Tutto, dalla politica alla stessa giustizia, scade a livello effimero, alla caducità di un presente senza futuro.
Non si costruirebbero più edifici destinati a durare nel tempo, non si penserebbe a nuove attività imprenditoriali, non si avrebbe nessun ritegno a sfruttare avidamente ogni risorsa ambientale. Tutti i rapporti sociali basati sull’osservanza di regole durevoli e da tutti riconosciute si sgretolerebbero e nel giro di poco tempo la nostra civiltà entrerebbe in coma irreversibile. Una società che non vuole avere figli non ha più uno scopo e non vi è alcun motivo che continui ad esistere.
Avremo ancora un motivo per sopravvivere fino a quando l’ombra di questi miliardi di esseri umani destinati a vivere nei prossimi secoli agirà come una forza invisibile quanto irresistibile su di noi, dando un senso alla nostra esistenza ed alla nostra laboriosità.


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La maledizione del decoder
Fra poco necessari quattro telecomandi per ogni televisione


Gentile direttore,
l’ingresso nel digitale terrestre, per ora avvenuto solo in alcune regioni, ma entro l’anno attivo in tutta Italia, è stato pomposamente festeggiato dai vertici della Rai come un ingresso nel futuro ed un trionfo della tecnologia, mentre per gran parte degli utenti, anziani desiderosi di trascorrere qualche ora serena di svago, si tratta dell’inizio di un percorso irto di difficoltà, perché a breve saranno necessari per ogni televisione ben quattro telecomandi e tre decoder, uno per il digitale terrestre, uno per Sky ed uno per la nuova emittente frutto del matrimonio tra Rai, Mediaset e Telecom. Un vero shock tecnologico per vedere semplicemente le stesse cose che vedevamo in precedenza, con l’aggiunta di notevoli balzelli ed esborsi vari per poter accedere ai programmi a pagamento la cui offerta aumenterà a dismisura.
Le nostre case verranno invase da nuove scatole nere, nuovi cavi, nuovi depliant petulanti ed incomprensibili, una invasione voluta dai mercanti dell’etere e dai produttori di questi infernali marchingegni, che produrrà una metastasi di bottoni, di fili intrecciati, di libretti di istruzione


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Le brune surclassano le bionde
Cambia il gusto in tutto il mondo


Questo inverno una serie di trasmissioni televisive dal Bagaglino di Roma mettevano a confronto, in una gara all’ultimo televoto, un gruppo di procaci soubrette brune, capitanate da Pamela Prati, contro una squadra di bionde, guidate dalla supermaggiorata Valeria Marini.
Le fanciulle, oltre ad esporre generosamente le proprie grazie, si esibivano in canzoni, spogliarelli, danze e brevi recitazioni ed alla fine di ogni puntata i telespettatori decidevano chi avesse prevalso. Stranamente la palma del vincitore spettava quasi sempre alla equipe delle more, sfatando un antico pregiudizio che, non solo gli uomini preferivano le bionde, ma anche che il colore platinato fosse il prescelto dalle stesse donne.
Evidentemente il processo di meridionalizzazione del mondo con ispanici alla conquista dell’America e l’Africa in marcia verso l’Europa ha rimescolato le regole dell’appeal, al punto che il colore di moda per la chioma delle donne di tutte le età non è più il biondo cenere o il biondo miele, bensì il castano e lo scuro con tonalità di mogano o corvino.
Icone della bellezza muliebre, che hanno fatto sognare milioni di uomini ed alle quali le donne cercavano disperatamente di somigliare, vanno in soffitta, nonostante rispondano a nomi leggendari come Marilyn Monroe o Brigite Bardot e Catherine Deneuve e con loro scompare la moltitudine di imitatrici, che nei quartieri periferici delle città di tutta la terra facevano del biondo taroccato un pass partout per salire di livello nella società.
La sudditanza verso un modello cromatico importato da Hollywood tramonta definitivamente e lascia il campo ai capelli neri, possibilmente lunghi, ricci e vaporosi come quelli delle donne del sud, stanche di dover ricorre a colorazioni forzate per piacere ai loro uomini. Le signore e signorine di Posillipo e del Vomero finiranno di giurare di discendere dai normanni e dagli svevi e tanti coiffeur alla page dovranno cambiare la tavolozza delle loro tinture.
Addirittura pare che la stessa bambola Barbie, bionda per antonomasia, sia diventata nera influenzando i gusti e le scelte delle future generazioni

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Caritas in veritate, un invito alla lettura
Un’enciclica sociale che illumina il cammino per uscire dalla crisi


Alla vigilia del G8 Benedetto XVI ha reso nota la sua terza enciclica: Caritas in veritate, incentrata sulle difficili problematiche poste dalla globalizzazione dell’economia e sugli effetti sulla vita delle persone.
Rifacendosi alle tematiche contenute nella Popularum progressio scritta da Paolo VI nel 1967 e venti anni dopo la Centesimus annus di Paolo II, papa Ratzinger approfondisce alcuni aspetti dello sviluppo economico planetario ed indica la strada per uscire dalla crisi nel rispetto dell’uomo.
Non fornisce ricette pragmatiche, ma lancia una sfida al mondo: "Serve garantire a tutti l'accesso al lavoro, e anzi: a un lavoro decente. Bisogna rafforzare e rilanciare il ruolo dei sindacati, combattere la precarizzazione e - a meno che non comporti reali benefici per entrambi i Paesi coinvolti - la delocalizzazione dei posti di lavoro".
127 pagine dense di insegnamento che si leggono tutte di un fiato ed invitano alla meditazione il laico come il credente, perché ad eccezione dei paragrafi dedicati alla sessualità e crescita demografica che lasciano perplessi, le esortazioni contenute nell’enciclica trovano d’accordo tutti gli uomini di buona volontà, i quali da oggi posseggono una bussola per cercare di uscire con dignità e giustizia dalla più grave crisi finanziaria degli ultimi decenni.
Tutti sono invitati a reagire alle difficoltà economiche con fiducia, cercando di inventare nuove regole più giuste ed adatte a fornire una soluzione al precariato, il quale, se diviene endemico, produce instabilità nei giovani ed impedisce loro un progetto per la vita futura e per importanti decisioni come il matrimonio e l’educazione della prole.
Bisogna con tutte le forze adoperarsi per far cessare lo scandalo della fame nel mondo per salvaguardare la pace e la stabilità.
L’economia di mercato necessita di iniezioni di etica e di solidarietà e deve avere come obiettivo lo sviluppo ed il benessere di tutti e non solo di pochi privilegiati.
I governi degli Stati devono collaborare con le imprese, mentre i sindacati devono trasformarsi per affrontare le problematiche insorte con la globalizzazione e devono impegnarsi a tutelate i diritti anche dei non iscritti.
Una attenzione particolare è dedicata al fenomeno della migrazione, la quale va governata nel rispetto dovuto ad ogni singolo individuo. “Gli immigrati recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d'origine grazie alle rimesse finanziarie e non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro”.
Fondamentali sono i doveri verso l’ambiente un patrimonio che va rispettato e conservato per le generazioni future.
Sul piano più squisitamente pastorale un capitolo dell’enciclica è dedicato alla denuncia della sistematica pianificazione eugenetica delle nascite. Le biotecnologie, l'aborto, l'eutanasia, la clonazione sono segni di una "cultura di morte sempre più diffusa che apre scenari inquietanti per il futuro dell'umanità". Per Papa Ratzinger, ''stupisce'' che da una parte si condanni il degrado sociale ed economico, e dell'altra si tollerino ingiustizie inaudite in campo bioetico.
Il Pontefice conferma i no della Chiesa all'aborto talvolta promosso da organismi dell'Onu nei Paesi più poveri. In varie parti del mondo, avverte Benedetto XVI, c'è "il fondato sospetto che gli aiuti allo sviluppo vengano collegati al controllo delle nascite". Accuse pesanti, che il Pontefice rivolge anche alle organizzazioni umanitarie: "Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e che i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche". L'indice è puntato contro l'Onu e le Ong, a cui chiede maggiore trasparenza.
Una serie di esortazioni da prendere con molta serietà ed un invito alla lettura ed alla meditazione valido per tutti coloro che hanno a cuore le sorti del mondo ed il benessere dell’umanità.

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Una rivoluzione pacifica ma necessaria
La crisi finanziaria che ha messo in ginocchio il mondo è stata affrontata da tutti i governi in maniera paradossale, credendo di poter curare il debito creandone uno nuovo, ancora più grande, alle spalle dei cittadini, già truffati dai banchieri e sui quali grava il peso della catastrofe economica in termini di disoccupazione, minor potere di acquisto e massima incertezza per il futuro.
Si spera di far ritornare tutto come prima, consumando senza ritegno, distruggendo l’ambiente ed esaurendo le risorse naturali, incuranti di un miliardo di uomini costretti alla fame ed alla disperazione.
Due eventi di questi giorni, apparentemente distanti, scandiscono la gravità del momento e l’errore di metodo nell’affrontarlo: il decreto sicurezza varato dal Parlamento e la riunione dei G8 all’Aquila.
Il provvedimento contro la delinquenza, ma soprattutto contro l’immigrazione clandestina, fortemente voluto dalla destra, con la benedizione dei benpensanti che albergano sotto tutte le bandiere, si illude di porre un freno a quella diaspora biblica interessante falangi di disperati in fuga dall’avanzata del deserto e dalla fame. Quando questa marea dilagante sarà composta da centinaia di milioni di uomini, quando tutta l’Africa, che supera il miliardo di abitanti ed è ridotta allo sfascio, si metterà in moto, non vi saranno leggi restrittive, respingimenti coatti, mura infinite, cavalli di Frisia in grado di fermarne la marcia e di arginare l’invasione.
Per fermare l’ondata imminente i paesi europei debbono avere il coraggio e la lungimiranza di dedicare una quota del loro reddito per dar luogo ad occasioni di lavoro nei paesi di origine degli immigrati, debbono creare sviluppo e benessere, non esiste alcuna altra terapia.
Bisogna fare presto! Probabilmente è già troppo tardi.
Il problema è poco sentito anche a livello internazionale, infatti quella inutile passerella di potenti, quel vacuo falò delle vanità rappresentato dalle periodiche riunioni di un club che non ha saputo prevedere l’esplosione del fenomeno migratorio in un mondo dove le diseguaglianze economiche tra gli Stati e tra ricchi e poveri tende ad aumentare vertiginosamente, senza parlare dell’allarme ambientale, dello strapotere della finanza, della follia delle guerre e della assurda dipendenza dal petrolio.
Per un cambiamento radicale, per una rivoluzione pacifica ma necessaria vi è bisogno dei giovani e degli audaci, prima che i cinesi del tessile, i raccoglitori di pomodori dell’Africa nera, gli operai del Maghreb, i tornitori serbi, i mungitori sikh, le badanti ucraine, i piastrellisti rumeni e le miriadi colorate dei vu cumprà, con l’arrivo dei loro parenti e connazionali, appicchino un disastroso incendio al cuore pulsante della civiltà occidentale provocandone la prematura fine.


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Un prezioso manuale da consultare
Il centro dinamico negli scacchi


Giacomo Vallifuoco è il più abile insegnante del gioco degli scacchi ad personam attualmente in circolazione in Italia, in grado con una serie di lezioni private di condurre il principiante a godere della nobile arte, il giocatore già esperto a migliorarsi continuamente, il maestro a raggiungere le vette dell’eccellenza. Gli sarò sempre grato per avermi trasformato nel 1982, in meno di un anno, da non classificato a candidato maestro.
Pietro Punzetto da anni, attraverso i suoi libri, ha divulgato i segreti delle aperture, del medio gioco e dei finali in maniera elementare, fornendo una bussola efficace e tutte le informazioni necessarie ad orientarsi egregiamente sulle 64 caselle. Sui suoi agili volumi si sono addestrate generazioni di scacchisti. Il suo capolavoro Scuola di scacchi lo avrò consultato tante volte da conoscerlo oramai a memoria.
Su invito delle edizioni Eviscere, impegnate a dare spazio e voce ad autori italiani, i due maestri hanno unito le loro forze ed hanno licenziato alle stampe una guida per affrontare la parte più importante di ogni sfida: il centro partita(Il centro dinamico negli scacchi, pag. 192, Euro 23,ordinabile in rete), sottolineando l’importanza del dinamismo e soprattutto del ragionamento; è infatti perfettamente inutile imparare pedissequamente a memoria centinaia di varianti se non si è in grado di impossessarsi di una chiave di lettura, che permetta di passare da una posizione all’altra nel corso della partita.
Tra le svariate configurazioni che possono assumere i pedoni centrali, ve ne sono alcune più importanti, perché si ripetono con una certa frequenza e possono derivare da varianti diverse della stessa apertura o anche da aperture fra loro diverse. Possono inoltre comparire indifferentemente nella struttura di pedoni del Bianco o in quella del Nero. È il caso, per esempio, del "pedone di Donna isolato", del "centro sospeso" e della "formazione Maroczy", raggruppate in questo libro e qui analizzate tenendo in conto le idee strategiche e i piani di gioco di entrambi i colori.
Le varie possibilità sono analizzate tenendo conto di numerose varianti e sono illustrate prelevando esempi da partite recenti dei più famosi Grandi maestri in circolazione.
Oggi i giovani tendono a giocare molto in rete, contro avversari virtuali e compulsando sterminati data base, ma la lettura di un manuale ben fatto è assolutamente indispensabile.
Un libro, Il centro dinamico negli scacchi, veramente prezioso che non potrà mancare nella biblioteca di ogni giocatore. dal principiante al maestro.


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Basta con la favola della Resistenza


Gentile direttore,
sono sessanta anni che siamo costretti a sorbirci in tutte le salse la favola della Resistenza e dei patrioti che hanno salvato l’Italia liberandola dalla dittatura calciando a pedate i soldati tedeschi.
Pochi sanno che il comandante in capo delle forze alleate in Italia generale Mark Clark dichiarò perentoriamente, e chi meglio di lui conosceva il reale svolgimento dei fatti:” Il contributo dei partigiani fu del tutto irrilevante ai fini della durata e dell’esito della guerra”. Parole che non lasciano dubbi e trovano di recente conferma da coraggiose quanto bistrattate ricostruzioni storiche, le quali hanno inoltre messo in luce la ferocia sanguinaria verso chi la pensava diversamente.
Sarebbe ora che la sinistra si liberasse da questa sindrome del passato dietro la quale si è nascosta per tanto tempo e trovi nuovi argomenti per conquistare la fiducia degli elettori, che non siano però l’inconsistente attacco al premier basato sul gossip e su poco credibili dichiarazioni di poppute veline e prezzolati faccendieri.


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Il definitivo tramonto del lavoro
La crisi economica mondiale sta provocando un massiccio aumento della disoccupazione, che colpisce specialmente i giovani, un effetto accelerato di un processo irreversibile che porterà in breve l’umanità a fare a meno quasi completamente del lavoro.
Il progresso scientifico e l’automazione negli ultimi anni hanno fatto sì che, con una quota minore di lavoro, si riesca a produrre una maggiore quantità di beni e servizi, una cosa certamente positiva che nel tempo potrà liberare l’uomo dalla maledizione biblica di essere costretto con gran sudore a procacciarsi il necessario per vivere.
Paradigmatico è l’esempio di quanto produce un contadino americano ed uno africano: il primo grazie ai fertilizzanti, alla cospicua irrigazione ed all’uso di macchinari riesce a produrre quanto cento dei suoi colleghi africani, per cui, ipotizzando che in futuro anche loro potranno usufruire degli stessi accorgimenti, fra non molto il lavoro di uno solo potrà bastare a produrre il cibo per gli altri 99, i quali potranno anche non lavorare, se però colui che produce sia disposto a dividere con gli altri il frutto del suo lavoro. E qui nascono le difficoltà forse insormontabili per l’egoismo dell’uomo, probabilmente bisognerà creare una rotazione nel lavoro: un giorno ogni cento. Una prospettiva allettante che invita però alla meditazione sulla sua fattibilità, dopo che per anni abbiamo ascoltato l’utopico slogan “lavorare meno lavorare tutti”.
In numerosi altri campi la riduzione del lavoro è stata massiccia, mentre il prodotto ha continuato ad aumentare senza sosta, riuscendo a soddisfare gli scriteriati bisogni crescenti di una civiltà dominata dall’imperativo categorico di consumare, consumare ed ancora consumare.
Non è ipotesi fantascientifica immaginare un mondo nel quale il lavoro non sarà necessario ed i beni ed i servizi necessari saranno realizzati dalle macchine e dai robot.
Il problema drammatico sarà costituito dalla distribuzione dei prodotti, venuto meno anche l’uso del denaro o quanto meno del modo per procacciarselo al quale siamo abituati. Ed a complicare ulteriormente il quadro vi è il moloch della globalizzazione, che annulla le decisioni e le volontà non solo dei cittadini, ma degli stessi Stati, impotenti davanti al potere cieco delle multinazionali.
Potremo in futuro, quanto prima, liberarci dal fardello del lavoro, ma dovremo affrontare e risolvere una serie di non facili problemi: distribuire equamente la ricchezza e creare una reale uguaglianza tra nazioni e cittadini.
Un compito arduo ed affascinante che dovrà essere l’obiettivo delle nuove generazioni, le quali dovranno essere in grado di trasformare la crisi attuale in occasione di crescita. Una rivoluzione che cambierà la nostra vita, il nostro modo di pensare e di relazionarci col prossimo. In caso contrario ci attendono fame, rivolte, guerre ed una instabilità politica generalizzata con il tramonto della democrazia e l’instaurarsi ubiquitario di tirannie.


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Testamento biologico, riparliamone
La crisi economica, le elezioni europee e la luce dei riflettori sulla vita privata del Presidente del Consiglio hanno fatto dimenticare all’opinione pubblica le discussioni sul testamento biologico, del quale i politici sembra non siano più interessati. Un momento favorevole per poter trattare l’argomento quando gli animi non sono accesi e l’eterna diatriba tra laici e cattolici sembra sopita.
Il testamento biologico rappresenta l’espressione della volontà di un soggetto, fornita in condizioni di lucidità mentale, in riferimento alle terapie che intende accettare o rifiutare nel caso dovesse trovarsi nell’impossibilità di manifestarla a seguito di una malattia irreversibile ed invalidante da richiedere un trattamento con l’ausilio di macchinari che mantengano artificialmente la vita allo stato vegetativo.
La dizione testamento viene presa dal linguaggio giuridico in riferimento ai tradizionali pronunciamenti dove si lasciano per iscritto le decisioni in merito alla destinazione di beni materiali da lasciare ai propri eredi. Tale forma di documento esiste in quasi tutti i Paesi occidentali, il più famoso è quello in uso in Inghilterra, che prende il nome di “living will”. Alcune volte viene indicato un parente o un fiduciario incaricato di far rispettare la volontà della persona che redige il testamento biologico.
In Italia non esiste ancora una legge specifica sull’argomento, un disegno legislativo, approvato da uno dei rami del Parlamento in forma restrittiva, a giorni sarà all’esame della Camera, ma il privato cittadino può, servendosi di un notaio, predisporre una sorta di testamento biologico. A tale scopo si possono seguire le indicazioni del professor Umberto Veronesi contenute sul suo sito. All’occorrenza si potrà trovare un magistrato che lo farà valere o un medico che, seguendo i dettami della deontologia professionale, tenga conto delle decisioni del paziente. E su questo punto in questi giorni la quasi totalità dei presidenti degli ordini si sono espressi affinché vengano definite in sede legislativa le condizioni per cui le volontà del paziente abbiano valore giuridico e gli atti sanitari commessi o omessi in ottemperanza ai desideri del testatore, escluse quelle di eutanasia o assistenza al suicidio, li esonerino da ogni responsabilità civile e penale.
L'articolo 32 della Costituzione della Repubblica italiana stabilisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e l'Italia ha ratificato nel 2001 la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (L. 28 marzo 2001, n.145) di Oviedo del 1997 che stabilisce che «i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione» . Il Codice di Deontologia Medica, in aderenza alla Convenzione di Oviedo, afferma che il medico dovrà tenere conto delle precedenti manifestazioni di volontà dallo stesso.
Per la prima volta in Italia, il 5 novembre 2008, il Tribunale di Modena emette un decreto di nomina di amministratore di sostegno in favore di un soggetto qualora questo, in un futuro, sia incapace di intendere e di volere. L'amministratore di sostegno avrà il compito di esprimere i consensi necessari ai trattamenti medici. Così facendo si è data la possibilità di avere gli stessi effetti giuridici di un testamento biologico seppur in assenza di una normativa specifica.
La Chiesa cattolica, attraverso il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della CEI, ha sollecitato a varare, con la speranza di un ampio concorso, una legge sul fine vita che, riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili e rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza, fuori dalle gabbie burocratiche. Riguardo il rifiuto dell’alimentazione e dell’idratazione, l'argomento principale su cui sono divisi i due disegni di legge discussi attualmente in parlamento, ha precisato che non c'è la necessità di specificare alcunché a riguardo, in quanto queste somministrazioni sono ormai universalmente riconosciute come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Questa sarebbe una salvaguardia indispensabile, se non si vuole aprire il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per se stessi. Quello che la Chiesa auspica, mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico è che non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano.
A conclusione di questa breve dissertazione vorrei aggiungere alcune mie considerazioni sul delicato confine tra l’inizio e la fine della vita. Sempre arduo è stato il quesito sull’inizio della vita, ma quanti si interrogano su quando la vita finisca? Fortunatamente, della problematica la Chiesa non se ne è mai interessata e questo disinteresse ha favorito il progresso della scienza dei trapianti, a differenza delle tecniche di fecondazione assistita o dell’aborto, che cozzano contro il dogma dell’animazione coincidente con la fecondazione, sancito nel 1869 da Pio IX nell’“Apostolicae sedis”. A questa conclusione si è giunti dopo che sulla spinosa questione si erano espressi tutti i maggiori studiosi cristiani, da Tertulliano a Sant’Agostino, fino a giungere a Sant’Alberto Magno, che candidamente asseriva che il maschio possedeva un’anima dopo 40 giorni dal concepimento, mentre la donna dopo 90, e San Tommaso d’Aquino, sul cui pensiero si fonda la teologia e l’etica cristiana, che sosteneva la tesi dell’animazione ritardata, prima della nascita, ma molto tempo dopo la fecondazione. Non mi dilungo perché vorrei invitare a meditare sul preciso momento della morte. Pochi sanno che il cuore adoperato per un trapianto è perfettamente pulsante, anche se il vecchio proprietario ha il cervello che non funziona più (elettroencefalogramma piatto). Una situazione identica a tanti ricoverati da anni, senza speranza, nei nostri centri di rianimazione, anche loro con il cervello distrutto, ma con un cuore o i polmoni malandati che non interessano per un trapianto. Se a questi soggetti asportassimo il cuore senza utilizzarlo sarebbe eutanasia? E come mai non lo è se l’organo serve per un trapianto? Alcune cellule resistono alla mancanza di ossigeno più delle altre, ad esempio le cellule pilifere vivono fino a 6 giorni dopo la morte ufficiale, anche dopo il seppellimento del corpo. In caso di morte traumatica in un giovane è impressionante, vegliando il cadavere, scoprire che al mattino ci vorrebbe il barbiere. La delicata linea di confine tra l’inizio e la fine della vita mal si presta ad essere delineata con precisione, se si vuole trovare una risposta unicamente biologica, che non può soddisfare pienamente. Una verità difficile da accettare per il laico, che non voglia travalicare nella scienza come dogma.
Un argomento che diverrà sempre più scottante, che ha costituito per oltre trent’anni per il sottoscritto, come medico e come libero pensatore, oggetto di studio e riflessione, senza speranza oramai di una risposta soddisfacente e definitiva.

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Benedetto terremoto
Tramontata ogni ipotesi di devastazione edilizia


Il terremoto che ha devastato nei mesi scorsi l’Abruzzo, a fronte di lutti e rovine, ha provocato alcuni effetti benefici, tra i quali, soprattutto, l’aver troncato sul nascere l’ipotesi di condono edilizio generalizzato, che il governo voleva varare con la speranza di dare un impulso all’economia boccheggiante.
Si sarebbe trattato in pratica di una parziale abolizione della concessione edilizia, sostituita da una specie di autocertificazione per permettere cospicui aumenti volumetrici. Si è parlato del 10 - 20 - 30% a disposizione dei proprietari di immobili desiderosi di un ampliamento.
Il nostro amato Presidente aveva salutato il nuovo provvedimento come una assoluta novità, una sorta di evento rivoluzionario, mentre non sarebbe stato che il ripetersi di un diffuso malcostume, che negli ultimi decenni ha cementificato le coste, offeso il paesaggio, creato milioni di metri cubi di seconde e terze case inutili, favorita spudoratamente la speculazione del singolo a danno del bene comune.
Una crescita disordinata senza un vero progresso prodotta da un rapporto ingordo verso il mattone.
Naturalmente Berlusconi, il quale nasce come costruttore, al solo odore del cemento ed alla vista delle gru raggiunge l’orgasmo più che al contatto, vero o virtuale, con 100 Noemi, ruggisce come una fiera al richiamo della foresta, ma gli Italiani in questo momento non hanno certo bisogno di una edilizia selvaggia senza leggi e piani regolatori, in grado di creare smisurati arricchimenti per pochi privilegiati.
Fortunatamente il governo, pur avendo una larga maggioranza ed utilizzando impunemente il meccanismo del decreto legge, che ha umiliato il parlamento al ruolo di notaio di decisioni cadute dall’alto, si serve dell’annuncio di un provvedimento come una liberatoria panacea di ogni problema, alla stregua delle manzoniane grida, che non incutevano timore e lasciavano irrisolta ogni questione.


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Un vocabolario maschilista
La lingua di un popolo è viva e palpitante, subisce nel tempo variazioni e mutazioni, ma conserva la sua struttura, la sua musicalità e le sue inclinazioni.
Nel caso dell’italiano risulta evidente la matrice maschilista attribuita a numerose parole, che, cambiando di genere assumono significati completamente diversi e dispregiativi al femminile con una monotonia sconfortante: puttana!
Una situazione singolare degna dell’attenzione dell’Accademia della Crusca così severa nella etimologia e nei congiuntivi.
Abbiamo identificato oltre cento parole che variano drasticamente il loro significato, ma per non tediare il lettore ne segnaliamo soltanto una ventina in rigoroso ordine alfabetico.
Accompagnatore – Musicista che intona la base musicale
Accompagnatrice – Puttana
Buon uomo – Soggetto mite e pacifico
Buona donna – Puttana
Compiacente – Disponibile a favorire il prossimo
Compiacente - Puttana
Cortigiano – Gentiluomo di palazzo
Cortigiana - Puttana
Cubista – Artista seguace del cubismo
Cubista – Puttana
Disponibile – Gentile e premuroso
Disponibile – Puttana
Intrattenitore – Affabulatore socievole
Intrattenitrice – Puttana
Leggero – Di peso modesto, oppure frivolo
Leggera - Puttana
Maiale – Animale domestico
Maiala - Puttana
Massaggiatore – Specialista in kinesiterapia
Massaggiatrice – Puttana
Mondano – Frequentatore della buona società
Mondana – Puttana
Omaccio – Un tipo robusto e minaccioso
Donnaccia – Puttana
Ometto – Un tipo piccolo ed inoffensivo
Donnetta - Puttana
Passeggiatore – Amante del camminare
Passeggiatrice – Puttana
Peripatetico – Filosofo seguace di Aristotele
Peripatetica – Puttana
Prezzolato – Corrotto
Prezzolata – Puttana
Professionista - Medico, avvocato, ingegnere
Professionista - Puttana
Segretario particolare - Portaborse
Segretaria particolare – Puttana
Squillo – Suono del telefono
Squillo – Puttana
Tenutario – Proprietario terriero
Tenutaria – Puttana(che ha fatto carriera)
Uomo allegro – Bonario, barzellettiere
Donnina allegra – Puttana
Uomo con un passato – Una persona con una vita degna di essere raccontata
Donna con un passato - Puttana
Uomo da niente – Un poveraccio, miserabile
Donna da niente – Puttana
Uomo da poco – Un miserabile
Donna da poco – Puttana
Uomo d’alto bordo – Personaggio importante, altolocato
Donna d’alto bordo – Puttana (di lusso)
Uomo di strada – Un tipo losco poco raccomandabile
Donna di strada – Puttana
Uomo facile – un tipo accomodante
Donna facile - Puttana
Uomo pubblico – Personaggio famoso
Donna pubblica – Puttana
Topolone – Un grosso sorcio
Topolona – Puttana
Torello – Un uomo vigoroso
Una vacca – Puttana
Zoccolo – Un tipo di calzatura
Zoccola - Puttana

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Quale mondo dopo la crisi?
Nessuno aveva previsto la tempesta finanziaria che si è abbattuta come una folgore sui mercati internazionali e nessuno ha la ricetta giusta per uscire dalla crisi, né i governi, né le banche centrali, nonostante previsioni contrastanti si accavallino: depressione, deflazione, cenni di ripresa. Il giocattolo con il quale si sono dilettati per anni i boss della finanza criminale si è rotto e certamente non si potrà riparare. Il signoraggio mascherato, che si è praticato spudoratamente sulla pelle di centinaia di milioni di sprovveduti risparmiatori non potrà ripetersi.
L’aver creato per anni falsi bisogni, in omaggio al moloch insaziabile del consumismo, aver alimentato un indebitamento spropositato dei cittadini per comprare beni dei quali non avevano reale necessità, ha innestato un meccanismo perverso che non poteva non deflagrare con effetti disastrosi. La formula che si sta seguendo attualmente di curare il debito con un altro debito non porta da nessuna parte; i governi hanno nazionalizzato le banche, utilizzando un denaro che non possiedono ed hanno semplicemente trasformato un debito privato in un debito pubblico, ipotecando pericolosamente il futuro e con grave nocumento per i nostri figli e nipoti.
Dalle ceneri di un capitalismo sfrenato e senza regole dovrà necessariamente sorgere un mondo nuovo, tutti noi dobbiamo impegnarci che sia un mondo migliore, ci vorranno una ferrea volontà e la consapevolezza di essere gli artefici di una rivoluzione culturale che, dimenticando l’economia centralizzata di tipo sovietica, già fallita negli anni Ottanta e l’economia di mercato senza restrizioni e controlli, la quale sta crollando miseramente sotto i nostri occhi, sia in grado di creare un nuovo modello di sviluppo, rispettoso delle improcrastinabili esigenze ecologiche e dell’esaurimento delle risorse , capace di procurare benessere più che beni materiali e che cerchi di colmare le diseguaglianze di reddito tra i cittadini e tra i popoli.
La crisi potrà allora rappresentare un’opportunità per arginare i rischi mortali di una globalizzazione anarchica, che in breve avrebbe travolto la nostra ideologia basata sull’egoismo e sull’individualismo e messo in discussione la stessa democrazia, dimostratasi inadeguata a gestire il caos nelle transazioni internazionali di merci e denaro.
Il futuro del mondo è legato all’istaurarsi di un’economia mista, nella quale pubblico e privato sappiano convivere, ma fondamentale resta la necessità di un diritto ed un governo planetario, che garantisca una più equa ripartizione delle risorse. I mercati finanziari, globali per definizione, non possono resistere senza una normativa internazionale e senza uno Stato sovranazionale che la faccia rispettare.
Siamo al day after di una guerra nucleare che ha distrutto le nostre certezze, ma ha lasciato in piedi le fabbriche ed i vita i lavoratori, bisogna approfittare di questa circostanza ed impegnarsi, in primis politici ed intellettuali, a disegnare un mondo migliore, che superando la crisi garantisca benessere ed uguaglianza universali.



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Obiezione di coscienza: diritto o prevaricazione?
La 194 del 22 maggio 1978, ufficialmente legislazione in difesa della maternità, in pratica normativa che regola l’interruzione volontaria della gravidanza, introdusse la facoltà per il personale medico e paramedico di esercitare l’obiezione di coscienza, una possibilità della quale usufruirono una percentuale preponderante degli aventi diritto e non solo, ricordo infatti che nell’ospedale dove lavoravo i primi due colleghi che si precipitarono in direzione sanitaria furono due oculisti!
La legge, frutto all’epoca di un ipocrita compromesso tra cattolici e forze di sinistra, ha compiuto trenta anni di vita, mostra vistose incongruenze che il tempo ed alcune scoperte scientifiche hanno accentuato e necessita urgentemente di alcune modifiche, in primis la possibilità di scelta del medico da parte della paziente. Un argomento scottante, che cerco da tempo di far giungere, se non nelle aule parlamentari, almeno sui mass media per un confronto sereno tra idee contrastanti, ma in questo articolo vorrei concentrare la discussione unicamente sul problema dell’obiezione di coscienza, segnalando ai lettori due mie contributi recenti, che sono stati pubblicati sui due principali quotidiani del Paese: la Repubblica ed il Corriere della sera.
Egregio dottore,
l’obiezione di coscienza è un diritto sacrosanto, previsto in molte legislazioni europee, che permette ai sanitari di non avere una parte attiva in prestazioni mediche contrarie ai propri principi morali.
Lentamente questa facoltà è stata allargata a dismisura, dando luogo a comportamenti paradossali, come il portantino che non vuole accompagnare una paziente che deve sottoporsi ad interruzioni di gravidanza o il farmacista che si rifiuta di vendere la pillola del giorno dopo, nonostante la presentazione della ricetta ed il farmaco sia regolarmente registrato nella farmacopea. Senza tenere conto dell’obiezione dichiarata per non inimicarsi il direttore sanitario o il protettore politico, uno squallido prosseneta che tutti coloro che esercitano in strutture pubbliche sono costretti ad avere. Molti per quieto vivere o vigliaccheria dimenticano che la coscienza quando non è d’accordo con una legge ritenuta sbagliata o un sentenza avversa quando si è innocenti deve essere pronta a ribellarsi, a costo di essere perseguitati, di non fare carriera, di perdere il lavoro, gli amici, la libertà, al limite anche la vita.
Troppo facile l’obiezione che fa pagare ad altri il costo di una scelta comoda, ma in questi casi non si tratta di coscienza, ma di una pallida parvenza di morale ipocrita e menzognera.
La Repubblica - 19 dicembre 2008, pag 32
Caro Romano,
in riferimento alla lettera sull’obiezione di coscienza negli Stati Uniti, vorrei precisare che essa, come in Francia, Spagna e Inghilterra, è del tutto ininfluente perché le interruzioni di gravidanza avvengono la gran parte in cliniche private. Una situazione diametralmente opposta a quella dell’Italia dove una legge vecchia, frutto di un difficile compromesso, permette l’aborto solo nelle strutture pubbliche, per cui l’obiezione di coscienza, spesso fasulla, incide pesantemente sui tempi di attesa, esasperando le donne, già costrette ad una scelta sofferta e difficile.
Corriere della Sera – 12 aprile 2009, pag 31


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Emanuele Filiberto di Savoia trionfa a Ballando sotto le stelle
Inaspettata, ma non troppo, la vittoria del principe Emanuele, in coppia con l’affascinante Titova, al popolare programma televisivo Ballando sotto le stelle, Il successo, decretato democraticamente col sistema del televoto, rappresenta un indice attendibile di come la sua popolarità sia cresciuta ed il suo personaggio, nonostante il peso di un cognome ingombrante, sia stato accettato come quello di un giovane simpatico, moderno ed in grado di impegnarsi seriamente.
Emanuele Filiberto è vissuto a lungo lontano dall’Italia, per via di un’assurda disposizione transitoria della nostra Costituzione, solo di recente abolita, che vietava agli eredi Savoia di soggiornare nella loro patria e sognava di potervi tornare.
Ha cercato senza successo l’ingresso in politica, presentandosi alla recente consultazione elettorale nella circoscrizione estera, ma desiderava soprattutto che la gente potesse conoscerlo e giudicarlo senza pregiudizi e preconcetti, libero da una nemesi storica opprimente ed anacronistica.
La stampa non è mai stata tenera nei suoi riguardi, concedendogli qualche spazio solo su riviste frivole attente agli eventi mondani ed ha trascurato di rendere nota la sua alacre attività in una organizzazione da lui fondata Finanza e futuro.
Due anni fa ebbi modo di intervistarlo in esclusiva per un gruppo di emittenti televisive private e rimasi colpito dalla sua personalità e dalla sua volontà di rendersi utile nel suo paese: l’Italia. Mi confessò che da bambino collezionava cartoline illustrate con le immagini di quella nazione lontana e proibita.
Alla mia insidiosa domanda se la monarchia come sistema politico avesse ancora un senso nel XXI secolo, placidamente rispose che numerosi Stati europei dall’Inghilterra alla Svezia, dalla Danimarca alla Norvegia sono ben governati con i poteri del sovrano in sintonia con quelli del Parlamento.
Rispose a domande sulla situazione italiana e di Napoli in particolare e non si sottrasse, pur timoroso della moglie gelosa, neppure ad esternare i suoi gusti e le sue preferenze in campo femminile.
Per chi volesse conoscerlo meglio attraverso questa intervista può consultarla, anche in versione video, sul web, basta digitare tra virgolette: Intervista al principe Emanuele Filiberto di Savoia.


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Droga libera, appello provocazione all’Onu


Gentile dottore,
di liberalizzare la droga fino ad ora ne avevano parlato solo i radicali, più volte e sempre inascoltati. Le loro argomentazioni erano ineccepibili e, se diffuse dai mass media, avrebbero convinto gran parte dell’opinione pubblica: in Italia alla base di oltre il 50% dei reati vi è l’ombra del traffico di stupefacenti, il 60% dei carcerati è ospite dello Stato per reati connessi allo spaccio, la metà delle forze dell’ordine e della magistratura è occupata da problemi legati alla diffusione ed al consumo della droga. Non si è mai aperto un dibattito serio e coraggioso sull’argomento perché l’antistato ha oramai guadagni tali da poter corrompere chiunque.
La questione è ora rimbalzata a livello internazionale grazie ad un appello all’Onu partito dall’università di Harvard, sottoscritto da 500 studiosi di varie nazioni. Essi, in occasione dei cento anni trascorsi dalle prime norme sul proibizionismo, invitano i governi a cambiare rotta, strappando ai narcotrafficanti il loro sterminato fatturato ed utilizzandone gli introiti per finanziare una gigantesca lotta alla criminalità organizzata. La politica seguita fino ad oggi di pura repressione ha dato risultati disastrosi, mentre non solo circolano sempre più sostanze tossiche, ma anche di pessima qualità, con grossi pericoli per chi le assume.
Il fiume di denaro per i mercanti internazionali si aggira sui 320 miliardi di dollari l’anno, una massa di liquidità in grado di incrinare le coscienze e corrompere qualsiasi Stato.
In questi giorni a Vienna i rappresentanti di 50 paesi sono riuniti per mettere a punto le strategie da adottare nel prossimo decennio e pare che nessuno si farà paladino della liberalizzazione, per cui dobbiamo attenderci in futuro un ulteriore rafforzamento del cartello criminale che domina il mondo, inquinando la finanza, condizionando le elezioni ed intimorendo i governi; un potere smisurato al quale nessuno potrà opporsi fino a quando non si deciderà di cambiare le leggi attuali.

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Nazionalizzare necesse est
La disastrosa crisi finanziaria che ha sconvolto le borse di tutto il mondo ed ha provocato un collasso dell’economia planetaria ha indotto i governi, sia negli Stati Uniti che in Europa, ad intervenire attivamente sul mercato nazionalizzando numerose banche, un comportamento contrario ai principi basilari del capitalismo che ha spaventato gli investitori tradizionali, provocando un ulteriore caduta del valore nominale delle azioni.
La parola nazionalizzare incute un sacro timore nel piccolo risparmiatore, memore di quei trasferimenti forzati di ricchezza che furono nei secoli: l’esproprio dei beni della Chiesa a seguito della Rivoluzione francese nel 1789 o l’abolizione della proprietà terriera decisa dai bolscevichi in Russia nel 1918, decisione seguita poi anche da Mao Zedong in Cina nel 1949.
Oggi (O tempora o mores) i banchieri americani corrono ansimanti verso i funzionari governativi, chiedendo disperatamente di essere nazionalizzati, con la benedizione dello stesso Alan Greenspan, pontefice della banca centrale dai tempi di Reagan e tra i maggiori responsabili della Caporetto attuale. Una scena paradossale descritta dall’Economist in un magistrale articolo dal titolo emblematico: La notte dei morti viventi.
Esiste una sostanziale differenza tra un’azienda nazionalizzata ed una partecipata, nella prima lo Stato è l’unico proprietario e spesso si pone degli obiettivi diversi da quelli di un’impresa privata: acquisire il controllo di materie prime o prodotti indispensabili per l’economia del Paese, salvaguardare l’occupazione in momenti di crisi; nel secondo caso vi è maggiore attenzione al profitto, soprattutto se non si agisce in regime monopolistico, bensì in concorrenza con altre aziende del settore.
La differenza che in Italia ha marcato per decenni la sostanziale diversità tra Enel ed Eni.
Non mancano esempi di interesse dei cittadini all’esistenza di forti raggruppamenti monopolistici nelle mani dello Stato, come nel caso della Francia, divenuta punto di riferimento mondiale nel nucleare e nell’alta velocità grazie ad una visione proiettata nel futuro, in contrasto con la logica del profitto immediato caratteristica delle imprese private, che spesso non stilano programmi se non fino all’anno del pensionamento del Grande capo.
L’ideale sarebbe che lo Stato intervenisse solo quando è necessario, capitalizzando l’attività in sofferenza con denaro dei contribuenti, pronto però a lasciare non appena possibile, ricollocando quanto acquisito precedentemente di nuovo sul mercato. Un’utopia virtuosa, poche volte realizzatasi, ma necessaria alla sopravvivenza del capitalismo.
Oggi gli Stati Uniti, alfieri indiscussi della concorrenza, si vedono obbligati ad intervenire drasticamente per non far fallire colossi del credito quali la Bank of America e la Citigroup, con un impiego di capitali enormemente superiore a quanto sarebbe bastato a salvare la Lehman, il cui crollo ha fatto deflagrare il sistema.
Un comportamento simile a quello che fu adottato da Roosevelt, quando nel 1929, durante la Grande crisi, intraprese la via di alcune fondamentali nazionalizzazioni, come la creazione della Tennessee Valley Authority, che inglobò tutte le aziende elettriche private, influenzando positivamente distribuzione e tariffe.
Il celebre presidente non si ispirò all’epoca all’Unione sovietica, ma guardò con interesse a quanto avveniva in Italia, dove Mussolini divenne proprietario delle banche e creò l’Iri, un originale modello di sviluppo durato oltre 50 anni.
Tutti avvertono la delicatezza delle decisioni prese freneticamente in questi giorni di difficile assestamento, con bollettini quotidiani di guerra scanditi dall’aumento della disoccupazione, dal crollo delle borse e dalla diminuzione dei consumi. Si sente la necessità di una linea di pensiero che ridisegni il nostro futuro, nel frattempo l’idea del capitalismo sta subendo senza reagire l’oltraggio delle nazionalizzazioni, una improcrastinabile medicina per salvaguardare interi pezzi del sistema economico che si stanno liquefacendo come neve al sole.
Marina della Ragione

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Una legge anacronistica
Soltanto in Italia una legge paradossale, risalente al ventennio, prevede la possibilità di notificare un’opera d’arte, sia essa una scultura o un dipinto, come pure un libro o un palazzo di particolare pregio storico o architettonico.
Notificare significa che lo Stato giudica quel manufatto di interesse nazionale e ne vieta il trasferimento all’estero, per cui se esso viene posto in vendita, tramite una trattativa privata o in un’asta, il legittimo proprietario deve informare la sovrintendenza della sua intenzione e l’acquirente compra con l’alea che, se entro 90 giorni, viene esercitato il diritto di prelazione, non può entrare in possesso di ciò che ha comprato.
Naturalmente il divieto di esportazione e la procedura da rispettare intimoriscono il potenziale compratore, il quale deve appalesarsi pubblicamente e sviliscono in maniera tangibile il valore venale dell’opera con grave nocumento degli interessi del venditore.
In Europa esiste, come imperativo categorico, la libera circolazione per ogni tipo di merce, nonché per i lavoratori ed i capitali, che possono trasferirsi liberamente dove ritengono più opportuno e conveniente, per cui è lampante che la normativa italiana è in stridente contrasto con lo spirito che anima tutte le legislazioni comunitarie.
In Italia è presente circa la metà del patrimonio artistico mondiale, ma questa circostanza non può autorizzare lo Stato a prolungare la vita a leggi che non hanno più diritto di cittadinanza in uno spazio di libertà assoluto come da tempo è quello europeo.
Nella mia veste di avvocato mi appresto a presentare presso la Corte Europea un esposto affinché ci sia una pronuncia sulla questione, ma sarebbe opportuno, allo scopo di evitare una condanna dello Stato italiano, che qualche parlamentare di buona volontà si faccia carico di una proposta di legge che abolisca una norma anacronistica ed eccessivamente protezionistica.

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Chiavette internet:truffa o progresso?
La possibilità di collegamento ad internet da qualunque zona del Paese è una necessita improcrastinabile per una società che voglia vivere un presente proiettato nel futuro e non ancorato al passato.
Straordinarie possibilità di lavoro e non solo di divertimento si sono aperte nell’era digitale, per cui si guarda con interesse alla recente commercializzazioni di chiavi di accesso al web utilizzabili su computer portatili o da appartamenti privi di rete telefonica fissa.
Anche io ho acquistato una chiavetta Tim per collegarmi ad internet dal portatile, un contratto biennale di 40 euro al mese per 100 ore di navigazione ogni 30 giorni. Avevo preventivamente chiesto se le zone dove avrei adoperato il dispositivo erano coperte e mi era stata assicurata la possibilità di utilizzarla 24 ore su 24; viceversa non solo è estremamente difficile il collegamento, con il segnale che spesso cade dopo pochi secondi, ma addirittura,(una vera truffa), ogni tentativo di connessione, anche fallito, preleva 15 minuti dalle 100 ore disponibili.
Inoltre la Tim ha la pessima abitudine di inviare messaggi, banali e non richiesti, durante le ore notturne. Per chi tiene acceso sempre il cellulare non è piacevole nel cuore della notte essere risvegliati da un bip, che ci informa che la ricarica è stata effettuata o che possiamo usufruire di tariffe particolari per spedire dei messaggi.

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I love shopping
Una amara ironica denuncia del consumismo

 I love shopping, sta letteralmente sbancando il botteghino, incassando ben più dei film vincitori degli Oscar.
Il segreto sta in una deliziosa storia d’amore, in una fotografia accattivante, ma soprattutto nel messaggio subliminale che raggiunge lo spettatore, mettendo a fuoco la crisi mortale della società dei consumi.
La storia si impernia su una simpatica giornalista affetta da una sindrome purtroppo oggi molto diffusa. l’irresistibile follia di comperare vestiario ed oggetti dei quali non vi è alcuna necessità: centinaia di borse, scarpe, sciarpe, lingerie, profumi, favoriti in questi acquisti scriteriati dal possesso di una miriade di carte di credito, che, spostando il pagamento ad un futuro improbabile, danno l’onnipotente sensazione di poter possedere qualsiasi cosa. Un’illusione fugace quanto inebriante, una sensazione di identità ed onnipotenza subdola quanto e più di una droga.
Una malattia che colpisce, più virulenta di una micidiale epidemia, non solo signore del jet set, ereditiere croniche o abituate a cambiare letto con banale disinvoltura, ma anche decine di migliaia di impiegate e operaie, capaci di spendere uno stipendio pur di indossare un capo firmato.
Da questo penoso deserto esistenziale deriva la spaventosa crisi economica che in questi giorni sta travolgendo i mercati. Falsi bisogni e pagamenti dilazionati, una miscela esplosiva in grado di mandare in frantumi il mondo.
 

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Stupro culturale
I sempre più frequenti episodi di violenza sessuale verso le donne, spesso ad opera di immigrati, ha scatenato un giusto allarme sociale, ma è mancata sui mass media una seria discussione sull’origine del fenomeno e sui possibili rimedi.
Bisognerebbe riflettere sulla nefasta abitudine del sesso libero e dell’esposizione del corpo nudo della donna, che caratterizza la nostra società e che costituisce un potente richiamo per individui, di cultura diversa, lontani da casa e soprattutto, arrapati cronici.
Far vedere una vivanda appetitosa non contribuisce certo a placare la fame, è come mostrare la droga ad un tossico in crisi di astinenza o dell’acqua ad un assetato.
Le pulsioni sono difficili da controllare per una persona normale, diventano ingovernabili per soggetti provenienti da paesi dove il corpo della donna è tabù; è un comportamento ipocrita prendersela solo con il criminale senza fare niente per affrontare le cause che hanno favorito il delitto.
Come arginare il problema? Un poliziotto in ogni strada? Schierare l’esercito? Le ronde?
Oppure convinceremo le popolazioni che ancora considerano il sesso un frutto proibito ad uniformarsi alle lascive abitudini occidentali con tutto ciò che di devastante esse comportano in fatto di sfascio della famiglia, deriva dei costumi e figli sbandati?
Aumenteremo le pene per gli stupratori, li castreremo chimicamente o con appositi forbicioni, mettendo così a tacere la nostra coscienza, anche se non servirà a nulla come la pena di morte non riesce a ridurre i crimini.
Il sesso è un’arma micidiale a doppio taglio che l’umanità non è in grado di gestire senza causare gravi ferite a se stessa.
I mezzi di comunicazione di massa sono responsabili non solo di proporre immagini di sesso come innocente piacere senza effetti collaterali, ma di incitare anche i sassi a fare sesso, incuranti degli effetti che può produrre in chi non è in grado di dominare i propri impulsi.
Non vi è trasmissione televisiva che non esponga donne seminude o filmato che non si risolva in un amplesso fine a se stesso o in una eclatante quanto diseducativa manifestazione di violenza.
La colpa è soprattutto di coloro che condizionano i nostri desideri, consci ed inconsci, il potere economico che pur di vendere un prodotto si serve dell’oggetto del desiderio femminile come specchietto per le allodole senza preoccuparsi degli effetti collaterali che produce.
Le immagini degli spot pubblicitari non hanno forse lo scopo di far emulare, far nascere il desiderio di quel prodotto? Perché il sesso non dovrebbe produrre gli stessi effetti?
Le famiglie, la scuola, lo Stato, devono educare la gente alla moderazione, all’autocontrollo, alla finalizzazione.
Ma soprattutto la donna deve essere consapevole che può essere oggetto di forte desiderio e che, finché l’umanità non sarà migliore, la condotta più efficace è la prudenza.
Nessuno sembra interessato a combattere le radici del fenomeno: è più semplice e più conveniente intervenire sugli effetti, anche se il risultato è penosamente nullo.

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Le grotte Platamonie ed i riti orgiastici
La grotta di Piedigrotta è stata per secoli, forse millenni, teatro di pratiche orgiastiche in onore di Priapo, che periodicamente impegnavano giovani di entrambi i sessi, i quali davano libero sfogo alle loro più elementari pulsioni con innegabili benefici per il corpo e lo spirito. Il buio della caverna faceva cadere ogni inutile inibizione e alimenti energetici venivano in soccorso ai maschi impegnati in defatiganti amplessi (la famosa sfogliatella dalla forma che rammenta il pube femminile era il viagra dell’epoca).
Con l’avvento del Cristianesimo questi costumi scostumati sono stati incanalati in una più tranquilla festività a cadenza annuale, durante la quale gli istinti repressi potevano sfrenarsi in balli e strusciamenti reciproci; nasce la famosa Piedigrotta napoletana, assassinata negli anni Settanta del secolo scorso dal traffico caotico della città e da amministratori miopi e sconclusionati. Erano feste memorabili, che duravano fino a quindici giorni, durante le quali, al passaggio dei mastodontici carri allegorici, era permesso un po’ di tutto: urlare, sbracciarsi, calare coppoloni in testa a tipi “soggetti”, esercitare vigorosamente la mano morta su sederi di tutte le età, pur senza trascurare eventuali seni generosamente esposti, dimenticando in tal modo le angustie quotidiane. L’antico spirito greco della festa, nata tra venerazioni priapiche e sfrenate danze liberatorie, sembrava rivivere nel popolo festoso, esaltando lo spirito trasgressivo e godereccio dei napoletani.
Meno famose della celebre sorella sono le grotte Platomonie, poste lungo il litorale dell’antico borgo di S. Lucia ed oggi, in parte abbandonate o vergognosamente trasformate in garage, che potrebbero dare un sollievo allo scottante problema del parcheggio, ma da anni al centro di una diatriba (truffa) infinita tra squallidi speculatori ed una giunta comunale collusa ed incapace.
Questi anfratti sono il prodotto erosivo dell’acqua sulla roccia nel corso del tempo e derivano il loro nome dal greco platamon. Alcune furono adoperate per l’allevamento delle murene, ma la loro fama è legata ad un particolare rito orgiastico, che si svolgeva più volte all’anno e consisteva nell’incontro tra una menade incoronata da un’alga marina ed uno jerofante agghindato da uomo pesce che la fecondava.
A partire dal Quattrocento il rituale subì una sorta di legalizzazione ed i due officianti erano freschi sposi che consumavano il matrimonio alla presenza dei membri di una setta, che accompagnavano la deflorazione con ritmiche cantilene e preparavano un’atmosfera adeguata bruciando essenze profumate inebrianti in tripodi ornati di falli alati del tipo di quelli che gli scavi di Pompei porteranno alla luce secoli dopo.
Nelle deliziose grotte Platamonie per rinfrescare gl’immensi ardori dell’estate, passeggiavano quinci e si riparavano con spessi e sontuosi conviti, ricevendo dispogliati la grata aura e il desiderato fiato di ponente, e nudi tra le chiare onde a nuoto si difendevano dal noioso caldo". Benedetto di Falco, secolo XV.
"Quivi, come narrasi, la gente allegra e spensierata accorreva a banchettare e a darsi spasso; finché i sollazzi mutati, poscia, in orge scandalose, resero quei luoghi dei sozzi postriboli". Loise de Rosa, 1452.
Vari autori ci raccontano che oltre a rituali i luoghi erano adoperati anche per ammucchiate che di iniziatico avevano ben poco.
Anche la malavita cercava di usufruire di un nascondiglio sicuro per nascondere merci di contrabbando e mal tollerava l’utilizzo con finalità erotiche delle grotte, per cui fece giungere al viceré don Pedro da Toledo notizia delle orge scandalose che vi si svolgevano. Il risultato fu la distruzione delle stratificazioni più profonde e la chiusura di tutte le altre. Al medesimo viceré si deve l'ampliamento cinquecentesco che per la prima volta inglobò all'interno delle mura il monte Echia, ancora in epoca aragonese fortezza militare siti Perillos, propaggine esterna della città.
Ma dove si sono ripetuti a lungo riti intrisi di tradizione e di mistero e si è scatenata incontenibile la furia erotica, i luoghi restano impregnati da forze che molto lentamente decantano ed a nulla valse murare le grotte più profonde adibite alle congiunzioni carnali più folli e scatenate; dal sottosuolo emanano sedimentazioni energetiche, viscerali, piroclastiche, telluriche, sibilline e più volte sarà capitato a qualche signora o signorina, passeggiando per via Chiatamone, senza capirne il motivo, di avvertire chiaramente un dolce, improvviso, irrazionale, irrefrenabile desiderio di sesso più che di amore.


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I confini della vita


Gentile direttore,
arduo è il quesito sull’inizio della vita, ma quanti si interrogano su quando la vita finisca? Fortunatamente della problematica la Chiesa non se ne è mai interessata e questo disinteresse ha favorito il progresso della scienza dei trapianti, a differenza delle tecniche di fecondazione assistita o dell’aborto, che cozzano contro il dogma dell’animazione coincidente con la fecondazione, sancito nel 1869 da Pio IX nella”Apostolicae sedis”. A questa conclusione si è giunti dopo che sulla spinosa questione si erano espressi tutti i maggiori studiosi cristiani, da Tertulliano a S. Agostino, fino a giungere a S. Alberto Magno, che candidamente asseriva che il maschio possedeva un’anima dopo 40 giorni dal concepimento, mentre la donna dopo 90 e S. Tommaso d’Aquino, sul cui pensiero si fonda la teologia e l’etica cristiana, che sosteneva la tesi dell’animazione ritardata, prima della nascita, ma molto tempo dopo la fecondazione.
Non mi dilungo perché vorrei invitare a meditare sul preciso momento della morte. Pochi sanno che il cuore adoperato per un trapianto è perfettamente pulsante, anche se il vecchio proprietario ha il cervello che non funziona più (elettroencefalogramma piatto). Una situazione identica a tanti ricoverati da anni, senza speranza, nei nostri centri di rianimazione, anche loro con il cervello distrutto, ma con un cuore o i polmoni malandati che non interessano per un trapianto. Se a questi soggetti asportassimo il cuore senza utilizzarlo sarebbe eutanasia? E come mai non lo è se l’organo serve per un trapianto? Alcune cellule resistono alla mancanza di ossigeno più delle altre, ad esempio le cellule pilifere vivono fino a 6 giorni dopo la morte ufficiale, anche dopo il seppellimento del corpo. In caso di morte traumatica in un giovane è impressionante, vegliando il cadavere, scoprire che al mattino ci vorrebbe il barbiere.
La delicata linea di confine tra l’inizio e la fine della vita mal si presta ad essere delineata con precisione, se si vuole trovare una risposta unicamente biologica, che non può soddisfare pienamente. Una verità difficile da accettare per il laico, che non voglia travalicare nella scienza come dogma. Un argomento che diverrà sempre più scottante, che ha costituito per oltre trent’anni per il sottoscritto, come medico e come libero pensatore, oggetto di studio e riflessione, senza speranza oramai di una risposta soddisfacente e definitiva.



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Il falso mito della democrazia

Tutti crediamo di vivere in una democrazia e solo per questo dovremmo essere felici guardando tanti popoli in preda a dittatori folli e sanguinari, dall’Africa alla America del sud, ma pochi si rendono conto che il sogno di un regime democratico è falso e menzognero, perché tale forma di governo non esiste, né può esistere. Forse nella polis greca, quando a governare una piccola città vi erano pochi capi famiglia, si poteva avere l’illusione di una realtà, ma oggi anche amministrare un rissoso condominio sembra un’utopia.
Oggi, e da tempo, viviamo sottoposti ad un regime oligarchico dominato dai poteri forti: banche e multinazionali, le quali controllano l’economia e manipolano il consenso attraverso i mass media, che ci inducono a pensare in un certo modo, mentre la televisione ci frantuma il cervello ed il senso critico.
In tutte le pseudo democrazie occidentali l’affluenza elettorale è inferiore al 50% ed anche in Italia siamo su quella strada, non tanto per disaffezione verso i nostri parlamentari, bensì perché inconsciamente ci convinciamo dell’inutilità del voto.
Non è politicamente corretto cominciare a rifiutare semplicemente il paradigma sul quale si basa la democrazia: un individuo, un voto?
Questa affermazione potrebbe essere giusta se i cittadini fossero eguali veramente e non soltanto nella fantasia pomposamente sancita nell’articolo 3 della nostra veneranda Costituzione.
L’ abissale diversità tra l’ignorante ed il colto, tra il ricco ed il povero, tra il giovane ed il vecchio salta agli occhi perentoriamente, come se non bastassero le stridenti diversità per lingua, razza, religione, censo, cultura, abilità professionale.
Non credere nella superiorità della democrazia è poco meno che una bestemmia, ma siamo certi che dobbiamo continuare a crederlo senza ricercare un possibile rimedio.
L’assenza nel dibattito dei giovani è deleteria, senza il loro entusiasmo e le loro idee siamo perduti. Cerchiamo di dare più spazio alla loro immaginazione, senza dimenticare che chi sparge semi al vento fa germogliare fiori nel cielo.


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Il mendace trionfo dell’evoluzionismo
Il bicentenario della nascita di Darwin trova nei mass media il giusto risalto trattandosi di commemorare una scoperta scientifica che ha rivoluzionato la biologia ed ha spodestato l’uomo da quella posizione privilegiata che credeva di occupare nel mondo dei viventi, ma si sarebbe dovuto dare spazio anche a coloro che ritengono la teoria dell’evoluzione non in grado di spiegare la straordinaria complessità della natura, dalla mirabolante precisione dell’occhio alle emozioni dell’uomo.
Per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il calcolo delle probabilità risulta assurdo pensare che il caso abbia potuto produrre l’ordine, come un romanzo non può essere il risultato di uno scarabocchiare a caso delle lettere su un foglio di carta, come si proponevano nella loro allegra follia i futuristi, analogamente una specie non può essere il frutto imprevedibile di casualità e necessità
La selezione naturale, senza un progetto, avrebbe prodotto, al fianco di forme perfette come un alveare o un cervello, un’infinità di organismi aberranti.
La stessa esistenza di regole da rispettare, come il trionfo dei più adatti, presuppone un codice… che precede e sovraintende alla vita.
Lo studio e la scoperta del processo evolutivo non è altro che una tappa nella decifrazione del gran libro della natura e non è obbligatoriamente in contrasto con l’idea di un progetto e di un sommo ingegnere.
Di recente delle critiche alla teoria dell’evoluzione sono state avanzate dai seguaci del Progetto intelligente, un movimento più filosofico religioso che scientifico, i quali ritengono che la teoria dell’evoluzione da sola non sia capace di spiegare la complessità della creazione e si battono, soprattutto negli Stati Uniti, per introdurre nell’insegnamento scolastico le loro idee.
Ma le accuse più dirompenti sono state avanzate da alcuni settori del mondo scientifico, dalla fisica più che dalla biologia e tra queste ne segnaliamo due molto convincenti.
La prima è stata una ricerca effettuata nell’università del Maryland ed ha dimostrato che la densità di connessioni e la distribuzione dei gangli nervosi, in tutti i viventi esaminati, dai nematodi alle scimmie ed allo stesso uomo, è la migliore possibile tra le decine di milioni di varianti esaminate pazientemente al computer, migliore anche della connettività ingegnerizzata nelle migliori microchip oggi realizzabili industrialmente. Gli studiosi hanno sottolineato che si tratta di processi innati di ottimizzazione, ma non specificati, in quanto tali, dai geni. Queste soluzioni ottimali del mondo biologico è impossibile che si siano realizzate casualmente, dopo decine di milioni di generazioni di macachi il cui cervello ha tentato a sorte tutte le soluzioni possibili; la selezione ha dovuto essa stessa seguire dei binari stretti, imposti dalla fisica e da principi generali di ottimizzazione.
La seconda stupefacente ottimizzazione naturale è quella interessante i centomila chilometri di vene, arterie e capillari che costituiscono il sistema di trasporto del sangue nei mammiferi. Al Santa Fe Institute hanno dimostrato matematicamente che l'organizzazione di tutti questi vasi, nel topo come nella balena, segue costantemente la legge dei cosiddetti frattali perfetti. In pratica la rete minimizza i costi di trasporto e ottimizza gli scambi.
Ricordiamo che la teoria dell’evoluzione si interessa unicamente del mondo vivente sia animali che piante, una trascurabile scintilla nel gran fuoco dell’universo, regolato da leggi in parte identificate ed in parte da scoprire e nel quale i sassi cadono a terra per la forza di gravità, non perché la selezione naturale ha eliminato tutti quelli che tendevano ad ascendere in alto.



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Possibili rimedi alla vecchiaia


Gentile dottore,
la vecchiaia è sempre stata vista come una dura condanna da sopportare e l’uomo ha sognato di potervi porre rimedio: dal mito di Faust alle fontane della giovinezza, dal Gerovital al disperato ricorso al botulino ed alla chirurgia plastica.
In futuro questo sogno disperato di evitare la vecchiaia potrà venirci dalla clonazione, che sarà in grado di trasferire la nostra identità psichica in un nuovo corpo o dall’ingegneria genetica, se riuscirà a riparare i guasti a livello molecolare, che sono alla base dei fenomeni che ci allontanano sempre più dalla giovinezza. E progressi significativi potranno realizzarsi studiando a fondo la progeria, una rara affezione che produce un’accelerazione spasmodica della senescenza, trasformando innocenti bambini in vecchi decrepiti.
In attesa che i progressi della scienza ci conducano in un futuro ancora lontano, quando la vecchiaia sarà un orribile ricordo del passato, relegata come mostruosità nei libri di storia della medicina, l’impegno delle istituzioni deve tendere a considerare l’anziano come parte integrante del tessuto sociale, depositario di saggezza e di esperienza e non un paria privo di importanza e di ruoli, relegato, in un mondo dominato dal consumismo sfrenato e dall’egoismo più becero, in un angolo dimenticato, condannato alla solitudine, all’infermità ed alla disperazione.
In passato le società primitive o nomadi hanno considerato i vecchi un peso inutile negli spostamenti, in alcune, molto povere, venivano sepolti, bruciati vivi oppure lasciati morire lontano da tutti; in quelle sedentarie, come la nostra, si apprezzava viceversa la capacità di trasmettere valori alle giovani generazioni.
Purtroppo il disfacimento della famiglia patriarcale ed un’ organizzazione politica ed economica basata unicamente sulla produzione e sul profitto non permette agli uomini di conservare la loro piena dignità di cittadini nell’ultima fase della vita. Ridare voce agli anziani comporterebbe uno sconvolgimento radicale in una società dominata dalla volontà di pochi crudeli mandarini, i quali decidono le sorti degli altri senza timore di condividerle.
“I vecchi sono esseri umani? A giudicare dal modo con cui sono trattati nella nostra civiltà è lecito dubitarne: la vecchiaia resta un segreto vergognoso, un soggetto proibito. Bisogna rompere la congiura del silenzio ed è necessario l’impegno di tutti”.
Con queste focose parole Simone de Beauvoir arringava i suoi lettori ad affiancarla nella battaglia al termine del suo celebre libro la Terza età e la via da lei indicata resta ancora l’unica da seguire.


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Chi comanda nel mondo
L’antica farsa del potere


Il denaro è l’indiscusso motore della storia, più della guerra o dell’amore, scatena le guerre, affama i popoli, condiziona la vita dell’uomo, creando rigide barriere economiche ed assurde divisioni in classi sociali.
I soldi rappresentano la droga più potente della quale quasi tutti sono succubi, affezionati come siamo a quei simpatici pezzi di carta, sporchi e stropicciati. Li desideriamo ardentemente, li conserviamo come reliquie nel portafoglio, per averli siamo anche disposti a lavorare come matti per tutta la vita, per averne di più siamo pronti a tradire un amico, a scavalcare un debole, ad ingannare un avversario.
Crediamo ciecamente che con il loro possesso si possa comperare tutto ciò che si desidera: oltre a vestiti, auto, cibo ed oggetti lussuosi anche il favore degli altri, l’onestà delle donne, la giustizia degli uomini, la coscienza del prossimo.
Questa schiavitù, sconfinante nell’idolatria, dell’uomo verso il denaro infonde un potere smisurato a chi lo detiene e lo amministra: le banche ed i banchieri, custodi del tempio della ricchezza, hanno sempre comandato più dei politici, costretti semplicemente ad eseguire le loro volontà, semplici notai di decisioni prese nelle ovattate ed irraggiungibili stanze dei vertici finanziari internazionali.
Questa realtà è ubiquitaria e costituisce un mondo ben distinto dai governi, una monade laica, internazionale, poliglotta, spesso collegata a poteri paralleli come la massoneria.
In occasione della attuale crisi finanziaria tutti gli Stati sono accorsi immediatamente al loro capezzale prendendo provvedimenti senza badare all’enormità delle somme impiegate e senza alcuna sicurezza di ottenere un risultato positivo.
Tutto il mondo della produzione e del consumo è in coma, dall’industria automobilistica all’elettronica, dal turismo all’edilizia, dalla grande distribuzione ai piccoli negozietti a gestione familiare, non considerando i singoli cittadini che vedono compromesso non solo il futuro ma anche il presente; nonostante questa situazione drammatica, solo per il salvataggio delle banche i governi all’unisono sono intervenuti senza nemmeno preoccuparsi di scovare e punire in maniera esemplare i responsabili e disegnare un nuovo assetto legislativo, che possa evitare in futuro il ripetersi di tali catastrofi finanziarie.
Dopo la crisi del 1929 furono varate regole severe per impedire gli eccessi che avevano portato alla grande depressione, si adeguarono l’America di Roosevelt e l’Italia di Mussolini, che nazionalizzò l’Iri e separò il credito ordinario da quello a lungo termine.
Oggi è molto difficile delineare un quadro in grado di tenere sotto controllo la finanza internazionale dopo il boom dei derivati, dei futures, la completa liberalizzazione dei movimenti dei capitali e l’ipertrofia dell’indebitamento, che ha prodotto la paurosa voragine di titoli tossici dentro i bilanci delle banche.
Alla base di questo disastro economico vi è il grave malessere di una società egoista ed edonista, malata di consumismo che vuole tutto subito e che per decenni, con la chimera di guadagni esorbitanti, ha attirato i migliori talenti, distogliendoli da altri impegni più produttivi per l’umanità come ideare nuovi farmaci o predisporre validi rimedi all’incombente cambiamento climatico.
In Italia i monarchi della finanza hanno sempre goduto di un prestigio smisurato, anche se non esibito e di una sorta di extra territorialità, basta ricordare Giuseppe Toeplitz, il quale costringeva in anticamera a lunghe attese il Duce senza che Mussolini osasse rimuoverlo o, in tempi più recenti, Raffaele Mattioli, mentre infuriava la guerra fredda, intrattenersi piacevolmente con Togliatti e restituirgli i Quaderni di Gramsci, da lui salvati rocambolescamente durante gli anni del fascismo.
Riccardo Cuccia passò indenne rivolgimenti interni ed internazionali, guardando sempre con sufficienza i capo tribù di piazza del Gesù e le loro beghe di correnti, il potere bancario fu ispiratore poi del terremoto giudiziario di Mani pulite e rappresentò il sogno proibito dei post comunisti, che brigarono senza ritegno per possedere finalmente un istituto di credito tutto loro, ripetendo inconsciamente un copione che rimane invariato da secoli e costituisce l’antica farsa del potere.



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Elogio del tiranno
Dopo aver tratteggiato limiti, difetti e falsità della democrazia vogliamo porci un traguardo ancora più spericolato e politically scorrect: tessere un elogio della tirannide e dei vantaggi che possono trarne i sudditi… di una dittatura.
Per chi vive come noi in regimi… apparentemente democratici, nutriti forzatamente dalla nascita nel culto della Repubblica e della Costituzione, la figura di un uomo forte, che si impadronisca del potere e lo eserciti in solitudine, appare come il peggiore dei mali, dimenticando che la Grecia e Roma hanno raggiunto il massimo del loro splendore per secoli proprio sotto il comando di un solo uomo.
Lo studio dell’antichità deve illuminarci sui meccanismi del potere, che sono rimasti immutati da allora e ad esso si sono conformati anche i campioni dell’era moderna da Napoleone ad Hitler, da Mussolini a Stalin, grossi personaggi, osannati in vita, che hanno condizionato il percorso della storia ed hanno guidato, con brutale pragmatismo, i loro popoli verso mete altrimenti non negate.
Per comprendere a pieno l’utilità dell’elogio bisogna prima interrogarsi sul diritto della democrazia a configurarsi come il migliore dei sistemi di rappresentazione politica possibili e non come un come una mendace pantomima della libertà, nella quale i poteri forti comandano indisturbati, mentre i cittadini si illudono di esercitare attraverso il voto un potere decisionale, che non ha alcuna possibilità di manifestarsi.
Cambiare tutto affinché nulla cambi, una frase celebre del Gattopardo che fotografa spietatamente la realtà delle moderne democrazie, nelle quali dopo ogni elezione si vengono a creare coalizioni disomogenee, incapaci di tradurre la volontà di chi li ha portati in parlamento, perché imbrigliate da interessi troppo forti: sindacati, chiesa, banche, multinazionali.
Nel frattempo, in società fondamentalmente materialistiche come quelle occidentali, i governi permettono che una droga velenosa si diffonda con effetti dirompenti tra i cittadini elettori: il consumismo più sfrenato, dando così una forza smisurata ai detentori del potere economico, veri padroni dello Stato, nei cui consigli dì amministrazione si decidono le sorti di popoli e nazioni.
A confronto con gli attuali simulacri di democrazia, che si illudono e ci illudono di delineare il nostro presente ed il nostro futuro, ai vizi ed alle finzioni dei parlamenti, alla bancarotta morale e civile della finanza internazionale, bisogna cominciare a guardare con interesse a sistemi autoritari, come quello cinese, in grado di funzionare meglio e con maggiore beneficio per i cittadini, di democrazie caotiche e inefficienti.
I tiranni non giungono al potere spinti unicamente dal loro carisma e dalla loro capacità di dominare, ma sono espressione di una élite che li circonda, li condiziona e spesso è in grado di sostituirli quando la loro azione è in contrasto con gli interessi generali.
La storia è costellata dalle gesta di numerosi dittatori che hanno guidato, con virile energia, i loro popoli verso traguardi altrimenti non raggiungibili.


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Videocracy, uno spietato ritratto di una società alla deriva
La mostra di Venezia, oltre a capolavori assoluti come Baaria, presenta anche interessanti contributi come Videocracy, una puntigliosa carrellata della voglia di apparire che ha contagiato i giovani, dalla nascita della televisione privata ai programmi cult di oggi come il Grande fratello o X - Factor.
La pellicola vuole scimmiottare il Caimano nel suo genuino ardore di denuncia dello straordinario successo del Cavaliere, ma Gandini è un pallido ectoplasma al confronto con Moretti, un volenteroso riciclatore di immagini di repertorio e nuovi episodi slegati e girati con una video camera parkinsoniana, per cui alla fine della proiezione la figura del Berlusca non viene affatto sminuita, anzi appare quella di un gigante al cospetto di una tribù di pigmei.
Fabrizio Corona, il paparazzo d’assalto noto alle cronache per le sue vicissitudini giudiziarie e per le sue infinite provocazioni, assurge a protagonista principale della storia ed ingenuamente confessa i suoi reati, come l’estorsione perpetrata a Marina Berlusconi con la richiesta di 20.000 euro per non pubblicare alcune sue foto imbarazzanti. Dopo la sua detenzione di 80 giorni nel carcere di Potenza i riflettori si accendono prepotentemente su di lui, trasformandolo da un avanzo di galera ad icona della vacuità, la cui presenza per un ora in un locale viene ricompensata con 10.000 euro, la paga di un anno di un precario con famiglia a carico. Fabrizio non fa che profumarsi ogni momento e recitare stupide frasi ad effetto tra le quali spicca per idiozia quella di essere un moderno Robin Hood, il quale ruba ai ricchi e conserva il maltolto per sé oppure, sfidando il fisco, che la sua squallida attività in poco tempo tempo gli ha reso due milioni e mezzo di euro, una bazzecola rispetto ai compensi d un calciatore.
Per la gioia di signore e signorine, a parte qualche gay di passaggio, vi è poi una scena sotto la doccia nella quale il macho esibisce un nudo integrale da schianto, tra muscoli scolpiti ed abbronzatura nord africana, appena penalizzato dalla visione di un inaspettato ipogenitalismo.
L’immagine più scioccante del film è costituita dal volto patibolare di Lele Mora, mentre ascolta estasiato le note di Faccetta nera scandite dal suo pacchiano telefonino, non certo per le simpatie politiche di un così viscido personaggio, che non ci interessano affatto, ma perché un regime che tanto ha rappresentato nella nostra storia, nel bene e nel male, in un contesto vacuo ed evanescente come quello rappresentato, viene ridotto ad una grottesca quanto innocua caricatura.
Quel ghigno sguaiato incute timore e tristezza, perché esalta un universo di puttanelle in cerca di successo e palestrati pluritatuati aspiranti tronisti, i quali pascolano indisturbati tra spiagge da sogno e night club postribolari.
Un democratico viene disgustato dallo spettacolo di tanta esibita sciatteria, mentre un nostalgico si dispera per una così vomitevole rievocazione, che riduce una sofferta ideologia ad un miserevole gioco di società, un fievole carillon in sintonia con le risate di un oscuro regista, mentre il nero della sua fede viene ingoiato dal biancore abbacinante della scena.

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La crisi dell’utopia di internet
Il web si agita tra desiderio di libertà ed esigenza di controlli


Gentile dottore,
Pochi sanno che internet nasce grazie a ricerche, dettate da finalità militari, per identificare un sistema di trasmissione di dati, che il nemico non sia in grado di decriptare; lo stesso filone di studi che aveva incoraggiato esperimenti di telepatia anche nel corso delle missioni Apollo.
Lo sviluppo della nuova tecnologia è stato poi tumultuoso ed ha cambiato in breve il volto del mondo, dimostrandosi una delle più importanti novità nella storia dell’umanità.
Per anni è sembrato che si potesse realizzare il sogno di un mondo senza confini né padroni, autogovernato dalla comunità degli utenti, uno spazio senza controlli e censure, nel quale notizie e conoscenza potessero dilagare e raggiungere i più sperduti angoli del globo.
Il numero di coloro che quotidianamente si collegano alla rete diviene sempre più alto e la circolazione delle idee mette in crisi spietate dittature, nonostante pene severissime, inclusa quella capitale e la creazione di una grande muraglia telematica attorno alla Cina per cercare di filtrare informazioni non gradite.
Skype permette attraverso il computer di poter parlare gratuitamente con chiunque, anche all’estero e rompe l’egemonia ed il latrocinio dei gestori telefonici, nello stesso tempo la privacy delle conversazioni è assoluta, perché proprietà del servizio e server, situati tra Scandinavia ed Estonia, non accolgono alcuna rogatoria che richieda intercettazioni, una falla ben nota a terroristi e mafie, le quali utilizzano da tempo esclusivamente questo sistema per le loro comunicazioni.
Giovani di ogni paese utilizzano alcuni siti specializzati per scaricare file musicali o film senza pagare i diritti d’autore, come pure è molto semplice stampare un libro coperto da copyright, una libertà sconfinante nell’anarchia, che alla lunga metterà in crisi l’industria culturale.
Anche l’esperienza più anarchica dell’etere come Wikipedia, l’enciclopedia on line che aveva mandato in pensione giganti del sapere come la Britannica o la Treccani, si appresta a rivedere la sua filosofia basata su un sapere che sgorgava dal basso senza gerarchie, davanti ai problemi insoluti di voci controverse, soprattutto riguardanti la contemporaneità, le quali negli ultimi anni hanno innescato focosi conflitti tra appartenenti a fazioni di pensiero contrastante, che si correggevano all’infinito. La redazione ha stabilito un controllo da parte di specialisti delle singole materie su gran parte degli argomenti, una conferma dell’illusione di un sapere democratico e la consacrazione di un’aristocrazia della cultura, di nuovo arroccata in una cittadella ideale per pochi eletti.
Ma il pericolo più grave che minaccia la rete è costituito dall’intenzione di Obama di potersi assurgere a controllore assoluto del ciberspazio, arrogandosi di decidere l’interruzione del servizio, se, a suo insindacabile giudizio, dovesse esserci un pericolo telematico per gli Stati Uniti. Purtroppo non si tratta di un’evenienza fantastica, come dimostrano i recenti attacchi a Google e Twitter condotti da hackers che hanno paralizzato per ore milioni di computer.
Se il Cybersecurity Act verrà approvato dal Senato si sancirà la volontà di violare la sovranità di altri Stati, né più né meno della dottrina Bush di inseguire dappertutto il terrorismo dall’Irak all’Afganistan, facendo scoppiare conflitti e decapitando governi con la scusa di esportare la democrazia. Infatti se i terroristi informatici decidessero di utilizzare i server di nazioni neutrali per infettare con virus micidiali in grado di controllare a distanza le comunicazioni sarebbe inevitabile far partire il contro attacco senza il tempo di avvertire nessuno.
Un pericolo che violerebbe non solo la neutralità del web, ma anche la sovranità degli Stati, ma non si potrà fare altrimenti, perché un attacco da parte di hacker specialisti come preludio di una guerra, bloccando i computer, avrebbe consistenti probabilità di successo, non solo impazzirebbe il traffico paralizzando le città, ma andrebbero in tilt anche i codici dei missili con le ogive nucleari.

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Il caso dell’infedele Klara
Girato tra Praga e Venezia, città sensuali per eccellenza, il film di Roberto Faenza parla della gelosia, un sentimento che mina e spesso rende infelice l’amore.
Si intrecciano varie storie tutte segnate da questa strana emozione, che recenti statistiche hanno dimostrato essere molto diffusa anche tra i giovani; una sorpresa solo per osservatori superficiali, dovuta al clima di insicurezza nel quale si svolge la vita delle nuove generazioni prive di qualsiasi punto di riferimento e di valori da cui prendere esempio con la famiglia dissolta, la scuola in disfacimento e le ideologie tramontate.
La pellicola è un prodotto gradevole grazie alla recitazione degli attori, tutti molto bravi e per i numerosi gradevoli nudi, anche integrali, che costellano la narrazione.
Confesso di essermi recato al cinema per vedere il film A voce alta con Kate Wislett, disposto anche a sorbirmi un racconto sempre triste sulla persecuzione degli Ebrei, pur di ammirare lo splendido corpo della diva resa celebre da Titanic, immortalata nature in una tinozza. Trovata la sala completa, sono rimasto colpito dalla locandina del Caso dell’infedele Klara, che cerca di calamitare l’attenzione del potenziale spettatore con una identica rudimentale vasca da bagno nella quale la nostra Laura Chiatti, con minore prestanza anatomica, ma con una più sfacciata punta di erotismo, fa il verso alla famosa collega straniera.
L’argomento, apparentemente banale, fa viceversa discutere animatamente il pubblico, sia nell’intervallo che all’uscita dopo la proiezione.
Siamo schiavi delle reazioni chimiche del nostro cervello e ci crediamo importanti ed insostituibili, non consideriamo che se la vita, per una catastrofe nucleare o ambientale, dovesse all’improvviso scomparire, l’universo non se ne accorgerebbe affatto.

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