Una festa di Carnevale indimenticabile

di Achille della Ragione

 

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La tradizione del Carnevale risale ai tempi lontani della Serenissima, quando era famosa in tutta Europa, ma riprese in grande stile a partire dal 1980, quando riempì del suo eco il mondo intero.
Soltanto Venezia, una città senza futuro, può rivivere pienamente il passato, dove il bello è a diretto contatto con la fine. Dietro l’essere nel suo pieno fulgore c’è solo il fantasma della morte. Se le persone indossassero sempre maschere in un luogo che vive più di passato che di presente sarebbero il tragico specchio di essa.
Eppure Venezia la senti sotto pelle quando ne indossi il passato. Da quando celebrò lo Sposalizio col Mare sul regale Bucintoro, essa si legò ad un destino superiore e dai fasti splendori iniziò a decadere progressivamente. Alcuni dipinti ed affreschi ricordano nostalgicamente la sua maestà trascorsa: il Canaletto, il Guardi, il Bellotto, ne hanno magistralmente immortalato la bellezza. E niente è ridicolo, trasgressivo, impossibile nelle vie dove gli insetti ti pungono, o lungo i canali dove i topi galleggiano e i mendicanti, prima di morire, magari ubriachi, tendono ancora la mano perché sanno che la vita è generosa, mentre loro sono ormai sul triste ponte, dove la Signora vestita di nero con la falce in mano li attende.
Venezia a prima mattina è ancora un po’ dormiente, va svegliandosi gradualmente verso l’imbrunire come se nel tempo l’uomo “gaudens” l’avesse abituata al proprio ritmo circadiano. Dopo il crepuscolo incomincia a rianimarsi, ma soltanto a cena consumata le sue energie sono pronte e disponibili. Allora i vizi escono dalla prigione e si liberano in tutte le direzioni, dal gioco d’azzardo del Casinò alle cortigiane notturne, che hanno solo cambiato abitudini rispetto al passato, in cui famose ad ogni angolo erano le belle veneziane che desideravano il piacere e ad esso si offrivano. Le maschere diventano provocanti e la città rivela la sua indole più pagana che cristiana.
In passato partecipare alle favolose feste in maschera al Cipriani era un’impresa impegnativa, non solo per il costo del biglietto, proibitivo, per la necessità di indossare un costume in sintonia con il tema prescelto, ma soprattutto perché bisognava prenotarsi con un anno di anticipo.
Rammento nel 1984, quando per la prima volta decidemmo di trascorrere il Carnevale a Venezia e sentimmo parlare di queste feste favolose, la mia ricerca spasmodica per procurare gli inviti. La direzione alla mia richiesta sorrise perché i biglietti erano esauriti da mesi e potevo eventualmente acquistare quelli per il 1985. Era l’anno di un gemellaggio tra Venezia e Napoli e mi venne l’idea di telefonare a nome di un personaggio influente per ottenere in extremis la possibilità di partecipare ad uno dei veglioni in maschera.
Scelsi di spacciarmi per l’onorevole Gava e nel ristorante dove cenavamo assieme ai nostri amici Vittoria e Gino chiesi dove fosse il telefono(erano gli anni preistorici prima dell’invenzione dei cellulari). Il cameriere mi disse che non dovevo alzarmi perché avrebbe portato a tavola l’apparecchio ed infatti, munito di un interminabile filo, comparve un elegante telefono bianco. Imbarazzato per la presenza di tanti occasionali ascoltatori composi il numero e, fingendo prima la voce femminile di una segretaria, mi feci passare il direttore del Cipriani, al quale, qualificandomi per il vegliardo senatore, chiesi un paio di biglietti per una coppia di ospiti importanti ed influenti che desideravano, pagando regolarmente, ardentemente partecipare alla festa; non li avrei accompagnato perché molto stanco.
Il direttore si mise a disposizione, ma volle per forza fornire dei biglietti omaggio, che purtroppo non potetti utilizzare, timoroso, una volta scoperto di essere accusato di truffa, mentre se avessi potuto averli pagando non vi sarebbero stati problemi, dato che a Carnevale ogni scherzo vale. Vidi con malinconia la lancia con un impiegato con i biglietti dirigersi verso l’albergo che avevo indicato come dimora di questa coppia importante alla quale non si poteva dire di no.
Per l’anno successivo ci preparammo in tempo acquistando i biglietti con grande anticipo e preparando i travestimenti per le tre feste che avevano temi diversi: la prima, il venerdì, la lunga notte indiana Achille maragià, Elvira odalisca, la seconda, il sabato, il grande circo, io pagliaccio, la mia consorte domatrice, l’ultima, il martedì, di tendenza trasgressiva, prete e coniglietta; abbigliamento talare che adoperai anche per la serata di domenica quando ci recammo al casinò, dove all’ingresso volevano vietarmi di accedere, perché privo della cravatta; evidentemente avevano scambiato un luogo di vizio e perdizione per il Parlamento. Io indossavo una giacca rossa con il collo chiuso e non si vedeva che da sotto vi era l’abito da prete. Protestai vivacemente per il divieto che volevano impormi:” Giovanotto, ma cosa vuole, che indossi una cravatta sulla mia divisa?” Fu chiamato un dirigente che, per quanto meravigliato dal fatto che fossi in compagnia di due signore, giovani, belle e scollacciate, mi autorizzò ad entrare ed a sedermi ai tavoli da gioco. Feci prima un giro nei vari locali, alternandomi al braccio delle mie accompagnatrici, tenendole strette ed accarezzandole appassionatamente tra lo stupore generale. Mi sedetti poi ad un tavolo di roulette e cominciai a vincere una cifra considerevole. Il mio stato laicale fu scoperto soltanto quando, fatta una cospicua puntata sul 28 ed uscito il 29, bestemmiai vigorosamente le principali divinità delle religioni monoteiste.
Attirati dal fascino misterioso del Carnevale negli anni successivi ci recammo altre tre volte a Venezia negli anni Ottanta, naturalmente approfittando dell’occasione anche per visitare mostre e rivedere palazzi, musei, campi e campielli. Ed inoltre Tintoretto e le Procuratie Vecchie a Piazza San Marco così suggestive quando c’è il fenomeno delle acque alte, le quali si specchiano su quella ingannevole superficie che raddoppia in un fallace rimando all’infinito i portici e gli archi già così numerosi. Il richiamo delle attività culturali così intense a Venezia è poi cosa nota in ogni luogo: dal Festival del Cinema alle Biennali di Arte e di Architettura, dalle anteprime teatrali a tavole rotonde sugli argomenti più disparati, ma l’attrattiva irresistibile era sempre costituita da quelle feste magiche in maschera che si tenevano in uno degli alberghi più esclusivi del mondo: il Cipriani.

Febbraio 1995, Elvira e Achille, memori delle favolose feste di Carnevale degli anni Ottanta alle quali avevano partecipato, decisero di ritornare a Venezia all’Hotel Cipriani per cercare di nuovo un’occasione di divertimento e di trasgressione. Compagni di baldoria Sonia e Diego, una coppia di amici di vecchia data, simpatica e soprattutto carica di denaro, perché il biglietto per la serata di gala nel principesco albergo costava un milione a persona.
In passato partecipare alle feste in maschera al Cipriani era un’impresa impegnativa, non solo per il costo del biglietto, proibitivo, per la necessità di indossare un costume in sintonia con il tema prescelto, ma soprattutto perché bisognava prenotarsi con un anno di anticipo.
Come era nella nostra consuetudine ci prenotammo per la famosa festa all’hotel Cipriani, che si svolgeva in una cornice di pubblico selezionato, per la maggior parte tutti clienti dell’albergo, oltremodo esclusivo.
Dopo una cena pantagruelica alla fine della serata era prevista la sfilata per la premiazione della maschera più bella. Quella sera annunciarono il premio anche per la maschera più divertente, anzi affermarono che poiché il Carnevale è soprattutto divertimento era stato previsto un premio record di dieci milioni. Io ero vestito da diavolo, un travestimento semplice basato su una calzamaglia rosso fuoco, che andava indossata direttamente sul corpo e che, facendo trasparire le forme anatomiche, non lasciava molto all’immaginazione, inoltre vi era una coda rigida che si poteva far ribaltare in avanti simulando ben altro organo.
Due graziose hostess dell’albergo in divisa rossa furono attirate dal colore del mio abito e, dopo avermi fornito il numero per la gara, mi invitarono a fare con loro un giro tra gli ospiti per procacciarmi voti a favore.
Passando tra i tavoli feci un po’ di moine alle signore, soprattutto a quelle di annata, che erano la maggioranza ed a molte feci toccare l’appendice caudale, promettendo in caso di voto positivo, una tastata ben più coriacea e dirompente ed eventuali nottate di fuoco; il tutto tra lo scrosciare di applausi entusiasti ed un’andatura ancheggiante, che rivaleggiava con quella leggendaria di Totò.
Dopo le 22 avvenne la premiazione, alla quale non pensavo oramai più, al punto che con alcuni amici incontrati alla festa, tra i quali Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, ci eravamo trasferiti su un terrazzo a discutere animatamente, in egual misura, di arte e di mondanità. Da lontano sentii più volte una voce che scandiva un numero e lo invitava sul palcoscenico, solo dopo vari richiami capii che si trattava del mio numero: avevo vinto il primo premio, una vera sorpresa perché al veglione erano presenti circa mille persone.
Non si trattava di un premio in vile danaro, ma del soggiorno gratuito di quattro giorni per una coppia da trascorrere nell’hotel Cipriani, dove per inciso una giornata a pensione completa costava un milione e mezzo a persona.
Decidemmo di trascorrere questi giorni di svago nel mese di ottobre e di nuovo compagni(per loro a pagamento) Sonia e Diego, i quali poi per uno sciopero degli aerei da Roma saltarono l’appuntamento.
Dovetti fare numerose telefonate per fissare la camera, perché l’albergo era quasi sempre esaurito. Naturalmente non segnalavo nel prenotarmi che saremmo stati ospiti a sbafo. Sonia, la nostra amica, voleva assolutamente una camera con vista sul canale, che per inciso era gravata da un supplemento di un milione al dì e questa preferenza rendeva ancor più difficile la disponibilità.
Appena giunti in albergo fummo accolti con tutti gli onori, che non scemarono quando io presentai il coupon che ci garantiva il soggiorno gratuito.
Preso possesso della suite mi accorsi che il balcone si affacciava sul canale, per cui, memore del salato supplemento, mi precipitai alla reception per rammentare la nostra posizione di non paganti, ma fui accolto da un malizioso sorriso.
Ci apprestavamo a valutare piacevolmente l’elasticità dei materassi, quando bussò alla porta ed una cameriera ci consegnò un gigantesco fascio di rose, Elvira credette per un attimo ad un mio cortese pensiero, ma la fantesca chiarì trattarsi di un benvenuto della direzione ai graditi ospiti.
Di nuovo a letto pronti a passare a vie di fatto e ad una memorabile tenzone amorosa quando di nuovo il campanello ci interrompe: un valletto ci consegna una bottiglia di Moet Chandon con i complimenti del direttore.
Brindiamo al nostro soggiorno e fummo folgorati dalla certezza che quei giorni sarebbero stati un dolce e prezioso momento di grande amore, vissuto tra rose, champagne e serenate col violino serali.
Elvira provava nel momento in cui si allontanava dai rumori del clima carnascialesco, una sensazione drammatica di coesistenza tra il sublime e la negazione di esso, come un trancio improvviso. Nella patria della Serenissima la vita s’immergeva sensuale nel vortice delle passioni tumultuose, dalle quali con fatica risorgeva all’alba, dimentica dei piaceri notturni, ma forse con una invisibile ferita in più sul volto, profondamente segnato dall’insieme di esse.
E le nebbie, che di giorno accompagnavano stancamente i passanti non ancora ben desti, i quali risentivano ancora dei bagordi trascorsi nella notte, chiudevano in alto un mondo senza schiarite di orizzonti futuri.
Era il mal di Venezia che prende gli uomini, li contagia e li isola nella laguna morente, che grida la sua fine mentre il mondo la ignora. E se partono, fatalmente ritornano perché l’attrazione può essere come la morte che sa aspettare ma prima o poi esige lo scotto da pagare.
Elvira dormiva poco a Venezia, lasciava Achille ancora a letto e lievemente stordita per la mancanza di sonno, ma spinta dal desiderio di non perdersi il risveglio lento e pigro della città, si dirigeva verso piazza San Marco al Caffè Florian, dove nel torpore di ogni mattina, oltre alla pausa per la cosa con la curiosità di un obiettivo fotografico alla ricerca di segreti custoditi gelosamente da chi per l’amore di quella città si era trasformato in una sua cariatide. Tali apparivano ad Elvira alcuni strani personaggi seduti dietro la vetrata Art Dèco con lo sguardo fisso nel vuoto e il cuore stretto pateticamente nella loro solitudine. Anche lei si sedeva non solo per capire ma per assaporare l’atmosfera che le piaceva. Ordinava l’Irish Coffee, che secondo lei i barman preparavano in modo divino, scorreva qua e là le notizie del quotidiano e poi rientrava in albergo.
In seguito non le piacque più Venezia quando il Carnevale si volgarizzò, anche quel palpito vitale si spense. Le sarebbero mancate le maschere, quei volti non umani, espressioni grottesche e seriose, sculture drammatiche, immagini evocanti un passato che non le apparteneva, ma le piaceva perché aveva un’anima che esprimeva la gioia di vivere. Ricordava quando improvvisamente sbucavano dal nulla, imponendosi al suo sguardo e alla sua riflessione, oppure, quando imboccava la penombra di un sottoportego e all’uscita la luce le faceva notare la presenza angosciante di un essere umano, che portava a spasso una butta sul suo volto: un “memento mori” e subito dopo magari incrociava la maschera radiosa del sole, un disco dorato e paffuto sulle guance con tanti raggi intorno: miraggio ambiguo della nostra interiorità.
Purtroppo quel soggiorno a Venezia per noi è stato l’ultimo, ma fin quando c’è vita c’è speranza.

  Achille della Ragione – Elvira Brunetti

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