MISCELLANEA
Pagine sparse di varia umanità

di Achille della Ragione

 

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  1. Banche e follia
  2. Monogamia necessità o virtù
  3. Breve storia della prostituzione a Napoli
      dal Cinquecento ad oggi
  4. Le mendaci pillole dell'amore
  5. La natura biologica della senescenza
  6. Gli ultimi tra gli ultimi: i barboni
  7. Un curioso errore nel David di Michelangelo
  8. Dieci vantaggi paradossali dalla crisi economica
  9. Il tremendo costo sociale dell'immigrazione
10. Gli animali hanno un’anima?
11. La squallida passerella della vanità
12. Africa, un continente in agonia
13. Aboliamo la caccia, anzi la carne
14. La rabbia di un sogno disperato
15. Un esercito di puttane colorate nel regno dei casalesi
16. La virtù della sobrietà
17. Elogio dei mercatini
18. L’amore al tempo della galera
19. Il male cosmico
20. Elogio della badante
21. Energia nucleare: sogno o incubo?
22. Italiani, ma di serie B
23. Napoli brucia
24. Il film Gomorra scuote le coscienze
25. Perché ci ostiniamo a chiamarli clandestini?
26. Un mondo in frantumi
27. Le basi biologiche della felicità
28. Viva la France
29. Gli scipiti eredi del Migliore
30. Tramonto e resurrezione dei democristiani
31. Intitoliamo una piazza ad Achille Lauro
32. Parliamo di morte
33. Europa sogno od incubo
34. Una lodevole iniziativa nel nome di Masaniello
35. Biutiful cauntri, un colpo allo stomaco necessario
36. Tacchi a spillo: orgasmo assicurato
37. Nostalgia dei casini
38. Storia dell’aborto dall’antichità ai nostri giorni
39. La raccolta differenziata tra realtà e fantasia
40. Un progetto virtuoso
41. Napoli affonda si salvi chi può
42. La fine del lavoro
43. La fine del denaro
44. La fine della vita
45. Vulcano buono, ma con chi?
46. Il tempo
47. Il trionfo del paganesimo
48. Suoni assordanti: dal mantra ai metallari
49. Zingari quale futuro?
50. Lavorare è necessario?
51. Giustizia addio
52. Il lavoro precario: maledizione o necessità
53. Santità, a Maronna ci accompagni
54. La cintura di castità
55. L’occhio specchio dell’anima
56. Bisogna salvare il San Carlo
57. La seduzione dopo gli anta
58. Un triste primato
59. Un fontana illustre e dimenticata
60. ll miglior amico dell’uomo
61. L’elemosina in occidente nel XXI secolo
62. Bentornata Piedigrotta
63. Totò il principe surrealista
64. Eureka l’onore è salvo
65. Il calvario senza fine del condono
66. Piazza 3 ottobre 1839
67. Intervista al principe Emanuele Filiberto
68. La vera storia della sfogliatella
69. Il calvario del condono
70. Il più bel Carnevale della mia vita
71. Il punto G tra scienza e sesso
72. Frigidità addio
73. La nascita del "Fico"
74. L’Istituto per non vedenti Paolo Colosimo
75. La finanza islamica ed il banchiere dei poveri
76. L’usura un male antico
77. Un'ora di terrore in volo
78. Tristi pensieri sulla vecchiaia
79. L’arma segreta di Federico II
80. I misteri dell’amore
81. Telefonomania
82. Misteri napoletani
83. Leggete l’Enciclica
84. San Valentino, festa degli innamorati
85. Il mitico Canalone
86. Breve storia del reggiseno
87. Immortalità: sogno o realtà
88. Il tempo
89. In ricordo di Luigi Amalfi
90. Un originale albero di Natale
91. L’Albergo dei poveri diventa dei ricchi

 

Banche e follia

Da tempo poche voci isolate parlavano di signoraggio bancario e ne denunciavano inascoltati abusi e pericoli, poi la tempesta finanziaria ha cominciato a soffiare impetuosa e rischia ora di travolgere l’economia mondiale con effetti devastanti ed ancora difficili da prevedere per durata ed estensione.
Miliardi di uomini dovranno pagare con la fame e la povertà lo scotto di un disordine planetario provocato da pochi criminali dal colletto bianco accecati da una bramosia di ricchezza senza ritegno.
Il commercio di denaro nasce in Mesopotamia per svilupparsi poi in Grecia ed a Roma con connotazioni religiose, infatti le prime banche sono templi ed i banchieri sacerdoti. Solo nel Medioevo si svilupperà tra l’Italia e le Fiandre una classe di mercanti banchieri in senso moderno e la moneta sarà un traino formidabile per lo sviluppo economico, ponendosi al servizio della produzione di beni, una novità che aveva impedito lo sviluppo del capitalismo nell’antichità.
Il funzionamento del credito è alquanto originale, infatti il cliente che deposita in banca i suoi risparmi, invece di pagare, riceve un compenso(interesse), nello stesso tempo la banca invece di conservare il denaro se ne libera, prestandolo a persone in grado di investirlo in attività lucrose, ma, oltre ad utilizzare le somme di cui dispone, aumenta in maniera considerevole la valuta circolante attraverso l’emissione di assegni, carte di credito, obbligazioni, che non sono altro che l’equivalente della fabbricazione di banconote, il famigerato signoraggio, l’antico privilegio del sovrano di coniare più o meno a volontà nella sua zecca.
Un comportamento improntato all’azzardo più che alla prudenza, una scommessa sul rischio di insolvenza, che ha caratterizzato il moderno capitalismo.
Negli ultimi anni questo sistema audace oltre ogni limite ha travalicato nel crimine, approfittando del potere smisurato acquisito dalle banche, che ha soggiogato completamente il potere politico: si è prestato denaro a clienti privi di qualsiasi garanzia (i cosiddetti sub prime) ed i crediti ottenuti in maniera così maldestra sono stati venduti a terzi, che li hanno ceduto a loro volta e più di una volta, fino a quando questa massa di denaro virtuale, inesigibile, è stato trasformato in titoli(cartolarizzazione) aggiudicati sul mercato internazionale, non solo da ignari risparmiatori, ma anche da Stati e fondi di investimento.
Una truffa di dimensioni colossali favorita dai mancati controlli delle autorità monetarie così attente al controllo dell’inflazione tradizionale, quando la moneta accaparra beni materiali ed assolutamente inerti davanti all’ipertrofia della finanza, quando il denaro va a caccia di altro denaro.
Una follia per la quale oggi i cittadini, attraverso le tasse e l’elargizione degli Stati alle banche, sono obbligati a regalare i loro soldi ad una sistema che li ha turlupinati e che non fornisce alcuna garanzia di riuscire in futuro a funzionarie in maniera più onesta e trasparente.

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Monogamia necessità o virtù
I fondamenti culturali e biologici della stabilità di coppia nella specie umana

Molti studiosi ritengono che la monogamia nell'uomo sia il prodotto unicamente di un'evoluzione culturale, perché sin dalla notte dei tempi i nostri antenati hanno cercato di formalizzare le relazioni sessuali, dando luogo con la famiglia alla base del tessuto sociale. Vivere in coppia crea vantaggi per entrambi: protezione per la donna, collaborazione per l'uomo e, generando dei figli, si può avere assistenza nel lavoro ed un sostegno divenuti vecchi.
In epoca storica la monogamia, trionfante nella società borghese, è stata fortemente incoraggiata dal Cristianesimo che prima di farne un sacramento ne ha fatto una necessità in nome della non violenza, perché la poligamia, se da un lato avrebbe favorito la fertilità e la riproduzione, dall'altro imponeva l'uso della forza da parte del maschio per procacciarsi e conservarsi le femmine. La dottrina cristiana sul matrimonio influenzerà il cammino dell'umanità perché molti popoli anche di religione diversa trarranno ispirazione per regolare fecondità e rapporti tra i sessi.
I Vangeli non parlano di monogamia esplicitamente e sarà Paolo a farne un pilastro dell'organizzazione sociale in Occidente, impregnando il matrimonio di una morale sessuofobica, che ha condizionato pesantemente la storia della Chiesa. Le sue affermazioni oggi appaiono come delle emerite e demenziali corbellerie, ma hanno trasformato il mondo più di tante teorie scientifiche o filosofiche. Per Paolo l'amore è una follia, una malattia, il prodotto di una mancanza, di un disordine; l'attività sessuale è una cosa vile. Nella Lettera ai Corinzi esclama:"Non toccare donna è cosa buona per l'uomo....colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio... il matrimonio è inferiore alla verginità”.
Paolo è però costretto ad accettare la necessità del matrimonio, non solo per la riproduzione, ma anche per dare uno sfogo alla concupiscenza, egli ritiene che debba essere monogamico e non debba perseguire il piacere.
Nella lettera agli Efesini afferma: "L'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna ed i due formeranno una carne sola". All'inizio non si poteva ipotizzare che la nuova religione potesse imporre i suoi dettami in un mondo dominato dalla poligamia che imperava sia a Gerusalemme che a Roma. Ci vorranno quasi duemila anni prima che la monogamia diventi una realtà per l'Occidente. Il Cristianesimo conquisterà Roma e nel IV secolo diventerà ufficialmente religione di Stato. Il matrimonio si baserà costantemente su scelte fatte dalle famiglie senza che i futuri sposi si conoscano ed a volte addirittura quando sono ancora dei bambini. L'amore è un sentimento sconosciuto e per incontrarlo dovremo attendere il IX secolo per trovare nel Giuramento di Strasburgo, scritto nell'842, in una lingua precedente al francese per la prima volta il termine amur, che nel 1100 diventerà amour; ed è a partire da questo secolo che, mentre nel resto del mondo la poligamia domina incontrastata, in Occidente la monogamia si imporrà come modello vincente per gran parte della popolazione, fino ad anni recenti quando ha cominciato a scricchiolare per il disfacimento dei costumi e per la conquista da parte della donna di più ampi spazi di libertà.
I futurologi pontificano che la coppia stabile ha i giorni contati e sia destinata ad estinguersi per lasciare spazio a nuove forme di unione, dal sesso virtuale alla famiglia allargata; molti prevedono che tutti avranno più partner con la stessa disinvoltura con la quale oggi abbiamo più amici e le scoperte della scienza, dalla fecondazione assistita alla telematica, agevoleranno la gestione delle relazioni multiple. Un quadro tra fantasia ed allucinazione che potrà verificarsi solo e soltanto se saranno violate delle norme categoriche previste dalla biologia, che sono alla base della monogamia nella specie umana.
Una prima circostanza che spinge le coppie umane a divenire stabili, sviluppando caratteristiche che tendono a fortificare il rapporto, come la fedeltà e la gelosia, è legata al lungo periodo impiegato dai cuccioli... della nostra specie a divenire autonomi, un tempo paragonabile a quasi un terzo della vita, a differenza di molti altri animali, i quali, in un periodo molto più breve, diventano adatti al concepimento ed in grado di procacciarsi il cibo. Tutte le coppie animali restano unite fino alla maggiore età dei discendenti, una regola rispettata anche quando non si tratta di coppia, bensì di un rapporto poligamico, come nel caso del leone, che rimane in gruppo con le sue leonesse fino alla completa autonomia dei novelli re della foresta. Più consistente il secondo motivo: Il genere umano presenta infatti, per il perpetuarsi di un meccanismo di tipo omeostatico molto sofisticato e solo in parte conosciuto, una percentuale costante del 50% di maschi e di femmine.
Questo postulato biologico è alla base della monogamia della nostra specie. A lungo nei secoli scorsi si è data la colpa alla donna quando non generava un figlio maschio, poi si è creduto che era l'uomo attraverso i suoi spermatozoi a stabilire il sesso della prole; ma erano scoperte fallaci: a determinare una eguale e costante percentuale tra i due sessi presiede un mirabile meccanismo ancora del tutto sconosciuto. La presenza in una popolazione, come ad esempio quella italiana, di un maggior numero di donne è legato unicamente alla maggior durata della vita femminile, caratteristica costante in tutto il mondo.
Ma ha ben poca importanza se esaminando le classi di età più avanzate (oltre i 60-70 anni) troviamo più donne che uomini, è necessario soltanto che nell'età feconda vi sia un perfetto equilibrio tra i due sessi. Questa "armonia percentuale", necessaria per il quieto vivere delle famiglie, della società e degli Stati è tenuta sotto controllo in maniera a dir poco prodigiosa: infatti in periodi post bellici, quando i maschi diminuiscono, per una generazione nascono meno femmine.
Una scoperta recente è stata l'osservazione che gli embrioni abortiti spontaneamente, nelle prime fasi della gravidanza, sono più frequentemente di sesso maschile, di conseguenza il rispetto della percentuale paritaria non avviene al momento della fecondazione, quando contiamo 170 maschi per 100 femmine, bensì nel momento più significativo, il periodo di maggiore fertilità, tra i 20 ed i 35 anni. La prospettiva di poter a breve scegliere il sesso dei propri figli deve farci riflettere sulla circostanza che la scienza, con le sue incessanti scoperte, rende le nostre scelte sempre più difficili e che le chiavi del nostro destino sono in gran parte nelle nostre mani, se sapremo valutare correttamente i quotidiani cambiamenti provocati dal continuo progredire delle conoscenze.
Il poter leggere, grazie alle continue scoperte scientifiche, nel gran "libro" della natura le tracce inequivocabili di un ordine deve invitarci ad una profonda riflessione e la stupefacente maniera con la quale la natura programma il rapporto percentuale tra i sessi ne rappresenta uno degli infiniti esempi. Il Newton nel porre termine al suo "Philosophiae Naturalis Principia Matematica", una tra le più importanti opere dello scibile umano, non ritenne fuori luogo dissertare sugli attributi di Dio. Sia perciò permesso, ad un laico inveterato, blasfemo nei riguardi delle parole di un Padre della Chiesa, invitare tutti a meditare sulla certezza che tali delicati meccanismi è assolutamente improbabile che siano sorti per combinazione!
Per una più esauriente disamina dell'argomento consiglio di consultare su internet il mio saggio la Fecondazione in vitro: vantaggi attuali e rischi futuri

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Breve storia della prostituzione a Napoli dal Cinquecento ad oggi

Il panorama della prostituzione in Italia negli ultimi decenni si è internazionalizzato con l'arrivo di legioni di nuove leve dall'Africa, dal sud America e dai paesi dell'est europeo e Napoli non ha fatto eccezione a questa regola generale.
Nello stesso tempo, dopo l'approvazione della legge Merlin, l'esercizio del meretricio è divenuto ubiquitario e tende a svolgersi prevalentemente sulla pubblica strada, almeno nella fase iniziale dell'adescamento e della contrattazione ed anche la consumazione vera e propria avviene en plein air o al massimo in auto.
Napoli è stata a lungo capitale della prostituzione sia maschile che femminile ed in passato si è dotata di leggi lungimiranti per confinare in alcune aree della città la pratica del più antico mestiere del mondo. In passato, come apprendiamo dalla Storia della prostituzione del Di Giacomo, vi erano luoghi, stabiliti dall'Autorità, dove travestiti e prostitute potevano liberamente esercitare...A lungo questa zona fu l'Imbrecciata, che si trovava nei pressi di Porta Capuana, vicino al borgo di Sant'Antonio Abate.
Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell'area vennero progressivamente localizzati tutti i postriboli partenopei. Infine,in un editto emanato nel 1781, l'Imbrecciata fu riconosciuta come l'unico quartiere dove era ammesso il meretricio. Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello d'accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni attività poco prima della mezzanotte. Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in altri quartieri. Nell'ambito di questo rione off limits vi era una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per l'appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri. L'utopia di creare un quartiere separato per la prostituzione è l'orientamento odierno di numerosi paesi del nord Europa dove, attraverso consuetudini e regolamenti, il sesso a pagamento viene limitato in quartieri a luci rosse,il colore della lanterna che serviva a segnalare le cortigiane napoletane, come raccontava nel 1785 Charles Dupaty nel suo Lettres sur l'Italie.
In precedenza anche Filippo il bello nel XIII secolo aveva disposto che le prostitute dovessero esercitare su barconi posti sulle rive di un lago o di un fiume, con la speranza che la disponibilità di acqua per lavarsi tra un rapporto e l'altro fosse un ostacolo al diffondersi delle infezioni ed infatti dal francese au bord de l'eau, sul bordo dell'acqua, deriva l'etimologia della parola italiana bordello.
Dopo l’Unità d’Italia si cercò di porre un argine al dilagare delle malattie veneree aprendo i famosi casini, tenuti dallo Stato, che ne regolava l'attività e fissava le tariffe, dando poi l'appalto, come un qualsiasi genere di monopolio, ad un privato, la famigerata maitresse. Sul funzionamento di queste case abbiamo memorabili descrizioni di Francesco Mastriani nel suo celebre romanzo i Vermi, mentre la storica Lucia Valenzi compulsando gli archivi ha reperito le poche notizie documentarie che ci illuminano sulle terribili condizioni di vita delle puttane dell'epoca (una situazione che purtroppo oggi ha subito un peggioramento).
La provenienza delle ragazze di piacere era per metà cittadina, dai vicoli più bui e malfamati e per metà dai paesi del contado, dove spesso una fanciulla disonorata non aveva altra scelta che il bordello. Per lavorare bisognava iscriversi nei ruoli, ricevere una libretta ed entrare poi nel giro, che prevedeva un via vai in numerosi postriboli su e giù per l’Italia, cambiando luogo ogni sette, massimo quindici giorni. La prestazione delle ragazze veniva compensata con la famosa marchetta, un gettone forato al centro acquistato dalla maitresse e consegnato in camera prima del rapporto.
Erano previste tariffe particolari a tempo e la famosa doppia. Nel 1891 Giovanni Nicotera stabilì che dalle finestre non ci si potesse più mostrare, per cui le persiane chiuse divennero un contrassegno delle case chiuse.
I casini napoletani avevano fama di arredamenti sontuosi, dal velluto alla seta e trattamenti particolari; ne parlano entusiasti, non solo i viaggiatori del Grand Tour, ma anche intellettuali famosi nell’Ottocento e nel Novecento; meno entusiasta è invece la descrizione che traspare dall’inchiesta giornalistica di Jessie White Mario nel suo libro la Miseria di Napoli. Tra le due guerre la frequentazione aumentò considerevolmente sia dei bordelli caserecci dei quartieri spagnoli, sia delle eleganti case di via dei Mille e di Santa Lucia.
La guerra con l’arrivo degli Americani, carichi di dollari e sigarette, fece esplodere il mercato aumentando l’offerta con le signorine che si vendevano per contrastare i morsi della fame; è la triste epoca delle tammurriate nere e del meretricio praticato in centinaia di bassi, magistralmente descritto da Malaparte nella Pelle. Poi cinquanta anni fa, febbraio 1958 entrava in vigore la legge Merlin e, pur con la lodevole intenzione di liberare le prostitute da un giogo secolare, non si faceva altro che gettarle in pasto ai lenoni, mentre gli Italiani, come sintetizzava magistralmente il film di Totò, erano costretti ad arrangiarsi. Per pochi bacchettoni, difensori della morale, fu una conquista civile di portata storica, per molti una inutile ipocrisia che renderà la prostituzione una giungla feroce senza igiene, senza regole, senza pietà.
A Napoli si ebbero giganteschi falò con i materassi dei casini pieni di ricordi e di pidocchi. Allora le prestatrici d'opera provenivano in gran parte dalla provincia e prevalevano, in un'Italia perbenista e bigotta che non esiste più, le sedotte ed abbandonate. Oggi siamo obbligati a confrontarci con un turpe ritorno allo schiavismo, gestito dalle mafie straniere, con punte di ferocia impensabili mezzo secolo fa.
Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di consultare su internet: per la prostituzione maschile il mio saggio i Femminielli per l’atmosfera dei casini Nostalgia dei casini ed il Casino di Santa Chiara, per la situazione attuale un Esercito di puttane colorate nel regno dei casalesi.

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Le mendaci pillole dell'amore

Periodicamente qualche articolo pubblicato su una rivista scientifica, più o meno qualificata, sulla chimica dei sentimenti rappresenta l'occasione per una diffusione della notizia sui mass media, spaventati che l'amore cantato da Dante e da Shakespeare possa ridursi ad un gioco di molecole riproducibili in laboratorio e somministrabile per via orale.
Su Nature e sul Journal of Neuroscience sono stati pubblicati due lavori che identificano nell'ossitocina, un ormone secreto dall'ipofisi, implicato nella lattazione e noto da decenni, lo starter point in grado di scatenare quella tempesta di sconvolgenti sensazioni che ti tolgono il sonno e la fame, ti fanno sentire invincibile, al di fuori del tempo e dello spazio e che i comuni mortali indicano come amore, un quid misterioso ed indefinibile, senza il quale la vita non sarebbe degna di essere vissuta, anzi, forse, non esisterebbe affatto.
Si parla di uno spray che emette ossitocina, provocando un aumento della premura delle madri verso i figli e lo si presenta come una novità, mentre un prodotto simile esiste da sempre per favorire l'incremento della secrezione lattea nella puerpera ed io stesso rammento, nei lontani anni Settanta, nel piccolo ospedale dove lavoravo a Cava de’ Tirreni, il sorriso radioso delle neo mamme verso i bimbi che attaccavano al seno nei minuti successivi alla somministrazione del medicinale, che andava e va tuttora sniffato.
Prima di continuare la discussione è opportuna una fondamentale chiarificazione, senza la quale si andrebbe fuori strada: innamoramento ed amore sono due cose ben distinte, il primo fugace e spesso effimero, il secondo duraturo ed a volte capace di sfidare l'eternità.
Inoltre nella storia biologica dell'uomo il passaggio dall'attrazione sessuale basata sull'odorato, il regno dei ferormoni, a quella visiva collegata ad aree cerebrali specializzate ed a mediatori neuronali è stato lungo ed è lungi dal concludersi, con l'ipotalamo posto al centro dell'encefalo a fare da regista, inducendo emozioni sofisticate, che preludono ai sentimenti e pulsioni primitive, come l'erezione e l'orgasmo, sotto il dominio degli ormoni sessuali.
Per cui niente timori, il cammino da percorrere per la scienza è appena all'inizio e l'uscita di un farmaco perentorio nell'effetto come il Viagra è lontana.
L'antico sogno di poter indurre la passione a comando, che ha dato per secoli potere a maghi e fattucchiere con i loro filtri d'amore a base di mandragola e intrugli segreti durerà ancora. Ostriche, champagne, cioccolata nera ed altri alimenti afrodisiaci continueranno a fornire piacevoli illusioni, non dissimili da quelle delle misture che cominciano a circolare su internet, spacciate per miracolose, ma utili solo a provocare un effetto placebo.
Tranquilli non ci sarà mai un farmaco in grado di suscitare e far durare un amore, come non basta l'acqua di tutti gli oceani a spegnerne uno vero.

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La natura biologica della senescenza
Il concetto di vecchiaia nella storia della medicina

Nel cammino ultra millenario dell'umanità la maledizione della vecchiaia non era stata prevista né da un dio crudele, né da una natura malvagia; essa è semplicemente un accidente provocato dalla nascita della socialità nella nostra specie.
Difendere i deboli, procacciare il cibo a chi non è più in grado di procurarselo, saranno pure comportamenti degni di lode, ma, uniti ai continui progressi della medicina, hanno partorito una mostruosità.
L'uomo delle caverne, al pari di tutti gli animali, non era destinato alla vecchiaia, non l'avrebbe mai conosciuta, se i suoi simili non l'avessero aiutato quando il suo percorso terreno era biologicamente concluso.
Allungandosi la vita nessuno uomo può sfuggire alla vecchiaia, una condizione ineluttabile ed irreversibile. La longevità dell’uomo è superiore a quella di tutti i mammiferi, ma inferiore a quella di altri animali, dalla tartaruga all’elefante. In tutte le specie le femmine vivono più a lungo, nel mondo civilizzato le donne sette anni più degli uomini.
La medicina si è sempre interrogata sulle cause che portano l’uomo al disfacimento fisico e fino ad oggi non è stata in grado di fornire una risposta soddisfacente e definitiva.
Presso i popoli antichi il sapere medico si confondeva con la metafisica ed con la speculazione filosofica. Soltanto con Ippocrate cominciò a divenire una scienza ed un’arte. Il sommo pensatore riteneva che si diventasse vecchi a cinquantasei anni ed osservò e descrisse molte manifestazioni dell’ultima età dell’uomo. Paragonava le tappe della vita allo scorrere delle stagioni, dalla primavera all’inverno, similitudine che ebbe successo per secoli.
Aristotele dava molto risalto alla speculazione e poco all'esperienza. Riteneva che la vita fosse legata al calore interno, il quale, quando scemava, dava luogo a senescenza.
Nel II secolo Galeno, nell'operare una sintesi delle conoscenze mediche precedenti, collocava la vecchiaia a metà tra la malattia e la salute. Cercò inoltre di conciliare la teoria degli umori con quella del calore interno e credeva che il corpo fosse il contenitore dell'anima. Le sue conclusioni furono accettate acriticamente a lungo non solo dai padri della Chiesa, ma anche dagli Ebrei e dal mondo islamico.
Gli Scolastici paragonavano la vita ad una fiamma che diveniva lentamente sempre più fioca, un'immagine mistica che perdurò per tutto il Medioevo.
La Scuola di Salerno, culla della medicina occidentale, elargiva consigli per conservare la salute e vivere a lungo, insegnamento non dissimile da quello impartito dalla Scuola di Montpellier, anche essa prodiga di regimi salutari.
Nel Quattrocento vede la luce il primo libro dedicato alle malattie della vecchiaia”Gerontocomia”, ma un vero passo avanti nelle conoscenze si avrà solamente con le scoperte dell'anatomia grazie a Leonardo da Vinci, che seziona circa trenta cadaveri, molti di vecchi, dei quali ci descrive con precisione gli intestini e le arterie; purtroppo le sue osservazioni furono note solo dopo molto tempo.
L'Umanesimo cerca disperatamente di contrastare la metafisica, che ancora impregna e rallenta i progressi della scienza, la quale si avvale delle scoperete anatomiche di Vesalio, mentre Paracelso riteneva la vecchiaia il prodotto di un'autointossicazione.
Per secoli continuavano ad avere seguaci le teorie meccanicistiche dell'antichità, di Democrito e di Epicuro, basate sulla concezione del corpo umano paragonato ad una macchina soggetta all'usura.
Il Morgagni, grande anatomo patologo, grazie ai risultati di innumerevoli autopsie riscontrò uno stretto rapporto tra sintomo e danno organico. Tra i suoi scritti vi è un capitolo dedicato alla vecchiaia.
Nell'Ottocento nella popolazione europea comincia ad aumentare il numero degli anziani e mentre la Scuola di Montpellier continua a credere nel vitalismo, in Francia, presso l'ospedale Salpetriere viene a crearsi il primo ospizio forte di circa tremila vecchi su di un totale di ottomila ricoverati. Fu così sempre più agevole osservare patologie legate alla senescenza e in quegli anni il celebre Charcot, le cui lezioni tanto influenzarono Sigmund Freud, tenne numerose conferenze sulla vecchiaia, le quali, una volta pubblicate, ebbero notevole risonanza.
Su finire del secolo si profilano le prime ipotesi sulla genesi della vecchiaia: Brown Sequard credeva che fosse legata ad un'involuzione delle ghiandole sessuali ed a settantadue anni, speranzoso, si iniettò estratti di testicoli di cavia e di cane con risultati modesti e transitori; Voronoff pensò di trapiantare agli anziani ghiandole di scimmia, ma senza esiti favorevoli ed inconcludenti furono anche tutti i tentativi di altri scienziati con sieri a base di estratti ormonali.
Il Novecento si apre con l'affermazione di Cazalis: ”L'uomo ha l'età delle sue arterie”, un assioma ancora ritenuto valido, anche se come effetto e non come causa ed identificò nell'arteriosclerosi il fattore scatenante del decadimento fisico.
Il padre della moderna geriatria è comunemente ritenuto l'americano Nasher, che passò una vita a studiare il problema, a cui dedicò una specifica branca della medicina. Nello stesso tempo si sviluppò una scienza parallela detta gerontologia, la quale, più che i processi patologici, cercò di indagare i processi ancora sconosciuti della senescenza.
Mentre ancora famosi studiosi come Carrel riproponevano l'ipotesi che la vecchiaia fosse dovuta ad un'intossicazione provocata dal metabolismo cellulare, negli Stati Uniti venivano pubblicati numerosi trattati dedicati all'argomento.
Attualmente la medicina non pretende di identificare una causa dell'invecchiamento, considerata una fase della vita alla pari della nascita, della crescita, della riproduzione e della morte. Si tratta di un processo comune a tutti i viventi anche se solo gli uomini e gli animali in cattività sono condannati a sopportarlo.
Se osserviamo infatti gli animali in libertà, senza dimenticare che anche noi lo siamo, ci accorgiamo che non conoscono né vecchiaia, né lunghe malattie ed invece, con il nostro incauto comportamento, abbiamo condannato a queste maledizioni anche gli animali domestici.
La natura nella sua infinita saggezza, o Dio se vi fa più piacere, non aveva previsto per l'uomo che si potessero superare i trenta, quaranta anni: la menopausa per le donne, la calvizie per gli uomini, la presbiopia per entrambi sono aberrazioni non programmate.
L'uomo viveva nel vigore della giovinezza e moriva nel pieno delle proprie forze, non conosceva l'umiliazione del degrado fisico e la morte per consunzione. Poi la civiltà, la prosperità e la scienza hanno aggiunto anni alla vita senza aggiungere vita agli anni, dando luogo ad una maledizione tra le più difficili da tollerare.
Per alcuni anni si è creduto che le cellule prese isolatamente fossero immortali e che soltanto quando si assemblavano a costituir tessuti ed organi erano sottoposte a fenomeni di deterioramento. Al momento l'unico dato certo è che col trascorrere degli anni la porzione degli organi funzionalmente attiva, soprattutto il parenchima, viene progressivamente sostituita da tessuto fibro sclerotico, con una diminuzione irreversibile nei processi di rigenerazione. Alla base di queste osservazioni morfologiche vi sono una serie di continue scoperte di meccanismi molecolari a livello genico con l'interessamento di loci predisposti alle riparazioni cellulari, che nel tempo tendono a funzionare in maniera difettosa. Un parere in contrasto con l'orientamento generale degli studiosi era quello della celebre geriatra rumena Aslan, l'artefice del Gerovital, un prodotto che per decenni ha fatto passare la cortina di ferro a migliaia di ricchi ed attempati occidentali.
Mancano ancora, per la rarità della malattia, studi sulla progeria, un'affezione su base genetica che provoca un invecchiamento precocissimo degli organi di chi ne è colpito senza incidere sull'età mentale. Alla base di questa patologia si suppone l'esistenza di un agente sconosciuto, per quanto specifico. Una sua maggiore conoscenza potrebbe permettere di arrestare o rallentarne l’azione con conseguenze sconvolgenti ed imprevedibili su destino dell'umanità.

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Gli ultimi tra gli ultimi: i barboni

L’altro giorno un barbone è stato trovato assiderato alla stazione di Napoli, è l’ennesima vittima di una strage infinita che si consuma ogni giorno nell’indifferenza generale per la fame, il freddo e la cieca ferocia di tanti giovani esaltati, i quali hanno fatto del clochard arrosto lo sport nazionale.
Era privo di documenti, dimostrava un’età relativamente giovane, sosterà all’obitorio nella vana attesa che qualcuno riconosca la sua misera carcassa, poi finirà in una triste fossa comune assieme ad altri sconosciuti senza patria e senza nome.
I barboni aumentano di numero anno dopo anno e nelle loro fila si trovano ora anche personaggi inaspettati: professionisti smarriti dopo una crisi coniugale, commercianti strangolati dal pizzo e dall’usura, deboli di spirito travolti da una storia d’amore naufragata, da una malattia, dalla perdita del lavoro; tutti accomunati dall’impossibilità di reggere i ritmi serrati di una società consumistica dalla sfrenata competitività.
Rappresentano un residuo di arcaiche povertà, un imprevedibile esito della modernità. Un brutto giorno precipitati nella solitudine e nella miseria, diventano invisibili per gli amici, per i conoscenti, per gli stessi parenti, bastano pochi mesi e la strada come casa si trasforma in una voragine senza ritorno.
Sonnecchiano sulle panchine dei giardini pubblici o stesi sui cartoni per difendersi dall’umido che penetra nelle ossa; di notte, tutti assieme, pigiati spalla contro spalla, nelle sale d’attesa delle stazioni non tanto per dormire, quanto per difendersi dalle aggressioni gratuite divenute frequentissime.
Qualcuno conosce dei luoghi segreti confortevoli, come alcuni corridoi delle Asl o la sala di lettura di una biblioteca, dove si può utilizzare anche il bagno.
Chi ricorda la storia di Beniamino Pontillo, che passò una vita nei saloni della Posta centrale di Napoli, scrivendo centinaia di lettere di proteste e di proposte, molte puntualmente pubblicate, ai quotidiani locali?
Anche a guardarli sembrano tutti eguali: radi capelli precocemente incanutiti, pochi denti malfermi, la pelle incartapecorita ed un corpo devastato dall’età indefinibile, vestiti a brandelli ed un puzzo devastante che si sente a distanza.
Da tempo sono divenuti gli ultimi tra gli ultimi, disperatamente in coda ai più disperati, più dimenticati degli zingari, dei drogati, degli alcolizzati o degli extra comunitari clandestini, divenuti, soprattutto se islamici, i preferiti dei parroci e delle decrepite signore d’annata delle associazioni benefiche.
Se, minacciati, chiedono aiuto alle forze dell’ordine vengono nel migliore dei casi ignorati, ma più spesso dileggiati, spintonati e malmenati.
Nei dormitori vi è una lista d’attesa chilometrica e si può soggiornare solo per tre giorni durante le ore notturne, mentre fuori imperversa implacabile un freddo omicida. La strada diventa così una soluzione obbligata per decine di migliaia di barboni, costretti a sopravvivere in condizioni da incubo.
Come potremo continuare a dormire beati nei nostri letti con il pensiero che tanti nostri simili, solo più sfortunati di noi, devono arrangiarsi, avendo come tetto il cielo e come giaciglio la pubblica strada.

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Un curioso errore nel David di Michelangelo

La statua del David di Michelangelo è senza dubbio la più famosa opera d’arte che mai sia stata concepita da un artista, più della stessa Gioconda di Leonardo.
Un prodigio di perfezione, di bellezza, di potenza emana prodigiosamente da quelle membra di marmo, monopolizzando lo sguardo dello spettatore, il quale, ai piedi della monumentale statua si agita senza sosta per ammirare da ogni angolazione quel fantastico groviglio di muscoli sormontato da un volto fiero e sereno.
Milioni di visitatori si sono succeduti a Firenze nell’Accademia per godere di quel corpo possente al quale manca, come sottolineò lo stesso Michelangelo, soltanto la parola.
Centinaia di studiosi hanno descritto l’opera sulla quale esiste una bibliografia sterminata, ma nessuno credo ha mai notato un particolare anatomico, un dettaglio apparentemente insignificante, ma che si configura come un madornale errore.
L’attributo virile del David ha fatto sognare estasiate infinite donne di tutte le nazioni e di tutte le età, dando luogo a pensieri lubrici ed inconfessabili.
La precisione ottica nella definizione della muscolatura e del sistema venoso dell’eroe biblico è stupefacente, a dimostrazione di una conoscenza del corpo umano da parte di Michelangelo da fare invidia al più esperto degli anatomici, ma a ben osservare salta fuori una paradossale incongruenza: il gigante è rappresentato con un organo genitale di lusinghiere proporzioni, ma affetto da una fimosi serrata, incompatibile con lo status di un giovane ebreo, perché la pratica della circoncisione era una consuetudine costante per tutti i maschi del popolo eletto.
Il sommo artista ha descritto i vasi delle mani e delle braccia con sorprendente verismo, ma si è evidentemente servito di un modello cristiano, incorrendo in un errore stranamente mai notato fino ad ora da nessuno.
Si potrebbe concludere affermando prosaicamente che con questa svista il celebre scultore è caduto sul pisello, il che conoscendo i suoi gusti e le sue inclinazioni particolari è quanto meno una sorpresa.

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Dieci vantaggi paradossali dalla crisi economica

La spaventosa crisi economico finanziaria che sta travolgendo l'Occidente con il crollo delle borse, la perdita di milioni di posti di lavoro e l'inizio di una recessione di dimensioni planetarie può presentare per gli Italiani, e non solo per loro, alcuni vantaggi; ci sentiamo di segnalarne almeno dieci, passati sotto silenzio o ignorati dai mass media.
1) La possibilità di reinventare un nuovo modello di sviluppo, infatti in questi decenni abbiamo impostato la nostra civiltà su di un frenetico sviluppo basato sull'aumento senza sosta dei consumi, una politica suicida che ci avrebbe portato in poco tempo al collasso per via dell'esaurimento delle risorse naturali e per la crescita vertiginosa dei rifiuti, in grado di trasformare il pianeta in una gigantesca pattumiera. La crisi può aprire gli occhi e la mente a molti, soprattutto alle giovani generazioni, le più intossicate dalla droga di un consumismo forsennato e forse si metteranno le basi per una nuova economia più rispettosa dell'etica e dell'ambiente.
2) La riduzione dell'inquinamento. Più di qualsiasi accordo tra nazioni il rallentamento della produzione industriale permetterà all'ambiente di tirare una boccata di ossigeno e di far decrescere il tasso di gas tossici nell'atmosfera con indubitabili benefici per la salute degli uomini e degli ecosistemi.
3) Diminuzione del costo delle materie prime, soprattutto del petrolio, che dopo aver sfiorato i 150 dollari a barile è sceso oramai a circa 40 dollari, permettendo a breve un sensibile calo del prezzo di benzina, luce e gas ed a cascata di tutti quei beni in cui incide trasporto ed energia.
4) Discesa dell'inflazione, provocata dal calo del petrolio e di altre materie prime. Attendiamo da un momento all'altro una storica inversione di tendenza con un saldo negativo, che potrà essere cospicuo se i commercianti avranno il coraggio e la lungimiranza di abbassare spontaneamente i prezzi per stimolare i consumi, aumentando il volume delle vendite e facilitando lo smaltimento delle merci.
5) La rivalutazione dell'industria, il crollo dei miti della finanza e la caduta di tanti squallidi speculatori, che si illudevano di generare una ricchezza unicamente cartacea, porterà ad una sicura rivincita dell'economia reale e ad una predominio della produzione sulla speculazione; la riscossa partirà dall'industria e dal settore manifatturiero.
6) Rivalutazione dell'artigianato e dei prodotti locali, la globalizzazione subirà un benefico rallentamento, favorendo il consumo di prodotti locali, sui quali poco incide il trasporto e la conservazione; si avrà inoltre una rivalutazione dell'artigianato e del lavoro autonomo, attività capaci di dare un notevole impulso di creatività ed entusiasmo alla ripresa economica.
7) Diminuzione del costo del denaro, i continui tagli al costo del denaro da parte della Banca centrale europea hanno portato ad una drastica riduzione dei tassi ai quali erano ancorati i mutui a tasso variabile. L'effetto a breve sarà una notevole diminuzione delle rate sui mutui immobiliari che tanto gravano sul bilancio di molte famiglie.
8) Frenata della quotazione dell'euro, il quale era cresciuto di valore a dismisura nei confronti del dollaro, provocando difficoltà alle aziende che vivono sull'esportazioni come quelle italiane.
9) Calo dei prezzi delle case, che negli ultimi tempi avevano raggiunto quotazioni irreali, creando grosse difficoltà ai giovani desiderosi di farsi una famiglia.Anche i fitti sono scesi di conseguenza, inoltre oggi è un momento favorevole per chi vuole acquistare ed ottenere un mutuo a condizioni vantaggiose dalle banche.
10) Affari in borsa, la diminuzione vertiginosa del prezzo delle azioni, che sembrano aver toccato il fondo, permette a chi dispone di liquidità e vuole accettare una quota di rischio di fare ottimi affari, pagando titoli a prezzo di saldo in attesa dei prossimi inevitabili rialzi.

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Il tremendo costo sociale dell'immigrazione

Il vento della crisi economica planetaria comincia a divenire impetuoso e dopo il crollo delle borse comincia a far sentire il suo effetto deleterio con la perdita di milioni di posti di lavoro in tutta Europa.
Davanti a questa tragedia dirompente, che spinge verso gli abissi della povertà una parte sempre più cospicua della popolazione ben poco potranno rimediare le misure varate dai vari governi. La disoccupazione diverrà l'incubo non solo dei giovani in cerca di prima occupazione, ma anche di tanti che, bene o male, riuscivano a rimediare uno stipendio ed a portare avanti dignitosamente la famiglia.
Di fronte allo scenario apocalittico che sta per aprirsi sul nostro futuro diventa sempre più lecita ed accattivante la proposta, dettata dall'egoismo, di chiudere drasticamente le frontiere o almeno tentare seriamente di chiuderle. Sarebbe opportuno che al più presto il Parlamento vari una norma che vieti ad un'azienda di licenziare un lavoratore italiano se a coprire le stesse funzioni rimangono lavoratori stranieri; allo scopo di evitare che qualche padroncino voglia approfittare della crisi per conservarsi un dipendente non sindacalizzato e liberarsi di un rompiscatole, che vuole vedere riconosciuti i suoi diritti. Deve essere chiaro che gli immigrati devono rappresentare una risorsa, non un flagello per il mondo della produzione. Se volgiamo la nostra attenzione dall'Europa all'Italia ci accorgiamo che da noi si sono da anni agitate confusamente varie correnti di pensiero senza mai confrontarsi seriamente.
La voce della Chiesa, che ha sempre raccomandato caldamente di accogliere a braccia aperte chiunque venisse da noi in cerca di migliori condizioni di vita, certa che alla fine a sistemare le cose nel verso giusto ci penserà lo Spirito santo. Gli interessi dell'industria, soprattutto media e piccola, che collimano alla perfezione con quelli della criminalità organizzata, la più grande azienda del Paese in termini di capitali e di manodopera utilizzata, ai quali fa comodo un flusso disordinato di disperati disposti a lavorare a basso costo senza diritti sindacali o peggio ancora a divenire docile strumento dell'illegalità, dalla prostituzione allo spaccio di droga. I buonisti ad ogni costo, ai quali si è associata negli ultimi tempi anche la sinistra, che ha assunto sul problema un atteggiamento estremamente accomodante ai limiti di un ipocrita ed irrealizzabile ecumenismo.
Alcune parole d'ordine hanno cominciato a circolare insistentemente sui mass media, dal Presidente della Repubblica all'ultimo dei sindacalisti pieddini:" Gli immigrati si prendono cura delle persone a cui più teniamo, anziani genitori e bambini...., senza di loro la nostra economia si fermerebbe..., i loro contributi previdenziali ci permettono di percepire ancora le nostre pensioni". Verità sacrosante a differenza della favola che si adattano a fare i lavori che gli Italiani non vogliono più fare. Andate a spiegarlo ai nostri camerieri, ai nostri operai generici, alle nostre commesse, alle nostre baby sitter ed a tutti coloro che ora più che mai sono alla disperata ricerca di un'occupazione, qualunque essa sia, per poter sopravvivere. Sono un esercito di giovani e meno giovani toccato nei propri interessi vitali ben diversi da quelli dei ricchi, preoccupati unicamente che la colf, filippina o cingalese, indossi una bella divisa o sappia cucinare e servire a tavola.
Il peso sociale dei flussi migratori disordinati, che si sono abbattuti e si abbattono sempre più su di noi lo pagano esclusivamente gli abitanti dei quartieri poveri, costretti a sgomitare non solo per un posto di lavoro, ma anche per l'assegnazione di un sussidio, un letto in ospedale o l'iscrizione all'asilo nido. Mentre gli insediamenti degli zingari sono divenuti contigui ai quartieri popolari dove sicurezza ed incolumità fisica stanno divenendo una mitica chimera, tra accattonaggio aggressivo verso gli anziani e le donne, furti e borseggi con frequenza quotidiana. Tra gli immigrati che lavorano onestamente e sono la maggioranza si sono infiltrati i criminali più incalliti, incoraggiati dalle nostre leggi ottusamente permissive e dalla nostra giustizia, che dire che è allo sfascio è fargli un complimento.
Lo dimostrano i dati diffusi dalle autorità: un reato su tre è compiuto da stranieri e solo una percentuale irrisoria arriva ad una condanna, nonostante abbiano intasato con la loro presenza e reso invivibili le nostre carceri. Si tratta di una tematica scottante, un drammatica guerra tra poveri sulla quale la Lega ha costruito la sua fortuna e la sinistra è naufragata miseramente alle elezioni. Un problema che fa tremare i polsi, che mette in dubbio il nostro futuro e che purtroppo non ha facili ed indolori soluzioni.

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Gli animali hanno un’anima?

Anche i leghisti, eccezionalmente, dimenticano di essere beceri celoduristi interessati solo alla strenua difesa dei loro interessi ed avanzano proposte in Parlamento, con l’appoggio della sinistra, che denotano un’anima candida, anzi a sentire le parole della promotrice, onorevole Francesca Martini, ritengono che anche gli animali la posseggano, almeno i più abituati a vivere con l’uomo come il cane, il gatto, il cavallo.
Torneremo a discutere dell’argomento, ma prima spendiamo qualche parola sulle iniziative della sottosegretaria alla salute, una piacente signora bionda, molto chic, amante dei bei vestiti e dei tacchi a spillo, proveniente da un’antica e stimata famiglia di medici e farmacisti, da sempre impegnata nel difendere i diritti degli animali, come quando, avendo letto sui quotidiani che Trenitalia si apprestava a vietare l’ingresso sui vagoni ai cani superiori ai 6 kilogrammi, si è precipitata dall’amministratore delegato Moretti, in rappresentanza di 6 milioni di proprietari e lo ha convinto a recedere dalla sua decisione.
Quindi una proposta rivoluzionaria: una mutua per i cani poveri.
“ Non è giusto che solo i ricchi possano permettersi la compagnia di un cane, bisogna dare alle persone sole ed alle famiglie disagiate pacchetti sanitari gratuiti per la salute dei loro piccoli amici”.
Fin qui le lodevoli ed originali idee della bella e combattiva deputata, ma vorrei tornare al cuore della discussione per affrontare l’argomento: anche gli animali hanno un’anima?
Fino a metà del medio evo si riteneva che la donna non possedesse un’anima e lo scopo della sua vita era unicamente legato al suo percorso terrestre senza speranza alcuna di trascendenza: tenere pulita la casa, soddisfare le pulsioni sessuali degli uomini ed assicurare la procreazione.
Nell’ambito degli studiosi Tertulliano, vissuto tra il 160 ed il 250, fu il primo a porsi il problema dell’animazione del prodotto del concepimento che trovò poi con S. Agostino una risposta accettata dalla Chiesa per molti secoli; il grande pensatore riteneva che l’animazione avvenisse prima della nascita, anche se non precisava quando. S. Alberto Magno, vissuto quasi mille anni dopo, affermava viceversa che il maschio possedeva un’anima 40 giorni dopo il concepimento, mentre una femmina dopo 90. S. Tommaso d’Aquino(1225-1274), sul cui pensiero si fonda la teologia e l’etica cristiana, sosteneva la tesi dell”animazione ritardata”, secondo la quale l’anima non poteva essere infusa al momento della fecondazione, perché la materia, il “corpo”, non è adeguatamente preparata a ricevere la forma, l”anima”, per cui si deduce che quest’ultima è infusa “dopo un certo tempo”. In tempi recenti sul problema si è espresso Jacques Maritain, il più grande filosofo cattolico del nostro secolo, il quale, nel 1973, ben conoscendo le nuove frontiere della biologia, dopo la scoperta del DNA e del corredo cromosomico, ha ritenuto un’assurdità filosofica credere che al momento del concepimento ci sia l’anima spirituale. La questione dell’animazione fu sancita definitivamente da Pio IX, il quale nel 1869 nella “Apostolicae sedis”, acclarò che, qualsiasi fosse il periodo di gestazione, il prodotto del concepimento possedeva un’anima.
Per rispondere alla domanda se esiste o meno l’anima nell’animale, oltre che nell’uomo, bisognerebbe prima capire che cosa si intende per anima, la quale dovrebbe essere un’entità immateriale, che sopravvive dopo la morte fisica. Sotto l’aspetto scientifico questa definizione potrebbe essere vera dal momento che, nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma. E se questo e valido per la materia potrebbe esserlo anche per la sua componente energetica.
Le religioni orientali riconoscono l’anima ad ogni creatura, dotata della stessa dignità umana con la medesima possibilità di raggiungere altissimi livelli di spiritualità, indipendentemente dal corpo in cui risiede. Per i Veda tutti gli esseri viventi sono spiritualmente uguali, perché tutti nascono dalla stessa sostanza.
Erotodo affermava che gli Egizi per primi affermarono l’immortalità dell’anima e che questa trasmigra attraverso tutti gli esseri prima di incarnarsi in un corpo umano, più tardi anche Liebnitz sostenne che le anime degli animali sono imperiture. Pitagora secondo la sua dottrina della metempsicosi afferma che uccidendo un animale può accadere di uccidere il proprio stesso padre. Empedocle riteneva che negli animali s’incarnassero le anime degli uomini. Anche per Platone una sola anima passa attraverso una pluralità di vite e di corpi. Plutarco scrisse un’esauriente opera circa la somiglianza dell’uomo con gli animali. Mentre per Aristotele, non solo gli animali ma anche le piante posseggono un’anima, principio e causa del corpo vivente, sostanza reale e sorgente di movimento. E Lucrezio diceva che gli uomini sono differenti dagli animali solo nella forma fisica.
Nel seno della Cristianità il problema dell’anima degli animali viene ripreso da molti santi, tra questi S. Bernardo che chiama “spirito” l’anima degli animali. Anche S. Giovanni Crisostomo parla dell’immortalità dell’anima degli animali, mentre S. Giustino afferma che l’anima dell’uomo appartiene alla stessa natura di quella del cavallo e dell’asino.
D'altronde come potrebbe essere diversamente? Vi sono inconfutabili analogie fisiologiche e neurologiche tra noi e gli animali e, anche a livello scientifico, i grandi primati sono simili a noi per una percentuale molto alta, vicina al 90-95% dei geni.
Gli animali come l’essere umano sono in grado di procreare, sanno a volte usare la logica, sono curiosi. La gelosia tra gli animali è molto diffusa, hanno paura, sono capaci di altruismo, giocano. A volte sanno anche mentire, sanno fingere, hanno il senso dell’organizzazione, sono dotati di senso estetico, sanno essere grati, compassionevoli, sperano, amano, s’innamorano, s’adirano, tengono il broncio, soffrono la solitudine, la delusione, sanno essere altruisti, sanno sacrificare a volte la loro vita per gli altri e si lasciano anche morire di inedia per la perdita del compagno, o del proprio padrone.
E’ innegabile che le facoltà percettive di molti animali (vista, olfatto, udito, facoltà di premonizione extrasensoriali) sono di gran lunga più sviluppate che non negli esseri umani.
L’illusione che esistano differenze tra gli uomini e gli animali viene mantenuta per timore che le somiglianze creino l’obbligo di dover accordare loro dei diritti e di dover rinunciare alla nostra arrogante supremazia su di loro: non avremmo più alcuna giustificazione morale a trattarli in modo diverso da noi.
E’ forse l’intelligenza a rendere l’essere umano una creatura speciale e quindi con la prerogativa dell’anima? Aristotele, Leonardo da Vinci, Einstein all’età di un anno non avevano pensieri più sublimi di quelli di un cane. I primati antropoidi dimostrano relazioni filogenetiche con l’intelligenza umana uguali a quelle di un bambino di due anni, mentre queste capacità sono assenti nei bambini autistici. Questi ultimi, come i cerebrolesi, i comatosi e tutti coloro che non sono più in grado di ragionare, forse, sarebbero privi di anima perché intellettualmente poco dotati?
Le menti più illuminate della cultura laica, hanno tutti difeso l’idea dell’anima negli animali.
Diceva il matematico Renè Tom : “C’è più mistero negli occhi del mio gatto che in una galassia in fuga.”
E Victor Hugo, quasi in modo provocatorio scriveva: “Fissa lo sguardo del tuo cane e poi osa affermare che gli animali non hanno un’anima.”
Mentre Erich Fromm affermava: “L’uomo è l’unico primate che uccida e torturi quelli della sua specie”.
Con lo stesso infausto pretesto, che solo l’uomo è ad immagine di Dio, l’essere umano ha trovato modo di giustificare tutti i suoi crimini nei confronti della creazione e ha fatto della terra un’immensa camera di tortura per gli animali.
Se l’anima dell’animale non perisce con la morte del corpo è probabile che nell’aldilà ritroveremo gli animali a cui siamo stati affezionati in questa vita. Ma nello stesso tempo i macellai, i vivisettori, i cacciatori, i pellicciai, i pescatori, ognuno che mangia la carne ecc. potrebbero anche incontrare le anime degli animali che hanno ucciso e forse sarebbe certamente imbarazzante.
Possiamo forse concludere che l’anima ce l’hanno tutte le creature o non ce l’ha nessuna, perché così sembra giusto oltre che logico.

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La squallida passerella della vanità

Per rendersi conto della deriva umana e culturale della nostra società e del clima da basso impero che oramai appesta non solo i palazzi del potere, ma anche le sue squallide dependance costituite dai salotti pseudo letterari, dai circoli esclusivi, dalle feste alla page, dalle sussiegose presentazioni di libri del politico, del giornalista, della diva attempata in fregola di scrittura, basta frequentare per pochi giorni queste inutili manifestazioni di ebbrezza folle e di vacuo trionfo di volti freschi di lampada, labbra protrudenti e seni falsi sfacciatamente prorompenti.
L'estate è la stagione più propizia per questa instancabile tribù di affamati di fama, che passano senza sosta da una cerimonia di inaugurazione ad una cena di beneficenza, da un ballo nel locale in ad una porchettata agreste, rituali intervallati da una sosta pomeridiana nel caffè di grido, sempre in prima fila nella piazza di Capalbio o di Cortina o nella celeberrima piazzetta di Capri.
Sono mescolati i personaggi più strampalati, che sgomitano lungo il ripido e scivoloso percorso che conduce all'affermazione sociale.
Li riconosci senza problemi anche se non sei un lettore affezionato di Stop, Vanity Fair o Novella 3000, né un patito di Dagospia, li vedi l'uno a fianco dell'altro senza ritegno o ricordo di barriere sociali e culturali. Sono costantemente alle prese con almeno due telefonini e parlano nella stessa lingua e dello stesso argomento: il gossip, una moderna trasposizione linguistica del pettegolezzo e della maldicenza.
Un'umanità rumorosa ed instancabile che farebbe la gioia di un antropologo che potesse studiarli e catalogarli: il politico trombato, il nobile decaduto impenitente, il chirurgo plastico arrapato, le ex bellissime rifatte, il broker rampante, i falsi intellettuali in delirio di onnipotenza, gli aspiranti tronisti, i ginecologi rattoppafiche, gli scrittori senza lettori, i palazzinari voraci, i manager superammanigliati, i prelati presenzialisti, le veline sguaiatamente spogliate, le pornodive in abiti castigati, i millantatori dalla faccia di bronzo, i truffatori sfacciati, i bancarottieri sulla cresta dell'onda, gli impresari del nulla, i furbetti del quartierino di turno, i parrucchieri delle dive, i preti vanitosi, le escort slave mozzafiato, il cocainomane dal volto pallidissimo, il frequentatore di cerimonie, i vincitori del Grande fratello e dell'Isola dei famosi.
Con l'autunno si ringalluzziscono e si ripropongono indefessi alle presentazioni di libri, ai vernissage, alle sfilate di moda. Scalpitano per avere accesso ai salotti politico mondani culturali, dove obbediscono a defatiganti liturgie di iniziazione ed a ottusi protocolli autoreferenziali. Conoscono alla perfezione la tecnica del brindisi e l'assalto al buffet. Hanno la mascella volitiva ed il morso temerario, la rapida deglutizione e, meraviglia delle meraviglie, non mostrano la loro soddisfazione culinaria col rutto, ma con mielosi complimenti alla padrona di casa; di rado sono vittime di incidenti, il più comune il filo scivoloso della mozzarella o lo spaghetto birichino che fanno capolino nell'abisso di una scollatura.
Godono fino all'orgasmo nelle feste in maschera, nelle quali, ridendo a crepapelle, si scatenano in balli di gruppo e frenetici trenini. Conoscono un'aggiornata versione del baciamano, che dispensano con eguale profusione a signore d'annata e boriosi porporati.
La domenica pomeriggio hanno una sola ambizione: tifare all'escandescenza ed abbandonarsi al turpiloquio nella tribuna d'onore dello stadio olimpico.
Sono le vittime e nello stesso tempo gli artefici del declino della nostra civiltà, della Caporetto dell'educazione e del buon senso, abbacinati dal loro sogno di vanagloria ed affermazione che può offrire una società pagana e votata all'autodistruzione.

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Africa, un continente in agonia

La popolazione dell’Africa esplode, ricordo a scuola, studiando geografia, si apprendeva che il continente nero aveva 200 milioni di abitanti, l’Europa 600; oggi a mezzo secolo di distanza, noi siamo sempre gli stessi, mentre loro sono di gran lunga più di un miliardo.
Rappresentano non più un continente bensì un pianeta in drammatica collisione con la modernità. Hanno piaghe del passato: fame, siccità, ignoranza e flagelli del presente:aids dilagante, dittatori sanguinari e la classe politica più corrotta del mondo.
Non hanno cognizione del passato, speranza nel futuro, scappano da un insopportabile presente.
Una cauta proiezione demografica prevede che nel 2005, poco più che domani, la popolazione rivierasca che abiterà le coste del Mediterraneo aumenterà di 150 milioni di unità: 10 nella parte settentrionale, grazie unicamente ai flussi migratori e 140 nella parte meridionale. Una visione da incubo che riguarderà, non i nostri lontani discendenti, ma noi stessi ed i nostri figli.
L’esodo disperato parte dal centro dell’Africa, dai paesi più martoriati, dove avanza il deserto e dove le lotte tribali hanno raggiunto una ferocia inaudita.
Si cerca di raggiungere, a marce forzate, che a volte durano mesi, le coste libiche: i porti di Sfax, di Zuwara, di Kerkenna e poi si aspetta di potersi imbarcare su gommoni o zattere di fortuna, pagando il passaggio a peso d’oro a negrieri avidi e privi di qualsiasi scrupolo.
Il viaggio dura un tempo interminabile, che può in ogni momento finire all’improvviso, se il mare decide di infuriarsi con onde tumultuose ed omicide. Non esistono statistiche di quanti concludono il loro viaggio miseramente in pasto ai pesci, sicuramente numerose migliaia ogni anno.
Si sale a bordo portando con sé pane e frutta, scatolette di sardine e bottiglie di acqua Al Zahra e con tanta paura e speranza si comincia la traversata.
Gli uomini si liberano sulla spiaggia dei documenti e di qualunque cosa possa ricordare il loro passato, conservando solo gli indirizzi ed i numeri telefonici che auspicano possano aiutarli a sopravvivere in Europa.
Le donne invece cercano di difendere la memoria dei luoghi e degli affetti che si lasciano alle spalle, cercando di far varcare le onde a foto, oggettini, un sacchetto di terra, un piccolo corano. A volte nascondono gelosamente sotto le larghe vesti un album intero di fotografie, che scandisce il loro passato, ogni immagine rappresenta un pezzo di vita, un amore, un dolore, un lutto, che non vogliono, non possono dimenticare, a differenza dei loro mariti, figli, padri ansiosi di rinascere a nuova vita.
Alcune ragazze acculturate portano con sé il diario della loro breve esistenza, le più anziane collanine, piccoli monili, fazzoletti colorati, oggetti apparentemente insignificanti, ma carichi di malinconia e di mistero.
Per chi, fortunato, toccherà vivo la sponda, è in attesa un mondo ostile, non certo il paradiso terrestre dei loro sogni. Snervanti permanenze nei campi di accoglienza e poi alla ventura in cerca di un qualsiasi lavoro per sopravvivere, sfidando razzismo ed incomprensioni. Sarà un cammino ripido e tutto in salita, ma per chi lascia alle sue spalle l’inferno, qualsiasi posto della Terra rappresenta, se non il paradiso agognato, almeno un ben più che tollerabile purgatorio.

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Aboliamo la caccia, anzi la carne

Periodicamente monta la polemica sulla caccia e sempre più persone ne chiedono l’abolizione; anni fa la questione fu persino oggetto di un referendum, che però non raggiunse il quorum.
I cacciatori esercitano per puro diletto quella che fu un’inderogabile necessità per i nostri progenitori:procacciarsi il cibo, ma uccidere a freddo senza motivo è da considerare senza dubbio un delitto.
In Italia esistono più di due milioni di cacciatori, i quali mettono in moto un mercato multimilionario. L’economia di intere città, ad esempio Brescia, è legata alla vendita delle armi, delle cartucce, delle divise, una massa di denaro e di posti di lavoro che sarebbero in pericolo se fossero vietate le attività venatorie, ma seguendo questo ragionamento dovremo forse giustificare le guerre, perché permettono alle industrie siderurgiche o elettroniche di prosperare?
Ma non accaniamoci solo contro i seguaci della doppietta, mostrandoci meno indulgenti verso i pescatori sportivi. Non vi è infatti cosa più triste che osservare il pesciolino appena pescato e buttato via tra i ciottoli di un fiume a dibattersi disperato e senza speranza contro una morte silenziosa, che lo ghermisce nell’indifferenza generale. Quelle bocche affamate d’aria in preda all’anossia, quelle squame ancora luccicanti, quel fugace momento che rappresenta il delicato trapasso tra la vita e la morte, immortalato con grande abilità dal pennello di sommi pittori, come Giuseppe Recco, sono uno spettacolo angosciante, che ci permette di meditare sull’inutile crudeltà dell’uomo.
Nella Bibbia si racconta che Dio autorizzò gli uomini a nutrirsi della carne degli animali, considerati esseri inferiori, un atteggiamento in pieno contrasto con le più antiche religioni orientali, che attribuiscono pari dignità a tutti i viventi.
Nessuno di noi mangerebbe più spensierato la sua bistecca se avesse visitato un mattatoio con l’orrore di quei poveri animali scannati, dissanguati, squartati, stipati nelle celle frigorifere. Il nostro occhio insensibile non resisterebbe anche se abituato alla vista di porcellini di latte esibiti nelle vetrine delle salumerie, dei festoni di salami e di prosciutti, dei polli allineati sui banconi, dei vitelli appesi ai ganci delle macellerie.
Poco ci giustifica la constatazione che sul pianeta tutta la vita sembra alimentarsi attraverso la morte: il leone divora l’antilope, il lupo l’agnello, l’uccello gli insetti, il pesce più grande il più piccolo. Pare che tanti animali esistano solo perché altri debbano pascersi dei loro corpi.
L’idolatria della fettina dilaga da tempo nel mondo occidentale con effetti nefasti sulla salute: obesità, aterosclerosi, diabete, ma soprattutto costringendo alla fame centinaia di milioni di abitanti del terzo mondo, che vedono ridursi drasticamente le superfici destinate all’agricoltura. Nello stesso tempo ogni giorno di più distruggiamo ed inquiniamo l’ambiente con stolta perseveranza; allora perché vogliamo incolpare solo i cacciatori?

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La rabbia di un sogno disperato

Ogni anno il Mediterraneo, l’antico mare nostrum che era circondato da popoli con eguali diritti, assiste impassibile alla morte violenta per annegamento di migliaia di giovani vite, spinte ad attraversarlo per fuggire dalla povertà, dalla guerra, dalla fame, dalla disperazione.
Mentre noi, nonostante la crisi economica, ci adagiamo sul superfluo, a loro manca l’indispensabile e niente e nessuno potrà fermare questi drammatici viaggi di fortuna a bordo di sbrindellati barconi guidati da avidi negrieri.
L’isola italiana di Lampedusa, proiettata nelle acque africane, non è più una meta di sogno per turisti alla page, che volevano, anche di inverno, godere della dolcezza di un clima temperato, di panorama mozzafiato, di acque cristalline e di spiagge incontaminate, oggi essa rappresenta l’inferno dei vivi dove approdano gli ultimi della Terra.
Spesso questi sventurati giungono a riva annegati, gonfi ed irriconoscibili, sfigurati dai morsi che fanno scempio dei volti. A volte giungono solo le scarpe spugnate o brandelli di vestiti, perché i corpi hanno pagato il loro feroce tributo al dio Nettuno.
Anche visitare i gommoni sequestrati o abbandonati e portati a riva dalle onde è uno spettacolo raccapricciante: pacchetti di sigarette vuoti, spazzole per capelli, qualche foto sbiadita, bottigliette di sciroppo semivuote per placare gole arrossate dal freddo, banconote di piccolo taglio con la faccia ineffabile di Gheddafi, il dittatore trionfante ed insensibile al destino del suo popolo e di tutti gli africani.
Un tentativo di soluzione di questa diaspora di dimensioni bibliche è unicamente nelle mani dell’Europa, che deve assurgere al ruolo di garante del diritto internazionale e di un’economia impregnata di morale e di etica.
Non si deve favorire in nessun modo l’avvento al potere di dittatori corrotti e sanguinari, che guadagnano cifre stellari dalla vendita all’Occidente di petrolio e di gas senza curarsi del benessere dei propri sudditi. Molti degli Stati dai quali provengono questi derelitti mandati allo sbando sono ricchi oltre misura di risorse naturali sempre più richieste.
Necessita da parte di politici di buona volontà una vera e propria rivoluzione culturale, portando lavoro in Africa e non più gli africani in Europa, pena il nostro stesso destino che rischia di precipitare nel baratro di un’invasione incontrollabile.
Fino a quando il reddito di intere popolazioni sarà di un dollaro al giorno non vi sarà futuro tranquillo né per l’Europa, né per l’America.
Non servirà a nulla erigere barriere fisiche, pattugliare le coste, innalzare mura infinite ai confini nazionali; ci saranno sempre più uomini e donne disperati che rischieranno la vita per non continuare a vivere nell’umiliazione e nella fame.

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Un esercito di puttane colorate nel regno dei casalesi

I l centro di interruzione della gravidanza della clinica S. Anna di Caserta costituisce un osservatorio privilegiato per comprendere a fondo la vita miserabile delle innumerevoli prostitute di colore che animano strade, cavalcavie e viottoli di campagna nel regno dei casalesi.
Conoscerle superficialmente è alla portata di tutti, basta percorrere, non solo di sera, quando le micidiali fiamme dei copertoni di camion ne segnalano da lontano la presenza, ma anche di giorno, il reticolo di vie principali e secondarie che vanno da Licola a Castel Volturno ed oltre.
Sono per la maggior parte minorenni ed offrono le loro grazie senza che la fantasia debba lavorare più di tanto; poppe e sederi vigorosi sono esposti alla luce del giorno o riverberati dalle lingue di fiamme velenose, che spargono al vento la micidiale diossina.
Sono particolarmente ricercate, non solo per i prezzi, competitivi rispetto alle slave, spilungone dall’epidermide alabastrina e dai biondi capelli, ma soprattutto perché non pretendono dal cliente l’uso del profilattico e tanti sconsiderati, ignari dei rischi mortali dell’aids, corrono ad appagare il loro oscuro quanto umido oggetto del desiderio tra le loro gambe nere, dando libero sfogo alle loro lubriche pulsioni sessuali.
Il poter ascoltare le loro confidenze, come mi è capitato durante gli anni di collaborazione che ho intrattenuto con la clinica casertana, permette di scandagliare dettagliatamente la loro via crucis dalle foreste africane all’asfalto metropolitano. Un lungo percorso intessuto da ogni genere di reato: riduzione in schiavitù, stupro, protezione e sfruttamento della prostituzione, adescamento, estorsione, minacce, violenze varie, evasione fiscale ecc.. ecc...
Prima di entrare nel vivo del racconto mi sia concesso di accennare al servizio offerto, in regime di assoluto monopolio, dalla suddetta, benemerita casa di cura, unica struttura convenzionata per l’aborto a sud di Roma, situazione di raro privilegio, che le permette di eseguire il 30 - 40% delle interruzioni che si eseguono ogni anno in Campania, con una spesa per il contribuente di svariati milioni di euro. Lo status di clandestina non è naturalmente un ostacolo quando a pagare sono i contribuenti.
Ma torniamo alle foreste del Ghana, della Nigeria, della Costa d’Avorio, luogo di provenienza di questo esercito di giovani donne, vendute dalle famiglie per pochi denari a spietati trafficanti di schiave, i quali, le conducono in Europa per via aerea, transitando per i paesi dell’est, dove i controlli sono più aleatori e malleabili. Si tratta infatti di merce pregiata che non può certo rischiare il viaggio sui barconi dalla costa libica verso Lampedusa, per via della terrificante percentuale di affondamenti.
Durante le ore del volo le ragazze vengono brutalmente sverginate e giunte a terra consegnate ad aguzzini che continueranno per giorni a violentarle senza ritegno durante il percorso tra boschi e montagne che le condurrà, evitando imbarazzanti frontiere, a Trieste.
Lì vengono smistate nelle varie città dove vengono prese in consegna da una maman, una sorta di magnaccio in gonnella, che le ha acquistate a scatola chiusa.
Sono quindi sottoposte a riti ancestrali(vodoo), che sanciranno per sempre obblighi di sudditanza assoluti verso questa megera, che pretenderà per il loro riscatto una cifra di 50 - 100.000 euro a seconda dell’avvenenza della fanciulla.
La maman la istruirà poi nelle arti erotiche, le stiperà in squallidi appartamenti ed in pochi giorni saranno pronte per il marciapiede. Dovranno versarle ogni mese non meno di 500 euro e circa il doppio sono pretesi dalla malavita locale, proprietaria indiscussa del territorio, in barba alle leggi dello Stato e saranno dislocate, a secondo della loro bellezza, dappertutto, chi sulla provinciale, chi sotto un cavalcavia, mentre le meno attraenti dovranno contentarsi di una poco frequentata stradina di campagna. Un vero e proprio esercito del piacere nel regno dell’orrore e della violenza, nello stato dei casalesi.
Le più fortunate, pagato il loro debito in 3 – 4 anni, potranno mantenere nel lusso gli uomini delle quali si innamoreranno e mandare denaro alla numerosa famiglia rimasta in patria, permettendo così ai genitori di aprirsi un negozietto ed a qualche volenteroso fratello di studiare.
La maman è prodiga di consigli e le invita a prendere ogni giorno una dose di antibiotico, con l’illusione di tenere lontane le malattie veneree ed una pillola contraccettiva, senza alcuna interruzione, allo scopo di evitare non solo gravidanze indesiderate, ma anche il fastidio delle mestruazioni, che intralcerebbero il lavoro.
Purtroppo l’aids non teme i farmaci e ghermisce le sue prede in breve tempo, mentre per le gravidanze indesiderate ci pensa la clinica S. Anna, tanto paga pantalone... e si tratta di un grande progresso, perché il consiglio che viene loro dato dalla maman in questi casi è quello di adoperare una micidiale mistura di farmaci contratturanti o addirittura di introdurre in vagina una pasta di vetro tritato.
Fortunatamente esistono alcuni volontari, laici e religiosi che, a rischio della loro vita, le avvicinano durante le ore di lavoro e le inducono a consultare gli ambulatori ginecologici dell’asl dove, lentamente, vengono istruite ad una corretta contraccezione e ad una profilassi più accorta nei riguardi delle malattie sessualmente trasmissibili.
Ogni tanto qualcuna di queste sventurate, dopo aver pagato il riscatto, decide coraggiosamente di affrontare una gravidanza e di mettere al mondo un figlio napoletano, con la segreta speranza che possa avere un vero futuro, possa parlare il nostro dialetto, forse un domani anche l’italiano, possa studiare e vivere in un mondo migliore e chi sa, un giorno raccontare al mondo il dramma delle sue origini e la triste epopea di un popolo di migranti, per troppo tempo avvolto senza pietà nella sofferenza e nell’orrore.

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La virtù della sobrietà

Gli Italiani, nonostante la discendenza da Bacco e la presenza dei più bei vigneti del mondo, non sono mai stati schiavi dell’alcol al punto da perdere la testa…, a differenza di tanti altri popoli europei dell’est e del nord Europa, a torto ritenuti più civili.
Almeno questa affermazione è stata vera per decenni, ma purtroppo la situazione sta cambiando velocemente e le nostre città, sia grandi che piccole, il venerdì ed il sabato sera stanno somigliando sempre più a quelle britanniche o scandinave con moltitudini di giovani e giovanissimi in preda a sbronze colossali con inevitabile corteo di risse e accoltellamenti, oltre a stragi su strade ed autostrade durante il ritorno a casa.
I motivi di questa penosa deriva esistenziale sono molteplici: dalla solitudine alla noia, dalla pedissequa imitazione di modelli comportamentali nefasti al vuoto culturale e spirituale più profondo; e tutto avviene molto velocemente al punto da far perdere ogni ragionevole speranza di inversione di tendenza.
Complici di questa criminale variazione di costume la famiglia in via di disintegrazione e lo Stato, che rinuncia ad esercitare divieti ed a regolamentare la vendita di super alcolici, soprattutto ai minori.
Deve pur esistere un saggio equilibrio tra il fondamentalismo islamico, che vieta rigorosamente l’assunzione di bevande sataniche… e la nostra civiltà, che non può essere permissiva al punto da rimanere indifferente all’acuirsi del fenomeno.
Sono necessarie leggi sulla vendita dei super alcolici e sull’orario di chiusura dei locali pubblici frequentati da giovani e giovanissimi, spot televisivi e su internet, corsi nella scuola, prima che anche essa imploda fragorosamente sotto i colpi di riforme coraggiose quanto avventate.

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Elogio dei mercatini


Da tempo ero interessato alla diatriba tra commercianti proprietari di negozi e gestori di mercatini più o meno organizzati, i quali negli ultimi tempi, segnati da una galoppante crisi economica, hanno visto aumentare vertiginosamente la loro clientela.
Le accuse sono precise e circostanziate: merci scadenti, spesso contraffatte, evasione fiscale, igiene ai limiti della decenza. A fronte di queste contestazioni innegabile è la possibilità di avere gli stessi prodotti a prezzi decisamente inferiori, una circostanza non trascurabile, che permette a moltissime famiglie di continuare a sopravvivere.
Fino ad ora la mia conoscenza del problema era basata sulla sporadica frequentazione del “mercatino dei vip”, come suole essere denominato il disordinato assembramento di bancarelle che ogni giovedì mattina prende possesso dei vialoni di accesso del Parco delle Rimembranze a Napoli, un gioiello di verde regalato alla città da un celebre cavaliere, senza macchia e senza paura. Attenzione non si tratta del rampante Berlusconi, ma del ben più carismatico Mussolini.
In questo allegro bazar di sapore medio orientale, allietato dalle stridule voci dei venditori, che rimembrano le antiche voci degli ambulanti partenopei, si vende di tutto ad eccezione degli alimentari, con la presunzione di inseguire le griffe alla moda imitate in maniera prodigiosa e spacciate per vere.
Il mercatino è frequentato da una folla allegra e ciarliera nella quale si distinguono le signore e signorine bene della città alla ricerca spasmodica del capo di moda firmato, poco conta se apocrifo, perpetuando con l’aiuto del falso l’antica abitudine di vestire all’ultimo grido.
Sono naturalmente finte signore dalle labbra rifatte e dalle movenze sguaiate, inconsapevoli protagoniste di un doloroso quanto irrefrenabile epicedio: il malinconico tramonto di una classe borghese che per secoli ha comandato ed oggi è sostituita da una casta prepotente e camorristica, volgare e sfacciata.
Amare circostanze della vita mi hanno condotto in una città del nord, dove in compagnia di Tania, un’affascinante fanciulla ucraina grande appassionata di shopping economico, ho avuto modo di frequentare numerosi mercatini, improvvisati da gente di colore o efficacemente organizzati con in vendita ogni genere di mercanzia. Ho avuto così modo di constatare l’estrema convenienza di alcuni prodotti. Ho visto gli shampoo di primarie marche offerti ad un euro, gli stessi in vendita, anche nei discount, ad una cifra 3 – 4 volte superiore. Camicette e magliette alla page, con impercettibili errori di manifattura quasi regalate, senza parlare degli alimentari e dei detersivi acquistabili da tutti.
Naturalmente questi prezzi stracciati, stupefacenti, sono dovuti all’assenza di spese di fitto, tasse e gabelle varie, ma soprattutto da una ridotta esosità da parte del venditore, che vuole vivere, non arricchirsi.
Benedetti mercatini siete l’ultimo baluardo contro la globalizzazione, un’isola felice lontana dall’egoismo e dalla frenesia del guadagno.
Grazie a nome di tante famiglie che sarebbero altrimenti ridotte alla fame

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L’amore al tempo della galera

Avrei voluto intitolare questo capitolo Il sesso nelle carceri poi sono stato attirato da questo titolo di derivazione cinematografica e ho deciso di adottarlo per discutere di quello che, a parere dei detenuti, quasi tutti molto giovani, è la privazione più grave: l’impossibilità di continuare a praticare una dignitosa affettività con le persone care, anche loro condannate, senza alcuna colpa, alla stessa pena e non vogliamo parlare solo di sesso negato, ma anche dell’impossibilità di continuare ad intrattenere un decente, anche se discontinuo rapporto, con i propri figli in tenera età, che sono sottratti per lunghi periodi da qualsiasi contatto col genitore.
Si tratta di un tema scottante, tale da suscitare imbarazzo e perplessità anche solo a parlarne, ma alcune nazioni, Svizzera, Spagna, Svezia lo hanno affrontato con coraggio ed hanno trovato delle soluzioni dalle quali prendere esempio.
L’argomento è talmente audace che si è voluto creare un termine ambiguo: affettività per aggirare la terminologia più esplicita di sesso, che potrebbe mettere subito in fuga moralisti e benpensanti.
Tutti riconosciamo che l’essere umano ha bisogno di affetto, tanto più quando viene a trovarsi in situazioni di disagio e senza dubbio la restrizione della libertà è una delle condizioni più penose da sopportare.
Nella repressione degli affetti si verificano gravi deviazioni, comprese quelle sessuali. A questo proposito lapidario è il pensiero di Friedrich Nietzsche: "È noto che la fantasia sessuale viene moderata, anzi quasi repressa, dalla regolarità dei rapporti sessuali, e che al contrario diventa sfrenata e dissoluta per la continenza e il disordine dei rapporti." (Umano, troppo umano, I, n. 141).
Allora la soluzione va cercata in una politica illuminata che, nell’esecuzione della pena, privilegi sin dall’inizio, se non è possibile l’uscita dal carcere, almeno l’incontro periodico coi propri cari e non il distacco netto e la drastica separazione, causa di infiniti problemi esistenziali, di relazione e interpersonali.
Nell’interno del carcere è opportuno creare degli ambienti, che pur rispondendo a tutti i requisiti di sicurezza, offrano al recluso ed ai suoi familiari dei momenti di intimità. Se un detenuto riesce a mantenere una rete solida di rapporti affettivi, oltre a tollerare di buon grado la pena da scontare, corre molti meno rischi di tornare a commettere reati, inoltre conserva un comportamento corretto, quando queste occasioni di incontri ravvicinati… sono subordinati ad un condotta assolutamente irreprensibile.
Prima di considerare gli incontri intimi bisogna valutare tutta una gamma di possibilità intermedie, che vanno dai colloqui gastronomici, la possibilità di consumare un pasto con parenti ed amici, alla facoltà per i familiari di partecipare a giornate particolari come il Natale o la Pasqua ed infine, molto importanti, gli incontri con i propri figli in tenera età, in ambienti opportuni e, se richiesta, con l’assistenza di psicologi ed operatori sociali.
Le sorprendenti scoperte di Reich ha dimostrato in maniera inequivocabile quanto la repressione sessuale generi violenza e come le istituzioni tendano a canalizzare l’esplosione di queste pulsioni primitive per utilizzarle nei conflitti bellici.
La violenza che si produce nelle carceri, impedendo anche solo la parvenza di un’attività sessuale, non giova a nessuno, certamente non alla società che si trova a ricevere individui incattiviti, nei quali cova l’odio e la vendetta, invece che la volontà di reinserimento.
La storia del carcere è lunga quanto quella dell’uomo, ma le segregazioni nell’antichità (Roma docet) e nel medio evo ripugnano la sensibilità moderna per le atrocità ed il costante utilizzo della tortura, per cui un’analisi storica sulla nascita dei sistemi penitenziari bisogna farla risalire alla nascita della società industriale ed all’accentuazione dell’esercizio del potere dello Stato, in momenti dominati dalla cultura religiosa, che ha sempre dato al sesso una valenza particolare di demonizzazione.
Pensiamo alle Lettere di San Paolo ai Padri della chiesa, ad Origene, a San Girolamo, a Sant’Agostino, fino ad Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino. Di conseguenza una soluzione al problema "affettività", intesa in particolare nella sua dimensione sessuale, deve cominciare necessariamente attraverso una critica storico culturale puntuale e puntigliosa. Dobbiamo ripercorrere e rivisitare tutta la nostra tradizione culturale sull’argomento, ereditata in duemila anni di storia dell’Occidente, che ha accompagnato ed influito sul concetto del sesso e del piacere in generale, vissuto costantemente come peccato, male necessario solo per la procreazione ed a salvaguardia della specie.
La cattolicissima Spagna o la democratica Svizzera da tempo consentono i "colloqui intimi" ed hanno ottenuto ottimi risultati.
In Italia per evitare che qualcuno confonda le "stanze dell’affettività" con le "celle a luci rosse" è necessaria un rivoluzione culturale. La pena è privazione della libertà, ma non deve significare anche distruzione degli affetti ed annullamento completo di una normale vita sessuale.
Naturalmente non bisogna considerare unicamente le esigenze di affettività degli uomini sposati o conviventi, trascurando i bisogni, impellenti ed improcrastinabili dei più giovani, che non hanno legami fissi, ma in compenso hanno ormoni in ebollizione e desideri difficile da placare. La masturbazione o l’omosessualità, i rimedi ai quali sono obbligati non sono certo la soluzione del problema.
Anche per loro bisogna predisporre un programma che tenga conto delle loro esigenze.
In Italia il meretricio è legale e sarebbe eccessivamente licenzioso pensare ad una cooperativa di prostitute che si convenzioni con le istituzioni carcerarie?
Vi sarebbe spazio anche per volontarie, moderne suffraggette pronte ad immolarsi per una giusta causa, eventualmente anche per fanciulle poco attraenti, in virtù del fatto che molti detenuti a seguito della lunga astinenza sarebbero pronti a tutto…
Naturalmente agli ammogliati sarebbe vietato accedere a questo servizio
Naturalmente la prestazione sarebbe a spese del recluso
Naturalmente sarebbe un evento sporadico molto dilazionato nel tempo.
Naturalmente potrebbero usufruirne solo quelli che osservano una condotta corretta.
Naturalmente tutti, politici ed opinione pubblica devono impegnarsi per risolvere lo spinoso problema.

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Il male cosmico

L’esistenza del male è stata percepita presto dall’uomo, appena la scintilla dell’intelligenza si è accesa misteriosamente nel suo cervello. Il male non è un concetto, bensì è dotato di una sua oggettività, esiste al di là dell’uomo che lo percepisce, nel vuoto dello spazio siderale come nella coscienza dell’individuo, possiamo rintracciarlo nell’entropia come nel mangiare ed essere mangiati, è un buco nero nel processo della creazione, un abisso che si spalanca davanti all’espletamento del libero arbitrio.
Tutte le religioni hanno cercato di spiegarlo come contrapposizione al principio del bene, hanno affermato che essi sono complementari ed indispensabili nel creare l’armonia: l’esistenza dei malvagi dà evidenza ai buoni, nella stessa maniera in cui le ombre concorrono a far risaltare la luce ed il silenzio e le dissonanze contribuiscono ad esaltare una sinfonia.
I miti e gran parte della storia della cultura e della politica sono state una riflessione sul male, dal peccato originale, a Caino e Abele, da Giobbe a Prometeo, senza dimenticare il fascino sinistro esercitato dal perverso sull’arte, nella tragedia greca ed in letteratura da Sade a Baudelaire e Conrad.
Tutte le filosofie hanno indagato su questa ingombrante presenza nella vita dell’uomo. L’antichità classica ed il Cristianesimo hanno tentato di fornire una risposta al problema. Platone riteneva che il male non potesse derivare dalla divinità, perché estraneo alla sua essenza buona e perfetta; egli, con una concezione di straordinaria modernità, vedeva nella materia caos ed imperfezione, che solo parzialmente potevano essere ricondotti all’ordine dall’opera del divino artefice.
Agostino, si pose all’infinito l’assillante domanda: “Si Deus est unde malum?”(Se Dio esiste da dove proviene il male?), giungendo alla conclusione che il male è una forma di non essere del bene, una privatio.
Altri pensatori hanno proseguito le loro speculazioni fino ad ipotizzare una reversibilità tra filosofia della storia ed antropologia, che ha caratterizzato l’illusione dell’idealismo classico tedesco ed infine l’esperimento nichilistico di Nietzsche, da cui ha preso spunto Hitler, mentre la cupa follia del Novecento diveniva realtà con i campi di concentramento, apoteosi del male alla pari degli altri eccidi che hanno caratterizzato il XX secolo.
La triste circostanza che questi aberranti episodi di discesa agli inferi siano avvenuti, mentre la civiltà occidentale sembrava all’apogeo, ha dimostrato il totale fallimento della cultura umanistica e la desolante illusione di qualsiasi visione ottimistica della storia. Ogni intervento divino nelle vicende umane è stato assente, a dimostrazione lampante della sua indifferenza al nostro destino o della sua impotenza a fronteggiare le forze del male.
La presenza del male nella vita dell’uomo è una cosa ovvia e da tutti accettata, ogni giorno dobbiamo fare i conti con esso e con le sue manifestazioni più eclatanti, tra le quali il dolore fisico occupa un posto di rilievo. Per poterlo percepire la natura ha previsto fibre nervose specifiche e mediatori chimici specializzati sia nell’uomo che negli animali. Il significato del dolore ci sfugge, anche se noi non riusciamo a sfuggire ad esso.
Quando spostiamo la nostra attenzione dalle vicende umane al mondo che ci circonda pure scorgiamo il male, o almeno ciò che ci sembra sia il male: un leone che azzanna un’antilope e si ciba della sua carne, togliendo una mamma ai suoi cuccioli, ci sembra una riprovevole crudeltà, ma la natura, che certamente è più saggia di noi, ha previsto queste modalità nei carnivori, i quali vivono distruggendo il corpo di altri animali.
Se poi andiamo a cercare il male cosmico nelle pieghe dell’universo le difficoltà di reperirlo con precisione aumentano e l’unica bussola che possa guidarci è l’intuizione che esso esista anche tra stelle e pianeti.
Tutte le sacre scritture ci parlano di una creazione e tale concetto non è in contrasto con le più moderne vedute scientifiche, anzi è in perfetta sintonia con l’ipotesi del Big bang, la più accreditata a spiegare la nascita dell’universo.
Nel cosmo noi individuiamo un ordine che prevede delle leggi, alle quali obbediscono i pianeti nel loro moto gravitazionale così come le più piccole molecole e la presenza di tali leggi ci fa supporre la presenza di un programma e di un programmatore.
Viceversa altri pensano che materia ed energia, sorte in uno stato informe o esistenti ab aeterno, si siano autoregolamentate, facendo emergere, per puro caso, tutte le leggi di unità e di ordine che gli strumenti della fisica ci permettono di intravedere e di misurare. Il principio dell’entropia tende ad escludere che la materia esista da sempre, mentre il calcolo delle probabilità ci ammonisce come l’idea che l’ordine riscontrato nell’universo abbia avuto origine per caso è estremamente improbabile.
Ma questa querelle non ci interessa in questa sede, perché in entrambe le ipotesi riusciamo ad intravedere in azione un principio del male.
Nella prima ipotesi, scorgiamo nel caos che caratterizza alcuni punti della materia indirizzandoli verso il disordine, una precisa volontà di contrastare le leggi immutabili che sottendono all’armonia del cosmo.
Nella seconda ipotesi, se il caso sovrintende da solo a generare regole ed accadimenti, vediamo dispiegarsi in tutta la sua potenza un principio malefico.
Possiamo concludere che se il bene è armonia il male è caos, se il bene è ordine il male è disordine, se il bene è equilibrio il male è asimmetria, se il bene è aggregazione il male è separazione.

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Elogio della badante

Mentre imperversa la furia xenofoba verso gli immigrati, più o meno clandestini, un esercito silenzioso composto da due milioni di unità permette all’Italia di poter continuare a camminare nel suo egoismo, figlio della civiltà dei consumi.
Le donne ambiscono solo e soltanto ad un lavoro fuori casa e scaricano sul personale domestico, quasi tutto straniero, incombenze alle quali fino ad una generazione fa attendevano volentieri, la gestione della casa, l’educazione della prole e, l’impegno più gravoso, l’assistenza agli anziani.
L’arrivo di un fiume di badanti di razze e culture diverse è accettato di buon grado dalle famiglie, è tollerato anche nei diktat più scriteriati dei leghisti e può costituire un’occasione di graduale cambiamento dei costumi.
Nei casi più gravi prestano la loro preziosa assistenza costantemente a casa, ma spesso escono a fare quattro passi con la persona a loro affidata e sono immagini di grande tenerezza: premurose sono seduti assieme su di una panchina nei giardini pubblici o aiutano amorevolmente a fare una brevissima passeggiata mattutina, per convincere l’assistito di essere ancora vivo.
Il vecchio e la badante sembrano lontani anni luce, viceversa quasi sempre si intendono con un semplice sguardo, sono entrambi molto saggi, l’uno per l’esperienza accumulata negli anni, l’altro perché vivere lontano da casa rende subito maturi.
Sono entrambi fragili come il vetro per i malanni e per la scarsa tutela dei propri diritti. Sognano la famiglia lontana e soffrono di un’inguaribile solitudine: lo straniero ha i suoi cari a migliaia di chilometri, l’anziano ancora più distanti, anche se la figlia o la nuora abitano a pochi isolati di distanza.
Tutte le piazze d’Italia dovrebbero dedicare un monumento alla badante e gli artisti dovrebbe saper cogliere e trasferire sul marmo o sul bronzo lo sguardo caritatevole di queste donne, cingalesi e filippine, polacche ed ucraine. Possiamo immaginare una donna china su un vecchio col sorriso sulle labbra.
Tutti dovremmo sostare a meditare, come non siamo da tempo più abituati e possiamo essere certi che il monumento non attirerebbe lo spray imbrattante del vandalo, che umilia le statue dei personaggi celebri e dei padri della patria e farebbe tentennare la mano del politico o del funzionario pronti a firmare una legge restrittiva o un obbligo di rimpatrio.

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Energia nucleare: sogno o incubo?

L'aumento galoppante del costo del petrolio sta mettendo in ginocchio l'economia occidentale, in particolare l'Italia si trova maggiormente in difficoltà per aver rinunciato all'uso dell'energia nucleare, illudendosi in tal modo di mettersi al riparo dai paventati rischi che furono enfatizzati dall'incidente nella centrale di Chernobyl; viceversa la vicinanza alle grandi centrali nucleari francesi, dalle quali tra l'altro acquistiamo a caro prezzo elettricità, ci fa correre gli stessi ipotetici pericoli, senza disporre di impianti che ci permetterebbero di affrontare meglio la crisi economica.
Sull'energia nucleare circolano molte notizie inesatte. Ne parliamo con Alfredo Portone, ingegnere e ricercatore nucleare che lavora al progetto ITER, uno dei tanti cervelli italiani prestigiosi all’estero, il quale ci ha concesso una breve intervista, che ci permette di fornire un quadro più preciso sul problema energetico attuale e sulle prospettive future.
Ingegnere Portone, molti scienziati contrari al nucleare affermano che da tempo non si costruiscono più centrali. Quale è il vero motivo?
“All’inizio del 2007 erano circa 30 le nuove centrali in costruzione nel mondo[1], di cui più della metà in Asia (18) e 7 in Russia. I Paesi occidentali, per motivi di opinione pubblica, preferiscono da tempo estendere la vita delle centrali esistenti anziché lanciare nuovi ordini, il che ha portato a coprire il fabbisogno di potenza installata addizionale con centrali a gas, olio combustibile e carbone. Qualcosa però sta cambiando per effetto del prezzo del petrolio (ben oltre 100 $ al barile) e di una opinione pubblica sempre più consapevole dei danni ambientali derivanti dall’uso dei combustibili fossili. In Europa, in particolare, la Finlandia ha lanciato qualche anno fa la costruzione della centrale di Olkiluoto che dovrebbe entrare in funzione,dopo alcuni ritardi rispetto alla data prevista del 2009, verso la metà del 2011”.
Il problema delle scorie radioattive è veramente tanto importante?
“Disporre di una strategia di eliminazione delle scorie è parte fondamentale di ogni programma nucleare “sostenibile”. Il problema e’ tecnologicamente complesso e per risolverlo i principali Paesi industrializzati stanno investendo da anni in Ricerca e Sviluppo. Uno dei frutti di questo sforzo e’ la concezione e sviluppo dei reattori nucleari di IV generazione che riescono ad eliminare dai prodotti di reazione elementi pesanti quali il Plutonio, il che porta ad importanti semplificazioni in termini di rischi di proliferazione di armi nucleari. Un settore di ricerca molto attivo e’ quello della fusione nucleare – discussa più avanti – nel quale l’Europa detiene la leadership mondiale con il reattore sperimentale JET (Joint European Torus, Abingdon, GB). Per lo smaltimento delle scorie ad alta attivazione – quelle, cioè, che costituiscono le “ceneri” del processo di fissione nucleare – diversi Paesi (tra cui USA e Francia) hanno messo a punto processi di ri-trattamento del combustibile spento che ne abbattano i volumi prima del definitivo stoccaggio in zone geologiche stabili. A questo proposito e’ utile far notare che una volta processati, le scorie ad alta attivazione possono essere ridotte a circa 2-3 m3 per ogni GigaWatt di potenza elettrica prodotta per anno di operazione. La stessa energia – se prodotta buciando idrocarburi - richiederebbe la combustione di circa 2 milioni di tonnellate di petrolio equivalente[2]. Credo che – sebbene complesso - l’argomento delle scorie nucleari sia molto enfatizzato in quanto la tecnologia nucleare e’ in grado – e lo sarà sempre di piu’ in futuro – di trovare soluzioni sicure ed economiche a tutto il ciclo del combustibile. A questo proposito, certe affermazioni che si sentono a riguardo della “eredità’” di scorie che lasceremo per “migliaia” di anni ai nostri discendenti mi sembrano fuori luogo. E’ abbastanza ovvio pensare, infatti, che tra solo qualche decina (per non parlare di centinaia) di anni i nostri eredi possederanno tecnologie nucleari (e non solo) tali che il “problema” dello smaltimento delle scorie che oggi sembra (ad alcuni) insormontabile e tale da fermare lo sviluppo di questo tipo di tecnologia farà“sorridere” i nostri nipoti e pro-nipoti! Mi preoccupa di più il danno che infliggiamo quotidianamente al nostro pianeta scaricando in atmosfera circa mille tonnellate di anidride carbonica al secondo[3].... questa e’ l’”eredità’” che - per il bene dei nostri discendenti - dovremmo imporci di migliorare”.
Le centrali nucleari richiedono sostanze come l'uranio che si trova solo in alcune nazioni, non rischiamo di passare dalla dipendenza da alcuni Stati ad una dipendenza da altri?
“Chiaramente il problema di procurarsi materie prime per la produzione di un bene essenziale come l’energia elettrica sarà sempre il motore di interessi enormi e tali da generare guerre ed altre sciagure planetarie. In questo senso non si deve pensare al nucleare da fissione – così come altre fonti non rinnovabili - come alla soluzione di riferimento del problema energetico. In assenza di una forma di produzione di energia elettrica che permetta ad ogni Utente di avere accesso diretto alle materie prime ed alle tecnologie necessarie, e’ scellerato puntare – come stiamo facendo oggi con il petrolio - su una sola fonte, specie se altamente inquinante come gli idrocarburi. Anziché impugnare argomenti dogmatici (quasi religiosi) a riguardo di questa o quella forma di produzione, occorre diversificare il più possibile il nostro “portafoglio” energetico e, nel frattempo, investire in ricerca e sviluppo per trovare soluzioni adeguate di lungo respiro. Solare ed eolico devono dare un contributo ma sono ancora troppo lontane dal soddisfare i fabbisogni energetici di qualsiasi Paese industrializzato. Un’altra possibilità è la fusione nucleare che costituisce una nuova forma di produzione di energia elettrica tramite reazioni nucleari che hanno il vantaggio di non produrre scorie ad alta attività ma solo radio-attività di basso livello facilmente smaltibile. Inoltre, e soprattutto, permette di usare solo Acqua e Litio il cui approvvigionamento non pone problemi ad alcun Paese.”
L'Europa partecipa ad un progetto che rappresenta la sfida del secolo: la fusione nucleare. Può dirci qualcosa su questo progetto?
“Come accennato, la fusione nucleare è una possibile risposta di lungo respiro alla richiesta di energia “pulita” in quanto non produce gas ad effetto serra, nè scorie ad alta attivazione, non comporta rischi di proliferazione nucleare e garantisce accesso alle materie prime necessarie per la produzione di elettricità a qualsiasi Paese del mondo. Per dimostrare la fattibilità scientifica e tecnologica della fusione come fonte energetica, l’Europa – attraverso la Comunità Euratom – partecipa assieme a Russia, USA, Giappone, Korea, Cina ed India alla realizzazione del progetto ITER nei pressi di Aix En Provence in Francia. Una volta in funzione, ITER sarà il più grande esperimento per la produzione di energia da fusione al mondo e rappresenterà la tappa fondamentale di un percorso che punta ad arrivare alla generazione di energia elettrica “in rete” verso la metà di questo secolo. ITER e’ una sfida scientifica e tecnologica straordinaria; alla Direzione Generale del progetto è il Dr Ikeda (Giappone) e la sua coordinazione scientifica e’ assegnata al tedesco Dr Holtkamp”.
Quando si prevede che possa essere attuato e dove sarà localizzato il primo impianto?
“ITER dovrebbe accendere il suo primo plasma - che rappresenta la fornace dove avverranno le reazioni di fusione nucleare - nel 2018. Dopo questa tappa fondamentale e, soprattutto, dopo aver ottimizzato il processo di controllo degli scenari operativi, la comunità scientifica sarà pronta ad intraprendere il passo successivo, e cioè la costruzione di DEMO che dovrà dimostrare la maturità tecnologica dei futuri reattori a fusione”.
Come si sta organizzando l’Europa per partecipare al progetto ITER?
“Tra i sette Partners internazionali citati sopra, l’Europa rappresenta l’ “azionariato di maggioranza” del progetto a cui dovrà fornire componenti e servizi per circa il 50% del costo totale di ITER (che e’ di circa 3 miliardi di Euro). Per far ciò, la Commissione dell’Unione Europea ha istituito recentemente l’Organizzazione per lo Sviluppo della Fusione (Fusion For Energy) presso Barcellona che ha l’incarico di finanziare e coordinare la realizzazione delle forniture europee al progetto ITER. Il Direttore dell’Organizzazione Fusion For Energy e’ il Dr. Gambier (Francia) che verrà coadiuvato nei prossimi 10 anni da circa 200 professionisti tra scienziati ed ingegneri provenienti da tutti i Paesi dell’Unione Europea e con competenze di eccellenza in svariate aree scientifiche e tecnologiche”.
1 Commissariat à L'Énergie Atomique, ELECNUC, Les Centrales nucléaires dans le Monde, édition 2007 Situation au 31-12-2006, www.cea.fr
2 EUROSTAT, European Commission, Energy: Yearly Statistics 2005, 2007 Edition
3 International Energy Agency, “Key World Energy Statistics” 2007 Edition
Alfredo Portone (Bologna, 1961) si e’ laureato con lode in ingegneria nucleare presso l’Università di Bologna nel 1987 e nel 1994 ha ricevuto il Dottorato di Ricerca (PhD) in ingegneria elettrica dall’Imperial College di Londra (UK). Dal 1990 lavora al progetto ITER e dal 1993 al 2000 ha fatto parte del Team di Progetto ITER presso Naka, Giappone. Dal 2000 coordina attività di R&D all’interno dell’Euratom in diverse aree scientifiche e tecnologiche, in particolare in ingegneria e controllo dei plasmi da fusione, magneti superconduttori e modelli computazionali per l’ingegneria. Dal Marzo 2008 fa parte dell’Organizzazione Fusion for Energy presso Barcellona.

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Italiani, ma di serie B

Il futuro multietnico e multiculturale dell’Italia si gioca su come sapremo assorbire i figli dell’immigrazione: i giovani nati nel nostro paese da genitori stranieri o che si sono trasferiti da noi da piccoli. Sono oltre 700.000, vanno a scuola o già lavorano, ma sono cittadini di serie B, per il prevalere dello ius sanguinis sullo ius soli.
Essi sono i compagni di banco o di gioco dei nostri figli ed in molti capoluoghi di provincia costituiscono oramai un quarto della popolazione immigrata ed una parte preponderante della frequentazione scolastica.
Sono giovani con aspettative simili a quelle dei loro coetanei italiani, non vedono nel loro futuro lavori umili e faticosi come per i loro genitori, hanno studiato e si aspettano di poter occupare un posto nella società in linea con la loro preparazione.
Parlano più lingue e sanno muoversi tra più culture, delle quali rispettano codici di comportamento diverso con pari dignità. Rappresentano il modello ideale del giovane contemporaneo. Imparare lingua ed abitudini nuove senza dimenticare le vecchie è la formula vincente per creare un futuro migliore. Questi giovani possono traghettarci con perizia verso un mercato del lavoro internazionale dove il merito venga adeguatamente riconosciuto.
In passato la legge concedeva la cittadinanza italiana ai figli, nati in Italia, di genitori stranieri, purché fossero residenti al compimento della maggiore età; oggi, dal 1992, la norma è divenuta più severa e prevede di aver vissuto nel nostro Paese senza interruzioni dalla nascita fino a 18 anni con un permesso di soggiorno regolare.
Se non veniamo incontro alle esigenze inderogabili di questi giovani, non solo sul piano legislativo, ma anche pratico, rischiamo di andare incontro ai gravissimi problemi sociali della Francia, che periodicamente vede scoppiare la rivolta nelle diseredate periferie delle sue città, le famigerate banliue o la tragedia conosciuta dall’Inghilterra, dove micidiali attentati sono stati organizzati non da emissari esteri, ma dai figli negletti della sua antica immigrazione, stanchi di essere considerati figli di un dio minore.
In un momento politico delicato come quello che stiamo attraversando, in cui la caccia al diverso pare sia divenuto lo sport nazionale e deliri xenofobi sono declamati come salutari, ci vuole l’impegno di tutti, non solo dei politici, affinché un patrimonio di umanità così prezioso venga adeguatamente riconosciuto ed aiutato ad integrarsi definitivamente nel nostro tessuto sociale.

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Napoli brucia

Da alcuni giorni Napoli brucia senza sosta a tutte le ore, bruciano in cento luoghi i cumuli di spazzatura, ai quali cittadini inferociti appiccano le fiamme innalzando roghi sacrificali generatori di micidiale diossina, ardono i campi rom, situati nella disperata periferia cittadina, ad opera di criminali applauditi da una folla divenuta intollerante e xenofoba, bruciano “e cervelle” a tutti i napoletani che, stretti tra rifiuti ubiquitari, criminalità diffusa, traffico impazzito e disoccupazione da record, vedono la loro città abbandonata ad un destino atroce, ma soprattutto va in fumo definitivamente una grande e gloriosa capitale dopo 2500 anni di storia invidiata, che non ha conosciuto né il Ghetto, né l’Inquisizione, costretta ad un’esistenza da quarto mondo senza speranza di riscatto o di redenzione.
Il fuoco ha sempre rappresentato un segno di purificazione e di rigenerazione, dalla Bibbia alle antiche vestali romane, ma le fiamme napoletane sono quelle dell’inferno dantesco, simbolo di un castigo divino al quale non ci si può opporre, producono solo cenere e distruzione. La furia devastatrice che si sta scatenando in questi giorni è sintomo di un malessere che ha colpito il cuore pulsante e la stessa anima tollerante della città.
Gli zingari non sono i soli disperati che vivono ai margini della società, vi sono moltitudini di accattoni, di senza casa accampati all’addiaccio, di sbandati che vivono alla giornata, di disoccupati costretti ad una minacciosa quanto sterile protesta.
Attenti che non venga in mente a qualcuno che si possa risolvere questo ed altri problemi scatenando un gigantesco falò.

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Il film Gomorra scuote le coscienze

Sull’onda del successo internazionale del libro il film Gomorra, in concomitanza con la presentazione al festival di Cannes, arriva nei cinema italiani con un numero cospicuo di copie e con la segreta speranza di sbancare il botteghino.
Le premesse per incontrare il favore del pubblico ci sono, perché gli argomenti trattati, in primis il dramma dei rifiuti, sono da mesi sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo.
Ad eccezione di Toni Servillo per il quale è stato riservato il ruolo di mercante di rifiuti tossici, il famigerato stakeholder e di Maria Nazionale, per la quale è stata ritagliata una particina, gli altri interpreti sono stati presi dalla strada, anzi dalle strade più malfamate della città e della provincia, avendo cura di scegliere volti patibolari e corpi scimmieschi a conferma, in sintonia con Lombroso, di una vera e propria involuzione antropologica in atto da tempo nel sottoproletariato campano.
Il film, come Biutiful cauntri, risente di una regia modesta e di un cast dilettantistico, dalla fotografia al suono, ma il contenuto è talmente dirompente da scuotere le coscienze e provocare un senso di angoscia e di amara meditazione sullo sfascio umano ed ambientale che investe gran parte del territorio napoletano.
Diviso per episodi, dalla falsificazione delle griffe allo spaccio della droga, descrive con malapartiana ostentazione il degrado della vivibilità, il crollo dei valori, il predominio della prepotenza, la banale propensione all’esercizio del crimine.
Il messaggio non dà speranza di redenzione, né di cambiamento, anzi, la spirale della violenza e del malaffare sembra oramai impazzita e dilaga senza argini alla conquista di sempre nuovi territori.
Le uccisioni si sprecano come avviene nella cruda realtà ed alla fine è difficile ricordare il numero dei morti ammazzati nei luoghi e con le modalità più varie.
La camorra viene correttamente descritta come un mostro a più teste, un’idra dai tentacoli vigorosi e rapaci, che si agitano in più direzioni senza un vero comando centrale. Le centinaia di famiglie malavitose, che oggi controllano la Campania, sono infatti in perenne fibrillazione, forti degli smisurati proventi della droga, alla ricerca di investimenti internazionali nei settori più svariati, dagli immobili all’alta finanza.
Nel film non vi è posto per lo Stato, disperatamente assente, le poche volanti della polizia sono esili ectoplasmi che scompaiono subito all’orizzonte, non vi è posto per l’amore, di alcun genere e vomitevoli sono le poche scene destinate al sesso ed imperniate su lubrici strofinamenti tra inesperti minorenni e lardosi cinquantenni con bonazze brasiliane e nigeriane, dalle movenze feline e dalle poppe smisuratamente protrudenti in virtù di generose mastoplastiche additive.
Non vi è traccia nella pellicola della contiguità tra la criminalità organizzata ed ampi settori della politica, che da tempo immemore, invece di cercare di creare un baluardo al dilagare della violenza e della sopraffazione, ritiene più utile utilizzare l’immenso serbatoio di consenso gestito dalla camorra per impossessarsi di cariche pubbliche.
Alla fine della proiezione lo spettatore esce sconvolto ed amareggiato ed assume una sembianza del volto, intrisa di infinita tristezza, come quella di Roberto Saviano, l’autore del fortunato best seller, che ha scoperchiato e rese pubbliche le trame del malaffare.

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Perché ci ostiniamo a chiamarli clandestini?

Si fa un gran parlare di aborti clandestini, ma perché non proviamo a farli divenire e chiamarli privati? Una donna per un’appendicectomia è libera di scegliere il medico ed il luogo di cura, per un’interruzione di gravidanza è costretta invece a servirsi di strutture pubbliche, delle quali può non avere piena fiducia; è il risultato della legge 194, nata trenta anni fa dall’ipocrita compromesso tra democrazia cristiana e comunisti. All’estero è completamente diverso, la paziente può rivolgersi all’ospedale o scegliere un ginecologo in una clinica privata autorizzata. Certo bisogna cambiare la legge, che attualmente obbliga a rivolgersi unicamente verso gli ospedali ed operare i dovuti controlli per evitare abusi.
E smettiamola anche di evocare lo spettro delle mammane e delle donne rovinate dall’aborto. Le mammane non lavorano più da decenni ed il famigerato laccio è andato definitivamente in pensione. Oggi se una paziente sceglie un medico privato è perché sa molto bene che gli specialisti che si dedicano a questa attività sono molto più abili dei colleghi ospedalieri, adoperano il metodo Karman (aspirazione) molto meno cruento della metodica chirurgica tradizionale e soprattutto permettono di evitare le defatiganti attese, gli interrogatori imbarazzanti, gli interminabili e spesso inutili accertamenti, la promiscuità delle corsie, l’ansia di una decisione sempre dolorosa e traumatizzante, che spetta solo alla donna dopo aver interrogato la sua coscienza.
In Italia la legge prevede che le cliniche private possano chiedere l’autorizzazione a praticare l’interruzione di gravidanza ed addirittura il convenzionamento con l’Asl, ma questa richiesta solo eccezionalmente viene accolta, per cui un ginecologo che volesse seguire una sua paziente, in cura da anni ed alla quale ha preso i parti precedenti, deve invece abbandonarla a colleghi, quasi sempre giovani e che spesso si dedicano all’interruzione per trovare un primo lavoro, pronti a divenire obiettori appena ottenuto un contratto a tempo indeterminato.
Presso le Asl in tutta Italia dormono decine di domande di autorizzazione ed i politici debbono decidersi ad affrontare il problema, che da tempo attende una soluzione rispettosa delle richieste di tante cliniche qualificate, che vogliono mettersi al servizio della legge e delle donne.
Dimenticavo le pazienti che oggi ricorrono ad un medico privato pagano una cifra in linea con i prezzi delle prestazioni sanitarie,500 – 600 euro e fanno risparmiare allo Stato circa 2000 euro, dobbiamo esserle grate.

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Un mondo in frantumi

L’emergenza rifiuti che da tempo rattrista la Campania e che entro pochi anni interesserà tutto il mondo, ha una genesi remota nel mutamento drastico delle abitudini e nella nascita e sfrenata crescita della civiltà dei consumi.
Per secoli abbiamo amato gli oggetti che affollavano le nostre case, le lenzuola del corredo della nonna con le cifre ricamate, che venivano utilizzate per generazioni, la poltrona in camera da letto sulla quale vedevamo ancora seduti i nostri genitori, quel quadretto con dei fiori esotici ricordo di una nostra cugina emigrata in sud America, quel vaso, da tempo scheggiato, regalo di nozze della zia Donatina. Non vi era suppellettile che non serbasse ricordi a volte lieti, spesso tristi.
Anche un’antica pentola eravamo certi che possedesse un’anima e non potevamo separarci da nessuno di essi, perché avremmo sofferto come per la perdita di una persona cara. Non bisognava essere dotati di poteri paragnostici per subire il fascino di un coltello o di una sciabola appartenuta a zio Amilcare ufficiale nel Dodecaneso, vibrare di emozione sfogliando le ingiallite lettere d’amore, vecchie di un secolo, che ripercorrevano l’amore contrastato tra zia Amina e Savino, austero colonnello dei bersaglieri.
Le biblioteche aumentavano generazione dopo generazione, perché i libri, soprattutto se sottolineati, erano trattati come reliquie, forse erano poco letti, ma rispettati, tenuti in ordine e suddivisi rispettando ancora la collocazione data dai vecchi proprietari: nonno Biagio, di rinomata erudizione, preside al liceo o zio Camillo, vescovo di grande cultura, collezionista di volumi di storia del Cristianesimo, ma anche di atlanti e cartoline illustrate. Quanto era lontana ed inimmaginabile l’era di internet e la vana pretesa di raccogliere tutta la cultura in un frammento di silicio.
Poi all’improvviso con il boom economico un mare di prodotti di ogni genere ha cominciato a sovrastarci e siamo stati presi da una febbre per l’acquisto facile, che rapidamente è divenuta un delirio. Abbiamo cominciato ad accumulare oltre misura per cui abbiamo cominciato a non affezionarci più a niente ed a cambiare continuamente abiti, scarpe, frigorifero, automobile, telefonino, a conservare nell’armadio 300 cravatte e 50 paia di scarpe. L’abitudine allo sperpero è divenuto un imperativo categorico continuamente rinforzato dai messaggi pubblicitari che ci martellano a tutte le ore. E con terrore pensiamo a quando miliardi di uomini, che oggi non posseggono niente desidereranno almeno un decimo di ciò che noi possediamo.
Pochi si sono resi conto che ci avviamo velocemente verso la catastrofe, se non ritorneremo alla sobrietà della società agreste e non sapremo trasferirla nel cuore della civiltà industriale. Quanto erano saggi i nostri nonni che amavano una sola giacca, un solo paio di scarpe e che si tramandavano cappotti e sussidiari di padre in figlio.

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Le basi biologiche della felicità

Se non esistesse la felicità la vita non sarebbe degna di essere vissuta, anzi forse non esisterebbe affatto, almeno quella dell’uomo, che pare sia l’unico essere in grado di provarla, a differenza del dolore, che affligge tutti i viventi.
Alla base esiste una differenza biologica fondamentale: gli animali posseggono come noi fibre nervose specializzate e zone cerebrali adibite a percepire la sofferenza fisica, mentre solo gli uomini hanno un complesso sistema di mediatori chimici, imperniato principalmente sulle endorfine e raffinate ramificazioni neurotiche in grado di elaborare la complessa sensazione della felicità.
Da millenni poeti e scrittori ne hanno parlato, filosofi e fondatori di religioni hanno cercato e consigliato il modo per raggiungerla, migliaia di aforismi hanno tentato di definirla, ma l’essenza della felicità continua a sfuggire, soprattutto a quelli che non sono riusciti mai ad assaporarla pienamente.
In gran parte il destino decide la quantità di felicità che ci spetta, infatti per goderne dobbiamo possedere un adeguato corredo genetico, che ci predisponga, con delicati equilibri tra recettori centrali e vettori periferici, ad una soddisfacente fruizione. Una parte secondaria rivestono poi l’ambiente, le relazioni sociali, gli incontri, soprattutto con l’altro sesso, le abitudini di vita, l’età, lo stato di salute.
Essere sani e possibilmente giovani, anzi sono condizioni imprescindibili per essere felici.
Credere in Dio, avere molti amici, allegri e sorridenti, non porsi grandi traguardi, difficili da raggiungere, avere abbastanza denaro, ma non troppo, sono altri ingredienti utili per raggiungere lo scopo.
Drasticamente ridimensionati dalle indagini scientifiche e psicologiche sono i miti della società occidentale: potere, ricchezza, successo non sono la ricetta giusta.
Recenti ricerche hanno identificato un’area precisa del cervello deputata alle emozioni piacevoli localizzata nel lobo frontale dell’emisfero sinistro ed un neurotrasmettitore specializzato: la dopamina.
Anche un medico della mutua attento può constatare nei suoi pazienti affetti da ictus, che quelli colpiti nell’emisfero sinistro vanno incontro a disturbi di tipo depressivo, mentre gli altri spesso sono colpiti da uno stato perenne di euforia del tutto ingiustificata. Esperimenti eseguiti con la Pet, una moderna tecnica in grado di valutare i flussi sanguigni, hanno dimostrato che i soggetti esaminati in situazioni di allegria sono interessati da un aumentato afflusso di sangue verso il lobo frontale sinistro, mentre quando si prova tristezza e depressione è interessata la zona omologa di destra, come pure alcuni studi eseguiti sui monaci tibetani, mentre praticano la meditazione trascendentale, hanno dimostrato un iperafflusso verso il lobo frontale sinistro, in coincidenza con le loro dichiarazioni di essere felici.
Una società profondamente materialista come la nostra cerca delle scorciatoie per raggiungere i suoi scopi ed una dimostrazione lampante è l’aumento vertiginoso della frequentazione da parte degli studenti delle cattedre, appositamente create in molte università americane, per insegnare a raggiungere la felicità.
I consigli principali che vengono elargiti dagli esperti sono di praticare una costante attività fisica, che sembra aumenti la concentrazione nel sangue dei mediatori chimici responsabili di stati emotivi gradevoli e cercare di pensare positivo: ritornare ogni sera con la mente a tre situazioni piacevoli pare faccia miracoli.
Naturalmente in attesa che la farmacologia trovi la soluzione del problema con una pilloletta e possiamo essere certi che quando verrà messa in commercio le farmacie saranno prese d’assalto.

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Viva la France

Una foto di Madame Sarkozy nuda (alias Carla Bruni) messa all'asta da Christie's a New York e' stata venduta a 91mila dollari, a parte i diritti. L’immagine scattata da Michel Comte nel 1993 era stata stimata 3 - 4000 dollari, ma senza tener conto del desiderio di possesso di feticisti danarosi e di arrapati senza frontiere ed infatti ad aggiudicarsela è stato un ricco cinese, presente in sala e da ieri adorna la sua camera da letto per favorire insani pensieri, pratiche onaniche e sogni agitati.
Nell'immagine, Carla, nuda integrale, si presenta con un seno adolescenziale e pudicamente si copre il pube con le mani, scimiottando una posa che rammenta il dipinto 'Les Poseuses' del pointillista Georges Seurat.
La foto aggiudicata, se nel frattempo, la Bruni non fosse arrivata al letto dell’Eliseo, dopo essersi adagiata in precedenza su un numero infinito di altri, non avrebbe avuto mercato, perché la dose di appeal è alquanto modesta.
Realizzano cifre più alte della Bruni le sue ex colleghe Kate Moss, Naomi Campbell e Gisele Bundchen, anche loro rigorosamente nature.
La Moss di schiena è immortalata da Irving Penn, mentre Naomi è presente con due scatti, entrambi esageratamente sexy.
La famosissima immagine di Gisele nuda (una delle poche mai scattate) di Irving Penn intitolata 'Gisele, New York, April 1 1999, è una delle più celebri di tutti i tempi. Sono presenti in asta anche modelle di altre generazioni, come una famosa foto di Lauren Hutton con un solo seno scoperto, scattata alle Bahamas dal grande Richard Avedon e l'immagine altrettanto famosa di una modella a torso nudo con lunghi guanti scattata a Ramatuelle, sulla Costa Azzurra vicino a Saint Tropez, da Helmut Newton. Oltre ad un ritratto di Brigitte Bardot del 1959, opera di Avedon vi è dello stesso fotografo inglese morto nel 2004 un altrettanto famoso scatto di Marella Agnelli a New York.
Di Carla abbiamo reperito nel nostro sterminato data base di bonazze alcune immagini che proponiamo per la gioia dei lettori, che ritraggono l’illustre signora in pose atte a mettere in mostra il valore dei suoi attributi.
Una visione che induce ad una severa meditazione ed a valutare serenamente quanto sottile ed impalpabile sia sempre stato il confine tra cortigiana e grande dama e come i destini del mondo siano legati alla forma seducente del corpo femminile, uno dei più potenti motori che presiedono alla storia, da Elena di Troia a Madame Sarkozy.
Allegria, cantiamo allora tutti in coro viva la France e come inneggia sempre il mio amico Tonino(Cirino Pomicino) viva le belle donne.

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Gli scipiti eredi del Migliore
50 anni e passa di comunismo all’italiana

Da quando Palmiro Togliatti mise piede a Napoli, di ritorno dal paradiso terrestre, una importante fetta di storia italiana cominciò a prendere corpo e ad assumere lineamenti precisi e codificati.
Il Migliore aveva preso diretta visione degli effetti della Rivoluzione e del trionfo di Stalin, aveva partecipato complice, a volte addirittura diretto le riunioni dell’Internazionale comunista, erano passati davanti ai suoi occhi impassibili: il terrore cieco, l’assassinio a tradimento, la delazione ubiquitaria, i campi di rieducazione con milioni di uomini e donne stipati come bestie, tutto senza lasciare traccia.
Appena cominciò a pontificare descrisse la feroce dittatura stalinista come il migliore dei mondi possibile e ammonì tutti i discepoli a praticare il culto della serietà, della moralità e soprattutto dell’onestà. Che importava se per anni a Mosca il comportamento suo e dei suoi sodali non fosse stato né onesto, né virtuoso, oggi lui aveva tutto dimenticato e rimosso definitivamente, voleva apparire puro come acqua di roccia, come una vergine illibata, pur sapendo di essere sì una vergine, ma adusa al coito anale ed alla frenetica pratica del sesso orale.
Ebbe un successo straordinario da culto della personalità sia tra gli intellettuali che tra gli operai ed i contadini. Consigliava agli studenti di impegnarsi nello studio, particolarmente delle materie giuridiche, per partecipare in massa ai concorsi per la magistratura ed impossessarsi di uno dei poteri dello Stato, il più potente ed assoluto, perché non deve dare conto a nessuno del suo operato.
Convinse i più creduloni di avere un posto di primo piano nel gran libro della Storia, anche il più umile operaio forgiava la Storia ed era un attore importante nel creare un futuro splendido e radioso.
Idolatrava la forza come l’unica divinità in grado di assicurare il potere e riteneva la falsità necessaria e da praticare costantemente in tutti i luoghi ed in tutte le occasioni, sempre con una faccia di bronzo, untuosa e menzognera.
Ingabbiò con ferree regole il mondo della cultura, isolando le voci libere ed indipendenti. Bisognava diffondere soltanto certezze e banalità fatte passare come verità assolute, non vi era spazio per l’originalità men che mai per il genio.
I libri da leggere erano pochi e controllati al di fuori degli scritti di Lenin e di Gramsci, al massimo si poteva dare uno sguardo alle poesie di Neruda o alle asserzioni di Solochov. Solo in anni recenti e timidamente è stato permesso compulsare i testi di Sartre e di Camus, di Heidegger e di Arendt, di Rilke e di Kundera.
I docenti universitari furono reclutati in massa, i concorsi a cattedra spudoratamente truccati, le redazioni dei principali giornali asservite al nuovo verbo e nel frattempo l’oro di Mosca in dollari sonanti affluiva copiosamente come un fiume in piena nelle casse del partito, trasformandolo nel più potente e numeroso del mondo occidentale, vera e propria testa di ponte nel cuore della Nato. Un segreto nascosto e vergognosamente celato per decenni, al di là di ogni evidenza, fino all’apertura degli archivi moscoviti.
Anche i suoi eredi hanno visto sotto i loro occhi svolgersi accadimenti epocali, dalla rivolta in Ungheria, normalizzata dai carri armati sovietici, all’epicedio di generazioni di intellettuali dissidenti e di preti coraggiosi, costretti al silenzio o al lager.
Poi è sopravvenuta la crisi ed il crollo rovinoso del sistema, al quale ha fatto seguito dopo poco la caduta del muro della vergogna innalzato a Berlino.
Qualunque persona onesta e sana di mente davanti a questi avvenimenti, che hanno ridotto in frantumi miti e ideali, avrebbe recitato il mea culpa, si sarebbe ritirata in privato a meditare sul sogno svanito.
Gli eredi del Migliore non si sono invece sentiti parte in causa, responsabili nemmeno in parte dei disastri della Storia, quel moloch feroce, quel feticcio che loro adorano col fervore del più ottuso dei credenti.
Non hanno pensato di rimanere in doveroso silenzio per qualche anno, di ripudiare vigorosamente il loro passato, stracciandosi in pubblico le vesti, viceversa hanno ritenuto necessaria la loro presenza al capezzale dell’Italia, la malata terminale affetta dal devastante cancro di una democrazia incompiuta, che loro credono di curare e di guarire con la ricetta dei loro acerrimi avversari: i liberali.
I loro volti sono cambiati, non più gli sguardi arcigni e patibolari della nomenklatura togliattiana, bensì visi sorridenti ed abbronzati, non più corpi sgraziati, ma fisici tenuti in forma da massaggio e palestra, come si addice a frequentatori di salotti a la page, a capitani di yacht lussuosi, a seguaci della nuova frontiera kennediana ed adoratori del vitello d’oro, modernamente rappresentato da banche e multinazionali.
Non è cambiata la loro propensione a trattare il denaro pubblico come disponibilità personale, in questo non differiscono dagli antichi democristiani, i quali almeno si vergognavano in privato e temevano le fiamme dell’Inferno, mentre loro, dovendo dare conto soltanto al meno severo dio della storia, sono spavaldi nella loro spericolata condotta morale.
Sono certi di doverci rappresentare, di dover risolvere i nostri problemi, di dover disegnare il nostro futuro, non ci liberemo facilmente della loro ingombrante presenza.

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Tramonto e resurrezione dei democristiani

La parabola della democrazia cristiana, dopo un lungo percorso verso il basso, dà l’impressione di un’inversione di rotta decisiva, riemergendo dalle tenebre per risalire gloriosamente verso il cielo.
Solo chi ha i capelli bianchi ricorda negli anni del dopo guerra, quell’improvviso apparire sulla scena di una moltitudine di volti silenziosi, tristi e volitivi, che dopo una vita nascosta nel buio delle sacrestie e nella sobria riservatezza delle associazioni cattoliche prendeva corpo e cominciava la lenta marcia verso il potere.
Erano tutti timidi e riservati, parlavano a voce bassa con tono rassicurante e non fissavano mai lo sguardo dell’interlocutore. I loro gesti erano posati quanto le parole, non alzavano mai il mento verso il cielo, non baciavano bambini, né falciavano spighe, aborrivano l’esuberanza fisica e non si interessavano di patria inviolabile e di sacri confini.
Aborrivano espressioni viriloidi, tanto di moda nei decenni precedenti e per riascoltare riferimenti fallici nei discorsi politici dovremo arrivare ai nostri giorni ed ai deliranti proclami dei celoduristi padani. Il loro linguaggio era volutamente astruso ed incomprensibile, ambivano cautamente ad una confusione tra luce ed ombra, tra positivo e negativo. Celebri le incursioni parafilosofiche tra le geometrie non euclidee di Moro, assertore di convergenze parallele… e di strategia dell’attenzione. Non professavano nessuna specifica ideologia, non promettevano paradisi in terra ed uguaglianza universale e senza tronfi proclami si impossessarono delle istituzioni installandosi stabilmente in tutti i gangli della vita pubblica.
La loro marcia fu implacabile quanto silenziosa e costituirono tante monadi senza nessun capo riconosciuto, vollero rigorosamente un esercizio del potere tra eguali, i volti dei loro capi momentanei erano intercambiabili, era infatti arduo distinguere Piccoli da Rumor, facile confondere Forlani con Colombo. Anche cavalli di razza come Fanfani e Moro dovettero sottostare a questa dittatura di un potere corale e spersonalizzato.
Non amavano le decisioni difficili, erano fermamente convinti che i problemi avrebbero da soli trovato la soluzione. Assistettero impassibili a migrazioni bibliche da sud a nord, al nascere dell’industria ed al declino dell’agricoltura, all’impetuoso manifestarsi di nuovi bisogni e ad un difficoltoso assestamento tra le classi sociali.
Contro i nemici adoperavano una tecnica già fatale a Napoleone e Hitler: cedevano spazio e tagliavano i rifornimenti, fino a quando l’avversario, incautamente dilatatosi, implodeva fragorosamente. Ebbero il 40% dei voti e l’80% del potere, che fortificarono blandendo promesse e corrompendo subdolamente le coscienze più specchiate: concessero pensioni ai giovani ed invalidità fasulle ai sani, il parrucchiere alle senatrici ed una flotta di auto blu a potenti ed impotenti.
Furono turbati dal subdolo potere del denaro, la loro matrice culturale aveva, in pari misura, praticato e demonizzato l’usura, condannato l’accumulo sconsiderato del ricco e lo scriteriato sperpero del gaudente. Ritenevano, convinti, che il denaro rappresentasse il male e di conseguenza furono attirati irresistibilmente dal suo fascino peccaminoso.
Governarono senza sussulti il Paese per circa cinquanta anni e nessun intellettuale ha scritto la loro epopea, divenuta oramai storia. Gli studiosi, quasi tutti di estrazione marxista, dedicano le loro attenzioni solo al ventennio e alla resistenza, trascurando questo capitolo della nostra storia durato il doppio del fascismo.
Lentamente divennero simili ai loro avversari e persero la loro identità, mentre l’Italia cambiava, con i cittadini, anche nei più sperduti paeselli, che non si raccoglievano più attorno alla vita delle parrocchie. Caddero eroicamente senza reagire sotto i colpi furibondi di una scheggia giustizialista della magistratura e sembrarono scomparsi per sempre, dissolti come il sale che si scioglie nell’oceano, viceversa produssero robuste concrezioni ed i resti disordinati delle loro armate emigrarono a sinistra, al centro, a destra, accolti con prudenza dai nuovi partiti, sorti sulle ceneri della prima repubblica.
Sembrava che fossero stati assimilati e metabolizzati, invece sono lentamente riemersi e proclamano minacciosi di installarsi di nuovo, con rinnovato vigore, al centro del potere.
I loro volti anonimi stanno riappropriandosi delle sembianze del passato, mentre i loro gesti e le loro melliflue parole stanno contagiando, con il loro sottile veleno, il dibattito politico in atto nel Paese.
Erano troppo simili ai nostri vizi ed alle nostre virtù per scomparire definitivamente, ci somigliano, ben più di fascisti e comunisti, per questo non li abbiamo mai amati, per questo li temiamo, ma oramai sono tornati

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Intitoliamo una piazza ad Achille Lauro

La settimana scorsa sono stato a Genova per due giorni, invitato da alcuni Rotary, per illustrare la figura di Achille Lauro e presentare il mio libro sul Comandante. L’accoglienza e l’attenzione dedicata da giornali e televisioni alle due serate ha superato ogni più rosea previsione, ma la conseguenza più importante è stata la decisione da parte di alcuni consiglieri comunali presenti al dibattito di proporre all’assemblea di dedicare a Lauro una piazza di Genova e martedì, puntualmente, l’idea è stata ufficializzata.
Come napoletani dovremmo inorgoglirci, ma nello stesso tempo vergognarci, perché non siamo riusciti in tanti anni a sdoganare un personaggio di tale spessore, al di là della sua veste politica, da meritare non una strada, bensì una delle piazze principali di Napoli da lui tanto amata.
Egli non è stato solo il sindaco plebiscitario della città, ma anche l’armatore più grande di tutti i tempi, il presidente del Napoli, il fondatore della prima televisione privata italiana.
A Napoli esiste via Jan Palach e via Kagoscima, vico Fico e vico Scassacocchi, vico dei Chiavettieri al Porto ed al Pendino, ma non uno straccio di viuzzola dedicato a Lauro, vittima di falsità storiche solo da poco tempo smascherate.
Se i genovesi dovessero precederci sarebbe uno scorno difficile da tollerare, per cui rivolgiamo all’amministrazione il perentorio invito a rispolverare antiche proposte ed alla stampa di aprire un pubblico dibattito.

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Parliamo di morte

Non amiamo parlare della morte, ci infastidisce solo il pensiero, ci comportiamo come se si trattasse di un argomento che non ci riguarda, siamo così impegnati a lavorare, ad occupare ogni istante di tempo libero, a divertirci, a viaggiare, sempre di fretta, senza un momento di sosta per meditare sull’epilogo della nostra vita.
Oggi più di ieri temiamo la morte, l’ultimo tabù che ci è rimasto dopo aver distrutto tutti gli altri, dal sesso all’amor patrio, che ci attanagliavano da tempi lontani.
La nostra società, profondamente secolarizzata, vuole allontanare l’idea della fine della nostra vita terrena, perché è un pensiero che ci induce ad esacerbanti esercitazioni metafisiche sul motivo della nostra esistenza, sul nostro destino, su Dio.
Oggi nelle grandi città si muore in assoluta solitudine, in punta di piedi, per non turbare il frenetico girotondo di chi rimane; negli stessi ospedali i morituri vengono ghettizzati in reparti di pseudo rianimazione o per malati terminali. Non sono in condizione più di dominare o quanto meno controllare le tremende emozioni che accompagnano il momento del trapasso. Pochi, anche i parenti più stretti dedicano loro soltanto qualche visita frettolosa, perché nessuno è più in grado di sussurrare quelle dolci parole di cui hanno bisogno, nessuno sa più stringere quelle mani tremanti per infondere coraggio e rassegnazione.
Soltanto in qualche sperduto paesello, dove si conservano ancora dialetto e forti legami sociali, la morte viene onorata, recitata, rappresentata come un grande dramma collettivo al quale tutti partecipano, facendosi depositari della memoria del defunto. Un cerimoniale commosso e corale inimmaginabile nelle affollate città dove disperdiamo tutto e non abbiamo tempo né per la memoria né per il dolore.
Nel Medio evo la morte era viceversa accompagnata da un grandioso apparato rituale, nel quale i sentimenti venivano incanalati e sublimati.
L’uomo moriva davanti a tutti, se ricco oltre ai parenti si raccoglievano attorno al letto i servi e gli abituali frequentatori della casa, se povero erano presenti moglie e figli anche se bambini, i quali spesso in coro recitavano candide preghiere.
Negli ultimi istanti una sensazione miracolosa dava al moribondo la forza di dare l’addio, chiedere e concedere il perdono, dispensare consigli ai più giovani che venivano accolti con un’autorevolezza fino ad allora sconosciuta.
Il suo corpo non si allontanava molto dalla casa, trovando ospitalità nelle chiese o in luoghi posti dentro le mura urbane. Poi leggi severe hanno collocato i cimiteri lontano dalle città e noi da allora li visitiamo raramente, come rifiutiamo quei cerimoniali pomposi impregnati di esequie, di lutto, di estremo cordoglio, di orpelli funerari.
Ora che abbiamo abbandonato questi antichi rituali protettivi e consolatori la morte ci devasta maggiormente, facendo scempio delle nostre certezze, che ci illudevamo fossero incrollabili. La scomparsa di una persona cara, con la quale abbiamo vissuto a lungo condividendo gioie e dolori, ci sconvolge, lacerando per sempre la nostra esistenza e strappandoci la gioia di vivere. Essa continua a vivere soltanto nel nostro ricordo dove vi è spazio per un’immortalità surrogata.
Per il credente la morte è un fardello più tollerabile, mentre per il laico rappresenta un angosciante salto nel buio.
Nulla si crea e nulla si distrugge” è uno dei paradigmi della scienza ed anche il nostro corpo dopo la morte, disintegrandosi, ritorna nella terra e restituisce le sostanze della sua materialità. Ma i nostri pensieri, i dolori, le speranze, la felicità, gli smarrimenti, le malinconie, i ricordi, i desideri, gli affetti, non vogliamo dire la nostra anima, dove finiscono? Se nulla si distrugge, se la nostra misera carcassa continua ad esistere trasformandosi, perché ciò che a noi continua a sembrare immateriale dovrebbe scomparire.
Una modesta radio a transistor è in grado di captare le voci provenienti dall’altro emisfero terrestre, ci permette di ascoltare un monologo di Amleto recitato a New York o il ritmo di una frenetica danza brasiliana da Rio, il cervello dell’uomo è la cosa più prodigiosa che vi sia nell’universo, perché non possiamo credere che esso possa afferrare i nostri sentimenti, che vagano nello spazio dopo la nostra morte? Un bambino che oggi nasce potrebbe raccogliere un messaggio di uno sconosciuto che chiude la sua esistenza e gli lascia in eredità le sue inquietudini, le sue speranze, le sue gioie ed i suoi dolori.
Milioni di uomini di antiche e sagge civiltà, hanno creduto e credono a questa possibilità, anche noi possiamo crederlo, sperarlo, temerlo.
Sono pensieri che ci danno l’idea della nostra miseria e della nostra nobiltà: sperduti nell’infinita immensità degli spazi, destinati a vivere un lampo a confronto dell’eternità, non riusciamo a credere che la nostra coscienza si sia accesa per caso, a contemplare un universo ostile o quanto meno indifferente al nostro destino.

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Europa sogno od incubo

L’Europa è nata tra le rovine materiali e morali dell’ultima guerra mondiale ed ha cercato di creare un baluardo ai totalitarismi, neri o rossi che fossero. Il sogno di una nuova patria per tutti gli abitanti del vecchio continente è stato costellato da spiacevoli incubi, dal ricordo recente di Hitler alla presenza incombente di Stalin. La scelta verso la democrazia e l’esaltazione dei diritti è stata obbligata, non tanto per conquistare un illusorio paradiso in terra, quanto per sbarrare la strada agli inferi.
L’Europa attraversa ora un momento particolarmente difficile, acuito dall’allargamento a nuovi membri e dalla prospettiva di accogliere a breve paesi come la Turchia, che non appartengono né storicamente, né culturalmente, né geograficamente al vecchio continente.
Inoltre monta vigorosa una crisi politica, che ci fa dubitare sulla volontà dell’Europa di affrontare le grandiose sfide del XXI secolo dal terrorismo planetario alla coabitazione con un gigante dominato dalle trame del Kgb, mentre non si riesce ad ottenere da parte della nuova potenza cinese un minimo di rispetto delle regole economiche internazionali e dei diritti civili dei suoi cittadini.
Siamo rimasti impassibili davanti al genocidio nel Darfur, abbiamo contemplato impassibili le rovine di Grozny, oggi non muoviamo un dito davanti al dramma del Tibet.
Non siamo riusciti a definire una politica energetica e nucleare comune e siamo di conseguenza oggetto del ricatto dei dispensatori di gas e di petrolio, in primis la Russia di Putin, un vicino ingombrante e rissoso. E nel frattempo le quotazioni irragionevoli dell’euro non fanno presagire niente di buono.
I cittadini dei vari Stati vedono giorno dopo giorno trasformarsi il sogno di una grande casa comune in un incubo che assume pericolosamente le sembianze di una catastrofe economica e finanziaria.
Quando nel 2002 fu introdotto l’Euro esso ci fu presentato come la panacea di tutti i mali cronici della nostra nazione: la riduzione dell’inflazione, la stabilità dei cambi oltre all’eliminazione dei costi sulle transazioni valutarie tra i Paesi UE, con sicuri benefici all’economia e all’occupazione dell’ Italia. Venne fatta anche pagare una tassa ai contribuenti, la “tassa sull’euro” e venne creata la Banca Centrale Europea con sede a Francoforte, per accontentare i tedeschi che in virtù della forza della loro valuta (marco) pretendevano di avere una certa predominanza all’interno del nuovo organismo; una nuova Banca con il compito di stabilire e pianificare la politica monetaria all’interno dei Paesi aderenti all’euro. Oggi nel 2008, a distanza di 6 anni dall’introduzione dell’euro, possiamo ritenere che l’Italia abbia risolto almeno una parte dei suoi problemi economici e sociali o dobbiamo pensare con nostalgia che gli Italiani stavano meglio quando stavano peggio. In particolare il costo reale della vita è aumentato di circa l’80 - 100%, nonostante le mendaci rilevazioni dell’Istat che parlano di pochi punti di inflazione, mentre stipendi e salari sono rimasti sostanzialmente invariati. Non solo i commercianti hanno approfittato della situazione per aumentare i prezzi, ma anche le tariffe dei pubblici servizi, dei trasporti ed ogni tipo di bolletta hanno cominciato a crescere senza sosta.
I tassi d’interesse bancari sono ormai raddoppiati e tendono a crescere impetuosamente, portando come conseguenza un aumento dell’importo della rata del mutuo sulla casa o sul finanziamento di una piccola e media impresa locale. Stiamo registrando incrementi a livello di record di espropri immobiliari (più del doppio nell’arco dell’ultimo anno in Italia), dovuti al mancato pagamento dei mutui da parte dei cittadini e cessazioni di attività imprenditoriali di piccole e medie dimensioni, mentre quelle di grandi dimensioni ancora riescono a far fronte alla congiuntura negativa con licenziamenti in massa e trasferimento all’estero della produzione. Riguardo alla stabilità dei cambi, l’euro si è apprezzato notevolmente nei confronti di tutte le principali monete, penalizzando pesantemente le esportazioni delle aziende europee con gravi ripercussioni sulla produzione e sull’occupazione. Il prezzo di benzina, gasolio e delle principali materie prime sale per un notevole incremento della domanda da parte di paesi emergenti quali Cina ed India e per la debolezza della valuta americana.
Molti si chiedono perché la BCE non si stia attivando per risolvere o tamponare la situazione, mentre i vari governi nazionali sembrano del tutto impotenti, spogliati di ogni potere di intervento economico. Paradossalmente la spiegazione è da ricercare nel fatto che la Banca Centrale Europea si comporta come un organismo indipendente ed autonomo, che non deve dar conto del suo comportamento al potere politico.
Siamo tristemente cittadini di un’Europa dominata dai banchieri e non dai popoli.
Le Banche Centrali delle singole nazioni europee, prima del Trattato di Maastricht, avevano un’indipendenza dal potere politico variabile tra il 40 e il 60%; attualmente, dopo l’introduzione dell’Euro, l’indipendenza supera il 90%. Dunque, mentre nessuna influenza può giungere dai parlamenti alla BCE, dai vertici monetari giungono invece ai nostri governanti continui dictat: parametri cui attenersi, rigidi vincoli che coinvolgono l’intera vita e l’economia delle nazioni. Essa può quindi fissare a suo arbitrio il livello del tasso ufficiale di sconto, la quantità di denaro da immettere sul mercato, decidere la disponibilità ed il costo del finanziamento del sistema bancario e qualsiasi altra decisione di sua competenza, in maniera del tutto indipendente. E per giunta nella più assoluta segretezza, infatti mentre i dibattiti e le sedute del Parlamento sono aperti al pubblico e le sentenze delle Corti di Giustizia devono essere dettagliatamente motivate e pubblicizzate, le riunioni del Consiglio Direttivo della BCE sono assolutamente secretate, ed è lo stesso Consiglio che, di volta in volta, decide se pubblicare le proprie delibere, se pubblicarne solo alcune parti, o se non pubblicarle affatto.
Il Trattato di Maastricht ha trasformato i responsabili della Banca Centrale europea in una sorta di società segreta che condiziona la vita degli Stati ed il benessere delle popolazioni.
Inoltre all’interno della stessa Banca Centrale prevalgono gli interessi tedeschi, i quali hanno come unico obiettivo quello della lotta all’inflazione, a costo di mandare sul lastrico famiglie ed aziende, mantenendo un alto livello di tassi d’interesse e facendo finta di non accorgersi che la maggioranza degli altri Paesi dell’area euro non ha un’economia sana come quella tedesca. Anche gli interessi americani (ben diversi dai nostri) sono ben garantiti nella Banca Centrale europea ed oggi è noto che gli Stati Uniti vogliono un dollaro assai debole, che permetta loro di ridurre il notevole disavanzo pubblico, in parte provocato dalle varie guerre e missioni militari nel mondo e di rilanciare le esportazione delle loro industrie verso l’estero. Con un euro così forte e un dollaro così debole per le aziende europee è molto difficile vendere i propri prodotti all’estero. In tal modo i Paesi dell’area euro, compresa l’Italia, stanno pagando il “conto” degli amici americani con la compiacenza della nostra Banca Centrale, mentre i singoli Stati dell’Unione monetaria hanno perso la sovranità in campo monetario, sovranità che è un aspetto fondamentale della sovranità nazionale.
Se passiamo ad esaminare la congiuntura economica, che si sarebbe dovuta avvantaggiare dall’utilizzo della nuova valuta, facendo leva sui bassi tassi.., sulla stabilità dei cambi, e sulla forza del sistema Europa, possiamo constatare che attualmente i Paesi dell’Unione, in primis l’Italia, si trovano in una fase di stagnazione abbinata ad un’inflazione, molto pericolosa poiché provocata dal rincaro delle fonti energetiche e non legata all’aumento dei consumi interni, i quali sono bloccati a causa delle difficoltà economiche della classe media italiana (molte famiglie ormai non arrivano a fine mese con il proprio stipendio, come ci ammoniscono i politici di destra e di sinistra senza proporre però valide soluzioni).
Alla crisi economica si è poi aggiunta anche una crisi finanziaria, provocata dal comportamento poco ortodosso di alcune banche commerciali sulle quali il controllo da parte delle banche centrali è stato complice e lacunoso, assurdità comprensibile tenendo conto che molte banche centrali sono di proprietà delle stesse banche “controllate”. L’esempio eclatante è dato dalla nostra Banca d’Italia, il cui pacchetto azionario è detenuto per oltre il 90% da istituzioni private (i gruppi Intesa San Paolo e Unicredit Capitalia possiedono infatti oltre il 40% delle azioni). I politici schiavi del potere finanziario, che sponsorizza le loro campagne elettorali ed i principali quotidiani (quasi tutti di proprietà, in misura più o meno ampia, di una o più Banche) pongono un pietoso velo di silenzio su questi argomenti.
L’Italia per non crollare economicamente avrebbe bisogno di un cambio euro dollaro a 1 e non agli attuali 1,56 e di un cambio euro yen a 100 e non certo all’attuale 155, e di tassi d’interesse tra i 2,5-3%. La Germania, che, come abbiamo visto, influenza notevolmente le decisioni della BCE ha attualmente un surplus estero di 130 miliardi di euro nonostante l’euro a 1,50 e possiede inoltre un mercato immobiliare stabile da anni, per cui è contenta di avere un euro forte e l’unica cosa che le interessa è quello di controllare l’inflazione, mantenendo alti i principali tassi d’interesse. Purtroppo la felice situazione della Germania non è paragonabile a quella della maggioranza degli altri Paesi dell’area euro.
In Italia in particolare la crescita è ormai vicina allo zero, la spesa per i consumi sta registrando un valore negativo rispetto all’anno precedente e l’export, che ci dava qualche soddisfazione con ottimi saldi positivi, si è ora contratto notevolmente a causa dell’euro forte.
Se l’Italia rimarrà con questi valori all’inizio della recessione vera e propria, che è oramai alle porte, verrà inesorabilmente buttata fuori dall’euro, nonostante la volontà contraria di banchieri e politici.
Si tratterà di un evento che accelererà la disintegrazione di un’Europa, che dopo aver negato le sue origini culturali ha creduto a lungo con protervia di potersi basare su valori misurabili in euro e di considerare i cittadini una misera scheggia del pil.

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Una lodevole iniziativa nel nome di Masaniello
Signoraggio questo sconosciuto

La presentazione alla Feltrinelli di un libro su Masaniello è stata l’occasione, nel corso del successivo dibattito, per conoscere l’iniziativa di un gruppo di giovani napoletani, che hanno creato una sorta di carta moneta lo scec.(www.progettoscec.com)
Questa sorta di denaro, che viene distribuito gratuitamente, può essere utilizzato per fare spesa con uno sconto(intorno al 20%) nei negozi convenzionati o per usufruire di una serie di servizi, dalle lezioni private al baby sitting, dalle riparazioni ai lavori artigianali.
Per capire il funzionamento dello scec bisogna conoscere il significato del signoraggio, un argomento affascinante e scabroso, che contiamo di sviscerare in un prossimo contributo.
In attesa di una migliore preparazione teorica cerchiamo lo stesso di spiegare lo spirito che anima questi giovani, i quali sognano, oltre che una valuta diversa dall’euro, anche uno Stato diverso dall’Italia e dall’Europa, memori di un glorioso passato, quando per secoli Napoli è stata la capitale di una nazione che batteva moneta.
Il linguaggio è una convenzione adoperata dagli uomini per intendersi, serve per comunicare, mentre il denaro serve come mezzo di scambio di prodotti e servizi.
Così come nel linguaggio scegliamo delle sequenze arbitrarie corrispondenti a oggetti e concetti astratti, parimenti negli scambi in denaro un pezzo di carta corrisponde arbitrariamente a un valore. Così come il linguaggio ci appartiene perché è frutto di un patto tra di noi e perché serve a comunicare ciò che siamo e quello che ci circonda, anche il denaro dovrebbe appartenerci, perché frutto di un altro patto e perché serve a scambiarci quello che abbiamo e che siamo in grado di fare: le nostre ricchezze. Ma il denaro ha perso la sua semplicità, ne dimentichiamo l'arbitrarietà e soprattutto non ci appartiene. Il denaro ha smesso di appartenerci, da quando sono sorte le banche centrali, che lo coniano e quelle commerciali, che ce lo forniscono in cambio di ricchezza, carta stampata al posto di beni reali. Noi paghiamo la moneta che ci viene prestata con quella stessa moneta che abbiamo avuto in prestito e in più ne paghiamo gli interessi. Così finiamo con l'indebitarci, perché non avremo mai denaro sufficiente a saldare il debito. Ma ciò che è evidente è che in questo modo il denaro perde la sua funzione, perché non serve più a creare ricchezza, ma diventa esso stesso ricchezza. Non è più il denaro a servirci, ma siamo noi che serviamo lui. Per cercare di ripristinare la genuinità della primitiva convenzione possiamo utilizzare gli scec, i quali, lo ribadiamo sono semplici pezzi di carta ai quali, chi aderisce al circuito, attribuisce un valore. Attraverso il loro uso lentamente si toglie potere alle banche che ci soffocano, si ristabilisce il patto di solidarietà e si ripristina il reale uso della moneta.
Questo concetto ci sembrerà più chiaro quando avremo capito cosa si intende per signoraggio. In attesa dell’articolo promesso, che potrete leggere fra pochi giorni sul mio sito www.guidecampania.com/dellaragione vi fornisco la definizione:
Il signoraggio è l’insieme dei redditi derivante dall’emissione di moneta e deriva il suo nome dal francese seigneur, che in italiano significa signore. Nel medio evo erano infatti i signori feudatari ad avere titolo a battere moneta e ad incamerarne i benefici che derivavano da questa facoltà. Oggi in economia si intende per signoraggio i redditi che la Banca centrale e lo Stato ottengono grazie alla possibilità di creare moneta in condizioni di monopolio.
Un esempio semplicissimo per capire il concetto che abbiamo appena definito è ricordarsi della funzione impropria che venne ad assumere anni fa il gettone telefonico, in un momento di carenza di spiccioli, quando veniva tranquillamente accettato da tutti al posto della moneta da cinquanta lire.
La differenza tra il costo per coniarlo (pochi centesimi) ed il valore di mercato (cinquanta lire) costituiva l’entità del signoraggio che incamerava la Sip (per i più giovani la vecchia Telecom).
Vorremmo concludere tornando di nuovo alla presentazione del libro dedicato a Masaniello, un personaggio fondamentale della nostra storia.
Il parterre dei presentatori era prestigioso da Titti Marrone ad Aurelio Musi e Luigi Mascilli Migliorini ed il dibattito particolarmente interessante. A conclusione ho chiesto la parola per un auspicio:” Per chi crede nell’anima è facile immaginare che quella di Masaniello non trovi pace ed alberghi ancora da queste parti, disperandosi delle precarie condizioni di una città da lui tanto amata e per chi vuole, teme, spera nella reincarnazione l’augurio è che trovi ospitalità in un giovane focoso ed irruente che metta, per dieci e più giorni, a ferro e fuoco Napoli e la Campania, liberandoci finalmente dal triste fardello dei nostri incapaci amministratori.”
Pubblico e presentatori erano quasi tutti di sinistra, ma l’applauso, interminabile, è stato sincero e scrosciante.

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Biutiful cauntri, un colpo allo stomaco necessario

Finalmente nelle sale, dopo la menzione speciale al Film festival di Torino, Biutiful cauntri inchioda per 73 minuti alla sedia lo spettatore bombardandolo con un fiume di immagini incredibili, che purtroppo sono vere e di una tristezza infinita. Dopo la proiezione molti escono con le lacrime agli occhi e con una gran rabbia in corpo contro i politici corrotti, la camorra onnipotente ed i poteri forti, una miscela puteolente che ha ridotto la Campania ad una discarica infinita afflitta da 6 milioni di tonnellate tra ecoballe e spazzatura nelle strade, oltre alla bomba ecologica di 1200 discariche abusive dove è stato scaricato di tutto inclusi i rifiuti nucleari.
Le immagini che scorrono impietose non fanno dormire la notte e ci restituiscono un’umanità di contadini e di pastori ridotti a livello di bestie bastonate ed umiliate, mentre miriadi di pecore ammalate vanno incontro allo sterminio ed i prodotti agricoli sono avvelenati dalla diossina.
Purtroppo del film sono state approntate solo 20 pellicole ed a Napoli, capitale della monnezza, lo si può vedere solo in una sala minore di un cinema secondario.
Uno scandalo che grida vendetta e che mortifica il lavoro dei giovani registi Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggero.
Il film dovrebbe essere proiettato in tutte le scuole per scuotere un’opinione pubblica che ancora non si è resa conto delle dimensioni del dramma vissuto dalle popolazioni campane, paragonabile per impatto ambientale al disastro di Chernobyl.
Nell’attesa, certamente vana, che le istituzioni recepiscano questa istanza, sarebbe auspicabile contare sulla sensibilità dei presidi che possono rivolgersi alla produzione disposta, senza compenso, a che il film venga posto all’attenzione delle nuove generazioni.

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Tacchi a spillo: orgasmo assicurato

Tra le maggiori boiate pubblicate nei giorni scorsi dalla stampa internazionale vi è senza dubbio l’asserzione, priva di alcuna validità scientifica, che adoperando i tacchi a spillo si influenzerebbero i muscoli pelvici, i quali sarebbero poi in grado, al momento opportuno, di entrare in azione producendo un intenso e prolungato piacere sessuale.
La notizia, per quanto pubblicata su una rivista scientifica e rimbalzata poi sulle pagine del Sunday Times e da lì sui maggiori quotidiani europei, ha un solo merito: aver richiamato l’attenzione delle donne sull’importanza di un gruppo di muscoli, che, se correttamente esercitato, può incidere favorevolmente sulla capacità di raggiungere l’orgasmo.
La studiosa dell’università di Verona, autrice dell’originale ricerca, dice di aver misurato l’attività elettrica della pelvi a secondo dell’inclinazione assunta dai piedi e di aver riscontrato nel gruppo di volontarie, che adoperavano un tacco di 7 centimetri, una riduzione del 15% dell’attività muscolare.
Un effetto diametralmente opposto a quello che gli esercizi consigliati dai sessuologi cercano di ottenere: un aumento della capacità contrattile!
Purtroppo non esistono facili scorciatoie e per ottenere un valido risultato le donne debbono dedicare con pazienza del tempo a compiere una serie di noiosi quanto efficaci esercizi, dopo aver identificato il muscolo regista nell’innesco dell’orgasmo: il pubococcigeo.
La donna impara a riconoscerlo chiudendo gli occhi mentre urina ed interrompendo all’improvviso il getto, adoperando proprio il muscolo che dovrà esercitare.
Dovrà poi eseguire esercizi di contrazione e rilasciamento per circa un mese, occupando non più di 10 - 15 minuti in due sedute quotidiane.
Alla fine i risultati saranno clamorosi, mentre sono del tutto superflui decine di chilometri di marcia con tacchi vertiginosi, utili forse unicamente per procacciarsi, con un’andatura da femmina fatale, una preda da ghermire e da coinvolgere nei ludi amorosi.

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Nostalgia dei casini

Cinquanta anni fa, febbraio 1958 veniva abolita la legge Merlin e, pur con la lodevole intenzione di liberare le prostitute da un giogo secolare, non si faceva altro che gettarle in pasto ai lenoni, mentre gli Italiani, come sintetizzava magistralmente il film di Totò, erano costretti ad arrangiarsi.
Parlare oggi di regolamentazione della prostituzione è argomento tabù, più della liberalizzazione della droga o della liceità dell’eutanasia. Si scatenano con pari veemenza femministe e bacchettoni, ipocriti e modernisti, senza voler considerare che dai tempi della implacabile senatrice, che fece chiudere le case chiuse…, la situazione sociologica italiana è mutata radicalmente.
Allora le prestatrici d’opera dei casini provenivano in gran parte dalla provincia e prevalevano, in un’Italia perbenista e bigotta che non esiste più, le sedotte ed abbandonate. Oggi siamo obbligati a confrontarci con un turpe ritorno allo schiavismo, gestito dalle mafie straniere, con punte di ferocia impensabili cinquanta anni fa.
Ci troviamo davanti a legioni di giovanissime, spesso ultraminorenni, provenienti dall’Europa dell’est e dall’Africa, condotte da noi da mercanti di carne umana senza scrupoli con l’illusione di un lavoro onesto e costrette a prostituirsi sulla pubblica strada, sorvegliate a vista da implacabili aguzzini. Senza considerare, in epoca di par condicio, la prostituzione maschile ed omosessuale.
Il tutto naturalmente senza alcun controllo medico e fiscale, mentre i nostri benemeriti governo sono alla caccia di evasori fiscali dappertutto salvo che tra i magnacci ed i lenoni.
Possiamo continuare a fingere che questo immondo sfruttamento non ci riguarda e girare la testa davanti a spettacoli indegni di un paese civile?
Possiamo permettere che questa situazione si sviluppi e si consolidi dando forza e nutrimento alla delinquenza straniera?
Possiamo ignorare i provvedimenti che altri paesi europei, ben più civili di noi, hanno da tempo applicato, con enorme beneficio per la salute pubblica e per l’erario?
Permettere che la situazione attuale proliferi in maniera selvaggia, senza regole e senza limiti, non avvantaggia i cittadini onesti, che debbono decidersi ad affrontare il problema in nome dell’igiene materiale e morale, ma soprattutto della civiltà.
Negli ultimi tempi, a latere alla polverizzazione della prostituzione, ho notato con stupore e nostalgia la ricomparsa nella rubrica delle inserzioni commerciali dei messaggi delle "massaggiatrici", stranamente scomparsi da decenni, nonostante viviamo in un periodo di mercantilismo sfrenato.
Sono ritornato agli anni in cui leggevo questi annunci con un interesse malizioso, che poteva diventare personale, ben diverso da oggi che la lettura è puramente intellettuale.
Scopro così che l'offerta, al passo con i tempi, si è specializzata, ma a pensarci bene già sugli antichi lupanari pompeiani esplicativi affreschi pubblicizzavano le prestazioni nelle quali la proprietaria era particolarmente versata.
Poi si possono percepire gli effetti della globalizzazione: brasiliane e cubane calienti, slave vogliose, addirittura cinesi meticolose e pazienti.
Quanti posti di lavoro perduti per le nostre prestatrici d'opera!
Le possibilità coprono non solo tutti i gusti, ma anche tutti i momenti ed i luoghi della città.
Ci siamo recati in visita ad un parente ricoverato e ci siamo rattristati? Vi è subito il rimedio per risollevare... lo spirito: ardente minorenne, prestazioni particolari, zona ospedaliera.
Siamo all'aeroporto ed il nostro aereo è in ritardo?. Niente paura, ci penserà Nietta, prezzi modici, calata Capodichino.
O tempora, o mores, avrebbe gridato un severo censore nostro antenato, noi semplicemente sorridiamo.
La ricorrenza dell’anniversario ci induce a tracciare un ricordo degli antichi casini napoletani, alcuni leggendari altri, la maggior parte, per frequentatori meno raffinati. e vogliamo approfittare di un’antica cartolina per commemorare Concettina, chi sa se è ancora viva, un bocconcino delizioso, tra tante donne navigate. La foto è stata scattata negli anni Trenta in una casa chiusa di Napoli, sita in via Santa Lucia, una delle più eleganti della città, frequentata da gerarchi e podestà, nobili e ricchi sfondati.
Concettina, questo il nome, forse di fantasia, della ragazza, indicato sulla cartolina, dimostra poco più di 15 anni, un’età vietata all’epoca per praticare il meretricio ed i postriboli erano molto severi nel rispettare i regolamenti, ma si faceva un’eccezione per qualche cliente importante, che desiderava carne fresca ed era disposto a pagare ben più delle normali tariffe. Per queste richieste particolari venivano persino reclutate delle vergini che, una volta battezzate, proseguivano poi la loro carriera cambiando ogni 7 giorni lupanare e questo incessante tour de force durava vari anni prima che ritmi sovraumani e malattie non rendessero la prostituta un relitto umano. Da questo atroce destino la nostra fanciulla è ben lontana. Le sue forme ben tornite mostrano la freschezza dell’età e la consistenza tufacea della giovinetta. Il seno, sodo e di forma perfetta è un invito irresistibile alla voluttà e la linea delicata del pancino richiama a viva voce quello immortale della Venere di Urbino, mentre i capelli, folti e neri come il carbone fanno da corona ad uno sguardo triste e malinconico, presago del triste destino che attende il fiore della sua innocenza.
Ma basta malinconie i tempi sono cambiati: arrangiatevi!

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Storia dell’aborto dall’antichità ai nostri giorni

Fino al 1978 in Italia vigeva una legislazione sull’aborto regolata dalle norme del codice Rocco, una triste eredità del fascismo, che prevedeva, a salvaguardia dell’integrità della stirpe, pesanti sanzioni penali per il medico e per la stessa donna che si sottoponesse alla interruzione della gravidanza.
Nessuna eccezione era prevista e questa normativa restrittiva accomunava l’Italia ai paesi più arretrati culturalmente del terzo mondo.
Dopo un parere parzialmente permissivo della Corte costituzionale emanato nel 1975, grazie alle vigorose provocatorie campagne portate avanti dai radicali, che organizzarono anche una struttura, il Cisa (Centro italiano sterilizzazione aborto), in cui le donne stesse intervenivano attivamente applicando il semplice metodo Karman, il Parlamento partorì faticosamente una legge, la 194 del 22 maggio 78, che regolava in maniera più moderna la spinosa e dibattuta materia.
La legge ha radicalmente cambiato la normativa che regola in Italia l’interruzione della gravidanza (I.V.G), permettendo l’esecuzione della stessa nei primi novanta giorni di gestazione in una casistica molto ampia di casi, che vanno dalle indicazioni mediche a quelle sociali e psicologiche.
È una tra le leggi più liberali al mondo, che si basa esclusivamente sulla volontà della donna, con ben poche restrizioni, anche se è inficiata dalla nascita da un grave peccato originale: l’ipocrita compromesso tra forze di sinistra e cattolici, frutto dell’ambiguo clima politico dell’epoca. Nel 1981 due referendum abrogativi, uno sollecitato dall’area cattolica, la quale mirava a sradicare la legge, abolendo completamente i risultati conquistati ed uno portato avanti dall’area radicale, che desiderava realizzare una piena depenalizzazione dell’aborto, furono portati all’attenzione del corpo elettorale che, con diverse percentuali, li respinse entrambi.
La legge ha avuto sempre una parziale e difficoltosa applicazione soprattutto nel sud del paese, per gli ostruzionismi che larghe fette del potere hanno costantemente esercitato, dagli obiettori di coscienza, finti o veri che fossero, agli amministratori delle U.S.L. democristiani, agli assessori alla Sanità pilateschi che cercavano ogni cavillo per affossare la legge e solo la vigile attenzione esercitata dalle donne di ogni ceto sociale e di ogni area politica ha fatto sì che una applicazione della normativa, anche se stentata, non abbia mai subito interruzioni.
L’interruzione volontaria della gravidanza, regolata da una legge dello Stato trentennale, la famigerata 194 del 22 maggio 78, è argomento che suscita sempre, per la delicatezza della materia trattata, accesi dibattiti ed ancor più accese polemiche; essa fu emanata sotto l’assillo di inderogabili scadenze e può essere interessante una breve carrellata di soli quaranta secoli per delineare in che maniera la società e le religioni hanno giudicato l’aborto procurato.
Anche nella più remota antichità l’aborto è stato praticato e di esso si hanno notizie in testi cinesi, assiro babilonesi ed egizi sin dal 2000 a.C., fino ai Veda, libri sacri indiani collocabili al V secolo a.C.
Nell’antica Grecia, patria del sapere e della saggezza, Ippocrate vietava al medico di interrompere la gravidanza, anche se nei suoi testi trattava in maniera esaustiva l’argomento, indicando i rari casi in cui si poteva agire.
Socrate considerava l’aborto una libera scelta della madre, Platone, nella “Repubblica” lo riteneva strumento di equilibrio demografico, mentre Aristotele non riconosceva personalità giuridica al feto prima del parto.
I Romani regolarono a lungo la materia attraverso la “Lex Cornelia”, fino a quando, in epoca augustea, per il rilassamento generale dei costumi si addivenne ad un aumento degli aborti procurati, che trovarono un argine soltanto con l’emanazione del diritto giustinianeo, il quale puniva l’aborto come delitto e riconosceva al nascituro la soggettività giuridica, sotto la spinta dell’affermazione del Cristianesimo che, divenuta religione di Stato dopo l’editto di Costantino del 313 d.C., fece assumere ad alcune pronunce canoniche la forza di legge.
Nell’ambito degli studiosi Tertulliano, vissuto tra il 160 ed il 250, fu il primo a porsi il problema dell’animazione del prodotto del concepimento che trovò poi con S. Agostino una risposta accettata dalla Chiesa per molti secoli; il grande pensatore riteneva che l’animazione avvenisse prima della nascita, anche se non precisava quando.
S. Alberto Magno, vissuto quasi mille anni dopo, affermava viceversa che il maschio possedeva un’anima 40 giorni dopo il concepimento, mentre una femmina dopo 90.
S. Tommaso d’Aquino(1225-1274), sul cui pensiero si fonda la teologia e l’etica cristiana, sosteneva la tesi dell”animazione ritardata”, secondo la quale l’anima non poteva essere infusa al momento della fecondazione, perché la materia, il “corpo”, non è adeguatamente preparata a ricevere la forma, l”anima”, per cui si deduce che quest’ultima è infusa “dopo un certo tempo”.
In tempi recenti sul problema si è espresso Jacques Maritain, il più grande filosofo cattolico del nostro secolo, il quale, nel 1973, ben conoscendo le nuove frontiere della biologia, dopo la scoperta del DNA e del corredo cromosomico, ha ritenuto “un’assurdità filosofica” credere che al momento del concepimento ci sia l’anima spirituale.
La questione dell’animazione fu sancita definitivamente da Pio IX, il quale nel 1869 nella “Apostolicae sedis”, acclarò che, qualsiasi fosse il periodo di gestazione, il prodotto del concepimento possedeva un’anima.
In epoca post unitaria il codice Zanardelli, varato nel 1889, nel contemplare l’aborto, identificava la vita giuridica del feto con il primo atto respiratorio, mentre il regime fascista, nel 1927, aggravava le pene previste per l’aborto procurato, allo scopo di difendere il patrimonio demografico e l’integrità della stirpe; normativa repressiva accolta qualche anno dopo nel codice Rocco, il quale stabiliva che il feto divenisse persona al momento del parto.
All’estero emblematica fu la posizione dell’Unione Sovietica che, nell’interpretare il pensiero marxista, concesse prima l’aborto senza alcun limite, riconoscendo alla lavoratrice la più completa disponibilità del proprio corpo, salvo fare marcia indietro dopo soli 4 anni avviando una larga campagna contro l’ aborto.
Fino a quaranta anni fa in Italia il metodo più adoperato dalle donne per abortire consisteva nel famigerato laccio: una sonda introdotta da una mammana nell’interno dell’utero, spesso senza alcuna precauzione igienica, che provocava, tra contrazioni e dolori, l’espulsione dell’embrione, il più delle volte con copiose emorragie e con il frequente strascico di infezioni.
Le donne più ricche potevano ricorrere all’aiuto di un medico che praticava un raschiamento della cavità uterina, un intervento traumatizzante, anche perché eseguito quasi costantemente senza poter contare sull’aiuto di un anestesista.
Poi anche in Italia, alla metà degli anni Settanta giunse il metodo Karman, una tecnica rivoluzionaria basata sull’aspirazione dell’embrione, ottenuta praticando il vuoto con una speciale siringa. Tale tecnica, per quanto semplicissima, ha impiegato decenni per essere apprezzata dai ginecologi, tanto che ancora oggi oltre la metà degli interventi eseguiti nelle strutture pubbliche viene realizzata con il classico raschiamento.
Negli ultimi anni il ricorso all’aborto è fortemente diminuito e le preoccupanti motivazioni demografiche che erano state uno dei motivi che avevano indotto il Parlamento ad approvare la legge 194 sono oggi venute meno.
L’Italia è divenuta infatti il paese che presenta il più basso indice di nascita per donna del pianeta, l’1,1, quando sarebbe necessario un valore superiore a 2 nascite per donna per rimpiazzare semplicemente la popolazione.
Questa situazione è simile in tutto l’Occidente, mentre è diametralmente opposta nelle nazioni del terzo mondo. Una variazione della situazione demografica, unita al mutato quadro politico che ha dato più volte fiato ai gruppi che si agitano per l’abolizione della legge 194 o per svuotarla di contenuto e operatività.
Il crollo della fertilità della nostra popolazione è fenomeno complesso e di esso molti parametri sfuggono ancora completamente all’indagine scientifica, ma deve anche far riflettere per le gravi implicazioni di ordine sociale che nel giro di uno o due generazioni saremo costretti ad affrontare.
Il panorama è da tempo radicalmente mutato perché da circa un ventennio una nuova scoperta ha rivoluzionato completamente l’orizzonte delle tecniche per indurre l’I.V.G., la possibilità di provocare l’aborto attraverso la somministrazione di sostanze farmacologiche che evitano il ricorso all’intervento chirurgico, una circostanza non prevista dalla legislazione vigente.
In Italia ogni tanto sommessamente si è discusso di autorizzare la vendita del farmaco, ma, come avvenne a suo tempo per la pillola contraccettiva, bisognerà attendere a lungo. Si prevede infatti ardua la battaglia per far sì che anche le donne italiane possano usufruire di una metodica in grado di sottrarle all’intervento chirurgico, all’annessa ospedalizzazione per il ricorso all’anestesia generale, all’impatto emozionale con persone e strutture potenzialmente indagatorie, circoscrivendo l’intervento del medico all’assistenza dei rari effetti collaterali ed a risolvere i pochi casi di aborto incompleto.
Anche il gravoso problema dell’obiezione di coscienza tra il personale medico e parasanitario, che assilla e paralizza tanti ospedali, sarebbe alleviato da tale metodica, perché è ipotizzabile che le donne possano da sole introdursi in vagina le candelette del farmaco e finalmente dell’aborto non dovrebbero più interessarsi legislatori e preti, medici ed assistenti sociali, facendo sì che questa scelta, difficile e quasi sempre dolorosa, riguardi unicamente la donna e la sua coscienza.

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La raccolta differenziata tra realtà e fantasia

Per riciclaggio si intende l’insieme di tutte le strategie volte a recuperare i rifiuti per riutilizzarli, evitando o riducendone lo smaltimento. Non essendo possibile, se non in via teorica, recuperare ogni componente, il riciclaggio non esclude completamente l’utilizzo delle discariche o dei termovalorizzatori.
In un sacchetto di spazzatura reperiamo mediamente: 29% di materiale organico decomponibile, 28% di carta, 16% di materiale plastico, 11% di polveri e ceneri, 8% di vetro, 4% di metalli, 4% di stracci e legno.
Di questi materiali quasi il 90% sono riutilizzabili con guadagno economico diretto, a parte il considerevole risparmio di risorse per la diminuzione della massa di rifiuti da smaltire.
La raccolta differenziata può essere effettuata direttamente dai cittadini, attraverso un sistema di raccolta porta a porta, oppure sfruttando sistemi di separazione in appositi impianti di smistamento. L’ideale è utilizzare tutte e tre le modalità per raggiungere una percentuale molto alta di separazione. Attraverso il riciclaggio si apre un nuovo mercato, in cui piccole e medie imprese possono trovare facilmente spazio per un’attività produttiva con impiego di numerosa manodopera e grande sollievo per la disoccupazione.
In molte nazioni, oltre a massicce campagne di propaganda, si cerca di imporre il riciclaggio attraverso delle leggi, come in Germania, ove un recente decreto impone ai rivenditori di ritirare gli imballaggi dei prodotti venduti. In Italia con il decreto Ronchi del 1997 si prevedeva di raggiungere il 35% di raccolta differenziata entro il 2003, obiettivo purtroppo non raggiunto. Anche nelle direttive europee si raccomanda vivamente di adoperarsi per la riduzione dei rifiuti ed un’ottima risposta si è avuta da parte delle nazioni del nord, dove moltissimi prodotti sono venduti alla spina, dal dentifricio ai detersivi, con drastica riduzione dei contenitori a perdere ed un sensibile risparmio sul prezzo, che per molte merci è un decimo di quello confezionato.
Per rendersi conto dell’importanza di recuperare quanti più componenti tra i rifiuti bastano pochi dati:
Ogni tonnellata di carta riciclata consente di risparmiare 14 alberi di alto fusto, 300 -400 tonnellate di acqua e 800 kilowatt di elettricità corrispondenti a 200 - 300 litri di petrolio. Bisogna sempre avere in mente che nel mondo, ogni anno, 40.000 ettari di foresta (una superficie equivalente a 3 -4 grandi regioni italiane) vengono sacrificati per produrre giornali, libri, manifesti, imballaggi che, una volta adoperati in gran parte vengono distrutti, mentre potrebbero essere tranquillamente recuperati.
La plastica merita un discorso a parte perché, più che per il recupero della materia prima, abbastanza economica, è importante recuperarla per il risparmio di petrolio e di energia e per il considerevole volume occupato nella spazzatura ed inoltre per il pericolo che, bruciata in maniera non corretta, liberi nell’aria gas molto dannosi.
Esistono vari tipi di plastica e tra questi solo la Pet è biodegradabile. In futuro bisognerà per legge obbligare le industrie ad utilizzare per i contenitori soltanto questo tipo o meglio ancora la bioplastica, un nuovo materiale di origine vegetale che ha il vantaggio di produrre una combustione meno inquinante, se incenerita e di essere degradabile, (attaccata dagli agenti naturali) se rilasciata nell’ambiente o in una discarica.
Attualmente una busta di plastica viene adoperata per 20 – 30 minuti, per portare merce dal negozio a casa, mentre la natura per disintegrarla impiega circa 1000 anni!
Per produrre plastiche biologiche si utilizza il mais, coltivabile nei nostri campi e non il petrolio che viene da lontano ed incide pesantemente nella bilancia dei pagamenti.
Ogni anno adoperiamo 200.000 tonnellate di gasolio per produrre le 300.000 tonnellate di plastica che consumiamo, vomitiamo nell’atmosfera 400.000 tonnellate di anidride carbonica, dando un nefasto contributo all’effetto serra ed al disastro ambientale. A parte il riciclo nel caso della plastica è facile l’uso ripetuto e se ogni italiano riutilizzasse due volte una busta di plastica, in un anno si risparmierebbero 200.000 tonnellate di oro nero.
L’alluminio è adoperato moltissimo come contenitore e può essere riadoperato all’infinito senza perdere le sue qualità originali. Quaranta lattine permettono di recuperare un chilogrammo di metallo, per la cui fabbricazione si adopera un processo altamente inquinante, oltre al consumo di bauxite, un minerale in esaurimento e di una quantità di energia corrispondente ad un peso cinque volte superiore di petrolio.
Il vetro deve essere preferito sempre ai contenitori di plastica, perché non altera il sapore né l’odore dei cibi e può essere facilmente riutilizzato o riciclato. Per fabbricarlo occorrono un elevato consumo sia di energia che di materie prime, oltre alla distruzione di boschi e monti per aprire nuove cave. Esso rappresenta una quota significativa (8%) dell’immondizia e se disperso nell’ambiente impiega 4000 anni per decomporsi. Attualmente in Italia il 70% del vetro finisce nelle discariche o viene incenerito, distruggendo in tal modo una considerevole ricchezza.
L’ideale è scegliere bottiglie e barattoli con vuoto a rendere, in maniera tale che i contenitori possano essere utilizzati all’infinito, oppure, in ogni caso, riciclare bottiglie frantumate.
Il legno viene prevalentemente adoperato a livello industriale, per cui difficilmente il cittadino troverà un contenitore apposito per la raccolta di rifiuti legnosi e dovrà rivolgersi alla ditta incaricata al prelievo nella propria cittadina. In ogni caso riciclare il legno significa risparmiare una cosa molto preziosa: gli alberi.
Le cassette adoperate per contenere frutta ed ortaggi possono e devono essere utilizzate più volte, restituendole al rivenditore, fino a quando, divenute inservibili per l’usura vengono inviate ai centri di raccolta.
I rifiuti organici costituiscono una quota considerevole del sacchetto (29%) che può essere interamente recuperata. Essi sono costituiti da tutte le sostanze di origine vegetale o animale: residui di cucina, scarti di potatura, ecc. Se vengono smaltiti nelle discariche producono grandi quantità di percolato, che abbiamo visto crea grossi problemi, se bruciati richiedono costi elevati e se rimangono a fermentare nell’ambiente danno luogo a cattivi odori. Di conseguenza, è quanto mai opportuno trasformarli in una sostanza utile attraverso il compostaggio, un processo biologico attuato da microrganismi che, nutrendosi della sostanza organica, ne causano la decomposizione, producendo una sostanza simile all’humus. Il prodotto ottenuto, detto compost, può essere utilizzato validamente per sostituire i normali concimi chimici, in quanto ricco di minerali e sostanza organica. In agricoltura questa tecnica viene adoperata per restituire al terreno i componenti che sono andati via con il raccolto ed assume un’enorme valore, perché evita il ricorso ai fertilizzanti, sfruttando il meccanismo naturale di riciclo delle sostanze organiche.
Ciò che avviene in natura è un esempio mirabile di come non esistano sostanze che possano essere definite rifiuti: le piante dall’aria e dalla terra, attraverso le radici, assorbono una serie di sostanze inorganiche, quali acqua, anidride carbonica, nitrati e fosfati e grazie alla luce solare le trasformano in sostanze organiche come zuccheri, grassi e proteine, indispensabili alla crescita degli esseri viventi. Una volta morti, animali e vegetali vengono attaccati da parte di batteri e funghi, che danno luogo a energia e materie prime, tra cui di nuovo le sostanze inorganiche necessarie alle piante, chiudendo un percorso circolare.
Per via naturale il compostaggio richiede circa 8 – 12 mesi, ma con alcuni artifici è possibile accelerare il processo a 15 – 45 giorni, ottenendo da un chilogrammo di spazzatura 300 grammi di compost.
E’ una tecnica che chiunque possieda un giardino o dello spazio può mettere in pratica, contribuendo vistosamente a risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti ed avendo la soddisfazione di produrre ricchezza, perchè il compost sostituisce i concimi e può trovare utilizzo anche come materiale inerte utile per impieghi geologici di vario genere.
Si possono utilizzare gusci d’uovo, fondi di caffé o tè, scarti di frutta e verdura, ceneri di legna, alimenti deteriorati, ossa di animali, lische di pesce, foglie, fiori appassiti, piccoli rami ecc. Tutto questo materiale può essere raccolto in un apposito contenitore, oppure in giardino si può formare un cumulo, o sistemare il materiale in una buca nel terreno. Ogni tanto con un forcone è opportuno rivoltare almeno la parte superficiale per favorire il ricambio d’aria ed alla fine la soddisfazione di aver creato, seguendo l’esempio della natura, qualcosa di utile dai rifiuti è molto gratificante.

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Un progetto virtuoso

Fino ad ora abbiamo descritto la teoria e le buone intenzioni, ma passare dalla fantasia alla realtà, soprattutto a Napoli, è impresa ardua ai limiti della disperazione.
Il primo ostacolo, apparentemente insormontabile è l’assenza in Campania di un impianto di compostaggio necessario per lo smaltimento della quota umida, che, come abbiamo visto, rappresenta un terzo dei rifiuti.
Alcuni comuni virtuosi come quello di Grumo Nevano, che differenziano oltre il 60% della spazzatura sono costretti, come ci conferma il sindaco Angelo Di Lorenzo, a spedire l’umido in Sicilia con costi iperbolici, mentre i terreni campani stanno diventando sempre più aridi e sterili per mancanza di concime.
A Napoli, nel Parco dei Camaldoli, vi è un progetto per allestire un terreno in grado di ricevere l’umido di tutta la città. Basterebbe una spesa modesta e potrebbe entrare in funzione in meno di tre mesi. La notizia circola tra gli ambientalisti da tempo, senza riuscire a raggiungere i giornali che contano. Non siamo riusciti a parlare con il presidente, architetto Agostino Di Lorenzo, nonostante tentativi telefonici e telematici, evidentemente è impegnato a raggiungere l’obiettivo, ma non dobbiamo lasciarlo solo ed appoggiarlo presso l’opinione pubblica e le istituzioni.
Senza un luogo ove portare la frazione umida qualunque tentativo di raccolta differenziata è destinato a fallire.
Abbiamo preparato un progetto per il quartiere Vomero attuabile in pochi mesi, raccogliendo l’interesse di numerose associazioni tra le quali il WWF campano, presieduto dalla dinamica Ornella Capezzuto e la gloriosa Napoli Novantanove, che vede di nuovo l’indomita baronessa Mirella Barracco in prima fila per risollevare le sorti dell’amata città.
L’iniziativa prevede una raccolta porta a porta dei materiali da riciclare con gruppi di volontari e cooperative di disoccupati, muniti di furgoncini per portare il raccolto… in un luogo dove quotidianamente camion di ditte specializzate provvedono poi ad asportarlo.
Un’azione dimostrativa di lunga durata, di stimolo alle istituzioni, che dovrebbe cessare solo quando le stesse, attualmente assolutamente latitanti, si dimostrino in grado di fare ciò che si fa in tutto il mondo civile.
Abbiamo contattato decine di amministratori di condominio, commercianti ed associazioni di categoria. Tutti sono pronti a partire per restituire dignità alla città e decoro alle strade.
Naturalmente bisognerà nel tempo mutare abitudini e rivoluzionare il nostro modo di vivere.
Cambiare freneticamente vestito, automobile, arredamento è un’abitudine schizoide che da anni ha preso il sopravvento nel mondo occidentale ed anche nei paesi emergenti, come la Cina, sta divenendo la regola. Martellati dalla pubblicità, aizzata da un sistema industriale che necessita di vendere continuamente gli oggetti che costruisce, acquistiamo senza sosta prodotti ai quali non ci affezioniamo, come capitava una volta, quando i mobili, ma anche un maglione o le suppellettili della cucina, ci accompagnavano lungo il percorso della vita.
Se non torniamo alle sane abitudini dei nostri nonni siamo perduti e con noi è perduto il pianeta Terra del cui triste destino siamo tutti noi responsabili.

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Napoli affonda si salvi chi può

Per giorni e giorni tutti i giornali del pianeta hanno dedicato la prima pagina a Napoli che affoga sepolta dai rifiuti, ma nessuno si è chiesto il perché di un’attenzione mediatica ossessiva e tutto sommato fuori luogo. Ma la spiegazione è a livello inconscio: Napoli è l’immagine premonitrice di un futuro quanto mai vicino, quando, se non si frena una civiltà basata su un consumismo sfrenato ed irrazionale, tutte le città del mondo saranno sommerse dai rifiuti ed avvelenate dai gas emessi da automobili ed inceneritori.
Napoli è il laboratorio dove si accavallano una serie di tematiche che da tempo hanno raggiunto e superato il livello di guardia, ma che interessano tutti i contemporanei: traffico, disoccupazione, delinquenza organizzata, smaltimento dei rifiuti, abusivismo, ecc.
Gli Italiani sono stati alla finestra senza muovere un dito, anzi rincarando la dose attraverso il disprezzo. Non si è voluto affrontare il problema della delinquenza e questa è dilagata come un cancro, aggredendo il tessuto sano, non si voluto contrastare il business della falsificazione e tutta l’Europa è oramai invasa da griffe fasulle e marchi contraffatti, non si fa niente per risolvere alla radice il dramma dei rifiuti ed il miasma comincia a dilagare lontano e lo spettro di una crisi generale comincia ad essere un’ipotesi plausibile.
Le recenti puntate di Porta a Porta, protrattesi fino a notte fonda, sono state lo specchio di una situazione insostenibile: da un lato gli ospiti in studio, comodamente in poltrona, elegantemente vestiti a discutere forbitamente, mentre le telecamere inquadravano un’umanità lacera, abbandonata da tutti, che gridava disperata la sua rabbia e le sue paure, respirando la puzza delle discariche ed inalando la micidiale diossina.
Tutti quelli che si meravigliano che la città non sia ancora precipitata nei gorghi del baratro inabissandosi, dimenticano che rimane ancora miracolosamente a galla, aggrappata alla sviscerata devozione dei suoi abitanti che l’amano perdutamente e per il ricordo, mai sbiadito di millenni di cultura, civiltà e nobili tradizioni.
Ma state attenti perché se dovesse veramente affondare creerà un gigantesco risucchio e trascinerà con sé negli abissi tutto quello che la circonda per larghissimo raggio e nessuno si salverà.

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La fine del lavoro

Attualmente il mondo è dominato dallo strapotere delle multinazionali, i governi, anche degli Stati più importanti, sono costretti all’ordinaria amministrazione, i popoli credono di vivere in una democrazia e di essere arbitri del loro destino, viceversa, contano poco più che nulla.
I capitali vagano senza patria alla ricerca della migliore rendita, il lavoro si sposta lì dove la manodopera è più a buon mercato, le merci si indirizzano solo e soltanto dove vi sono consumatori in grado di acquistare, mentre una martellante ed onnipresente pubblicità ci convince di sempre nuovi bisogni e ci invita a consumare oltre ogni limite, distruggendo l’ambiente ed esaurendo le risorse del pianeta.
In questo panorama non proprio rassicurante assistiamo impotenti alla fine del lavoro sostituito dall’automazione, dai computer, dai robot, mentre la disoccupazione raggiunge quote record in tutto il mondo ed aumenta incessantemente, anno dopo anno, mese dopo mese, giorno dopo giorno.
Quando a breve il lavoro sarà scomparso verrà meno anche l’uso del denaro o quanto meno le merci ed i servizi non dovranno remunerare certo il macchinario che le ha prodotte.
Le multinazionali saranno ancora più padrone della nostra esistenza, perché possiederanno tutti i prodotti senza aver dovuto sborsare né stipendi né salari.
Potranno tenerli per sé, novelli Paperon de Paperoni od elemosinarli a coloro che si prostreranno al loro incontrastato dominio planetario.
Non si tratta di fantascienza, ma di un semplice ritorno al passato, la storia infatti ci insegna che numerose antiche civiltà non conoscevano il lavoro, che veniva lasciato a moltitudini di schiavi, mentre pochi privilegiati si dividevano tutte le ricchezze. Anche i civilissimi…Stati Uniti d’America, patria delle multinazionali, fino a pochi secoli fa, usufruivano di milioni di schiavi razziati da tremendi negrieri e costretti a lavorare senza sosta in sterminate piantagioni.
Cosa può fare un cittadino, uno di noi, una minuscola molecola nel gigantesco villaggio globale, per cercare di opporsi all’attuarsi di questo allucinante futuro, cercando di cambiare il nostro destino e di trasformare la fine del lavoro in una circostanza positiva, nella quale tutti i popoli possano avere un eguale accesso ai beni prodotti e godere degli stessi diritti?
Ben poco, purtroppo, ma bisogna tentare, innanzitutto prendendo coscienza della gravità della situazione, adoperando la spuntata arma del voto, e soprattutto cercando di opporsi allo strapotere della società dei consumi.

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La fine del denaro

L’automazione, i computer, i robot quanto prima libereranno l’umanità dal fardello del lavoro ed anche il denaro, ad esso collegato, andrà in soffitta dopo millenni di baratti e secoli di moneta.
Sarà la più rivoluzionaria delle rivoluzioni alla quale non siamo assolutamente preparati, affezionati come siamo a quei simpatici pezzi di carta, sporchi e stropicciati che sono i soldi. Li desideriamo ardentemente, li conserviamo come reliquie nel portafoglio, per averli facciamo qualsiasi cosa, anche lavorare come matti per tutta la vita, per averne di più siamo disposti a tradire un amico, a scavalcare un debole, ad ingannare un avversario.
Crediamo ciecamente che con il loro possesso si possa comperare tutto ciò che si desidera: oltre a vestiti, auto, cibo ed oggetti lussuosi anche il favore degli altri, l’onestà delle donne, la giustizia degli uomini, la coscienza del prossimo.
Se non ne abbiamo la gente ci guarda con insofferenza e con disprezzo, mentre se mostriamo di averne tanto tutti si dimostrano amici.
Dimentichiamo che il denaro non ci permette di acquistare né la salute, né l’amore, né la vera amicizia e neppure la serenità. Con il loro possesso ci procuriamo soltanto l’invidia della gente, l’unica cosa di cui faremmo volentieri a meno.

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La fine della vita

“Nulla si crea e nulla si distrugge” è uno dei paradigmi della scienza ed anche il nostro corpo dopo la morte, disintegrandosi, ritorna nella terra e restituisce le sostanze della sua materialità. Ma i nostri pensieri, i dolori, le speranze, la felicità, gli smarrimenti, le malinconie, i ricordi, i desideri, gli affetti, non vogliamo dire la nostra anima, dove finiscono? Se nulla si distrugge, se la nostra misera carcassa continua ad esistere trasformandosi, perché ciò che a noi continua a sembrare immateriale dovrebbe scomparire.
Una modesta radio a transistor è in grado di captare le voci provenienti dall’altro emisfero terrestre, ci permette di ascoltare un monologo di Amleto recitato a New York o il ritmo di una frenetica danza brasiliana da Rio, il cervello dell’uomo è la cosa più prodigiosa che vi sia nell’universo, perché non possiamo credere che esso possa afferrare i nostri sentimenti, che vagano nello spazio dopo la nostra morte? Un bambino che oggi nasce potrebbe raccogliere un messaggio di uno sconosciuto che chiude la sua esistenza e gli lascia in eredità le sue inquietudini, le sue speranze, le sue gioie ed i suoi dolori.
Milioni di uomini di antiche e sagge civiltà, hanno creduto e credono a questa possibilità, anche noi possiamo crederlo, sperarlo, temerlo.
Sono pensieri che ci danno l’idea della nostra miseria e della nostra nobiltà: sperduti nell’infinita immensità degli spazi, destinati a vivere un lampo a confronto dell’eternità, non riusciamo a credere che la nostra coscienza si sia accesa per caso, a contemplare un universo ostile o quanto meno indifferente al nostro destino.

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Vulcano buono, ma con chi?

Un nuovo, ennesimo, faraonico centro commerciale è stato aperto alle porte di Napoli, con il solito codazzo di potenti all’inaugurazione e con il consueto plauso dei mass media, amplificato dal progetto di Renzo Piano e dalla benedizione del premier.
Stranamente in Campania, mentre le industrie e le poche attività produttive languono in stato comatoso, i templi del consumo fioriscono senza sosta. Non si capisce da dove dovrebbero provenire i soldi da spendere se non si crea più ricchezza, ma la civiltà dei consumi pare abbia trovato la soluzione attraverso l’abuso perverso del credito e della rateizzazione, convincendo lo stolto consumatore che l’importante è acquistare anche cose inutili, a pagare vi è sempre tempo.
E mentre si glorificano i nuovi posti di lavoro indotti dai nuovi centri commerciali nessuno calcola la chiusura continua di negozi e botteghe con disoccupazione indotta in ragione di numeri dieci volte superiori.
E mentre il traffico si strozza sulle autostrade alle porte di Napoli e nei fine settimana si paralizza completamente, le vie del centro si desertificano, vanificando le occasioni di incontro e stravolgendo la stessa filosofia con cui sono state costruite le nostre città, senza che il consumatore ne tragga un reale vantaggio, a differenza di questi colossi della distribuzione, spesso di proprietà straniera e sempre collusi con il potere politico che elargisce le licenze e la camorra che gestisce i terreni.

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Il tempo

Il tempo scandisce la vita dell’uomo e di tutto l’universo, inesorabilmente, imprime le rughe sul volto, tinge i capelli di bianco, increspa i muri, sgretola le rocce, corrode il ferro, fa appassire i fiori e marcire la frutta, è alla base del triste destino di tutti i viventi: il disfacimento. Una forza invisibile ed implacabile che non si ferma mai ed a cospetto della quale il percorso della nostra vita è meno che un’inezia.
L’umanità è in cammino da decine, forse centinaia di migliaia di anni e la nostra vita ne rappresenta una minuscola particella; immaginiamo di andare avanti nel tempo al 1 giugno (giorno della mia nascita…) del 2133, sarà una domenica, un giorno che non mi sarà concesso di vedere, ma non sarò il solo, non lo vedranno i neonati, né alcuno dei sette miliardi attualmente abitanti la Terra, né quelli che nasceranno domani o fra un mese o anche fra dieci anni. Se ci spostiamo indietro nel tempo al 17 marzo del 1861(proclamazione del regno d’Italia) ci troviamo di nuovo, in un giorno così importante per la nazione nella quale viviamo, che nessuno di noi ha vissuto.
Meditando su queste due date così lontane se rapportate alla durata della vita dell’uomo, ma così insignificanti rispetto all’eternità, ci assale un senso di angoscia e di sgomento.
Affacciati per un trascurabile periodo al palcoscenico dell’universo provenienti da un misterioso silenzio, precipitiamo rapidamente in un altro silenzio ancora più infinito.
L’intervallo tra questi due silenzi è il breve cammino della nostra vita.

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Il trionfo del paganesimo

L’approssimarsi delle feste natalizie con la corsa al regalo ed alla spesa inutile, nonostante la crisi economica, è lo specchio fedele di un mondo ritornato pagano alla ricerca spasmodica del fatuo e nel quale sentimenti e rapporti sociali si inaridiscono sempre più, mentre tutti, drogati dal consumismo, trasformano questo magico momento in un rito di massa, con grandi mangiate e smodate libagioni, acquisti sfrenati ed una idolatrica adorazione del dio denaro.
Le nuove divinità alle quali prostrarsi sono le icone di una civiltà decadente ed impazzita e vanno dalle veline ai calciatori, dai cantanti pop ai piloti di formula uno, quando non sono addirittura efferati boss della camorra, immortalati sui display dei telefonini.
Se saliamo di livello sociale e culturale la situazione poco cambia perché gli idoli e gli esempi da seguire sono rappresentati da protagonisti, occidentali ed orientali poco conta, del nostro immaginario: Budda, Bacco, Eros, Ulisse, Amleto, Apollo, le nove Muse, Don Chisciotte, Don Giovanni, Anna Karenina, Emma Bovary, mentre Venere, Minerva e Diana sembrano del resto vivere in mezzo a noi, attualmente, come nei dipinti dell’Umanesimo e del Rinascimento.
Dovremmo approfittare invece di questi giorni in cui studio e lavoro presentano una pausa per riunire le famiglie, sempre più spesso separate e per santificare la festa, aiutando il prossimo ed innanzitutto cercando di comprendere le ragioni degli altri.
Solo così potremmo contrastare una tendenza che sembra inarrestabile, il trionfo dell’immanente sul trascendente, del profano sul sacro, della vacuità sulla sostanza e soltanto allora il presepe ed altri simboli religiosi diverranno il suggello dell’amore familiare e della concordia sociale e, nell’armonica disposizione dei pastori, lo struggente ricordo di un mondo felice perduto da riconquistare.

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Suoni assordanti: dal mantra ai metallari

Il mantra è un suono particolare in grado di liberare la mente dai pensieri, una scoperta che si perde nella notte dei tempi codificata già nell’induismo e nel buddismo. Esso consiste nella ripetizione ossessiva di sillabe, lettere o frasi allo scopo di allontanare la mente dalla realtà dei sensi e di indurre una notevole concentrazione.
Questo particolare tipo di cantilena è stato pienamente recepito dal cristianesimo, che ne ha fatto il modo migliore per raggiungere l’estasi attraverso i ritmi incessanti della preghiera. Quasi nessuno può resistere alla ripetizione maniacale per ore di un rosario o di altre giaculatorie se la cadenza è sempre uguale, martellante ed ossessiva. Se vi è poi uno stato d’animo particolarmente predisposto è consequenziale cadere in trance od avere visioni.
Di queste originali e poco indagate proprietà della mente hanno fatto tesoro intuitivamente stregoni e generali, i primi per comandare la tribù, i secondi per mandare al macello la fanteria al suono ritmico di un tamburo.
Anche l’ipnosi induce il sonno attraverso una frase sussurrata o la visione di un pendolo ciondolante e tutti i riti magici giocano sull’estenuante ripetizione di formule e parole propiziatorie.
Una frase o anche una preghiera replicata cento volte perde, ripetizione dopo ripetizione, il suo significato originale, per trasportare la mente in un non luogo dove il ragionamento cede all’irrazionalità e dove la sensibilità subisce una prodigiosa amplificazione; è facile cadere allora in preda alla volontà altrui e rimanerne soggiogati.
L’ultima perversa applicazione di questo assemblaggio di suoni assordanti è costituita dalla musica metallica, che possiede numerosi seguaci tra giovani trasgressivi amanti del dark e dal cervello strizzato.

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Zingari quale futuro?

Gli zingari in secoli di peregrinazioni, partendo dall’India, si sono sparpagliati in vari paesi europei e, gelosi di una loro atavica tradizione, non tengono alcun conto delle leggi dei paesi che li ospitano. Spesso non posseggono documenti, non denunciano all’anagrafe i loro nati, sposano donne bambine di 10 – 11 anni e soprattutto vivono di accattonaggio e ruberie, non riconoscono la proprietà altrui e rifiutano il lavoro.
Si tratta di abitudini intollerabili per qualsiasi paese civile, per cui nei cittadini si determina una giustificata insofferenza.
L’entrata nell’Europa della Romania, patria di milioni di rom, ha esacerbato la situazione perché moltitudini di zingari si sono o si stanno trasferendo verso paesi più ricchi e più permissivi. Un esodo di dimensioni bibliche favorito da un criminale e complice lassismo alle frontiere, ha permesso che in particolare a partire siano stati tutti quelli che avevano problemi con la giustizia, increduli di potersi trasferire da uno Stato dove un processo penale completa tutti i gradi in meno di un anno a nazioni, come l’Italia, dove la magistratura e l’ordine pubblico sono allo sfascio ed i tempi della resa dei conti ipotetici quanto infiniti.
Ma la Romania aveva titolo a far parte dell’Europa? La risposta è pleonastica: la Romania è stata sempre Europa. Lo era quando le legioni romane di Traiano sono andate a conquistarla trasformandola nel granaio dell’impero, lo era quando ha fatto scudo all’espansionismo ottomano e lo era pienamente quando a Yalta i tre vincitori decisero di darla in pasta al comunismo. Ed a continuato a beneficiare l’Europa anche sotto Ceausescu, conservando le frontiere inviolabili e ritardando di decenni le odierne migrazioni, che in democrazia è pura utopia sperare di poter contrastare.
Nei secoli i tentativi forzati di assimilazione o la ricerca di efferate soluzioni finali…, sono stati numerosi: alcuni Stati europei, tra i quali l’illuminato impero austro ungarico prevedevano di togliere i figli agli zingari, stabilendo che venissero allontanati dai loro genitori e inseriti in famiglie tradizionali, mentre la nomea di rubare i bambini è rimasto invece pregiudizio dei rom, fino alla politica criminale di Hitler, che ha inviato centinaia di migliaia di nomadi nei campi di sterminio senza che nessun giorno della memoria si commemori per ricordare al mondo questo immane olocausto.
Pochi i giorni lieti accanto alle persecuzioni, quando erano attesi e onorati, nelle loro peregrinazioni periodiche e portavano in un paese la loro musica, le loro danze, i loro spettacoli, i loro abiti vivaci, la loro abilità nel riparare utensili rotti, la loro melanconica gioia di vivere. Oggi gli zingari sono trattati dalla legislazione, dalle amministrazioni locali, dai giornali e dalle televisioni, dai cittadini come rifiuti umani, da relegare in quelle discariche a cielo aperto che sono gli accampamenti nomadi, situati sempre nell’estrema periferia metropolitana, vicino a cumuli di spazzatura, a un cimitero, a uno scarico industriale, quasi sempre sotto la massicciata di un ponte autostradale o di una ferrovia, o anche sulle sponde di un torrente o di un canale, là dove la comunità urbana colloca idealmente e materialmente i propri rifiuti. Sono i monumenti moderni alla segregazione, che le nostre amministrazioni comunali, senza distinzione di colore politico hanno creato, cercando di dimenticare il problema senza sforzarsi a cercare una diversa soluzione.
L’Europa ha creato uno spazio unico di libertà, sicurezza, giustizia al quale non difetta la solidarietà e tanta ce ne vorrà per risolvere il problema degli zingari, senza mai dimenticare che sono cittadini europei.
Bisogna convincersi che è del tutto inutile sgomberare una tribù da un terreno occupato abusivamente nella periferia di una città, perché andrà ad occuparne un altro e si potrà essere abusivi su di un terreno, su tutti i terreni, ma nessuno è abusivo sulla Terra, figuriamoci in Europa. Tra i rom esistono figure rivestite di un’autorità e con loro bisognerà fare accordi, riconoscere diritti fondamentali in cambio dell’osservanza dei doveri, rispettare tradizioni e costumi, prestare generosamente servizi ed assistenza in cambio di un impegno alla legalità, includendo l’obbligo per i minori di dedicarsi allo studio. In caso contrario agire con grande severità, togliendo la patria potestà ai genitori che avviano la prole all’accattonaggio.
Una prospettiva che riunisca il bastone e la carota e che sia insieme, sicurezza e solidarietà, libertà e responsabilità, diritti ma anche doveri.
Dobbiamo attivarci cercando di convincerli ad entrare nei cicli delle nostre attività e delle nostre esistenze. Gli zingari rappresentano una riserva straordinaria di vitalità, di adattamento, di voglia di vivere, di solidarietà. Essi sono il banco di prova di quella riforma della società che tutti chiedono e che nessuno ha la capacità di elaborare. Inventare un rapporto di collaborazione con loro e con i flussi sempre più imponenti di profughi, migranti e nomadi di ogni genere trascinati alla deriva lungo le tortuose strade della globalizzazione non è un problema di poco conto, da delegare alla Caritas o al politico di turno, bensì è la scommessa che l’Europa fa con il proprio futuro e gran parte del destino degli zingari è nelle loro mani. Essi sono o fanno credere di essere bravi ed esperti chiromanti, che sappiano leggere il loro futuro, dopo che per secoli ci hanno voluto far credere di saper leggere il nostro.

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Lavorare è necessario?

Il progresso scientifico e l’automazione negli ultimi anni hanno fatto sì che, con una quota minore di lavoro, si riesca a produrre una maggiore quantità di beni e servizi, una cosa certamente positiva che nel tempo potrà liberare l’uomo dalla maledizione biblica di essere costretto con gran sudore a procacciarsi il necessario per vivere.
Paradigmatico è l’esempio di quanto produce un contadino americano ed uno africano: il primo grazie ai fertilizzanti, alla cospicua irrigazione ed all’uso di macchinari riesce a produrre quanto cento dei suoi colleghi africani, per cui, ipotizzando che in futuro anche loro potranno usufruire degli stessi accorgimenti, fra non molto il lavoro di uno solo potrà bastare a produrre il cibo per gli altri 99, i quali potranno anche non lavorare, se però colui che produce sia disposto a dividere con gli altri il frutto del suo lavoro. E qui nascono le difficoltà forse insormontabili per l’egoismo dell’uomo, probabilmente bisognerà creare una rotazione nel lavoro: un giorno ogni cento. Una prospettiva allettante che invita però alla meditazione sulla sua fattibilità, dopo che per anni abbiamo ascoltato l’utopico slogan “lavorare meno lavorare tutti”.
In numerosi altri campi la riduzione del lavoro è stata massiccia, mentre il prodotto ha continuato ad aumentare senza sosta, riuscendo a soddisfare gli scriteriati bisogni crescenti di una civiltà dominata dall’imperativo categorico di consumare, consumare ed ancora consumare.
Non è ipotesi fantascientifica immaginare un mondo nel quale il lavoro non sarà necessario ed i beni ed i servizi necessari saranno realizzati dalle macchine e dai robot.
Il problema drammatico sarà costituito dalla distribuzione dei prodotti, venuto meno anche l’uso del denaro o quanto meno del modo per procacciarselo al quale siamo abituati. Ed a complicare ulteriormente il quadro vi è il moloch della globalizzazione, che annulla le decisioni e le volontà non solo dei cittadini, ma degli stessi Stati, impotenti davanti al potere cieco delle multinazionali.
Potremo in futuro, quanto prima, liberarci dal fardello del lavoro, ma dovremo affrontare e risolvere una serie di non facili problemi: distribuire equamente la ricchezza e creare una reale uguaglianza tra nazioni e cittadini.
Un compito arduo ed affascinante che dovrà essere l’obiettivo delle nuove generazioni.

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Giustizia addio

L’arrugginita macchina della giustizia rischia letteralmente di esplodere ed in questi ultimi giorni ha esalato gli ultimi rantoli disperati.
Tribunale civile: “ Per esigenze d’ufficio la data della prima udienza è differita al 15 febbraio 2012!”. Cassazione:” Occupare case altrui non è reato se si agisce in stato di necessità”. E tutto questo mentre Gip e pubblici ministeri fanno a gara per apparire… tra interviste con divulgazione di atti riservati e continue comparsate a tutte le ore sulle reti televisive.
Tenuto conto che la durata media dei processi civili ed amministrativi si misura in decenni, che i responsabili dei reati penali di più elevato allarme sociale come furti e rapine nel 90% dei casi non vengono identificati e quando anche lo sono, tra lungaggini, attenuanti, indulti e patteggiamenti solo in casi eccezionali trascorrono un po’ di tempo in galera, sarebbe opportuno e coraggioso che si dichiarasse bancarotta.
Le liti civili potrebbero essere risolte con gli arbitrati e per il penale potrebbe ripristinarsi l’uso della faida. Già oggi per le controversie in denaro ci si rivolge sempre più alle camere di conciliazione e per i torti più gravi in metà del Paese si chiede soddisfazione ai mammasantissima.
Solo per carità di patria non abbiamo accennato alle motivazioni delle sentenze di centinaia di pagine dal linguaggio aulico e forbito come nell’Ottocento, quando la stesura era un genere letterario ed alla possibilità per i cittadini di ottenere dallo Stato una penale di mille euro per ogni anno trascorso dopo i cinque in un processo, da quando le Corti di Giustizia europee hanno ripetutamente stigmatizzato il funzionamento della nostra magistratura.
La colpa dello sfascio va equamente distribuita tra politici e giudici, ma anche i cittadini hanno la loro parte, sia perché tollerano questo andazzo vergognoso che per la loro proverbiale litigiosità (In Inghilterra nel 2006 sono state trattate 110.000 cause penali e 40.000 civili, mentre in Italia siamo sui 4 milioni).

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Il lavoro precario: maledizione o necessità

Il lavoro precario è una maledizione per i giovani, i quali non hanno più punti fermi che permettano di fare progetti per il futuro: formarsi una famiglia, fare dei figli, comprarsi una casa con un mutuo, godere un domani della pensione.
Nei giorni scorsi anche il Papa ha fatto sentire la sua autorevole voce sul problema, ma purtroppo, più che lamentarsi del fenomeno, non è riuscito ad avanzare alcuna proposta risolutiva.
Molti credono che il lavoro precario sia una triste prerogativa dell’Italia, viceversa esso è una regola in tutti i paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti, dove la estrema mobilità del lavoro è considerata la ricetta dello sviluppo economico.
La scuola fino a quando il problema non avrà trovato una soluzione dovrà impegnarsi a fornire ai giovani una preparazione multidisciplinare, in previsione che, nel corso della vita, siano costretti più di una volta a cambiare completamente tipo di attività.
Lo Stato ed i sindacati devono impegnarsi ad elaborare e rispettare una legislazione che preveda la possibilità reale di licenziamento per giusta causa, allo scopo di sfatare il pregiudizio(in gran parte vero) che un datore di lavoro che assuma un dipendente lo debba assumere a vita. Bisogna convincersi che una strenua difesa del lavoro comporta una palpabile penalizzazione per chi lo cerca.
Gli economisti debbono spiegarci se la precarietà è una condizione favorevole dello sviluppo economico e prospettarci modelli alternativi, nei quali un maggiore rispetto dei diritti del lavoratore sia compatibile con un incremento della produzione.
I politici debbono recepire la gravità del problema e, coraggiosamente, proporre soluzioni anche contro i poteri forti, spesso sopranazionali e sempre onnipotenti. Il loro compito è il più gravoso e necessita di un grosso appoggio per evitare il senso di solitudine delle scelte decisive, in mancanza delle quali non esisterà un futuro, non solo per i giovani, ma per la nostra civiltà.

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Santità, a Maronna ci accompagni

Santità, Voi non avete consuetudine con il male, per questo non lo avete riconosciuto annidato nelle prime file in piazza del Plebiscito, tra politici corrotti e baciapile occasionali in gara per ricevere il sacramento dell’Eucarestia. Non Vi siete avveduto del truce filisteo, abituale adoratore del vitello d’oro, sceso dal Nord per l’ostia televisiva, della voce quequera che chiedeva insistentemente denaro per una sfortunata città, che ne ha sì bisogno, ma solo dopo un profondo rinnovamento spirituale, oppure l’ateo inveterato, nemico giurato della Chiesa salvo che nelle occasioni eccezionali. Ed alle loro spalle premevano per il rito del baciamano eurotelevisivo amministratori corrotti, malversatori abituali, usurai incalliti, bestemmiatori immarcescibili e tutta quella feccia che ha portato la Regione sul fondo del baratro.
Per l’occasione hanno ripulito il Vostro percorso, tolto cumuli di puteolente spazzatura, colmato voragini nelle strade, allontanato per poche ore scippatori e spacciatori, truculenti magnaccia e sguaiate prostitute.
In seconda fila vi era la Napoli vera che non Vi hanno fatto conoscere: i disoccupati cronici, i giovani senza futuro, i pensionati alla fame, i commercianti strangolati dal pizzo, i lavoratori al nero per 500 euro al mese, ma soprattutto la folla degli onesti, costretti in un angolo dalla prepotenza dei vincitori.
Santità, Voi non avete potuto raccogliere il disperato grido di dolore degli abitanti delle periferie degradate, vedere le antiche chiese cadere in rovina, gli abusi edilizi ubiquitari, l’esercizio spietato della prevaricazione come regola di vita.
Santità, grazie per aver indicato la possibilità per Napoli di divenire punto di riferimento nel dialogo tra popoli e fedi diverse, Napoli, antica e gloriosa capitale, costretta al rango di capitale della monnezza e della malavita, Napoli dove per millenni lingue e culture aliene hanno sempre goduto di accoglienza e tolleranza.
Santità, Voi non ne avete bisogno, fate che l’augurio del Cardinale: "'A Maronna t’accumpagna” sia viatico per i napoletani nel lungo viaggio dal buio delle tenebre verso la Luce.

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La cintura di castità

La verginità è stata ritenuta spesso un bene così prezioso da richiedere di essere difeso strenuamente con tutti i mezzi; da questa cultura nasce l’idea della cintura di castità, la quale con ogni probabilità fu inventata da alcuni sacerdoti stregoni africani per preservare questo dettaglio… così importante dagli assalti di giovani di poca fede e di molto ardore e di proteggere nello stesso tempo le stesse vergini.
In seguito questo strumento è servito ai gelosi per interdire alle donne ogni soddisfacimento erotico al di fuori di quello legittimo.
Esso era sconosciuto a Greci e Romani e giunge in Europa dall’Oriente, dove era pervenuto dall’Africa, luogo dove la pratica era stata perfezionata dall’infibulazione, una sorta di cintura di castità perenne, che veniva, e purtroppo ancora oggi, viene infranta, al momento opportuno, con la lama di un coltello.
La prima descrizione della cintura di castità compare in un manoscritto del 1405, scritto da un militare di nome Kaiser e conservato nella biblioteca dell’università di Gottinga. Il più vecchio strumento, chiamato Bellifortis, di manifattura fiorentina, fu adoperato da Francesco II di Carrara, che fu tiranno di Padova, anzi da sua moglie, che le cronache descrivono di conturbante bellezza, mentre il coniuge pare fosse particolarmente racchio. Per chi volesse osservarlo da vicino basta una visita nel museo del Palazzo dei Dogi di Venezia dove è in bella mostra.
Dopo aver preservato la verginità delle giovani africane e salvato dalle corna i signorotti medioevali partiti per le crociate, essa ha subito una raffinata evoluzione psicologica nella letteratura erotica. Dopo essere stata citata in diversi testi dalla Vita delle donne galanti del Brantone alla celebre Satira sotodica di Luisa Sigea nella Histoire d’O si perviene ad un’evoluzione dell’erotismo ed il mito della cintura di castità oltrepassa lo stadio di una rozza e grottesca tutela meccanica di un organo anatomico considerato dal marito o dall’amante come un bene riservatissimo al quale applicare un cancello per vietare l’ingresso agli estranei, per evolvere nell’ambito egualmente folle, ma assai più sottile, di una dimensione sado masochistica in cui uno dei componenti della coppia, attraverso l’applicazione dolorosa, ma più che altro simbolica di strumenti meccanici alle parti più segrete del proprio corpo, sollecita l’ambito riconoscimento di una schiavitù amorosa e di un annullamento totale del suo essere in quanto entità autonoma, fenomeno già da tempo verificatosi sul piano psichico.
Una curiosità a pochi nota è che più tardi, in epoca vittoriana, la cintura di castità, fino ad allora imposta unicamente alle donne, divenne di uso comune anche tra gli uomini per impedire loro la pratica della masturbazione che si riteneva causasse cecità, follia e morte.
Ai giorni nostri l’uso della cintura di castità sta vivendo un periodo di rinascita principalmente, ma non solo, negli ambienti sado maso perché aiuta a celebrarne i riti di sottomissione e possesso.
Su internet si sprecano i forum di discussione e i siti di vendita, come Tollyboy, leader del settore che ha studiato una versione high tech dell’antica corazza, da fabbricarsi su misura a seconda la taglia e le esigenze personali, o come Mario Latowski, che ha progettato una mutanda anatomica in ferro. Ed addirittura esiste in commercio una mutandina bisex, dotata di sensori sensibilissimi, in grado di segnalare il tempo durante il quale non è stata a contatto col corpo; per periodi troppo lunghi sarà difficile presentare come stitichezza al partner geloso una scappatella in piena regola.
Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio la lettura del mio libro La frigidità e la verginità nella donna.

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L’occhio specchio dell’anima

Nel corso della vita ci confrontiamo con migliaia di occhi che ci fissano, imparare a dominarli è la segreta ricetta per forgiare una personalità vincente.
Da ragazzo debbo aver appreso spontaneamente questa facoltà, che a lungo ho allenato fissando profondamente negli occhi non solo l’interlocutore, ma anche l’occasionale compagno di viaggio incontrato nel pullman o nel treno. I risultati furono subito eclatanti: nessuno riusciva a reggere il mio sguardo e per primo abbassava il suo, come ad accettare una personalità dominante.
In mezzo secolo mi sono imbattuto in miriadi di sguardi più o meno penetranti, da quelli severi dei docenti a quelli boriosi e beceri dei magistrati, inquirenti e giudicanti, nei quali mi sono imbattuto, impietosi come gli occhi di tigre dei rapinatori incappucciati più volte incrociati nel mio studio; senza però trascurare quelli più accattivanti delle tante fanciulle di tutte le età con le quali sono entrato in rotta di collisione: trasognati, languidi, invitanti, sprezzanti, complici, alteri, devastanti.
Tra tante tre immagini sono rimaste indelebili nella mia memoria e spesso le rimembro, sguardi a confronto dei quali ho dovuto timidamente abbassare il mio.
Il primo, magnetico quanto irresistibile, è quello di Nureyev, il grande ballerino tartaro, inseguito per anni per mezzo mondo, dal Covent Garden al Lido ed infine raggiunto al Teatro Grande di Pompei in una delle sue ultime esibizioni. Ebbi la fortuna di due poltrone in prima fila e la ventura di incrociare per pochi interminabili secondi le sue pupille di fuoco: un brivido mi percorse scuotendomi le ossa per il luccicore incandescente che emanava dal suo volto di ghiaccio, avvinghiando chiunque osasse incrociarne la vista.
La seconda immagine non è umana, ma altrettanto sterminatrice ed ammaliante. Il proprietario è un gorilla dello zoo di New York, situato nel profondo Bronx e tra i più grandi del mondo. In un grande recinto vi erano decine di esemplari, quasi tutti imparentati tra di loro e dei quali gli studiosi, dopo un’attenta osservazione durata decenni avevano identificato attitudini e preferenze, concludendo che si trattava di soggetti socievoli ed intelligenti. Ma resistere agli occhi di Bongo era praticamente impossibile, molti tentarono l’impresa, ma nessuno ci riuscì per più di pochi secondi. Io rimasi letteralmente folgorato ed ancora penso che volesse dirmi qualcosa di importante.
Il terzo sguardo è quello di Luca Coscioni, paralizzato completamente e, come è noto, costretto a parlare grazie ad un computer con sintetizzatore vocale azionato dall’ultimo dito che riusciva a muovere. Con voce metallica e già oltretombale ci arringò ad un congresso del partito radicale; parole lapidee che furono accolte da una standing ovation di oltre 15 minuti, un’eternità durante la quale tutti noi ci avvicinammo alla sua poltrona per applaudirlo e per fissare i suoi occhi imploranti, eloquenti e convincenti più di qualsiasi discorso e dai quali ho ricevuto un testamento ideale da portare a termine, una battaglia in favore della libertà di ricerca scientifica e per l’utilizzo delle cellule staminali, nonostante Pannella con le sue corbellerie e le sue prevaricazioni abbia distrutto anni di appassionate battaglie.

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Bisogna salvare il San Carlo

Premetto che non sono un melomane, anzi rammento con angoscia gli anni in cui ero abbonato alla prima del San Carlo, con il caldo soffocante degli spettacoli primaverili, obbligato alla giacca ed alla cravatta ed ancor più con terrore i conti astronomici delle sartorie che rifornivano il guardaroba di mia moglie, convinta che nel tempio della lirica alle serate di gala una signora elegante non potesse giammai indossare due volte lo stesso abito.
Nonostante i tristi ricordi l’idea che il San Carlo possa chiudere mi fa semplicemente rabbrividire, non soltanto perché il nostro teatro è il più antico e tra i più belli al mondo, ma soprattutto, dopo l’olocausto dell’Ilva e la rapina del Banco di Napoli, la
nostra città non può più perder fiori all’occhiello.
Erano tempi felici quando in soli sei mesi il San Carlo venne creato dal nulla, regnava Carlo III e non i nostri solerti amministratori che, con la favola del nuovo Rinascimento, hanno precipitato la nostra amata città a livelli di degrado inimmaginabili.
Il nostro Massimo, come tutti gli altri enti lirici italiani, soffre di una grave crisi economica provocata da numerosi fattori concomitanti e necessita dell’aiuto principalmente delle istituzioni, mancando quasi del tutto alle nostre latitudini il sostegno di sponsor privati. Né più né meno di quello che lo Stato ha fatto in soccorso di teatri meno importanti.
La lirica non può essere paragonata, come si è letto nei giorni scorsi su autorevoli giornali, alla lap dance o al gioco del calcio; affermazioni demenziali che si commentano da sole. La musica classica è cultura come la letteratura e la pittura e come le biblioteche, del tutto gratuite ed i musei deve poter vivere degnamente con l’aiuto dello Stato.
Si è messo in evidenza che lo spettatore di un’opera paga un biglietto che copre solo la decima parte dei costi, un dettaglio certamente non trascurabile. Non si può pretendere che il contribuente paghi il passatempo del ricco borghese e della sua signora, per cui quando, al più presto, ripianati i debiti, si potrà tornare ad una gestione ordinaria, bisognerà prevedere una serie di spettacoli semi gratuiti per studenti, operai, anziani, oltre che una particolare attenzione per i turisti, nei cui riguardi il fascino del San Carlo può giocare un ruolo fondamentale.
Per risanare la situazione bisogna cacciare i politici che hanno occupato il consiglio di amministrazione e poi usufruire dei servigi di un manager di valore internazionale.
Lo merita la città, ma soprattutto lo pretendono i napoletani.

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La seduzione dopo gli anta

Durante l’estate un libro di Januaria Piromallo Belle e d’annata ha furoreggiato dalle Alpi alla Sicilia in un’interminabile serie di affollate presentazioni da Capri a Cortina d’Ampezzo. Nell’agile volumetto vengono elargiti una serie di consigli per contrastare l’avanzata implacabile del tempo, un vero e proprio manuale di sopravvivenza per signore d’annata in lotta con rughe, cellulite e cedimenti vari e tremendamente ansiose che gli sguardi dei mariti convergano sempre più frequentemente verso le grazie generosamente esposte di ventenni in libera uscita.
Vengono sviscerati i segreti di creme miracolose ed enumerati i prodigi della chirurgia plastica, tutti rimedi che agiscono sull’aspetto fisico della donna, ma viene completamente trascurato l’aspetto psicologico della vicenda, che a mio parere può costituire l’asso nella manica.
Oggi la donna è sempre più aggressiva nei confronti del maschio, sia nei rapporti quotidiani, sia nell’approccio sessuale, una vera iattura che ha conseguenze nefaste sull’ardore e sulla virilità.
Una sana condotta che potrebbe dare buoni risultati è divenire col tempo sempre più remissive, dolci ed accattivanti. Lasciare alle ragazzine spavalderia e sfacciataggine e coltivare intensamente l’arte della carezza, la parola suadente e le glorie della culinaria.
La battaglia con le giovanissime sul piano della avvenenza fisica è irrimediabilmente perduto, colpa del nostro Dna, che impone categoricamente ai maschi di cercare le proprietarie di cromosomi nel pieno dell’attività, ma grazie a raffinate tecniche di seduzione, improntate sulla remissione e su una femminilità accomodante, le prede per le signore d’annata saranno numerose ed affezionate.

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Un triste primato

La fine drammatica di un nostro soldato, originario di Gragnano, nell’inferno dell’Afghanistan ha riproposto una dolorosa circostanza alla quale i mass media, impegnati tra la cronaca delle serate di miss Italia e la difficile gestazione del Pd, non dedicano mai attenzione: la Campania fornisce oltre la metà delle reclute dell’esercito ed ha il più alto numero di reduci e di vedove di guerra, opps abbiamo sbagliato, di missioni di pace….
Un triste primato, specchio fedele delle drammatiche prospettive di lavoro dei giovani meridionali, ai quali oramai da tempo riesce difficile perfino guadagnarsi da vivere dietro al bancone di un bar o al nero, dieci ore al giorno, in un cantiere fuori legge.
Se prima con la leva obbligatoria i giovani cercavano ogni sotterfugio per evitare la naia, oggi il miraggio di uno stipendio fa fare salti mortali e file notturne per presentare la domanda di arruolamento.
Una serie interminabile di missioni di pace… Libano, Somalia, Bosnia, Kosovo, Irak, Afghanistan, che permettono ad una miriade di disperati, originari di terre feraci rese aride dalla camorra, di Villaricca o di Qualiano, di Casavatore o di Frattamaggiore di sperare di poter realizzare un gruzzoletto e tornati a casa aprire un bar o poter coronare un sogno d’amore rimandato all’infinito per motivi economici.
Il nostro Lorenzo purtroppo il suo pegno d’amore con la madre dei suoi tre figlioletti lo ha potuto perfezionare soltanto con un allucinante matrimonio in articolo mortis, giusto per poter avere la pensione, dopo aver sacrificato vita e giovinezza alla furia devastante delle missioni di pace…

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Un fontana illustre e dimenticata

Il popolino napoletano l’ha sempre chiamata affettuosamente la Fontana delle zizze , per l’acqua che nei secoli sgorgava copiosa dai capezzoli delle graziose mammelle della splendida sirena alata che domina il monumento.
Rintracciare oggi questa fontana, sita in una stradina limitrofa all’università, è impresa ardua, perché gli stessi abitanti della zona non ne conoscono esattamente l’ubicazione, dal titolare del bar al parcheggiatore abusivo, dalla vasciaiola al garzone della spesa, tutti vagamente ne hanno sentito parlare, ma poi indirizzano erroneamente verso la vicina fontana sita in piazzetta Grande archivio. Il motivo dell’equivoco è banale, tutti quando riferiscono di averne sentito parlare si confondono con le zizze, ma quelle vere, non quelle eterne ed impassibili dell’omonima fontana, la cui memoria storica è andata smarrita.
La costruzione della fontana si perde nella notte dei tempi, infatti il Celano la colloca nel 1139, mentre la Platea delle acque del 1498 ci informa che da tempo in quel luogo sorgeva una fontanina alimentata dalle acque del pozzo di san Marcellino, ma è con don Pedro da Toledo, il benemerito viceré di Napoli, che il monumento prende la forma attuale, probabilmente ad opera dell’architetto Giovanni Merliano. Al centro della composizione è rappresentato il Vesuvio eruttante alla cui furia devastatrice si oppone il latte mellifluo secreto dalle generose mammelle della sirena, come si evinceva chiaramente da una scritta, citata dalle fonti e da tempo scomparsa: Deum Vesuvii siren incendia mulcet, a significare che la bellezza di Napoli, ben rappresentata dalla sinuosa Partenope è l’unica forza che può opporsi alle fiamme iraconde dello scontroso vulcano. Una idrica e pettoruta grazia ammaliatrice potente almeno quanto il carisma di san Gennaro.
La sirena, archetipo eterno della bellezza femminile, creatura fascinosa dalla potente seduzione, evoca con il suo prorompente seno nudo una pacata sensazione di tranquillità e ci trascina indietro nel tempo a temi ed immagini del mondo pagano, un imprinting genetico che ha marcato indelebilmente il Dna dei napoletani.

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ll miglior amico dell’uomo

Non avrei mai potuto immaginare che l’arrivo in casa mia di una cucciola di rottweiler, regalo di una ragazza a mio figlio, potesse cambiare negli anni così profondamente non solo la mia vita, ma soprattutto il modo di relazionarmi col mondo ed il mio metro di giudizio del prossimo.
Era il 1994 ed avevo sempre avuto un sacro terrore dei cani da quando, giovanissimo, avevo trascorso un’intera notte sul tetto di un’auto per sfuggire alla furia di un randagio di grosse dimensioni e anche altri incontri ravvicinati non erano stati particolarmente felici, per cui non accolsi con entusiasmo l’ingresso in famiglia di un esemplare, per quanto di pochi mesi, di una razza notoriamente feroce.
Lady fu relegata nel sottoscala ed abbaiava disperata durante le poche visite che gli dedicavamo; decidemmo di trasferirla in giardino, ma i rigori dell’inverno contribuirono a farla ammalare e fu necessario il ricovero: cimurro fu la diagnosi e la prognosi purtroppo riservata.
Partimmo per Roccaraso, ma ogni sera telefonavo alla clinica veterinaria per avere notizie, che peggioravano giorno dopo giorno, fino a quando mi dissero:”Non vi è più speranza, interrompiamo la terapia? ”
“Assolutamente no, se esiste un dio dei cani la aiuterà”.
Ed il miracolo… avvenne, durante la notte Lady ebbe un miglioramento decisivo ed il giorno successivo potemmo andare a riprenderla completamente guarita.
La nostra famiglia da quel giorno divenne più numerosa e con Lady stabilimmo un’intesa perfetta: mangiava a tavola con noi, un boccone a me ed uno a lei e dormiva la notte al mio fianco su di un variopinto tappetino persiano.
Capiva ogni mio pensiero e quando ero di cattivo umore si accoccolava vicino e rimaneva immobile.
Divenuta signorina la feci accoppiare con un cane campione: Shark e nacquero nove cucciolotti, per il poco latte uno soltanto sopravvisse, Athos, che divenne il suo compagno inseparabile.
Durante i periodi di calore, per impedire nuove gravidanze, Lady passava la giornata con me nello studio e solo la sera, attraverso un’entrata di servizio, tornava a casa, rimanendo sempre a distanza di sicurezza dall’ardore sessuale di Athos.
Nonostante i miei severi controlli censori ad un certo momento il suo addome cominciò a crescere e condussi la cagna dal veterinario, il quale perentorio dichiarò:” Si tratta di una gravidanza immaginaria nella pancia vi sono semplicemente dei gas”.
Sapendo che i medici in genere poco capiscono sottoposi Lady ad un’ecografia nel mio studio e non mi meravigliai più di tanto nel vedere una serie di piccole colonne vertebrali intrecciate tra di loro.
Facemmo appena in tempo a rincasare che cominciò il travaglio e questa volta i nuovi abitanti della terra furono sei, quattro dei quali arrivarono a tre mesi. Erano magnifici, scorazzavano nel giardino della villa di Ischia con i genitori, ma nonostante tutte le vaccinazioni, un brutto giorno contrassero la parvo virosi, una malattia che raramente perdona e cominciò un calvario durato quasi venti giorni. Era necessario sottoporre i cuccioli ad ipodermoclisi tre volte al dì, per cui ogni giorno la spola da casa al veterinario avveniva dodici volte. Il compito sulle mie spalle e su quelle del fido cameriere autista Alcindo. Dopo una settimana morì il primo cucciolo, seguito dopo tre giorni dal secondo e dopo cinque dal terzo; resisteva solo Porthos, anche se le speranze erano ridotte al lumicino. Passati diciotto giorni il cane cominciò a bere e l’indomani ad alimentarsi, era guarito.
Dopo tanti sacrifici e quattro milioni di spese, mia moglie pensava ancora che io regalassi il cucciolo, ma oramai non potevo più separarmi da lui.
Ci furono mesi di diverbi continui, durante i quali Porthos visse con me nello studio, che subì una devastazione in piena regola, dalle tende ai tappeti. Durante i fine settimana veniva a trovare i genitori, ma il lunedì di nuovo via, fino a quando Elvira, resasi conto di quanto io tenessi al cane, acconsentì al suo definitivo ingresso in casa nostra. Furono anni di grande impegno: tre cani di quella razza fanno branco e sono difficili da gestire, soprattutto d’estate, quando per trasferirli ad Ischia era necessario fare tre trasporti in auto all’andata e tre al ritorno. Anche i nostri viaggi, fino allora frequenti, si interruppero, perché la mia costante presenza era necessaria. Ma le soddisfazioni, almeno per me furono altrettanto grandi. I tre cani erano temuti ed ammirati da tutti e con la sola presenza e qualche sporadica abbaiata facevano la guardia alla nostra villa, tenendo alla larga in egual misura malintenzionati e visitatori inopportuni.
L’ansia, i momenti di solitudine, la tristezza venivano mitigati dalla presenza affettuosa di questi veri ed unici amici dell’uomo. Tutti possono tradirti, dalle donne ai figli, ma il cane sarà sempre al tuo fianco e la sua fedeltà aumenterà nel tempo a dismisura, senza che quasi tu te ne avveda, come un fiume che acquista potenza nei pressi di una cascata.
Furono anni felici, ma il tempo degli animali scorre più velocemente di quello degli uomini e Lady, dopo aver imbiancato i peli del muso, si ammalò di piometra e fu necessario sottoporla ad un intervento chirurgico. Il decorso post operatorio fu difficile e necessitò un ricovero in una clinica veterinaria, dove giunse in condizioni disperate. Rimase degente per vari giorni, durante i quali non la lasciai sola un minuto, né di giorno, né di notte. Tra i medici che si alternavano al suo capezzale ve ne fu anche uno arabo, che riconobbe in essa la cagna miracolata dieci anni prima ed ancora ricordava la mia frase sul dio dei cani. Per quanto islamico aveva meditato più volte negli anni sulle mie parole e mi invitò anche questa volta ad invocare questa sconosciuta quanto potente divinità.
Dopo una settimana Lady guarì e potemmo tornare a casa. I veterinari riconobbero che la guarigione era avvenuta grazie alla mia costante presenza: i cani malati quando si vedono abbandonati dai padroni in un ambiente estraneo si lasciano quasi sempre morire.
Purtroppo dopo un anno, oltre all’incalzare dell’età, la vecchia infezione si ripresentò, questa volta in maniera subdola: ricominciò l’andirivieni quotidiano con la clinica, le fleboclisi, ma non ci fu niente da fare, mentre eravamo tutti a tavola, Lady, con un rantolo soffocato, ci lasciò per sempre.
Il mio dolore fu immenso, versai lacrime in misura superiore a quando avevo perso i miei genitori ed il vuoto che si è creato è rimasto incolmabile a distanza di anni. Mi rimanevano gli altri due cani, che da quel giorno non fecero che litigare, costringendomi a tenerli separati.
Athos da tempo zoppicava e non era più il capobranco vigoroso di una volta, Porthos ne approfittava attaccandolo spesso alle spalle, per rifarsi degli anni in cui era stato succube.
A distanza di un anno e mezzo, mentre eravamo ad Ischia, in pochi giorni si aggravò e si spense dopo una notte di guaiti disperati. Ora riposa lì, lontano da Lady, con un ibiscus che gli fa compagnia.
Rimasto solo Porthos, che era stato sempre di una vivacità devastante, divenne triste e melanconico. Passava gran parte della giornata al mio fianco, mentre lavoravo al computer e per ore gli carezzavo amorevolmente la testa.
Non aveva alcun disturbo, per cui quando una mattina di un giorno che vorrei non fosse mai scoccato lo trovai disteso immobile vicino all’ingresso di casa, credevo dormisse beato. Invece la morte lo aveva ghermito nel sonno all’improvviso e se lo era portato via. L’unico conforto quello di riposare per sempre al fianco della mamma tra i fiori del mio giardino.
Non riesco ragionevolmente a credere che di questi miei amici sia rimasto solo il ricordo che porterò per sempre nel mio cuore, mentre i loro corpi hanno subito il triste destino di tutti i viventi: il disfacimento.
Tra i credenti gli induisti si dimostrano meno orgogliosi dei cristiani, che nella loro smisurata superbia immaginano un mondo ultraterreno soltanto per gli uomini, mentre i loro fratelli orientali riconoscono, attraverso la reincarnazione, un percorso di purificazione per tutti i viventi senza esclusione alcuna, inclusi animali e piante. Si tratta senza dubbio di una visione più rassicurante dettata da un’antica saggezza e nello stesso tempo di sconvolgente attualità, come hanno confermato le moderne ricerche della chimica e della fisica.
Mi piace immaginare che anche ai più fedeli amici dell’uomo sia concesso di vivere in eterno e non solo nella memoria dei loro padroni.
Certamente Lady vivrà per sempre nel mio cuore, Athos, un vero amico, non sarà mai da me dimenticato, soprattutto ora che, scomparso Porthos, sono veramente solo.

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L’elemosina in occidente nel XXI secolo

La nostra civiltà, e non solo la nostra, riconoscono all’elemosina un significato fondamentale, per i cristiani esercitare la carità verso il prossimo è un bisogno dello spirito ed un mezzo per raggiungere la salvezza e la vita eterna, per i laici un tentativo di redistribuzione della ricchezza ed una parziale risposta della società al problema della povertà.
Tutte le religioni impongono ai propri seguaci l’obbligo di venire incontro ai bisogni dei meno fortunati, la Carità dei cristiani poco differisce dallo Zakat dei mussulmani, uno dei pilastri della fede islamica.
Il comunismo si è illuso di poter risolvere le disuguaglianze economiche tra gli uomini, ma il suo fallimento è sotto gli occhi di tutti e fino a quando esisterà la povertà è dovere di ogni uomo di buona volontà cercare di porvi rimedio.
Naturalmente vi è una differenza abissale tra chiedere l’elemosina o cercare di estorcere denaro con protervia ed arroganza, come è il caso dei parcheggiatori abusivi o dei lavavetri. E questa distinzione, chiara ed inequivocabile, va sottolineata con forza, per togliere fiato ed argomentazione ai soliti bastian contrari, sorti come funghi e dediti a proclamare sempre e soltanto il contrario di tutto.
Il velleitario tentativo di sindaci coraggiosi di stroncare un racket vergognoso va plaudito e compito dei cittadini è quello di collaborare, facendo confluire il proprio aiuto verso istituti assistenziali specializzati ed affidabili.
Prima che l’Italia divenga la terra promessa dei diseredati di tutto il mondo ed una marea incontenibile ci travolga.

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Bentornata Piedigrotta

Finalmente, dopo decenni di oblio, torna la Piedigrotta e soprattutto tornano i carri, resi mitici dalle feste organizzate durante il regno di Achille Lauro dal mitico assessore Limoncelli, che seppe far ritornare all'antico splendore la celebre ricorrenza, organizzando memorabili manifestazioni che duravano fino a quindici giorni.
Durante il passaggio dei mastodontici carri allegorici era permesso un po' di tutto: urlare, sbracciarsi, calare coppoloni in testa a tipi soggetti, esercitare vigorosamente la mano morta su sederi di tutte le età, pur senza trascurare eventuali seni generosamente esposti, dimenticando così le angustie quotidiane. L'antico spirito greco della manifestazione, nata tra venerazioni priapiche e sfrenate danze liberatorie, sembrava rivivere nel popolo festoso, esaltando lo spirito trasgressivo e godereccio dei napoletani.
Sembrano tempi distanti anni luce, invece è cronaca degli anni Cinquanta, i giovani non conoscono la Piedigrotta, ma il suo spirito è immortale e può divampare di nuovo per la gioia dei napoletani e per il nostro boccheggiante turismo. Ai tempi del vituperato Comandante il calendario delle manifestazioni, ad uso dei forestieri, ma progettato per i gusti degli indigeni, andava da aprile ad ottobre, costringendo pure i rinomati miracoli di San Gennaro a rientrare nei festeggiamenti e riesumando inoltre antiche tradizioni da quella del Monacone a quella della Madonna del Carmine.

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Totò il principe surrealista

Il genio di Totò è universale ed incommensurabile, ma la sua fama è sempre stata circoscritta ai confini patri, colpa di una critica miope, quando l’attore era in attività, di traduzioni e doppiaggi a dir poco deleteri e di una distribuzione all’estero maldestra ed approssimativa.
Negli ultimi anni grandi rassegne in Europa ed oltreoceano sui suoi film più celebri hanno in parte colmato questa grave lacuna, ma forse è troppo tardi per portare in tutto il mondo il suo umorismo straripante, la sua figura dinoccoluta, la sua maschera comica e tragica allo stesso tempo, degna della fama e dell’immortalità di un archetipo greco. Il ritmo dei suoi film mostra i segni del tempo, né più né meno della produzione di mitici personaggi come Chaplin o Gianni e Pinotto ed è un peccato che dalla sua immutata vitalità possano continuare a trarre linfa vitale solo gli Italiani e pochi altri.
Il Totò surreale che si esprime già nei suoi film più antichi e nel suo teatro, del quale purtroppo non è rimasta che una labile traccia, è stata sottovalutata anche dalla critica più attenta. Nei trattati di cinematografia infatti si parla soltanto di Bunuel e delle sue impeccabili creazioni e non vi è un solo rigo sul funambolismo verbale di Totò, che avrebbe fatto impazzire i fondatori del surrealismo, i quali avrebbero sicuramente incluso qualcuna delle sue battute nel Manifesto del nuovo verbo.
I due orfanelli, uno dei suoi primi film, in coppia con Campanini, ne è la lampante dimostrazione. L’altro giorno è stato messo in onda dalla televisione ed ho potuto gustarlo credo per la centesima volta. Quelle sue battute al fulmicotone, immerse in un’atmosfera onirica, cariche di antica saggezza invitano alla meditazione ed acquistano smalto ed attualità col passare del tempo. Sono degne di un’antologia da studiare in tutte le scuole. Ne rammento qualcuna per la gioia della sterminata platea dei suoi ammiratori:
Ai generosi cavalieri corsi a salvarlo nelle vesti di Napoleone.
“Ma quando mai coloro che provocano le guerre corrono dei pericoli”
All’amico che gli manifestava stupore nel constatare che i cattivi vengono premiati ed i buoni vengono castigati.
“Ma di cosa ti preoccupi la vita è un sogno”
Ed infine all’abate Faria che lo invitava a scappare
“Ma perché debbo scappare, sono innocente”
“Proprio perché sei innocente devi avere paura della giustizia!”
Una frase scultorea che ho fatto mia di recente, mentre moderavo la presentazione di un libro in presenza di magistrati di altissimo rango e che mi ha permesso di fare un figurone.

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Eureka l’onore è salvo

Otto agosto ore dieci, 40 gradi all’ombra, mi appresto ad entrare nel Tribunale di Napoli al centro direzionale per ritirare un documento, ma vengo bloccato dal drappello di polizia che giudica indecente il mio abbigliamento.
Premetto che l’indumento incriminato è un elegante calzoncino, griffatissimo ed ultrafirmato, abbondantemente oltre il ginocchio, con il quale abitualmente entro in chiesa, stipulo presso notai contratti da milioni di euro e, lo confesso, ricevo sguardi interessati da focose fanciulle e da attempate signore.
Chiedo di parlare col comandante, ma mi viene riferito che trattasi di un’ordinanza firmata dal presidente del Tribunale in persona.
Non mi scoraggio, nonostante sia venuto da fuori Napoli e riesco, in cambio di un bigliettone, a convincere un corpulento garzone a chiudersi nella toilette ed a prestarmi il suo pantalone, per quanto imbrattato e rattoppato.
Mi ripresento all’ingresso ed osservo una straripante popolana entrare senza problemi in calzoncini, segno evidente che le sue gambe sono giudicabili in maniera diversa dalle mie. Grazie al maleodorante pantalone imprestatomi riesco finalmente ad entrare ed a ritirare l’agognato documento.
L’episodio sembra irrilevante, ma a mio parere è di una gravità inaudita. Vietare l’accesso ad un ufficio pubblico e sindacare l’abbigliamento dei cittadini è prerogativa dei paesi islamici più arretrati, dove i talebani si arrogano il potere di obbligare gli uomini a farsi crescere la barba e le donne ad indossare il burka. Ma forse i magistrati, stanchi di giudicare solo i comportamenti dei cittadini, vogliono anche pontificare sui loro abbigliamenti, confondendo il decoro di un’istituzione, che si misura in efficienza nel contrastare una delinquenza oramai padrona del territorio, con i centimetri dei calzoncini maschili.

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Il calvario senza fine del condono

L’ufficio trasparenza del comune di Napoli somiglia sinistramente ad un porto delle nebbie, neologismo creato, credo, da Pannella per indicare efficacemente la Procura generale di Roma negli anni Settanta ed Ottanta, gli anni delle stragi e dei misteri d’Italia, quando tutte le inchieste venivano avocate dalla capitale e poscia opportunamente insabbiate.
Un cittadino (il sottoscritto) presenta domanda per poter consultare la sua pratica di condono (n. 11239) il giorno 20 aprile 2007 e candidamente gli viene riferito di ripassare non prima di quaranta giorni. Già un tale lasso di tempo è scandaloso e contrario alla legislazione vigente, ma il cittadino, paziente e timorato dell’autorità, pensa addirittura, per prudenza di far trascorrere ancora dei giorni e si presenta all’ufficio dopo che ne sono trascorsi quasi cento, certo di poter ritirare l’incartamento da consegnare al consulente e pronto al salasso finanziario richiesto dal famelico comune.
Meraviglia, ma non eccessiva, trovandoci a Napoli, cioè nel quarto mondo, l’impiegato con un sorriso consiglia di ripassare fra qualche mese.
Ogni commento è superfluo, mentre perentorio è un invito alla magistratura ad indagare se in tale epicedio dell’amministrazione e delle istituzioni non possano identificarsi ipotesi di reato.

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Piazza 3 ottobre 1839

Da oggi finalmente piazza Garibaldi ha cambiato nome grazie ad un gruppo di cittadini, che esasperati dalle lentezze burocratiche ha fisicamente sovrapposto a quelle del comune targhe nuove di zecca con l’indicazione di piazza 3 ottobre 1839, una data fatidica della storia napoletana che i nostri conquistatori hanno fatto di tutto per farci dimenticare. In quel lontano giorno, prima in Italia e seconda al mondo, sfrecciò la prima ferrovia italiana: la Napoli Portici.
La piazza si è sempre chiamata della Ferrovia, anche se i napoletani preferivano chiamarla da’ stazione. Poi giunse Garibaldi con i piemontesi è la musica cambiò, ma soprattutto cominciò l’opera di falsificazione sistematica della nostra storia.
L’unica possibilità di riscatto e di ripresa per Napoli ed i napoletani è oggi legato alla volontà di riappropriarsi del suo passato glorioso e della nostra identità perduta.
Interminabili furono i record del Regno delle due Sicilie al cospetto di quelli negativi di oggi, da capitale della monnezza a territorio incontrastato della criminalità organizzata.
Un segno tangibile di inversione di tendenza sarebbe quello di cambiare il nome di alcune strade, per cancellare le tracce della colonizzazione piemontese avvenuta con la truffa dell’Unità d’Italia: piazza del Plebiscito dovrebbe tornare al toponimo di Largo di Palazzo, via dei Mille andrebbe mutata in corso Gianbattista Basile, piazza Garibaldi, tolta al famigerato eroe dei due mondi, origine di tutti i nostri guai, va decisamente intitolata al 3 ottobre 1839, giorno dell’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana, la Napoli Portici, mentre il corso Vittorio Emanuele, la prima tangenziale del mondo, aspetta ancora giustizia e la dedica al nome del suo ideatore, Ferdinando II, che la realizzò in poco più di un anno.
Attendere che a ciò provvedano le istituzioni è pura utopia, per cui liberi cittadini hanno voluto provvedere ed hanno scelto il giorno 4 luglio, bicentenario della nascita di Garibaldi.
Tutto il mondo deve sapere che i Napoletani sono gente antica e paziente, ma che in passato ha rifiutato l’Inquisizione e dato i natali a Masaniello, che non vuole recidere le radici col passato e che vuole un futuro migliore.
Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il frangersi del mare sulla scogliera sottostante.
Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la forza dei Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente, del quale ci siamo scocciati e da oggi vogliamo divenire attivi artefici del nostro destino.

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Intervista al principe Emanuele Filiberto

La presenza a Napoli del principe Emanuele Filiberto di Savoia per aprire i lavori di un convegno e la sua squisita cortesia nel concederci un’ampia intervista esclusiva per un pool di emittenti televisive, ci hanno permesso di conoscere un personaggio di notevole spessore, non il giovane rampollo di un’antica dinastia, come vogliono farci credere i settimanali patinati a larga diffusione, bensì un giovane carico di ideali e di voglia di lavorare per realizzare il suo futuro ed i suoi sogni.
L’incontro avviene nella hall di un grande albergo napoletano: sullo sfondo un gigantesco poster sul quale troneggia il Maschio Angioino, in poltrona il principe, elegantissimo in giacca e cravatta nonostante i 35 gradi all’ombra ed il sottoscritto in sandali e camicetta a maniche corte, abbigliamento che si può permettere un intellettuale e che fa pronunciare ad Emanuele Filiberto un sospiro di invidia ed uno spiritoso invito a scambiarsi d’abito.
Lo staff monarchico mi aveva fatto mille raccomandazioni di evitare domande di politica, ma viceversa il principe mi dice subito dopo avermi conosciuto che è pronto ad accettare qualsiasi domanda.
Lei vive da tempo a Roma, come si trova in Italia?
Benissimo e voglio viverci per sempre. Ho atteso tanti anni che cadessero norme anacronistiche che vietavano ai Savoia di tornare in patria. Da bambino avevo una sterminata raccolta di cartoline di tutte le località italiane per conoscere la mia terra lontana, credo che la mia raccolta sia una delle più complete del mondo.
Le capita spesso di venire a Napoli?
Vengo frequentemente nella vostra città per visitarne le bellezze storiche e naturalistiche e perché vi ho molti amici. Sono molto legato a Napoli e mi piange il cuore a vederla ridotta nello stato attuale, a seguito di scelte nefaste del governo che ha prediletto per decenni le regioni del nord.
Napoli è afflitta da mille problemi, ai primi posti criminalità e spazzatura, che hanno da tempo superato i livelli di guardia. Si sente di dare un consiglio, non tanto alle istituzioni che non vogliono ascoltare, bensì ai cittadini, che sono costretti a vivere in questo inferno metropolitano?
Su problemi specifici non ho le conoscenze specialistiche per indicare soluzioni, ma ai napoletani mi sento con tutto il cuore di dare un consiglio: non lasciate la città, amatela con tutte le vostre forze e fate ciascuno il vostro lavoro con onestà, rispettate non tanto le istituzioni quanto il vostro prossimo e state certi verranno giorni migliori.
La situazione politica non solo italiana, ma anche in altre nazioni europee decade giorno dopo giorno ed il clima si fa sempre più pesante, lei crede che l’idea di monarchia, incarnata in una figura al di sopra delle parti che sia il punto di riferimento della nazione possa avere un futuro?
Certamente, l’idea di monarchia è eterna ed universale e la dimostrazione lampante è costituita dal fatto che le nazioni europee che funzionano meglio, a parte i paesi scandinavi, sedi storiche di antiche monarchie, siano la Spagna e l’Inghilterra, dove i sovrani sono molto amati dal popolo, perché sono visti chiaramente al di sopra delle parti.
Napoli, antica e gloriosa capitale, è passata dai Borbone ai Savoia, creando una rivalità che ha generato nei secoli recriminazioni, amarezze e rimpianti. Mutati i tempi crede che sia venuto il momento che lei, ultimo dei Savoia e Carlo, ultimo dei Borbone, vi stringiate la mano e questo gesto, se mai avverrà, abbia Napoli come palcoscenico?
Io sono pronto, anzi tengo a precisare che con Carlo di Borbone intrattengo rapporti molto cordiali e ci incontriamo spesso in occasione di cerimonie e matrimoni tra reali. Anche domani, davanti ad una pizza, sono disposto a questa storica…stretta di mano, un gesto di riconciliazione di cui la città ha bisogno.
Ed il conto in pizzeria lo pagherete a metà?
Pur di stringere la mano a Carlo sono pronto a pagare il conto ed anche lei è invitato.
Ed ora una domanda scottante, alla quale può rispondere perché sua moglie non ci ascolta: Napoli è popolata di tante belle ragazze e lei, per quanto felicemente sposato, certamente le guarderà. Le piacciono, e più le brune o le bionde?
Anche se distrattamente ammiro le donne napoletane, alcune veramente molto belle, scelgo le brune in onore di mia moglie, che possiede questo colore di capelli.
Notizie diplomatiche di corridoio che prima ho ascoltato mi riferiscono che lei vuole subito dopo il convegno tornare a casa perché domani è il suo genetliaco. Lei non è una vecchia signora, ma un baldo giovanotto, possiamo chiederle quanti anni compie?
Trentacinque.
Il mezzo del cammin di nostra vita?
Veramente spero di vivere molto di più perché sento che ho tante cose da fare.
Auguri principe e grazie per la sua cortesia e per il prezioso consiglio che ha dato a noi napoletani, con la promessa del prossimo appuntamento in pizzeria per quella fatidica stretta di mano

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La vera storia della sfogliatella

Molti credono che la sfogliatella nasca in ambiente monastico e precisamente in un convento di Conca dei Marini sulla costiera amalfitana, intorno al XVII – XVIII secolo, frutto dell’abilità culinaria di una sconosciuta monachella, ma se indaghiamo la storia dei principali monasteri napoletani, da Santa Chiara alla Croce di Lucca, scopriremmo che tutti ritengono che il famoso dolce sia nato nelle proprie cucine e dirimere la verità è impresa ardua.
La scoperta recentissima di alcuni documenti ci permette di retrodatare l’invenzione del prelibato dolce ad oltre duemila anni fa. Pare infatti che già durante le feste priapiche, che si svolgevano nell’antica grotta di Piedigrotta, venisse distribuito ai contendenti per rifocillarsi un dolce energetico dalla forma triangolare, a rimembrare simbolicamente la forma dell’oggetto del contendere: il pube femminile. Gli effetti afrodisiaci sull’animosità dei giovani impegnati nei sacri riti deflorativi si racconta superassero i benefici corroboranti di un poderoso zabaglione.
Dai riti orgiastici al segreto del claustro è difficile ipotizzare il tortuoso cammino della ricetta, divenuta segreta e vanto di sacerdotesse della castità.
Ma intorno al Seicento qualcuna di queste monachelle, ansiosa di liberarsi del fardello di una noiosa verginità, fa amicizia con qualche baldo pasticciere, disposto in cambio della ricetta a compiere il pasticcio… ed ecco che della sfogliatella possono godere tutti.
Con un pizzico di fantasia questa dovrebbe essere la nuova storia della sfogliatella, vanto indiscusso della gastronomia campana e da oggi in poi quando una fanciulla offrirà il prelibato dolce ad un astante le sue intenzioni saranno ben chiare.

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Il calvario del condono

Il comune di Napoli per rivalutare la zona di Ponticelli ha pensato bene di localizzarvi l’ufficio per le pratiche di condono. Dopo decine di anni, durante i quali è stato tutto fermo, l’amministrazione, sindaco in testa, ha pensato bene di richiedere ai cittadini di reiterare la domanda presentata anni fa, oltre a vari oneri e balzelli, senza assicurare che la pratica vada a buon fine, per cui i cittadini, decine di migliaia, sono costretti a recarsi nel bronx metropolitano per richiedere copia degli atti da consegnare al commercialista.
Arrivare presso gli uffici è quanto mai avventuroso, non vi si giunge nemmeno col più moderno navigatore, perché da poco è cambiato il nome della strada, se si è invece utilizzato un taxi, al ritorno è inutile chiamare le varie cooperative non essendo mai in zona alcuna vettura.
Allo sportello, presentata la domanda, si è avvertiti che ci vogliono non meno di quaranta giorni per avere le carte. Un funzionario spiega poi che sulle cifre dovute al comune saranno applicati interessi del 10% annui, nonostante il cittadino solerte non ha mai potuto pagare e nemmeno sapere quando e quanto. Nel tempo trascorso l’importo è più che raddoppiato ed alcune volte anche triplicato nel caso di condoni d’annata.
E mentre i nostri amministratori già gioiscono al pensiero del bottino attuale e dell’Ici futura ai cittadini non restano che lacrime, bestemmie ed improperi.

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Il più bel Carnevale della mia vita

Gran veglione di Carnevale l’altra sera nella splendida villa di Posillipo di Elvira ed Achille.
Oltre 100 invitati: maschere alcune splendide, altre originali. La serata è cominciata con uno spettacolo di cabaret tenuto nel vasto salone della villa dal famoso comico Gennarino Marrone, il quale ha intrattenuto per circa un’ora gli ospiti con una serie di barzellette, gag e filastrocche terminate in un crescendo di applausi e risate.
E’ poi partita la festa. Tutti gli ospiti giù nella discoteca a ballare sotto la guida dell’equipe degli animatori capitanata da Roberta fornita dalla ditta “Frini e Lani”.
Cotillons e giochi di società si sono protratti fino all’esaurimento di forze dei partecipanti per circa due ore. La gara più divertente della serata è stata quella della fune che ha visto partecipare due squadre agguerrite capitanate da Tonino Cirino Pomicino e da Angelo Gava. Nei balli sfrenati sfrenati si è distinta particolarmente la signora Zigante, che ha tenuto teste nelle lambade ai numerosi aitanti principi azzurri. Tra le scollature più osè netta vincitrice Anna Maria Panada che espone delle “mommere” di epoca ma ancora validissime, seguite a distanza da Paola Vergona, Giovanna Brunetti e buon ultima da Maria Antonietta Jacovella, distanziata di circa 300cc.
Nella folla delle maschere erano presenti due poliziotti con divisa originale: Enzo Iodice e Stefano Rando, la cui presenza ha seminato il panico tra gli ospiti in odore di avviso di garanzia. Si è poi proceduto alla tradizionale sfilata delle maschere con una competente giuria , nella quale l’esperienza di Gino Spinosa era surrogata dalla incorruttibile presidenza di Marina della Ragione.
Vincitrice del premio per la coppia più bella è stata l’accoppiata vincente costituita da Paola e Luciano Vergona, in splendidi abiti veneziani di inestimabile valore (si richiede un’indagine fiscale), mentre la vittoria per la maschera singola è stata facile appannaggio per la padrona di casa Elvira della Ragione, scollatissima, in abiti da gran can (il marito non ha esercitato alcuna pressione sulla giuria: è stata un’acclamazione). Molto belle anche le maschere di Vittoria e Mario Speranza (tarantella napoletana), di Nicola Scarpa in abiti da sultano con la splendida Mena, bonissima quam qui maxime, un’odalisca perfetta e trasparentissima e del filosofo Gino Marra in abito da imperatore romano con la sua maliziosa Cleopatra.
Un Komeini assatanato era Elio Rocco Fusco con un’amante di eccezione coperta dallo chador Amina. Modesti per risparmiare gli abiti che indossavano i fratelli Tarallo con le loro mogli e la coppia Letticino che aveva riciclato una maschera già vista in altre feste.
Il premio per la migliore parrucca bianca, assegnato a Romolo Iacovella è stato ritirato dalla giuria perchè i capelli erano i suoi. Il famoso chirurgo Manlio Di Pietro e gentile signora non hanno potuto partecipare per un trapianto urgente. Le maschere più economiche “Rambo e suora sexy” alias Gaetano De Masellis e signora, 30.000 lire in tutto al mercatino di resina incluse le giarrettiere.
Antonio Brunetti era Charlot, ma nessuno lo ha capito. Bellissime erano le maschere di Tiziana e Gian Filippo della Ragione, ma di ritorno dal night, hanno trovato la festa quasi conclusa.
Rideva (si sa il riso alberga sul viso degli stolti) fino a scompisciarsi Corrado Tagliafierro, travestito con la gentile consorte da bambino e nonna. L’Italia allo sfascio era rappresentata dal giudice Ciro Liberti, la brutta copia di Di Pietro. Due perfetti ufficiali erano Gennaro de Notaris e Santi Corsaro, tanto brutti loro quanto incantevoli le loro signore. Maria e Carlo della Ragione: vedova allegra e negro selvaggio non hanno partecipato alla gara per decenza. Marina Peroni era una bellissima dama dell’Ottocento, sfigurava per il partner di una bruttezza da encomio, stessa sorte per la sorella Ornella, tanto bella lei tanto brutto e rozzo il marito.
Le gerarchie ecclesiastiche erano rappresentate da preti, il padrone di casa, cardinali Carlo Castrogiovanni, inavvicinabile per il puzzo ed Alberto Caciolli, inavvicinabile per l’alito, suore, la signora De Masellis, avvicinabilissima per le cosce ben esposte.
Il premio per la maschera più brutta è stato assegnato ad Antonella e Lucio Imparato: lei era una dama vestita da nano, lui era un nano vestito da punk, che sembrava uno scemo.
L’unica coppia non in maschera era costituita da Agata Leccisi e consorte, anche loro hanno fatto la loro figura…, anche se lasciava l’odore.
Tra gli assenti dell’ultimo momento ricordiamo, colpiti da influenza Gino Langella con la sua ultima fiamma Sandra e Marina Ripa di Meana, allettata questa volta da malattia. Non intervenuti anche Francesco e Luigina Galano per mancanza di soldi per il fitto dell’abito ed Angelo Russo, incerto se intervenire con la moglie o con l’amante.
Gli ospiti dopo essersi distinti nell’abbuffamento con dolci ed affini, alle due, si sono scatenati all’arrivo delle lasagne e si è assistito a scene invereconde: l’equipe dei camerieri dello Sri Lanka capitanata da Rosy assistita in prima linea da Summit e Ranji è rimasta allibita. Si sono particolarmente distinti Jenny Santopaolo, Giuliano e Nicola Pignalosa, che hanno mangiato per sé e per gli altri.
La festa è terminata alle prime luci dell’alba con un arrivederci. Si replica l’anno prossimo stesso giorno e stessa ora, stessa voglia di divertirsi e di trasgredire.


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Il punto G tra scienza e sesso

Nei sacri testi di sessuologia, dal rapporto Kinsey ai volumi di Masters e Johnson, non vi è alcuna traccia del punto G, una zona particolarmente sensibile della vagina identificata negli anni Cinquanta dal ginecologo tedesco Ernst Grafenberg.
Come spesso capita nella storia della medicina più che una scoperta si trattò di una riscoperta, perché nella seconda metà del XVII secolo un medico e speziale olandese, tal Reigner de Graaf, in un suo libro, andato perduto ma ricordato negli scritti di vari autori suoi contemporanei, descrisse un’area in prossimità dell’introito vaginale di particolare sensibilità erogena. E se ci spingiamo ancora più indietro nel tempo, nella cultura orientale da epoca remota era noto che nel corpo della donna esisteva una zona, oltre al clitoride, che rivestiva grande importanza nel piacere sessuale, un’area definita Punto del piacere o Punto del Sole.
Grafenberg ritenne di identificare il punto G, che prese poi nome dall’iniziale del suo cognome, nello spazio tra la parete anteriore della vagina e la parete posteriore dell’uretra, ad una profondità di sei otto centimetri rispetto all’introito vulvare, in una zona anatomica dove già qualche istologo aveva segnalato la presenza di un tessuto da identificarsi come residuo di una primordiale ghiandola analoga alla prostata.
Per individuarlo bisogna utilizzare come punto di repere l’osso pubico e cercarlo nel terzo inferiore della parete anteriore della vagina. La sua ricerca è spesso difficile a causa delle sue ridotte dimensioni e per lo spessore delle pareti vaginali, che talune volte ne impedisce l’apprezzamento; è opportuno quando lo si ricerca per la prima volta in una donna portarla verso l’orgasmo preliminarmente attraverso una stimolazione clitoridea, perché le migliori condizioni per reperire e stimolare il punto G si presentano quando la donna è in uno stato di eccitazione, allorché la zona si inturgidisce ed aumenta le proprie dimensione per un fenomeno di captazione di sangue simile a quello funzionante nei corpi cavernosi del pene. Il punto G in queste condizioni si gonfie ed assume la forma di un piccolo bottoncino carnoso.
Tali situazioni sono difficilmente riproducibili in laboratorio, per cui esistono pochissimi lavori scientifici sull’argomento.
La risposta delle donne è variabile, essendo in alcuni soggetti modesta, mentre in altri può portare ad orgasmi molto intensi ed, anche se raramente, a veri e propri stati di alterazione della coscienza.
La vagina rappresenta nella donna adulta l’organo principale del piacere sessuale a differenza del clitoride, il quale è il primo organo a ricevere sensazioni voluttuose, che lentamente nel tempo tendono a spostarsi verso il fondo vaginale nella zona “mossa” dal muscolo pubo coccigeo, ove viene a crearsi la sede definitiva del piacere integrale.
Alcuni autori in tempi recenti hanno distinto le donne in vaginali e clitoridee, a seconda della zona erogena più facilmente eccitabile ed hanno evidenziato che mentre nell’orgasmo clitorideo, dopo un picco di voluttà si ha un repentino abbassamento dell’eccitazione, analogamente a quanto avviene nel sesso maschile, nell’orgasmo vaginale l’acme è raggiunto dopo un’ascesa più lenta, le onde di voluttà sono più dolci e più ampie e dopo la fase della detumescenza la donna, nel caso dell’orgasmo vaginale, è in grado di riprovare immediatamente l’esperienza orgasmica.
In alcune donne la stimolazione prolungata del punto G, attraverso la masturbazione o nel corso di un rapporto sessuale, si accompagna ad una sorta di eiaculazione con la produzione di una modesta quantità di fluido chiaro, che, sottoposto ad analisi di laboratorio, ha dimostrato una composizione simile al liquido generato dalla prostata, rafforzando l’ipotesi di un’origine embriologica comune.
Il significato teleonomico del punto G non ha costituito fino ad oggi un interesse da parte degli studiosi, ma alcune osservazioni indurrebbero a pensare che possa giocare un ruolo, non solo nell’eccitazione sessuale, ma anche nel meccanismo del parto. Infatti molte donne hanno riferito che l’orgasmo intenso provocato dalla stimolazione del punto G si accompagna ad una impellente sensazione di spinta verso l’esterno molto utile nella fase espulsiva, coincidente con una notevole pressione della testa fetale sulla zona erogena. Come pure molti ostetrici possono confermare che alcune pazienti hanno loro confidato che, malgrado le intense sensazioni dolorifiche del travaglio, pochi minuti prima dell’espulsione del bambino avevano raggiunto un orgasmo.
Parte delle sensazioni generate dal punto G forse possono essere un riflesso, data la vicinanza anatomica, della stimolazione dell’uretra, che in entrambi i sessi spesso risulta particolarmente stimolante, a tal punto che alcune persone alla ricerca di piaceri raffinati ed insoliti, eccita intenzionalmente la zona per mezzo dell’introduzione in essa di oggetti molto sottili.
Per sfruttare le risorse del punto G durante il rapporto sessuale bisogna assumere delle posizioni particolari, escludendo quella più comune nel mondo occidentale definita del missionario, nella quale la donna è distesa sulla schiena a gambe allungate ed aperte, mentre l’uomo si sistema tra le sue gambe e si distende su di lei, usando come punti di appoggio le ginocchia ed i gomiti. In tale posizione l’organo sessuale maschile entra in contatto prevalentemente con la parete posteriore della vagina e non con quella anteriore dove si trova il punto G, la cui stimolazione è massima in tutte le posizioni nelle quali la donna sta viceversa al di sopra dell’uomo.
Le posizioni più idonee sono quella ventrale, nella quale l’uomo si sdraia sulla schiena e la donna si pone su di lui, facendo scivolare il pene nella vagina e la posizione a tergo, imitando quella adoperata da tutti gli animali durante l’accoppiamento. In essa la donna assume una posizione a quattro zampe, mentre l’uomo si pone posteriormente, in piedi o appoggiato sulle gambe.

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Frigidità addio

Il problema della frigidità femminile rappresenta il motivo di più frequente consultazione dal sessuologo. Spesso la donna più che una frigidità assoluta lamenta una scarsa sensibilità erotica ed una difficoltà a raggiungere l’orgasmo. Si tratta di una patologia che colpisce donne giovani e mature e molte pensano che non ci sia niente da fare.
Nel 50% dei casi la colpa è dell’uomo che eiacula troppo in fretta ed in tal caso il trattamento deve essere indirizzato alla cura del partner, quando invece l’origine della frigidità non è dovuta alla breve durata del rapporto sessuale si possono ottenere dei grossi risultati attraverso dei semplici esercizi sessuali che la donna, una volta istruita, eseguirà a casa per alcuni mesi.
Durante il rapporto sessuale la sensazione di piacere viene provocata dalla contrazione di un gruppo di muscoli che costituisce la “piattaforma dell’orgasmo” e tra questi una grande importanza riveste il muscolo pubo coccigeo. Esso, poco noto agli stessi anatomici, ha il compito di sollevare la parete posteriore della vagina e di portarla a stretto contatto con la superficie del pene. Anomalie nella contrattilità di questo muscolo costituiscono la causa più importante nell’instaurarsi della frigidità.
Il primo ad interessarsi negli anni Quaranta ad esso fu Kegel, un ginecologo il quale ideò una serie di esercizi per rafforzarne il tono, che faceva eseguire alle pazienti sofferenti di incontinenza urinaria, riuscendo in circa l’80% dei casi ad evitare l’intervento chirurgico. Egli notò, ma soltanto come effetto collaterale sgradito, nelle sue pazienti spesso anziane, un aumento della reattività orgasmica. Gli studi del Kegel furono abbandonati dopo la sua morte e completamente dimenticati.
L’amplesso amoroso non è però soltanto una questione di efficienza muscolare, bensì un’attività nella quale il cervello ha grande importanza, essendo desiderio e piacere sessuale due manifestazioni squisitamente psichiche.
La vagina rappresenta nella donna adulta l’organo principale del piacere sessuale a differenza del clitoride, il quale è il primo organo a ricevere sensazioni voluttuose, che lentamente nel tempo tendono a spostarsi verso il fondo vaginale nella zona “mossa” dal muscolo pubo coccigeo ove viene a crearsi la sede definitiva del piacere integrale.
Alcuni autori hanno distinto le donne in vaginali e clitoridee a seconda della zona erogena più facilmente eccitabile ed hanno evidenziato che mentre nell’orgasmo clitorideo, dopo un picco di voluttà si ha un repentino abbassamento dell’eccitazione, analogamente a quanto avviene nel sesso maschile, nell’orgasmo vaginale l’acme è raggiunto dopo un’ascesa più lenta, le onde di voluttà sono più dolci e più ampie e dopo la fase della detumescenza la donna, nel caso dell’orgasmo vaginale, è in grado, se il muscolo pubo coccigeo è efficiente, di riprovare immediatamente l’esperienza orgasmica.
L’importanza che, come abbiamo precedentemente illustrato riveste il muscolo dell’amore nel provocare l’orgasmo femminile ed il fatto che moltissime donne, oltre ad ignorarne completamente l’esistenza e la funzione, non sono in grado di contrarlo correttamente e con la dovuta energia, ha reso necessaria l’ideazione di uno speciale apparecchio il vaginometro di della Ragione(dal nome del sottoscritto), che potesse misurare con precisione la forza muscolare della vagina ed insegnare alla paziente la maniera corretta di contrarsi o rilasciarsi a seconda dei casi.
Il vaginometro permette un’indagine adeguata ad una misurazione della forza contrattile del muscolo ed è inoltre in grado di inviare dei segnali di stimolo nella vagina della donna, che le permettono di educare e di portare in breve tempo sotto il dominio della volontà l’azione del muscolo.
L’apparecchio è costituito da alcuni terminali di lattice duro, di forma eguale e di nove dimensioni diverse per adattarli alla vagina delle varie donne, essendo indispensabile una perfetta aderenza con le pareti vaginali per una corretta valutazione della forza contrattile del muscolo da esaminare. Dopo ogni misurazione o ciclo terapeutico, il terminale viene svitato dal cavetto elettrico a cui è collegato e viene disinfettato immergendolo per un certo tempo in liquidi battericidi.
Nell’interno di ogni terminale si trova un olio siliconato nel quale è posto un trasduttore, il quale percepisce le variazioni che avvengono nel fluido per effetto della contrazione dei muscoli vaginali e le trasmette, servendosi di un filo all’apparecchio misuratore, il quale oltre a porle all’attenzione del medico attraverso un ago, emette un segnale sonoro proporzionale all’energia contrattile del pubo coccigeo, sulla guida del quale la donna, opportunamente istruita dal ginecologo impara ad esercitare la forza di contrazione in maniera maggiore o minore a secondo di quanto è necessario.
Il terminale ha la stessa forma del “femtone”, che descriveremo in un prossimo articolo e presenta nei 2/3 superiori un ingrossamento ove sono posti i sensori che conducono al trasduttore i segnali provocati dalle contrazioni muscolari.
Durante la prima seduta quasi tutte le donne, una volta introdotto in vagina il tutore rigido di lattice, non sono in rado di contrarre o rilassare il muscolo richiesto ed in genere contraggono i glutei o gli addominali. Alla donna bisogna spiegare che il muscolo sul quale bisogna esercitare la propria attenzione è quello che si adopera quando, mentre sta urinando, vuole interrompere all’improvviso il getto di urina. Tale azione è familiare alla donna, che dopo pochi errori, riesce a contrarre il gruppo muscolare preciso per cui si può adoperare per la misurazione della forza contrattile del pubo coccigeo al vaginometro.

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La nascita del "Fico"

Gian Filippo è da oltre quarant’anni uno dei miei amici più cari, a tal punto che il mio unico figlio maschio ha preso il suo nome.
Discendente da una delle più ricche famiglie tedesche è riuscito a dilapidare in pochi decenni un immenso patrimonio. I suoi antenati erano illustri scienziati e celebri docenti universitari, il padre ammiraglio, ma nel suo Dna non vi è mai stata alcuna traccia del passato splendore celebrale.
Lo conobbi al primo anno di università e volevamo preparare assieme l’esame di anatomia, con noi anche Emanuele, un clone di Gian Filippo in quanto ad intelligenza, entrambi erano al loro quarto tentativo dopo altrettante solenni bocciature.
Studiavamo nello splendido salone della sua villa di via Tasso, una dimora tra le più prestigiose della città, acquistata dalla madre quando la sua famiglia si trasferì all’ombra del Vesuvio da Berlino, dove possedeva un imponente castello distrutto dalle bombe della seconda guerra mondiale.
Il giorno della verità io rimediai un 29, mentre i miei amici furono nuovamente trombati. Emanuele decise di abbandonare gli studi e di vivere, beato lui di rendita, cosa che fa ancora oggi, mentre Gian Filippo ascoltò il mio consiglio e si iscrisse a Veterinaria, ritenendo che un cane un domani, forse, si sarebbe fatto curare da lui, un cristiano giammai. E fu la sua fortuna perché in breve si laureò e, a dimostrazione del declino inesorabile della nostra università, ha ricoperto per decenni la carica di docente nell’istituzione federiciana.
La villa aveva tre piani di 200 metri quadrati ciascuno ed era circondata da 2000 metri di giardino con alberi secolari. Al primo livello vi erano i saloni di ricevimento, che oggi sono trasformati nel ristorante il Gallo nero, al secondo vi erano le camere da letto, mentre un piano leggermente affossato versava in stato di abbandono da anni. Convinsi il mio amico a concedermelo per un anno gratuitamente ed io lo avrei trasformato in una discoteca, che gli avrei poi ceduto dopo un utilizzo di 12 mesi.
Il mio amico credeva che avrei chiamato un’impresa di costruzioni per la ristrutturazione, viceversa schiavizzai tutti gli amici, con la promessa di ingressi gratuiti e secondo le competenze affidai loro un incarico materiale…
Diego e Massimo, i più robusti, furono impegnati per i trasporti più pesanti e fisicamente collocarono a regola d’arte il pavimento della discoteca; Luciano, esperto di elettricità si interessò degli impianti, per la parte idraulica Leandro superò se stesso, mentre i mobili e le altre suppellettili furono costruiti (unico apporto esterno) da don Salvatore, un pregiudicato riciclatosi come falegname.
Dopo trenta giorni il locale era pronto per l’inaugurazione, non restava che dargli il nome e poiché a quell’età, ma anche in seguito, il pensiero corre sempre dietro la stessa idea, lo chiamai Il fico, in onore della sorella, nome che conserva ancora oggi a distanza di otto lustri.
La serata di gala, ed anche le successive, fu allietata dalla musica dei Labbers, un complesso di quattro amici, che, con la scusa di lanciarli, feci esibire gratuitamente per un mese.
Alla porta Nando, il più robusto degli amici, al quale nessuno sfuggiva, al bar Sergio, che abilmente, utilizzando micidiali bustine, preparava intrugli che avrebbero avvelenato uno struzzo e spacciava per champagne francese il nostrano famigerato Perlino.
Il divertimento era assicurato grazie alle nostre simpatiche amiche che organizzavano irresistibili cotillons, privi di ricchi premi.
Tra i più eleganti Gennaro e Lucio, spesso accompagnati da belle ragazze senza mai concludere niente di penetrativo.
L’atmosfera era festosa ed il divertimento assicurato, ma l’impegno di dover stare nel locale ogni sabato e domenica dopo pochi mesi mi pesava troppo, per cui accettai l’offerta di Gian Filippo di subentrare prima nella gestione del locale. In cambio mi diede uno splendido brillante di quasi due carati, che gli era stato restituito da una fidanzata che lo aveva piantato e che io, dopo anni, feci pegno del mio eterno amore con Elvira.
Dopo poche serate vi fu la visita con relativa multa salatissima della Siae e dopo alcuni giorni si presentò la malavita a richiedere la tangente.
Gian Filippo se la fece letteralmente nei pantaloni e mise a presidiare la discoteca don Salvatore, il quale, a suon di mazzate, convinse gli estorsori a girare al largo. Da allora si è impossessato del Fico che gestisce come sua proprietà ed è già molto che se il mio amico vuole trascorrere una serata non gli fa pagare il biglietto.

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L’Istituto per non vedenti Paolo Colosimo

La chiesa di S. Teresa degli Scalzi con la sua mole maestosa è uno dei tanti monumenti colpevolmente negati da decenni alla fruizione dei napoletani e dei forestieri. Edificata nel Seicento possedeva un monastero tra i più estesi e ricchi di opere d’arte della città che, passato allo Stato, si trasformò nel 1892 in un istituto per ciechi. Un luogo di fede e di preghiera divenuto esempio di solidarietà e fratellanza fra gli uomini.
Nei primi decenni offriva unicamente un ricovero ai non vedenti, ma il caso stava per diventare l’artefice di un profondo cambiamento, quando il 24 maggio del 1913 bussò perentoriamente alla porta della famiglia Colosimo e strappò via, nel fiore della gioventù, il giovane avvocato Paolo.
Il dolore dei genitori fu straziante, ma dalla sofferenza più atroce nacque il nobile proposito di aiutare i più sfortunati tra gli uomini: i non vedenti nel difficile cammino della loro esistenza. Tommasina Grandinetti in Colosimo, profuse tutte le sue ricchezze e le sue energie nell’accettare la presidenza dell’Istituto, il quale cominciò ad ospitare i soldati che, nel furore spietato della seconda guerra mondiale, avevano perso la vista. Essi furono istruiti a svolgere attività lavorative compatibili con la loro grave mutilazione, continuando a sentirsi utili ed impararono l’uso dei telai e del tornio. Grazie al sistema Braille leggevano ed eseguivano disegni.
Negli anni Venti ha lavorato nell’Istituto un personaggio leggendario: Eugenio Malossi, che oltre alla cecità era muto e sordo, una sventura che avrebbe distrutto chiunque, ma che invece non impedì al nostro eroe di diventare maestro di altri compagni di sventura e di creare una tecnica, adoperata in tutto il mondo, per comunicare per i soggetti portatori di handicap sensoriali multipli. La odierna benemerita Lega del filo d’oro prende spunto dalla sua attività, che ebbe all’epoca grande eco sulla stampa ed avrebbe sicuramente meritato il premio Nobel per la pace.
Dal 1941 il Colosimo è divenuto un istituto professionale con corsi per falegname, tessitore, centralinista e massoterapeuta. Gli insegnanti e gli istruttori sono quasi tutti non vedenti a dimostrazione che con gli occhi della mente e con una ferrea volontà si può superare qualsiasi menomazione.
La visita al vecchio monastero organizzata dagli Amici delle chiese napoletane è stata una delle più interessanti tra le oltre duecento organizzate nei quattro anni di attività dell’associazione. Essa è avvenuta grazie alla cortese disponibilità della dottoressa Zullo e del dottor Salzano.
Nell’elegante anticamera dove le monache incontravano, in rare occasioni, i parenti ci riceve un solerte funzionario della regione Costantino Asprinio, che ci guiderà lungo un affascinante percorso a ritroso del tempo. Nell’ingresso troneggiano solenni i busti dei fondatori ed alcune lapidi che rammentano la nascita dell’Istituto. Dopo pochi passi si entra in un piccolo chiostro con al centro un vecchio pozzo, dal quale le monachelle attingevano l’acqua di cui abbisognavano.
I locali attualmente occupati dagli uffici dell’amministrazione sono adornati da stalli lignei di eccezionale bellezza, alcuni dei quali gareggiano alla pari con quelli solenni delle sale capitolari dei più celebri monasteri cittadini. Alle pareti e sui soffitti splendide tele settecentesche accuratamente restaurate. Al fianco di due possenti colonne a tortiglione due dipinti firmati di Sebastiano Conca degni di Capodimonte.
L’antica sala delle vendite, dove periodicamente avveniva l’autofinanziamento dell’Istituto attraverso l’aggiudicazione di tessuti e lavori in vimini eseguiti dagli allievi, è contornata da una serie di armadi, che conservano a futura memoria i lavori migliori. Proseguendo la visita si percorrono lunghissimi corridoi sui quali si affacciano le aule ed i laboratori. Si visita prima una cappella dove si celebra messa davanti ad un altare ligneo di preziosa fattura e ad una piccola pala di scuola solimenesca; quindi si accede ad un teatrino perfettamente conservato, con tanto di foyer, platea e loggione per circa duecento posti, con un sipario contornato da agili girali in legno dorato.
Ai piani superiori, dopo uno sguardo al vecchio malfermo campanile ed ai numerosi orti, si entra nelle grandi sale dove si conservano gli speciali telai, dotati di campanelli, che venivano adoperati dagli allievi per eseguire i loro raffinati lavori di tessitura. Un lungo corridoio è tappezzato da antiche foto che mostrano i soldati della prima guerra mondiale, ancora nelle loro divise, impegnati in lavori di tornio e di tessitura. Alcune immagini riprendono Eugenio Malossi mentre lavora ed insegna e sulla parete laterale una lunga serie di diplomi reali e benemerenze varie ottenute grazie alla sua opera meritoria.
La visita si conclude tra i giardini e gli enormi spazi esterni prospicienti l’edificio del museo archeologico. In uno di questi orti si trovava un antico sepolcreto dove riposavano le religiose dopo il loro percorso terreno di privazioni e preghiere.
L’emozione per gli incontri con gli ospiti della struttura, ai quali negli ultimi anni si sono affiancati anche studenti ipovedenti e la scoperta di una superficie così ampia salvatasi dalla furia edilizia invita a tristi e gravi pensieri ed a considerare la nostra fortuna di non essere costretti a vedere attraverso gli occhi dell’anima.

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La finanza islamica ed il banchiere dei poveri

Mentre lo statalismo socialista è miseramente crollato ed il liberismo capitalista, divenuto selvaggio, sta dimostrando tutti i suoi limiti, all’orizzonte si profila un terzo progetto, costituito dalla finanza islamica, sconosciuto agli stessi specialisti, che potrebbe costituire il modello vincente nel XXI secolo.
Nel 1982 le istituzioni finanziarie islamiche possedevano un capitale che oggi è cresciuto più di cinquanta volte e si avvia, grazie agli introiti del petrolio, a superare i trecento miliardi dollari, con un tasso di crescita superiore al 15% annuo. Una liquidità smisurata che può fare da ago della bilancia nell’economia mondiale.
Essa è fondata su regole apparentemente poco competitive, rispettose dell’ortodossia coranica ed è presente in oltre quaranta nazioni con centinaia di banche, che possono contare sul fiume in piena dei capitali provenienti dal mercato dell’oro nero.
Il Corano considera l’usura (riba) uno dei peccati più gravi che si possano commettere e ritiene vietato (haram) qualsiasi tasso di interesse, un paradigma agli antipodi del concetto di banca occidentale. Non per questo nell’islam i capitali non hanno alcun costo. La religione proibisce la determinazione a priori della loro remunerazione, ma stabilisce che ai proprietari del capitale vada una quota del denaro prodotto dal suo impiego, percentuale che non si può conoscere in anticipo. Al prestatore viene richiesto di condividere i rischi dell’investimento. Questa circostanza fa si che la banca partecipi in prima persona alle attività produttive e commerciali e sia molto attenta che vadano a buon fine e siano in linea con i principi islamici, una banca etica attenta sia alla corretta utilizzazione del capitale che ai risultati economici.
Una conduzione che sorprende i banchieri occidentali, abituati a lucrare sui capitali e a disinteressarsi completamente a come, da chi e per quale scopo vengano utilizzati.
I principi sui quali si basa la finanza islamica sono semplici e possono riassumersi in poche regole:
1) Qualsiasi pagamento predeterminato oltre e in aggiunta all’importo di denaro prestato è vietato.
2) Colui che presta deve dividere i profitti o le perdite derivanti dall’impresa commerciale nella quale viene investito il denaro.
3) Lucrare denaro dal denaro è contrario agli insegnamenti del Corano.
4) Qualsiasi operazione finanziaria in cui incertezza, rischio o speculazione sono presenti è proibita
5) Gli investimenti devono favorire esclusivamente pratiche e prodotti che non siano contrari agli insegnamenti islamici.
Nella civiltà islamica alle attività meramente lucrative viene contrapposta la solidarietà, al tornaconto individuale il benessere sociale.
Una differenza planetaria rispetto alla finanza occidentale, impegnata a perseguire unicamente l’arricchimento individuale e dominata dall’egoismo e dalla ricerca spasmodica del profitto.
Soltanto l’attività dell’uomo, secondo Maometto, il biblico sudore della fronte può eticamente e giuridicamente giustificare l’arricchimento. Con queste coordinate e con il rifiuto dell’usura nel senso più ampio del termine si sono affermate forme di investimento nelle quali l’utile, quale risultato di un’attività d’impresa, è ripartito tra i soci che dividono anche il rischio imprenditoriale.
La finanza islamica presenta certamente dei punti deboli tra cui l’esclusione dal mercato secondario, infatti il divieto di contrattare e concludere investimenti con le banche che praticano tassi di interesse non permette operazioni economiche con il mercato occidentale. Sono altresì ai margini del mercato delle carte di credito.
Sul mercato azionario i petrol dollari scelgono investimenti unicamente su società conformi ai dettati della dottrina, in base ad un listino di titoli (molto ampio in verità) approvato da un comitato di saggi. Non saranno acquistati di conseguenza azioni di aziende che commercializzano carne di maiale o che vogliano produrre bevande alcoliche o costruire una rete di casinò.
A fronte di queste limitazioni alcuni vantaggi sono innegabili come la riduzione dell’inflazione dovuta ad un uso produttivo della moneta ed un attento controllo da parte della banca sugli investimenti.
Un approccio al denaro poco noto agli occidentali, che ha avuto un sorprendente riconoscimento con l’assegnazione nel 2006 del premio Nobel per la pace al banchiere bengalese Muhammad Yunus.
Un alloro che dimostra lo stretto legame tra pace ed economia, perché una pace duratura nel mondo potrà essere conseguita soltanto quando si sarà riusciti a superare la povertà, che colpisce ancora ampi strati di popolazione e quando sarà vicino a realizzarsi l’auspicio di Yunus: ”Un giorno i nostri nipoti dovranno andare nei musei per vedere cosa fosse la povertà”.
Nato nel Bengala, una delle regioni più derelitte del Bangladesh, Yunus consegue negli Stati Uniti importanti titoli accademici, ma rinuncia ad una brillante carriera di professore universitario in America per tornare nel suo paese e dedicarsi ad aiutare una delle popolazioni più povere del mondo.
Immerso nella realtà del suo paese scoprì come le teorie economiche che egli insegnava fossero lontane dalla cruda vita economica del mondo rurale. Si convinse che l’estrema povertà della popolazione non dipendeva tanto dall’ignoranza o dalla pigrizia, quanto dall’inesistente sostegno finanziario. Volle mettere la scienza economica al servizio degli ultimi della terra ed ideò una nuova formula finanziaria: il microcredito.
Cominciò a girare a piedi con i suoi collaboratori il paese villaggio per villaggio, concedendo alla comunità il prestito di pochi quanto indispensabili dollari, per favorire piccole iniziative imprenditoriali. Lentamente si venne a creare un circolo virtuoso con vistose ricadute sull’emancipazione delle donne, invogliate ad unirsi in cooperative che coinvolgessero ampi strati della popolazione.
Il suo primo prestito fu di appena 27 dollari ad un gruppo di lavoratrici di un villaggio che producevano mobili di bambù. Esse producevano per chi prestava loro denaro e ciò riduceva il loro margine di guadagno obbligandole alla miseria.
Nessuna banca tradizionale concedeva prestiti a chi non offrisse garanzie, né vi era interesse per il finanziamento di piccoli progetti con basso profitto ed un rischio potenziale molto alto.
Nel 1976 Yunus fondò la Grameen Bank, per fornire prestiti ai poveri, basandosi sulla fiducia e non sulla solvibilità. Per garantire il rimborso si prestava denaro a più persone, ognuna delle quali era obbligata in solido alla restituzione. Con tale sistema, oltre ad un diffuso microcredito, si sono potuti realizzare moderni sistema di irrigazione e di pesca e soprattutto finanziare piccole imprenditrici donne, sviluppando l’emancipazione femminile in una nazione islamica che riserva al gentil sesso una posizione assolutamente subalterna e dove una vedova o anche una separata sono veramente gli ultimi della terra.
La Grameen ha prodotto una benefica ventata rivoluzionaria nell’interno della stessa Banca mondiale, che ha cominciato ad avviare progetti simili, trasformando l’idea del microcredito in un potente strumento di sviluppo finanziario ed economico in oltre 100 nazioni dall’Uganda agli stessi Stati Uniti, dove viene incontro alle esigenze creditizie delle cospicue fette di povertà prodotte da un sistema capitalistico spietato.
In trenta anni la Grameen Bank ha erogato prestiti a oltre 5 milioni di persone per un totale di 5 miliardi di dollari, con un tasso di restituzione superiore a quello delle banche occidentali.
Il fondamentalismo religioso, contrario all’obiettivo di migliorare lo status delle donne, ha cercato nei primi anni di boicottare l’iniziativa, ma ha poi rinunciato davanti ai benefici a pioggia su tutta la popolazione ed ha fatto in modo che nel Bangladesh, dove non funziona niente, i meccanismi di restituzione della banca di Yunus funzionassero come un orologio svizzero.
Il potente messaggio di pace che ci viene da questo straordinario personaggio non può lasciarci indifferenti: la finanza è stata sempre vista col parametro del rendimento, mentre è necessario che una quota delle risorse venga destinata ad iniziative di primaria utilità sociale.
La finanza etica è oggi una finalità da raggiungere, sia in Oriente che in Occidente, un sistema che pur rispettando i principi essenziali del credito (trasparenza e vitalità economica) non si renda complice di tutte quelle attività che ostacolano la pace e violano i diritti e le aspettative dell’umanità, quali il commercio delle armi, le produzioni gravemente lesive ella salute e dell’ambiente, le attività fondate sullo sfruttamento dei minori e sulla repressione delle libertà civili.

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L’usura un male antico

Da sempre attorno all’usura si è manifestata una spiccata avversione, sia da parte dei grandi pensatori laici, che nell’ordinamento delle tre grandi religioni monoteiste.
Aristotele nell’Etica Nicomachea la considerava una categoria morale negativa e riteneva che solo dal lavoro umano, manuale o intellettuale, potesse nascere la ricchezza, mentre quella prodotta dal solo possesso del denaro era dannosa.
La Bibbia prende in considerazione il prestito con interesse, di cui l’usura è un’aggravante, condannandolo. Questo divieto viene segnalato per la prima volta nel capitolo 22 del Libro dell’Esodo e ritorna ripetutamente lungo tutto l’Antico Testamento dal Levitico al Deuteronomio.
Perché sorge questo divieto così perentorio quando nell’antico Oriente e nell’antica Babilonia era presente da sempre con tassi stabiliti per legge: un terzo sul cibo, un quinto sul denaro?
Secondo alcuni storici il motivo è da ricercare nella tradizione di nomadi che caratterizza il popolo di Israele, una condizione nella quale i membri di un clan sono obbligati ad aiutarsi vicendevolmente. In epoca biblica il prestito interessava essenzialmente il cibo, mentre il credito per attività economiche era completamente sconosciuto. Il divieto, che ha sempre avuto più di un’eccezione per membri estranei alla tribù e nel rapporto con i pagani, resta immutato quando il clan si trasforma prima in popolo e poi in regno.
Nella tradizione di Israele vi è sempre stata un’istituzione costituita dall’Anno della remissione, perché ogni sette anni si rimettevano i debiti, segno evidente della volontà che nessun debito potesse durare in eterno.
Il nuovo Testamento aggiunge qualcosa di nuovo, di potentemente rivoluzionario, invitando ad aprirsi non solo ai membri dei proprio popolo, ma a chiunque sia bisognevole di aiuto, a qualunque uomo ”vicino, lontano, bianco, nero, ricco, povero, sapiente, ignorante”.
In particolare il divieto viene sancito in un passo del Vangelo di Luca (6, 34s.)
Il dettato della Bibbia sostiene poi la riflessione attraverso i secoli del Cristianesimo, che si esprime attraverso i Concili e le parole dei Padri della Chiesa, tra i quali si distingue per il suo alto insegnamento San Basilio.
La Scolastica nel Medio Evo distinguerà due tipi di bene: fruttiferi, come un campo di grano ed infruttiferi come il denaro, la cui capacità di produrre ricchezza è legata alla capacità dell’uomo; in tal modo veniva sottolineato il primato del lavoro sul capitale.
La prima interdizione canonica verso il prestito ad interesse la ritroviamo già nel Concilio di Nicea del 775, in seguito il Concilio di Lione del 1274 espresse una severa condanna della riscossione di interessi a fronte della concessione di un mutuo, qualunque fosse stata l’entità del tasso richiesto e questo divieto ha pesato a lungo sullo sviluppo dell’economia e sul trasferimento del mercato del prestito agli Ebrei.
Non mancarono in quegli anni alcune iniziative sorte nella parte più pura della cristianità, come la nascita dei Monti di Pietà ad opera dei Francescani, nei quali veniva richiesto un interesse, anche se modesto sui prestiti effettuati a soggetti “bisognosi” di aiuto finanziario. Iniziativa che fu aspramente contestata da Domenicani ed Agostiniani, ma che era giustificata dalle spese di gestione.
La possibilità concessa agli Ebrei di prestare denaro ad interesse ai seguaci di altre religioni ha favorito, a partire dal 732 a.C., anno della diaspora, il crescere di attività speculative di tipo parassitario in ogni regione del mondo. Essi cominciarono a prestare denaro a tutti per tutti gli scopi: ai governi per le loro funzioni ed i loro eserciti, ai nobili per i loro lussi, ai piccoli artigiani ed ai poveri contadini per la loro più elementare sopravvivenza, perfino ai Papi! E ciò permise a questo popolo di dare denaro, ricevere denaro, investire denaro ed accumulare una infinita ricchezza.
Agli albori del capitalismo in Occidente la pratica dell’usura si è così legata indissolubilmente alla figura dell’ebreo, costituendo i germi di un odio basato sull’invidia, che si è scatenato ripetutamente e con inaudita ferocia nel corso dei secoli.
Nella prima metà del Cinquecento il sogno degli usurai trovò un potente alleato nella rivoluzione protestante, che nel suo verbo propugnava che la pratica del prestito ad interesse fosse completamente liberalizzata. La concezione puritana del “guadagno come segno della benevolenza divina” finì col giustificare qualsiasi speculazione, anche la più abietta, purché fosse produttiva di lucro, mentre la teoria della predestinazione, sostenendo che i “premiati dal Signore” lo erano anche in quanto aspiravano alla ricchezza e la conseguivano, rafforzò l’orgoglio del ricco e la consapevolezza di rappresentare un nuovo modello di società, padrone del futuro.
Nello stesso tempo in Italia la Chiesa con il Concilio di Trento aveva annichilito la nascita della borghesia, aveva bollato il profitto come usura ed aveva umiliato lo spirito d’impresa. Si salvò soltanto il Settentrione e parte della Toscana, dove nacquero liberi commerci e la cambiale.
Più che in Lutero nell’opera di Calvino vi fu una trattazione particolareggiata del prestito ad interesse, che perse qualsiasi divieto e la cui pratica fu giustificata sempre e comunque.
Egli fu il primo ad accettare l’idea che il denaro andava considerato come una merce universale, dotata di vita propria ed in grado di produrre altro denaro. Una concezione audace e rivoluzionaria alla base della cultura del capitalismo moderno.
Il denaro diventa più importante della proprietà della terra, segnando il passaggio da una società feudale ad un’economia basata sul mercato.
Il suo pensiero segna una svolta epocale, un punto di non ritorno, perfettamente accettato dall’etica dei nostri giorni. Il prestito con interesse non viene negato come principio, ma solo quando il tasso richiesto diventa eccessivo. Il denaro che produce denaro, tollerato in diversi casi particolari, diventa ora pratica lecita, nell’illusione che la si possa imbrigliare o proibire quando sembri contraria all’equità.
Nel nostro ordinamento giuridico l’usura è stata annoverata tra i delitti solo a partire dal 1931 con l’introduzione del codice Rocco, nel quale si pose un limite all’interesse che il creditore poteva vantare nei confronti del debitore; di recente una nuova normativa (legge n. 108/8 marzo 1996) ha inasprito le pene a tutela delle vittime dell’usura, mentre il Ministero del Tesoro stabilisce ogni tre mesi i tassi massimi di interesse sui prestiti, tenendo conto dell’inflazione e di quelli applicati delle banche.
A partire dal XIX secolo la diffusione del capitalismo sulle due sponde dell’Atlantico ha dato luogo ad un potere esorbitante in mano ai possessori di immensi capitali. Oggi l’Occidente si trova in balia di poche ricchissime famiglie che comandano l’industria petrolifera, le banche e, tra le sempre più remunerative attività illecite, il traffico di armi ed il commercio della droga.
Della tradizione biblica e delle sue norme morali non rimane traccia ed anche se il divieto del prestito ci pare eccessivo, si fa sempre più viva la sensazione che sia urgente migliorare il mercato dei capitali e che necessiti recuperare la concezione che il valore del denaro dipende dall’attività dell’uomo e che tutto debba essere subordinato alle sue necessità ed ai suoi desideri: una finanza etica che non sia succube del famelico moloch costituito dal dio denaro.

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Un'ora di terrore in volo

Un'esperienza da dimenticare quella di stamane sul volo Napoli - Barcellona della compagnia Alpes Eagles.
Giunti sull'aeroporto ed annunciato l'atterraggio a momenti, l'aereo ha cominciato a fare le bizze con improvvise impennate verso l'alto. Mentre cresceva il nervosismo, l'annuncio terribile delle hostess, giovanissime e terrorizzate: bisogna prepararsi ad un atterragio d'emergenza. All'inizio pareva dovesse trattarsi di un ammaraggio, si sono sgomberate le uscite laterali e si sono date istruzioni per uscire attraverso gli scivoli, poi è stata data la notizia di un difetto al carrello e di un atterragio di fortuna sulla schiuma.
A tutti è stato raccomandato di coprirsi la testa con i cappotti e di prepararsi ad un urto non indifferente. Infine la discesa per niente traumatica, grande applauso liberatorio e tante lacrime di gioia. Ancora dieci lunghi minuti di attesa prima che si aprissero gli sportelli. a terra grande spiegamento di forze: decine di ambulanze, pompieri in tute di amianto e, stranamente, soldati armati fino ai denti.
Al recupero dei bagagli due ore di attesa per controllare l'aereo. L'ipotesi terroristica rimane la più probabile e sarebbe opportuna una indagine della magistratura.
Tutto bene quel che finisce bene

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Tristi pensieri sulla vecchiaia

Da tempo (anni) meditavo di scrivere sulla vecchiaia; questo ritardo mi ha permesso di avvicinarmi maggiormente a questo imbarazzante periodo della vita dell’uomo, della cui esistenza egli stesso è responsabile.
Se osserviamo gli animali in libertà, senza dimenticare che anche noi lo siamo, ci accorgiamo che non conoscono né vecchiaia, né lunghe malattie ed invece, con il nostro incauto comportamento, abbiamo condannato a queste maledizioni anche gli animali domestici.
Uno dei pensieri che più mi rattrista al mattino è che il tempo, inesorabile, non scorre eguale per tutti i viventi. Il giorno appena trascorso equivale a sette giorni per il mio fedele amico Portos; oggi abbiamo in proporzione la stessa età, ma il suo tempo scorre impietosamente più veloce.
La natura nella sua infinità saggezza, o Dio se vi fa più piacere, non aveva previsto per l’uomo che si potessero superare i 30 - 40 anni: la menopausa per le donne, la calvizie per gli uomini, la presbiopia per entrambi sono aberrazioni non programmate.
L’uomo viveva nel vigore della giovinezza e moriva nel pieno delle proprie forze, non conosceva l’umiliazione del degrado fisico e la morte per consunzione. Poi la civiltà, la prosperità e la medicina hanno aggiunto anni alla vita senza aggiungere vita agli anni, dando luogo alla vecchiaia, una maledizione tra le più difficili da tollerare.
Il nostro corpo invecchia, ma dentro molti di noi rimangono giovani. Ci è vietato guardare le ventenni con cupidigia, ma la bellezza ancora ci attrae irresistibilmente; non abbiamo davanti a noi molti anni da vivere, ma non ci rassegniamo all’idea di morire.
Spesso riusciamo a sopravvivere decentemente, ma quando siamo costretti dall’avanzare inesorabile degli anni e dalle malattie a subire mille limitazioni, ci sentiamo degli abusivi della vita. Raramente siamo tanto saggi da apprezzare ciò che ci resta ed a temere di perderlo. Ma la mazzata più forte che ci riserva la vecchiaia è la perdita del proprio compagno. Non vi è saggezza che possa confortarci, non siamo fatti per restare da soli. Abbiamo rinunciato al branco, ma siamo programmati per vivere in coppia, è scritto a chiare lettere nel nostro Dna.
Si può essere felici su di una sedia a rotelle, se vi è qualcuno che ci spinge amorevolmente. Si riesce a vivere con qualsiasi menomazione, se a confortarci vi è il nostro compagno, ma è una pena feroce continuare a vivere la vecchiaia per il sopravvissuto.
Chi muore per primo non capisce la sua fortuna; dovunque egli vada il compagno che resta va all’inferno.
Maledetta vecchiaia.

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L’arma segreta di Federico II

Si è discusso a lungo, nell’elaborare la Costituzione europea, se fosse il caso di accennare ad una radice comune giudaico cristiana ed alla fine, su pressione della Francia, laicista ad oltranza, si è rinunciato
Vorrei rammentare, oltre a quella illuminista tanto cara ai cugini d’oltralpe, un’altra radice europea laica, forse più importante e spesso trascurata: la illuminata politica imperiale di Federico II di Svevia. Sotto il suo impero il sud d’Italia fu prospero, potente e temuto, ma soprattutto quel sovrano seppe gestire un variegato melting pot di razze, costumi e lingue, facendo vivere in pace ed accordo sullo stesso territorio Greci Latini, Tedeschi, Normanni e ciò che più conta: musulmani, cristiani ed ebrei, tutti con leggi e consuetudini proprie. Un miracolo a cui dovrebbero ispirarsi i politici di oggi, succubi dell’inevitabilità dello scontro tra le civiltà. Fondò a Napoli una delle più antiche università del mondo, che fu per secoli la culla della classe dirigente laica ed un faro di cultura, non più inceppata dal dogma. Ateo, pretendeva, pena la morte, che i suoi sudditi fossero religiosi per amore dell’ordine.
Protagonista del Medio Evo, accoppiava ad una vastità di interessi una concezione modernissima dello Stato.
Paradigmatico il modo con cui firmò nel 1229, all’epoca delle crociate, un vantaggioso trattato di pace col sultano Al Kamil, senza spargere una sola goccia di sangue, riuscendo ad ottenere ciò che i suoi predecessori non erano riusciti a conquistare con flotte, eserciti, massacri e rapine.
Nel colloquiare con il Sultano dimostrò una perfetta conoscenza sia della cultura islamica che della lingua araba, da lasciare stupefatto l’interlocutore, il quale volle invitarlo, prima di continuare la discussione, a visitare il suo harem…
E Federico II non si fece pregare, stemperando l’animo nel cogliere le grazie, che gli venivano con tanta prodigalità offerte dal nemico. E precorrendo di secoli i figli dei fiori, che volevano combattere la guerra ponendo fiori nei cannoni, capì che era meglio porre il cannone nei fiori

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I misteri dell’amore

L’amore è il motore che muove l’universo e la vita degli uomini e la sua straordinaria potenza è sotto gli occhi dei laici e dei credenti.
Immortalato dal sommo poeta:”L’amor che move il sole e l’altre stelle”, indagato da filosofi di ogni tempo e di ogni luogo ha cambiato nome e definizione, ma è rimasto sempre lo stesso, immutabile. Eros per gli antichi, agape per i cristiani, libido per i contemporanei.
Si manifesta in varie forme e con diversa intensità, ma come tutte le cose dell’universo risponde ad una finalità. Nell’uomo, come nell’animale, l’attrazione verso l’altro sesso risponde alla necessità di perpetuare la specie, così l’amore verso i figli permette loro di raggiungere l’età adulta.
Vi è però una forma di amore particolare, intensissimo e spesso fugace, che scocca all’improvviso tra un uomo ed una donna. Un’attrazione irresistibile che molti di noi hanno conosciuto almeno una volta nella loro vita.
I poeti provenzali lo hanno glorificato, mentre gli scienziati, medici e psicologi, negli ultimi anni, impietosamente, lo hanno analizzato minuziosamente, cercando di ricondurlo alla realtà materiale di neuro ormoni, ferormoni, mediatori chimici ed altre diavolerie del genere. Ne hanno calcolato con precisione modalità d’insorgenza e frequenza di durata. Pare che difficilmente superi i 18 - 24 mesi, raramente sia reciproco e comporti sempre una tempesta di sintomi imponente: aumento della pressione, dei battiti cardiaci, palpitazioni, capogiri, anoressia.
Non hanno saputo però rispondere al perché scatti all’improvviso, cambiando la vita di due persone. La finalità riproduttiva è categoricamente da escludere e nessun innamorato sarebbe soddisfatto da una risposta basata sulla mera casualità.
Tra i misteri della vita umana questo è senza dubbio il più affascinante, godiamocelo quando ci tocca e finché dura senza cercare inutili spiegazioni.

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Telefonomania

Ormai è divenuta un’ossessione, ogni giorno a tutte le ore, con preferenza ai pasti o durante il riposo, favorita dai contratti a forfait, implacabile, arriva la telefonata con proposta di vendita: dall’abbonamento ad un nuovo gestore telefonico, che pratica prezzi imbattibili, alla vendita di biglietti per la recita di beneficenza, dalle multiproprietà al mare ed in montagna, all’olio d’oliva extravergine, garantito sulla verginità, una qualità oramai presente solo nella culinaria. Non mancano naturalmente catene di Sant’Antonio o ceramiche di Vietri, vini di marche e libri di vario genere, impianti di riscaldamento nei mesi estivi e vacanze al Polo per le feste di Natale.
Migliaia di giovani senza lavoro e senza futuro sono catapultati in questi call center, dove il capitalismo è portato all’esasperazione e dove è facile, maledicendo la civiltà dei consumi, divenire marxisti della prima ora, di quelli per intenderci che non esistono più, nemmeno a Cuba o nella Corea del Nord.
Sei carico di pacchi della spesa ed al suono del telefono ti precipiti, travolgendo il cane che dorme o il nonno che riposa, oppure attendi con ansia la telefonata del giovanotto al quale hai fatto gli occhi dolci ed all’altro lato della cornetta vi è una signorina dall’accento dialettale, che cerca di venderti un dizionario della lingua italiana in 30 volumi e 300 comode rate mensili. Chi può salvarci da questo incessante martellamento? Chi può cacciare i mercanti dal tempio? Persa ogni speranza nel garante della privacy, non resta che agire personalmente. Un consiglio per una strategia comune. Dopo un breve allenamento possiamo affrontare con notevoli risultati tutti gli interlocutori di sesso maschile con un pernacchio all’Eduardo della durata non inferiore ai 15 secondi, eventualmente ripetuto se necessario. Per le voci femminili, con rara galanteria, cerchiamo di spiazzarle raccontando i nostri guai, cercando una parola di conforto, importante è parlare incessantemente senza sosta, fino a quando sara lei, disperata, a poggiare il telefono e desistere.
Tartassati di tutta Italia uniamoci e speriamo che il telefono ritorni ad essere strumento di lavoro e di amicizia, per soddisfare i nostri bisogni di svago e di piacevole conversazione, sussurrando frasi di amore ed anche imprecazioni, ma riservate soltanto ai nostri conoscenti.

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Misteri napoletani

Tra i luoghi misteriosi di Napoli, intrisi di antiche leggende e stupefacenti misteri, la Cappella Sansevero, situata nel centro antico della città, occupa un posto di rilievo, perchè legata indissolubilmente alla figura del proprietario, il celebre principe, ritenuto da sempre un incrocio tra scienziato pazzo e mago stregone e che recenti ricerche stanno ampiamente rivalutando, riproponendone la figura come quella di un profondo conoscitore di segreti alchemici, uomo di grande cultura ed ai vertici della potente massoneria partenopea.
Da sempre la fantasia popolare è stata eccitata dalla presenza, nei sotterranei della Cappella, di due scheletri con un sistema cardio circolatorio in stupefacente stato di conservazione e si è vociferato che fossero stati creati dallo stesso principe, iniettando una segreta mistura nelle vene di due suoi servitori, ancora vivi, pietrificati in tal modo per l’eternità. Alcune recenti ricerche di medici napoletani tendono a considerare i due scheletri, almeno parzialmente, delle semplici macchine anatomiche,
degli artefatti per quanto mirabili, ma non vogliamo parlare di questo, bensì del famosissimo Cristo velato, opera di Giuseppe Sanmartino.
Lo scultore è presente con molte sue opere in molte chiese napoletane, realizzazioni di buona, a volte ottima fattura, ma solo una volta egli raggiunge livelli sovraumani di abilità e perfezione assoluta: nel Cristo velato, un vero e proprio prodigio tecnico, che permette di vedere chiaramente sotto un velo di marmo le fattezze di nostro Signore.
Questo unicum, oltre a far giungere a Napoli folle di visitatori da tutto il mondo aveva incuriosito appassionati d’arte e cultori di segreti alchemici. Si mormorava di un intervento diretto del principe nella realizzazione dello straordinario lenzuolo trasparente…, fino a quando, tempo fa, una studiosa napoletana, Clara Miccinelli, aveva pubblicato alcuni documenti notarili comprovanti l’antica leggenda, ma la serietà della comunicazione si perse nei meandri di una troppo pervicace disamina esoterica dell’argomento, per cui l’importante notizia non è stata valutata e recepita dagli studiosi di storia dell’arte. Abbiamo controllato il documento, conservato nell’archivio napoletano e stilato dal notaio Liborio Scala il 25 novembre 1752, tra Raimondo di Sangro ed il Sanmartino, nel quale i due contraenti si accordano sulla realizzazione della scultura e sul segreto da mantenere. Trascriviamo alcuni passi inequivocabili:” ad apprestare una Sindone di tela tessuta, la quale doverà essere depositata sovra la scultura acciò dipoichè esso Principe l’haverà lavorata secondo sua propria creazione; e cioè una deposizione di strato minuzioso di marmo composito in grana finissima sovrapposto al velo. Il quale strato di marmo dell’idea del signor Principe farà apparire per sua finezza il sembiante di nostro Signore dinotante come fosse scolpito di tutto con la statua. Viceversa il sig. Joseph S. Martino si obbliga alla pulitura ed allustratura della Sindone e a non svelare al compimento di essa statua la maniera escogitata dal Principe per ricovrire la statua”.
Un altro documento reperito dalla studiosa ci rende nota la formula segreta del principe per la sua stupefacente creazione:” Calcina viva nuova 10 libbre, acqua barilli 4, carbone di frassino. Covri la grata della fornace co’ carboni accesi a fiamma di brace con l’ausilio di mantici a basso vento. Cala il modello da covrire in una vasca ammattonata, indi covrilo con velo sottilissimo di spezial tessuto bagnato con acqua e calcina…. Sarà il velo come di marmo divenuto al naturale e il sembiante del modello trasparire”.
I due documenti dimostrano oramai in maniera inequivocabile, nonostante non siano noti a gran parte degli studiosi, i limiti dell’abilità del Sanmartino ed aumentano a dismisura la fama del principe. Probabilmente, anche se al momento mancano i riscontri cartacei, pure le altre due sculture velate della Cappella: la Pudicizia del Corradini ed il Disinganno del Queirolo sono state eseguite con la collaborazione del principe, anche se va segnalato che il Corradini, giunto a Napoli in tarda età, aveva già eseguito statue dotate di velature molto abili, come l’omonima Pudicizia conservata al Louvre.
Per un mistero che si avvia a soluzione un altro si profila di medesimo interesse. La recente riapertura, dopo decenni di criminale chiusura dovuta ai dissesti del terremoto del 1980, del famoso Cimitero delle Fontanelle ha permesso ai visitatori, in occasione del Maggio dei monumenti, di recuperare un luogo topico della storia e dei costumi di un antica e gloriosa capitale.
Tra i vari teschi, scomparso quello con i capelli, segnalatomi dal centenario signor Ciro Castello da Stoccarda, assente da casa da 80 anni, quanto mai interessante, nella caverna Golgota, è quello che suda e trasuda liquido, a differenza dei vicini ed in barba di ogni legge fisica e spiegazione razionale. L’antico proprietario è ignoto mentre il fenomeno prodigioso è sotto gli occhi di tutti. Semplice condensa esclama il docente universitario di fisica che mi accompagna nella visita, peccato che lo stesso non accada alle altre centinaia di teschi posti nelle stesse condizioni di clima. Io penserei piuttosto alla manna che trasuda a Salerno o ad Amalfi dalle reliquie di santi famosi e venerati e da laico inveterato ma meditativo riterrei che, trattandosi di resti mortali di uno sconosciuto, si imponga una ricognizione seria ed un esame scientifico per cercare una spiegazione all’inquietante manifestazione essudatizia.

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Leggete l’Enciclica

Leggete l’Enciclica”Deus caritas est” di Benedetto XVI, ne trarrete grossi benefici, parola di laico. Una enciclica che rimarrà e segnerà la storia quanto, e forse più, della Rerum novarum di Leone XIII o la Pacem in terris di Giovanni XXIII.
Dovrete superare lunghi periodi intrisi di dottrina teologica ed alquanto barbosi, ma poi all’improvviso, più volte, la scudisciata di classe che vi farà meditare a lungo.
Anche se non entrate in chiesa da anni e vi ritenete un ateo inveterato non potrete rimanere insensibili ai continui richiami all’amore, alla giustizia, alla convivenza e contro la guerra, l’odio ed il fanatismo e non potrete non essere d’accordo con questo Papa che, vicino agli ottanta anni, scrive con lo stesso vigore ed entusiasmo di un giovane poeta provenzale.
Una prosa accattivante, densa di riferimenti culturali dei più grandi pensatori dell’umanità da Sant’Agostino a Gregorio Magno, da Marx a Nietzsche, da Giuliano l’Apostata a Cartesio, da Virgilio a Madre Teresa di Calcutta. “Dio è amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”.
Come inizio non c’è male.
Alcune frasi ed alcuni concetti sembra siano scolpiti nel marmo:” In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza desidero parlare dell’amore del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri”. Una condanna senza appello ai fondamentalismi che sembrano travolgere tutto e tutti.
“Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri”
E noi che ci vediamo ogni giorno circondati ed assillati da ladri pubblici e privati non possiamo non condividere. “L’eros è come radicato nella natura dell’uomo. Adamo abbandona suo padre e sua madre per trovare la donna, ma il modo di esaltare il corpo a cui noi oggi assistiamo è ingannevole. L’eros degradato a puro sesso diventa merce”. Noi che abbiamo accusato per secoli la Chiesa di essere sessuofobica non ci accorgiamo di essere costretti a vivere in una società sesso dipendente, dominata dagli istinti.
Il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa viene affrontato con coraggio, abbandonando antichi ed improponibili steccati: “La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare una società più giusta”, non può e non deve mettersi al posto dello Stato, ma “deve inserirsi per risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia non può affermarsi e prosperare”.
Il Papa esamina il marxismo ed altre dottrine materialistiche, il cui sogno si è rivelato fasullo, mentre la progressiva negazione della trascendenza ha svuotato le ideologie che poggiavano sul materialismo ed ha impoverito l’uomo, privandolo di risposte forti alle domande sul senso della vita, sul bene, sul male e sulla giustizia.
In un mondo oggi preda ed ostaggio della globalizzazione, in cui tutto è merce ed il profitto è divenuto un moloch mostruoso, che avvelena i rapporti tra gli uomini e gli Stati, l’Enciclica ripropone la validità della dottrina sociale della Chiesa, che è ritornata ad essere una bussola affidabile, che propone orientamenti e soluzioni valide.
Ed in ultimo un invito a riconsiderare la forza e l’importanza della preghiera, seguendo l’insegnamento di madre Teresa di Calcutta, che asseriva candidamente che il tempo dedicato ad essa non è sottratto all’efficacia ed all’operosità dell’amore verso il prossimo, ma ne costituisce l’inesauribile sorgente.

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San Valentino, festa degli innamorati

San Valentino, festa degli innamorati non solo dei fidanzati, porta il nome di un santo nostrano, vescovo di Terni e vissuto nel II secolo dopo Cristo. La sua fama ha valicato gli oceani e raggiunto i paesi più lontani, dagli Stati Uniti al Giappone, dall’America latina all’Asia, dovunque ci siano giovani e meno giovani decisi a festeggiare l’amore.
Il rito ha origini antichissime, che si perdono nel mondo pagano e nelle ricorrenze dei Lupercali, ma la cristianità si appropria del mito, quando Sabino, centurione romano, si invaghì della bella Serapia, una giovane cristiana di Terni, ma non potette sposarla per l’ostilità dei genitori, fino all’intervento di Valentino, che converte il giovane. Ma i colpi di scena non sono finiti: la fanciulla si ammala e muore e Sabino non vuole vivere senza di lei e la raggiunge nell’eternità del Paradiso.
Il tema dell’amore, più o meno travagliato, scorre immutato da millenni, da Adamo ed Eva ai nostri giorni, dalle lettere galanti agli sms. La festa invece è stata assimilata dalla civiltà dei consumi ed è stata contaminata dal dio denaro. Prima i fiori ed i cioccolati, poi le cenette nei separè a base di cibi raffinati ed afrodisiaci, fino agli alberghi che offrono suite con idromassaggio e sottofondo musicale.
Ma la cosa più gradita dalle donne è sempre una bella frase d’amore. Forza giovanotti improvvisatevi poeti, sbirciate qualche libro sull’argomento e prendete qualche idea da elaborare con qualche frase o concetto personale. Non eguaglierete Dante o Shakespeare, ma la vostra bella sarà lo stesso felice e ve lo dimostrerà.
Mi sia permesso concludere con un dolce pensiero alla mia amata Elvira, i cui occhi devastanti sono da oltre trent’anni l’unica bussola della mia vita e l’unico motivo per vivere.

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Il mitico Canalone

Molti napoletani hanno sentito parlare del Canalone, quasi nessuno lo ha mai percorso, pochi sanno localizzarlo.
Per me esso era leggendario perché mia madre, da bambina, siamo negli anni venti del secolo scorso, lo scendeva e saliva ogni giorno per andare a scuola, cosa impensabile oggi che non facciamo un passo per nessun motivo, condannandoci anzi tempo ad obesità ed arteriosclerosi.
Questo tortuoso tragitto (per il Tuttocittà Salita Villanova) mette in comunicazione via Manzoni con via Posillipo, attraversando da sotto via Petrarca all’altezza dei Gesuiti.
Il primo tratto è a gradoni, che dolcemente scendono a valle, costeggiando lussureggianti giardini dove il tempo pare si sia fermato, il secondo è una serie di ripidi scalini che in un battibaleno conducono all’arrivo.
Per tutta la passeggiata, che dura non più di quindici minuti, scorci di panorama mozzafiato ed angoli bucolici inaspettati. Bisogna però tollerare un po’ di rovi ed un po’ di spazzatura portata dalla pioggia, ma di monnezza, almeno in questi giorni, forse ne troviamo altrettanta nella elegante e centralissima via dei Mille. Questa originale passeggiata ha costituito l’ultimo appuntamento della stagione per gli Amici delle chiese napoletane, i quali, dopo lo scarpinetto si sono abbondantemente rifocillati, a prezzo fisso, in un famoso ristorante, brindando alla cultura, osannando il presidente e dandosi appuntamento a settembre per un nuovo ciclo di visite delle bellezze napoletane.
A sentire i partecipanti la discesa è da consigliare ed invitiamo tutti i lettori a fare la prova. Per convincervi, la nostra parola d’onore ed una serie di foto su cui meditare.

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Breve storia del reggiseno

Odiato dalle femministe, che ne propugnavano l’abolizione e ne facevano pubblici roghi nelle piazze, la storia del moderno reggiseno è poco più che bicentenaria: dai corsetti civettuoli di inizio Ottocento, come quello esibito dalla leziosa signora immortalata nella litografia di Achille Deveria (fig. 1), fatto su misura e studiato sulle curve della proprietaria, alla produzione in serie, con taglie standard, che a metà del XIX secolo inaugura l’industria della confezione, anche se l’inventrice del primo reggiseno viene generalmente considerata, anche se erroneamente, la signora Mary Jacobs, un’eccentrica americana, che dovendo fare colpo su un miliardario, nel 1914, pensò di indossare un abito trasparente e, per coprire parzialmente le sue grazie, chiuse insieme due fazzoletti con del nastro.
Ma la storia dell’indumento come idea è molto più antica e possiamo collocarla in epoca greca, con l’apodesmo, un rudimentale contenitore delle mammelle adoperato dalle atlete durante le prove sportive, che si trasforma nel mammillare etrusco romano, una fascia che serve a comprimere il petto alle donne più prosperose. Poi lentamente la funzione di sostegno fu superata dal desiderio civettuolo delle cortigiane di utilizzare un indumento di provocante seduzione e di questi gusti e tendenze è ricco di particolari il celebre poeta Marziale, che parla dello strophium come una” trappola a cui nessun uomo può sfuggire, esca che riaccende di continuo l’amorosa fiamma”.
Nel XIII secolo va di moda il pelicon, un corpetto potenziato da una fodera di pelliccia, che scandalizza bacchettoni e benpensanti, tra cui lo stesso Dante, che tuona il suo sdegno con i versi immortali:” le sfacciate donne fiorentine che va mostrando con poppe il petto”. E’ dal Seicento che cominciano a diffondersi i primi corsetti, che incontreranno il gusto delle signore dell’alta società due secoli più tardi. Simili a corazze, si tratta di veri e propri strumenti di tortura, più che di contenzione, fabbricati con stecche di balena donano un vitino sottile e seni alti e prorompenti, ma danno luogo spesso a gravi malformazioni ossee.
Mercurio Scipione nel suo manuale di Ostetricia e puericultura, stampato a Venezia nel 1595, descrive una fascia mamillaris o pectoralis, un sostegno delle mammelle adatto soprattutto alle nutrici, che rappresenta un prototipo abbastanza fedele del reggiseno creato nel XX secolo, sia per la foggia delle coppe, sia per il sistema di sospensione dell’indumento in alto, intorno al collo. Già nel Medioevo erano state ideate ingegnose apparecchiature per sostenere, correggere ed accentuare le curve delle signore, come apprendiamo sfogliando le numerose tavole a corredo di un testo di fine Ottocento: “Le corset a travers les ages”, dove possiamo ammirare un vero apparecchio di tortura, un corsetto in ferro (fig. 2), conservato al museo Carnavalet di Parigi.
Per secoli si erano adoperate delle fasce per sostenere il busto femminile, fino a quando compaiono dei corpetti con funzioni, non solo di sostegno, ma anche decorative. Nella loro confezione vengono adoperate stoffe rigide, ma non di rado trovano utilizzazione anche lamine metalliche che danno luogo a scoraggianti armature. Sono anni poco felici per il corpo delle donne che viene deformato dalle mode, che impongono assurdi canoni anatomici, dal vitino da vespa al sedere da struzzo, dai fianchi
da pachiderma, resi celebri dagli immortali dipinti del Velazquez, ai torace da mucca; per cui imperversano corpetti con stecche di balena e busti di ferro, guaine di gomma e spalline di vimini, crinoline di legno, mentre, fortunatamente, scollature vertiginose, che precorrono il topless, possiamo ammirarle nella godereccia Venezia dei mercanti e nelle operose terre delle Fiandre.
Sul finir dell’Ottocento, dopo l’avvento della produzione in serie, un decisivo progresso è costituito dall’adozione di materiali sintetici dotati di notevole elasticità. Nel 1889 vengono realizzati i primi reggiseno in rayon, un materiale duttile e dotato di riflessi brillanti. La lingeria femminile entra nella modernità. Del 1969 è il primo push up, un vero e proprio air bag ante litteram, prima del quale i reggiseno erano semplicemente goffi strumenti di contenzione, un po’ mortificanti e, per le più dotate, rigidi quanto pesanti imbrigliatori, che raccoglievano, distrattamente, senza erotismo e civetteria, il surplus di massa ghiandolare.
La vera rivoluzione, negli anni Novanta, è l’introduzione sul mercato di un nuovo reggiseno il Wonderbra (fig. 3), che sbanca il mercato negli Stati Uniti, mentre in Europa se ne vendono in pochi mesi 10 milioni di pezzi, grazie alla molteplicità dei modelli, ma soprattutto grazie alle grazie di Eva Herzigova, una bomba sexy di conturbante bellezza, Seguiranno come testimonial altre bellezze dell’Est, da Adriana Sklenarikova, dalle interminabili gambe (un metro e ventisette centimetri) (fig. 4) a Tatiana Zavialova.
La battaglia tra le case specializzate diventa un business miliardario e prosegue senza sosta, tra America, Europa e Cina. Esse promettono forme giunoniche ed un seno prosperoso e rubicondo a tutte, anche se si tratta di un abile trucco.
Nel 2000 esce un nuovo reggiseno che promette faville, il Nothing but curves, che trova diffusione per merito di Julia Roberts, un’attrice tanto brava quanto notoriamente piallata, che viceversa in alcune inquadrature maliziose del film Eric Brockovich fa gridare al miracolo. Anche l’Italia farà sentire la sua voce sul mercato con un reggiseno ultratecnologico della Parah, basato non più sul silicone o sull’olio, bensì sull’aria, a tal punto da pesare solo 55 grammi.
Per il battesimo del nuovo prodigio tecnologico, una bellezza nostrana, dalle curve al punto giusto: Nathalie Caldonazzo, che mostra con raffinata seduzione il nuovo acquisto ad alta quota, a bordo di un Boeing 777 della nostra compagnia di bandiera.
La guerra continua, ingegneri e stilisti, esperti di stoffe e tecnici dei materiali elastici sono al lavoro per creare nuovi e più aggressivi prodotti. Eliminati rivestimenti, lacci e cuscinetti, ferri ed alette, imbottiture e spalline, si punta oggi su modelli al tempo stesso più semplici e più sensuali.
Trasparenti o coprenti, in tulle o in pizzo, i reggiseno sono divenuti un costoso oggetto del desiderio, un’arma impropria per sedurre delle donne che vogliono indossarlo orgogliose per degli uomini che ambiscono a sfilarli vogliosi. L’ultima frontiera è costituita dai reggiseno accessoriati dai prodigi della tecnologia, dal modello inglese ripieno di whisky, con tanto di cannuccia per offrire un sorso ad un maschio in difficoltà, al reggiseno anti stupro, con un chip in grado di registrare l’accellerazione del battito cardiaco dovuto alla paura e di lanciare l’allarme con un sibilo acuto e vigoroso; senza dimenticare una creazione australiana dotata di delicati sensori in grado di espandersi e contrarsi a secondo delle necessità ed infine, per le fanatiche del sesso sicuro, il taschino accessorio porta preservativo.
Tra le trasgressioni, oltre a piume, metalli o pellicce, un grande successo hanno incontrato i reggiseno al sapore, ricercatissimi quelli al gusto di cioccolato al latte, da assaporare, leccare e mangiare con vorace libidine. L’ultima tendenza, per conquistare nuove fette di mercato e, nello stesso tempo, assecondare il desiderio delle donne di ostentare, è costituita dalla trasformazione del reggiseno da lingerie a look da sera, da accessorio celato e falsamente pudico da svelare solo all’occhio giusto a feticcio da esibire in pubblico; è il trionfo di strass, perline, bagliori, trasparenze, applicazioni e rifiniture vistose, da capo di abbigliamento intimo a strumento di provocazione e di fascino. L’intimo griffato promette di trasformarsi in un vero Eldorado per le case di moda che, alle ultime sfilate, hanno presentato modelli a metà strada tra la camera da letto e la serata di gala. Sarà un vero peccato disfarsi, nel momento della verità, di una lingeria così preziosa.
Grazie a queste ingegnose creazioni una ventata di eguaglianza tra più e meno dotate si è venuta a creare tra i decolletè del gentil sesso, complice anche il massiccio ricorso alla mastoplastica additiva, che ha prodotto legioni di seni tutti uguali, ma senza anima.
Oggi l’industria sta inasprendo la battaglia di conquista di quel ampio territorio senza confini costituito dall’insicurezza delle donne. Promette loro bellezza, giovinezza eterna, sesso, amore, felicità, fortuna e carriera, basta scegliere il reggiseno all’ultima moda; in cambio, oltre al denaro, chiede di annullare la verità del loro corpo e quindi di omologarsi in un universo uguale per tutte, in un prodotto massificato e triste come fu un tempo la giacca di Mao per i cinesi e per i falsi intellettuali di tutto il mondo.

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Immortalità: sogno o realtà

Il sogno dell’immortalità ha solleticato l’uomo sin dalla notte dei tempi, come dimostrano graffiti, antiche leggende, dall’epopea di Gilgamesh alla mitica Shangri La, dal mito di Titone al sogno di Faust ed i corredi funerari che accompagnavano i potenti nel difficile percorso verso l’ignoto.
Le recenti scoperte della medicina e della biologia, in primis la clonazione, hanno aperto un promettente sipario sul destino dell’uomo, che non vuole arrendersi alla caducità della vita.
Oggi tre forme di immortalità sono perseguibili. Per il credente vi è il cammino più semplice. Una volta accettata l’idea di un’anima, diversa e separata dal corpo, basta comportarsi secondo i dettami previsti dalla propria religione ed è pronta una vita eterna, il Paradiso per i cristiani, un lussureggiante giardino colmo di vergini per l’islamico, un tortuoso percorso di reincarnazioni per gli induisti.
Per gli antichi Greci e per molti laici l’unica possibile forma di immortalità è costituita dalla memoria dei posteri, per qualche generazione o per millenni, privilegio riservato ai grandi dell’umanità. Ed a questa immortalità ridotta… possono accedere tutti gli esseri viventi, ne godono infatti i miei splendidi rottweiler Lady ed Athos, che continuano a vivere nel mio ricordo e nel mio cuore. Per i minerali e per i metalli, come ci ammoniva l’impareggiabile Totò in una toccante poesia: la morte semplicemente non esiste.
Oggi le scoperte della scienza, dalla ingegneria genetica alla chirurgia dei trapianti, dalle tecniche di ibernazione alla clonazione, ci aprono sconfinati orizzonti ed il sogno dell’immortalità, assopito, prende forza e vigore. Possedere un clone e poter trasferire nel nuovo involucro le proprie esperienze rappresenta un sogno malizioso, ma presto realizzabile.
L’etica lo vieta, vi saranno insuperabili problemi di sovrappopolazione di disparità di accesso e tanti altri ancora, ma nessuno potrà vietare ad ognuno di noi di sognare l’immortalità.
Si è aperta una finestra su un mondo nuovo, del quale non riconosciamo i confini, ma confidiamo di poter partecipare alla più straordinaria avventura dell’umanità, da far impallidire l’audacia di Ulisse. Il nostro cuore si riempie di orgoglio e commozione, come Mosè dalla cima del monte Nebo intravediamo la Terra Promessa.

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Il tempo

Noi viviamo immersi nel tempo e ciò rappresenta un grande mistero ancora senza soluzione.
Il grande Sant'Agostino a tale proposito era lapidario:" So bene cosa sia il tempo, ma se mi chiedono cosa sia non so rispondere". Per capirne il valore vogliamo provare a chiedere cosa rappresenti a chi ne ha vissuto intensamente una frazione. Per capire il valore di un anno chiederemo lumi ad uno studente che è stato bocciato; per intendere il valore di un mese ci rivolgeremo ad una madre che ha partorito prematuramente; per capire il valore di una settimana chiederemo all'editore di un settimanale; per valutare il valore di un'ora chiederemo all'innamorato Achille che attende in ritardo di incontrarsi con l'amata Elvira; per apprendere l'importanza di un minuto possiamo saperlo da chi ha appena perso il treno; per capire l'importanza di un secondo ci rivolgeremo a chi ha appena evitato un incidente; per capire l'importanza di un decimo di secondo chiederemo all'atleta che per esso ha perso l'alloro olimpico; Ieri: storia; domani: mistero. Non ci resta che da vivere ed intensamente il presente, cercando ciò che più ci piace: salute, felicità, successo, mentre l'orologio del tempo prosegue inesorabile il suo cammino.

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In ricordo di Luigi Amalfi

Un altro gentiluomo di altri tempi ci ha lasciato. Luigi Amalfi era il decano degli scacchisti campani, da sempre organizzatore infaticabile di tornei e manifestazioni scacchistiche di respiro internazionale.
Presidente onorario della Lega scacchistica, da decenni si interessava alla diffusione del nobile giuoco nelle scuole, approfittando della sua esperienza di lavoro come direttore didattico, che gli permetteva di vivere a contatto con i giovani e di conoscerne ansie e desideri.
Credeva fermamente nella funzione pedagogica degli scacchi, che più che un passatempo sono una utile palestra per la mente ed il carattere, educando alla concentrazione ed al calcolo, non meno che alla correttezza e alla lealtà. Arbitro internazionale, aveva ricoperto a lungo cariche di responsabilità nell’ambito delle Federazione, sempre apprezzato per le sue doti di amabile conversatore ed abile organizzatore di eventi.
Redattore nelle riviste specializzate del settore, per anni era stato titolare di una fortunata rubrica”Come giocheresti?”, che ha appassionato giocatori di ogni livello alla ricerca della giusta soluzione.
L’auspicio del mondo scacchistico è che il suo esempio di correttezza e dedizione venga recepito dai giovani giocatori, per non disperderete una passione coltivata lungo l’arco di un’intera vita.

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Un originale albero di Natale

Una eccezionale rarità iconografica, che farà discutere a lungo storici dell’arte e del costume, bacchettoni e antropologi, è ritornata alla luce, dopo secoli di forzato oblio, a Massa Marittima, ridente paesino toscano dal glorioso passato medioevale: un albero dai frutti prodigiosi. Non si tratta né di pomi né di agrumi, bensì di sessi maschili, numerosi ed al punto giusto di maturazione.
Pochi dei miei lettori, solo i più affezionati, ricorderanno un mio articolo di circa 10 anni fa, ripubblicato ora nella miscellanea “Le ragioni di della Ragione”, che rendeva conto di una mia rara scoperta iconografica. Un affresco, risalente al secolo XIV, con un Cristo nudo, che esponeva senza pudicizia i suoi attributi virili, che si erano salvati dalla furia iconoclasta del tempo, perchè la chiesa che lo ospitava era stata coperta da una successiva, la quale aveva funzionato, fino a pochi anni or sono, da gigantesco perizoma architettonico.
Nell’affresco di Massa Marittima il salvataggio… è consistito in uno spesso strato di calcare naturale, che ha ricoperto per secoli il dipinto da sguardi censori, che non sono mancati, soprattutto durante la Controriforma. Un recupero dell’edificio, le Fonti dell’Abbondanza, un grande loggiato costruito nel 1265, dove sgorgavano le acque sorgive cittadine, ha permesso la straordinaria scoperta.
Il dipinto, di scuola senese, raffigura un imponente albero della vita gotico (fig. 1) ai cui rami frondosi sono appesi in bella mostra una moltitudine di falli turgidi (fig. 2), che attirano l’attenzione, sia di corvi famelici che di due gruppetti di donne posti ai due lati ai piedi dell’albero. Le donne a destra della composizione sembrano aspettare pazientemente il loro turno di raccolta…, mentre quello a sinistra è variamente impegnato(fig. 3): una donzella cerca di allontanare con un bastone i corvi, per salvaguardare l’integrità dei frutti…, due donne si accapigliano ferocemente nel disputarsi un poderoso esemplare ed infine una fanciulla, di nascosto, ne sta nascondendo uno, molto appetibile dietro la veste.
L’opera rappresenta un unicum iconografico, non solo per la pittura italiana, ma in tutta l’arte occidentale. Probabilmente, anche se nessuna fonte locale ne accenna, rappresenta simbolicamente una di quelle originali processioni, di derivazione pagana: le falloforie, durante le quali si portavano in giro per il contado dei falli giganteschi per propiziarsi la fecondità della terra e verso questi simulacri priapei accorrevano le fanciulle del luogo, le sposate per accarezzarli, le vergini per baciarli, assicurandosi per il futuro contro la sterilità.
Discutendo con il professor Bagnoli, illustre storico dell’arte dell’università di Siena, della sorprendente scoperta, viene in mente l’unico dipinto che possa apparentarsi a quello di Massa Marittima: una piccola decorazione su una parete del castello di Moos di Appiano nel Trentino. Un opera coeva realizzata in un periodo in cui la nostra pittura si nutriva esclusivamente di scene religiose convenzionali, ma nel caso in questione si trattava di un prodotto destinato allo sguardo ed al divertimento privato dei nobili, mentre nel nostro albero dell’abbondanza... ci troviamo, per la sua collocazione in luogo pubblico, davanti ad un affresco realizzato per essere esposto orgogliosamente al popolo su commissione di un’autorità cittadina (fig. 4-5).
Per chi volesse accertarsi de visu di questa piccante scoperta artistica consigliamo di affrettarsi, perchè purtroppo il calcare eliminato dai restauratori si sta riformando rapidamente, per via dell’acqua sorgiva che scorre proprio alle spalle dell’affresco, il quale rischia in tempi brevi di essere ricoperto.
E sarebbe un vero peccato che questo messaggio di gioia e di speranza pagana, passato indenne alla furia sessuofobica dei secoli scorsi, quando la Chiesa mise le mutande anche ai capolavori ignudi dell’immortale Michelangelo nella Cappella Sistina, dovesse scomparire di nuovo e forse definitivamente.

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L’Albergo dei poveri diventa dei ricchi

Tempi felici quando Napoli non aveva al comune, alla provincia ed alla regione gli attuali amministratori e regnava incontrastato Carlo III, tempi felici almeno per la miriade di poveracci che l’illuminato sovrano alloggiò in uno sterminato edificio, il più grande d’Europa ed ai quali fornì non solo sostentamento, ma insegnò un lavoro che desse dignità e rispetto agli ultimi della terra…
La grande opera fu ammirata in tutto il mondo, non solo per l’arditezza delle scelte architettoniche, tra cui la facciata (lunga 600 metri!), ma soprattutto per l’idea che la permeava: dare un alloggio ed un lavoro anche ai più poveri e sfortunati. Arrivò a contenere più di diecimila ospiti e possedeva laboratori attrezzati ed efficienti nei quali si sono formate generazioni di artigiani. Quando Garibaldi, il conquistatore, venne a Napoli con l’illusione di portarvi la civiltà, nell’Albergo dei poveri vi erano 8000 ospiti.
In seguito l’istituzione nel periodo post unitario è lentamente decaduta, fino a cadere in rovina con l’ultimo colpo di grazia infertole dal terremoto del 1980.
Da decenni si blatera di una nuova destinazione: si parla di sede museale(come se a Napoli a mancare non fossero i visitatori ma i contenitori), di sede espositiva di arte contemporanea, di una nuova università, mentre i nostri solerti amministratori si accapigliano su chi dovrà elaborare i faraonici progetti e dirigere i dispendiosi lavori di ristrutturazione e soprattutto come dividersi commesse e tangenti.
E nel frattempo il numero dei poveri e dei senza casa, costretti a dormire avendo il cielo come tetto, aumenta ogni giorno di più.
La piazza antistante lo storico edificio è affollata di giacigli di cartone, dove uomini e donne di tutte le età hanno stabilito da tempo la loro dimora ed ogni angolo della città è divenuto oramai un ricettacolo per poveri senza speranza.
Pensiamo scioccamente a destinazioni culturali ad uso dei ricchi, quando migliaia di persone non possiedono un tetto e sono costrette all’accattonaggio o ad infrangere il codice penale.
Restituiamo all’Albergo dei poveri l’antica quanto mai attuale destinazione: daremo così un tetto ed un pasto a tanti sfortunati e diverrebbe in tal modo ingiustificato l’accattonaggio, che potrebbe essere perseguito, snidando i postulanti di mestiere, che da tempo hanno tolto il decoro a strade e piazze del

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