Volume II
di Achille della Ragione
Indice
Premessa
1. L’ospedale delle bambole e la fantasia degli artigiani
2. Curiosità nel Gabinetto erotico
3. Via Costantinopoli, un’arteria da rivitalizzare
4. Il trionfo dei mercatini
5. Partivano i bastimenti, oggi arrivano gli ultimi della Terra
6. Isso, essa e o malamente, l’epopea della sceneggiata
7. Statue che raccontano
8. Il segno di un’antica pietà nei cimiteri
9. Necessità di un nuovo Masaniello
10. L’odissea infinita della metropolitana
11. L’agonia delle torri aragonesi
12. Il lotto, il sogno dei poveri
13. Una felice mescolanza di popoli e razze: Napoli chioccia generosa
14. Fatti e misfatti di Napoli
15. Dalla peste al colera
16. La nascita del cinema e della televisione
17. L’inesauribile fame dei mangia maccheroni
18. Il crepuscolo delle coscienze
19. Scugnizzi, un mito duro a morire
20. La piazza dell’eterna confusione ed i fantasmi degli impiccati
21. Una grandiosa festa dimenticata: le Quarant’ore
22. Una città sacra abitata da diavoli
23. Un record di chiese sconsacrate
24. Grandi tribunali per una giustizia negata
25. Feste popolari e tradizioni secolari
26. Suor Giulia, una torbida storia di sesso e religione
27. Un mondo in frantumi
28. I primati di Napoli
29. Il mare non bagna Napoli
30. Facite ammuina: i mille suoni di una civiltà
31. La triste capitale della monnezza
32. La guerriglia di Capodanno
33. Scì scì piazza dei Martiri
34. La solitaria protesta della tammurriata
35. La cintura degli ipermercati e dei centri commerciali
36. Un museo per Totò, Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più
37. Il flagello ubiquitario della droga
38. Da Villa reale a Villa comunale
39. Un esercito di puttane colorate nel regno dei casalesi
40. Una diaspora rovinosa
41. La Napoli che nessuno racconta
42. La scuola di Posillipo ed il mito dell’armonia perduta
43. Napoli nelle pagine degli scrittori
44. Il patetico canto dei neomelodici
45. Una nuova attrazione turistica per Napoli
46. Dal biribisso alla tombola
47. Un Sud che non deve morire
48. Viaggio tra le grotte dove San Michele sconfisse il male
49. Il pesce Nicolò e la leggenda del coccodrillo
50. Guappi e malafemmene
51. Castelnuovo, una superba fortezza
52. La nuova metropolitana: una felice sintesi tra arte, storia e funzionalità
53. La nascita di Fuorigrotta
54. I riti della fertilità
55. Il triste declino della biblioteca dei Girolamini
56. Antico splendore ed attuale miseria delle Ville Vesuviane
57. Storia dell’aborto a Napoli ed in Italia
58. Il Teatro Margherita e il Cafè-Chantant
59. Un grande progetto per rilanciare la Campania
Premessa
Vado via da Napoli perché
Vado via da Napoli perché per un giovane, soprattutto se laureato, non è
possibile trovare un lavoro dignitoso, perché in città vi sono troppi furbi
e disonesti, perché se la città è così malridotta la colpa è anche dei
napoletani, perché tanti cittadini abbandonano per terra il sacchetto della
spazzatura invece di metterlo nei contenitori, perché non posso sopportare
la vista delle auto parcheggiate in quarta fila, perché non tollero che i
guardiani nei musei chiacchierino ad alta voce tra di loro invece di stare
attenti ai tesori loro affidati, perché non voglio pagare il pizzo se debbo
parcheggiare, perché si discute solo di Maradona e del Napoli, perché sono
stufo di vedere le strade piene di voragini invase dalla monnezza, perché il
mare è ridotto ad una lurida cloaca, perché le aiuole non sono curate, i
semafori ignorati, perché dalle finestre delle scuole non si vede il mare
bensì orribili palazzoni, perché sono stanco di lottare ogni giorno per
sopravvivere in questa giungla, vado via perché non ce la faccio più, anche
se so che andandomene la città perderà un altro soldato che combatta per
l’ultima speranza di riscatto.
L’ospedale delle bambole e la fantasia degli artigiani
Negli ultimi anni si è cercato, attraverso iniziative encomiabili come
Monumenti porte aperte, di far riemergere da un colpevole oblio i tesori
artistici della città, che potrebbero costituire un’irresistibile attrazione
turistica, ma poco si è fatto per difendere e valorizzare una realtà
culturale ancora più sommersa e misconosciuta di quella monumentale:
l’artigianato artistico.
Napoli è ricca di botteghe di corniciai, indoratori, restauratori,
tappezzieri, tipografi, falegnami, creatori di pastori e di presepi, tutti
testimoni di attività plurisecolari.
Il costo del lavoro irrisorio, che i paesi emergenti come Cina o India
riescono a praticare, ha messo in ginocchio alcune lavorazioni artigianali
come i guanti e le calzature, le quali riuscivano ad esportare gran parte
della loro produzione e che fino a pochi anni fa costituivano l’80% del
fatturato italiano dei guanti ed il 30% delle scarpe, con alcuni modelli di
gran pregio che raggiungevano i negozi di Bond Street, del Boulevard des
Capucines, della Leids Straat e della Wasa Gatan.
La sfida è sulla qualità che gli artigiani napoletani riescono ancora a
garantire, ma bisogna incoraggiare il ricambio generazionale, invogliando i
giovani a proseguire il lavoro dei genitori, oltre a garantire il credito
alle centinaia di aziende che devono rinnovare i macchinari.
La globalizzazione e l’automazione hanno inferto colpi micidiali ai valori
sui quali viveva e prosperava l’artigianato, quel filone fecondo del tessuto
economico cittadino, che ha sempre rappresentato la laboriosità e la
fantasia del napoletano.
Preservare le tradizioni è quanto mai necessario oggi che la produzione in
serie tende ad annichilire quel tocco di personalità che l’artigiano sa
infondere nei suoi lavori. Bisogna rinnovarsi, senza tradire quel patrimonio
di esperienza accumulato nei secoli e districarsi in un mercato che si
presenta sempre più difficile.
Il valore artistico del prodotto artigianale è oramai ampiamente
riconosciuto, le botteghe restituiscono al visitatore atmosfere ricche di
fascino, odori antichi e particolari unici che rendono questi centri di
produzione monumenti alla creatività ed all’abilità tecnica. In questi
locali che contribuiscono a creare l’identità urbana di un paese o di una
città, storia ed artigianato dialogano e si intrecciano ininterrottamente da
decenni. In questa ottica valorizzare le botteghe storiche significa
presidiare e difendere i centri storici della città, sempre più esposti a un
progressivo abbandono degli esercizi più antichi che lasciano il posto ad
attività di servizio standardizzato.
Il cittadino, il turista, l’appassionato possono scoprire, seguendo le
tracce delle antiche botteghe, i segni di un vissuto non solo commerciale,
ma anche culturale ed artistico del territorio. In una logica di sistema,
l’artigianato legato al progetto di valorizzazione turistica resta un volano
culturale insostituibile per l’aumento dell’occupazione, soprattutto delle
nuove generazioni.
Ad incoraggiare tanti umili artigiani valga l’esempio di coloro che hanno
raggiunto con il loro lavoro notorietà internazione come Lello Esposito con
i suoi Pulcinella, Marinella con le sue cravatte o il mitico ospedale delle
bambole.
Lello Esposito, uno dei grandi artigiani artisti internazionali che la città
esprime, vive e lavora tra Napoli e New York. "La mia sfida” ci ha
confidato” è parlare in napoletano ed andare in giro per il mondo, mentre
continuo a dare segnali universali attraverso l'amore, l'ostinazione di
lavorare sulla città in una continua evoluzione dei miei pulcinella."
Il personaggio, scultore e pittore, da circa trent'anni lavora su alcuni
simboli partenopei: Pulcinella, la maschera, l'uovo, il teschio, il vulcano,
il cavallo, San Gennaro al corno nelle varie possibili metamorfosi, che
sembrano percorrere parallelamente, per poi incontrarsi su un piano
artistico e contemporaneo attraverso le diverse metamorfosi espressive di
Pulcinella e della sua maschera in una danza pura ed elegante di alto
contenuto simbolico.
Svolge una ricerca che nel tempo gli ha permesso di sperimentare scultura e
pittura e di realizzare un’evoluzione di significati, di dimensioni e di
tecniche artistiche. Per le sculture e le installazioni utilizza materiali
di vario tipo - bronzo e alluminio – e dipinge tele di grandi dimensioni.
Egli ama definirsi “artista di culto" per l’indagine portata avanti sugli
archetipi, sui simboli della città, sull’immaginario culturale che dal
profondo emergono in superficie, vengono restituiti ed assumono nuove forme
e raffigurazioni, contribuendo significativamente alle nuove interpretazioni
della tradizione, indispensabile per ogni forma di sperimentazione artistica
e culturale. Ha coniugato la passione totale per l’arte e per Napoli,
diventandone indubbiamente un artista rappresentativo e fortemente
riconoscibile. Il suo lavoro è noto in Italia e all’estero dove ha esposto
in numerose mostre.
Maurizio Marinella è il simbolo di una signorilità tutta napoletana e del
successo planetario di un articolo, quando si affianca al genio
dell’imprenditorialità, il rispetto dei propri dipendenti e dei clienti e
non si ha paura del lavoro, anche se si è ricchi e celebri. Per
convincersene bisogna alzarsi presto e vedere all’opera il titolare, mentre
apre il suo elegante negozio in piazza dei Martiri alle sette e mezzo in
punto per mettere tutto in ordine, come faceva il genitore, che alla cassa
era sempre affabile e gentile ed offriva il caffè a mio padre ed a me
bambino il gelato, per intrattenerci durante la meticolosa scelta delle sue
cravatte.
Maurizio è un vero signore, non ha smanie di protagonismo, sa consigliare
senza invadere il gusto del cliente, trattare con il personale e battersi
con orgoglio per dare di Napoli l’immagine migliore.
Negli ultimi tempi, con la città invasa dalla monnezza ha fatto sentire alta
la sua voce cercando una disperata difesa di un passato glorioso. Racconta
che quando aveva otto anni il nonno gli disse che sarebbe dovuto rimanere
sempre a Napoli, perché la città sarebbe sempre stata con Parigi e Vienna
una delle grandi capitali europee.
I suoi clienti sono stati i più celebri vip della Terra, presidenti di
Stato, manager, nobili, ma anche illustri sconosciuti amanti della moda e
degli straordinari colori che contraddistinguono una cravatta Marinella.
Sfoggiarne una significa fare un figurone in Italia, ma anche e soprattutto
all’estero. Personalmente ho ricevuto i complimenti e lo sguardo compiaciuto
delle signore a Parigi come a New York, in occasione di importanti
ricevimenti.
Di fronte all’imponente scalinata di via Filangieri sorge da un secolo un
negozio che rappresenta una vera e propria istituzione per l’eleganza
napoletana: London House, la rinomata sartoria della famiglia Rubinacci.
Oggi vi è Mariano Rubinacci a dirigerla, un abile conversatore in grado di
ricreare, attraverso aneddoti e storielle il volto di una città che è
cambiata radicalmente. Attraverso le firme dei clienti e le foto ricordo
scorre un secolo di personaggi famosi che amavano vestire come dio comanda,
da Scarpetta a De Sica, dai De Filippo ai componenti della Corte sabauda, in
tempi più recenti i giocatori del Milan ed il sottoscritto, che in occasione
del matrimonio feci tre completi ed uno smoking, pagando 16 milioni.
Mariano ama ricordare la figura del padre, amico di pittori e letterati
clienti del suo negozio, il quale ha diffuso il marchio nel mondo, dove è
riconosciuto come sinonimo di eleganza e gusti raffinati ed ha trasformato
la sua sartoria in un salotto frequentato dai napoletani doc.
Un’altra interessante attività di artigianato tradizionale è rappresentata
dalla bottega Penelope, la quale si nasconde all’interno del cortile di
palazzo de Majo, che si affaccia su piazza Vittoria contraddistinto dal
numero civico 6. Qui la signora Dora Formicola, coadiuvata dalla figlia
Mariella, propone la riscoperta di antichi tessuti ricamati, sia nel loro
originario splendore ed uso, sia come brani inseriti in moderne ed
intelligenti realizzazioni di sartoria per l’arredo ed in queste ultime
elaborazioni traspare chiaramente anche il genio del marito Angelo noto ed
affermato scultore.
L’ospedale delle bambole, sito alla fine di via San Biagio dei librai,
angolo via Duomo, del decano don Luigi Grassi, purtoppo deceduto nel 2012,
ed oggi curato dalla bella figliola Tiziana è sulla piazza dal 1800 e gode
di fama internazionale grazie agli articoli che televisioni e giornali di
mezzo mondo gli hanno dedicato. Esso si interessa di restauri sacri,
manichini, maschere, oggetti d’arte, cose utili ed inutili. Specializzato in
bambole d’epoca e dotato di ambulatorio veterinario per peluche.
Nell’aria si respira un clima di altri tempi con le centinaia di bambolotti
di ogni taglia in attesa di essere riparati, con la serie di teste in attesa
di trapianto… con i manichini che fiduciosi sperano di tornare all’antico
splendore.
Un tempo il bonario don Luigi ci intratteneva con tanti deliziosi aneddoti e
ci confidava che la sua maggiore soddisfazione era stata l’aver trovato un
rimedio ad una misteriosa malattia che colpiva in Inghilterra le bambole
antiche costruite in vinile; un morbo crudele ed inesorabile che produceva
dei rigonfiamenti tali da mutare l’espressione dei volti che diventavano
tristi. Grazie alla sua terapia le bambole guarivano come d’incanto e
tornava loro il sorriso.
Se far gioire un essere umano è impresa difficile, far ridere un oggetto
inanimato non è forse un miracolo?
Curiosità nel Gabinetto erotico
Se vogliamo conoscere le antiche abitudini sessuali dei nostri antenati
dobbiamo visitare il Gabinetto segreto del museo archeologico, dove sono
raccolti una serie di stupefacenti reperti recuperati in gran parte durante
gli scavi effettuati a Pompei a partire dal Settecento.
Questi originali materiali a sfondo erotico sono stati sottratti per lungo
tempo alla fruizione del pubblico perché considerati osceni e perciò
divenuti famosi ed oggetto di morbosa curiosità.
La denominazione di Gabinetto Segreto ha una ragione storica: infatti con il
termine "segreto" si indicarono spesso nel Rinascimento i luoghi, le stanze,
i giardini in cui venivano raccolte le speciali collezioni che si
cominciavano a formare con opere d'arte, antiche e moderne, ispirate al tema
dell'amore e della sensualità.
Quando cominciò la campagna di scavi, la scoperta a Pompei ed Ercolano di
tanti oggetti legati alla sessualità destò sorpresa nei contemporanei, che
immaginavano le due città come dei tranquilli centri abitati, in tutto
dissimili dalle lussuriose Capri e Baia, invece si scoprì che nelle
cittadine vesuviane esistevano più postriboli che forni e che la richiesta,
e di conseguenza l’offerta di sesso, era superiore alle esigenze alimentari:
più sesso che pane, fornicare altro che mangiare.
A queste imbarazzanti testimonianze del nostro passato fu riservata una sala
del museo Ercolanese di Portici, che poteva essere visitata a richiesta e
con permesso speciale. Dopo il trasferimento del Museo da Portici al Palazzo
degli Studi, la collezione venne esposta per alcuni anni senza particolari
restrizioni, ma solo fino al 1819, quando il futuro re Francesco I, in
occasione di una visita con la figlia Carlotta, che rimase particolarmente
colpita dalla vista di tante immagini conturbanti, suggerì al direttore di
formare una raccolta separata, che fu detta prima Gabinetto degli oggetti
osceni, definiti poi riservati, visitabile solo da “persone di matura età e
di conosciuta morale”, e comprendente all’epoca centodue “infami monumenti
della gentilesca licenza”.
Negli anni successivi, a chi chiedeva una maggiore apertura del Gabinetto ed
una più larga generosità nel rilasciare permessi di visita, si opponevano
gli immancabili bacchettoni, che ritenevano opportuno di dovere proibire
anche la visione delle Veneri e delle altre figure, nude e seminude, delle
quali era ricco il museo di Napoli. Prevalse infine lo spirito reazionario,
cosicché la raccolta fu trasferita al primo piano e ne fu murata la porta,
perché “se ne disperdesse per quanto era possibile la memoria”.
Da allora il Gabinetto Segreto ha vissuto sorti alterne, a seconda degli
avvenimenti politici. Negli anni che seguirono all’ingresso di Garibaldi a
Napoli la collezione venne aperta a tutti tranne che ai fanciulli e, con
particolare permesso, anche alle donne ed al clero; fu inoltre pubblicato il
catalogo della Collezione Pornografica ad opera dell’allora direttore del
museo, Giuseppe Fiorelli. Ma essa fu nuovamente chiusa dal governo sabaudo
che prescrisse il permesso per tutti fino al 1931. Durante il ventennio
fascista, la collezione fu completamente chiusa al pubblico e si dovrà
aspettare il 1967 per poterla visitare di nuovo, sebbene per soli pochi
anni. Richiuso per motivi di restauro e per la necessità di reperire una
adeguata sistemazione, il Gabinetto segreto è stato riaperto in via
definitiva nell’aprile del 2000, organizzato secondo la selezione a suo
tempo fatta dal Fiorelli, con il solo aggiornamento dell’esposizione dei
materiali vesuviani divisi secondo criteri cronologici, iconografici e
funzionali: i materiali di età preromana, la pittura mitologica, la
decorazione dei giardini, la pittura dei lupanari, l’erotismo nel banchetto,
gli amuleti.
Tra gli esemplari più famosi è il gruppo marmoreo con Pan e capra, rinvenuto
nella Villa dei Papiri di Ercolano nel 1752, a lampante dimostrazione che i
nostri avi contadini e pastori non disdegnavano in caso di bisogno di
soddisfare gli improcrastinabili impulsi sessuali anche con gli animali.
Le pitture sono distinte tra quelle mitologiche, più raffinate, che derivano
dalla tradizione della pittura erotica greca ed ellenistica, e quelle
realistiche, più popolari, destinate a decorare i lupanari e le stanze
particolari delle case private. Abbiamo vasi estremamente espliciti
nell’indicarci le posizioni preferite dai nostri progenitori e mosaici nei
quali sono riprodotte volenterose cortigiane pronte a soddisfare le esigenze
più varie della propria clientela, alla quale proponevano le specialità
nelle quali erano più versate ed i relativi prezzi delle prestazioni
all’ingresso del postribolo.
Numerosi sono pure i bronzetti, le lucerne e gli amuleti personali, portati
da uomini e donne come protettivi contro il malocchio e le malattie. Nel
mondo romano infatti il membro virile era considerato simbolo di fecondità
ed augurio di prosperità ed allo stesso tempo teneva lontana la cattiva
sorte; anche il rumore era ritenuto un potente talismano. I due rimedi
apotropaici, combinati insieme, ebbero grande popolarità nei centri
vesuviani, come testimoniano i numerosi campanelli di bronzo sorretti da
falli o figure itifalliche, utilizzati nelle botteghe come auspicio di buoni
affari, e forse anche nelle case come divertenti arredi da banchetto per
chiamare le portate: di particolare rilievo in questa serie è una splendida
figurina di gladiatore da Ercolano. Nasce in questi anni l’abitudine tutta
napoletana di grattarsi le parti intime in presenza di una persona ritenuta
malefica o di portare in tasca un corno, rimedio infallibile contro il
malocchio.
In quanto potente amuleto il fallo era inoltre posto, in tutte le città
antiche, sulle mura, sui marciapiedi e lungo le strade; a Pompei era spesso
usato nei cantonali delle case a scopo protettivo, ma anche sulle facciate
delle botteghe, spesso dei panifici, dov’era scolpito sugli architravi dei
forni. Celebre è il rilievo in travertino con fallo e scritta “hic habitat
felicitas” dal panificio nell’insula della Casa di Pansa.
Una sezione del “Gabinetto Segreto” è dedicata agli oggetti erotici della
collezione Borgia, tra i quali si distinguono: uno specchio di bronzo
etrusco con scena erotica incisa ed una serie di piccoli nani in pietra con
falli enormi tra le mani, di provenienza egizia e di età tolemaica. La sala
LXII, infine, ospita alcuni reperti non pertinenti propriamente alla
collezione del “Gabinetto Segreto”, tra i quali il gruppo di Pan e Dafni, il
sarcofago in marmo con scena di culto dionisiaco, entrambi della collezione
Farnese, il mosaico in bianco e nero con Pigmei da Roma, mentre una piccola
sezione illustra la storia della collezione nei documenti d’archivio.
Numerosi sono gli esemplari raffiguranti ermafroditi e maschi superdotati al
punto di necessitare di opportuni sostegni per membri elefantiaci, approcci
tra satiri e ninfe e come ciliegina finale una raccolta di apparati maschili
completi di testicoli.
La sezione è più conosciuta all’estero che in Italia ed infatti visitandola
ci si accorge dei numerosi stranieri che affollano le sale, mentre tanti
napoletani non sanno nemmeno dell’esistenza di questo scrigno prezioso di
priapei, quanto mai esplicativo dell’origine delle nostre abitudini
sessuali.
Via Costantinopoli, un’arteria da rivitalizzare
Via Costantinopoli e piazza Bellini costituiscono un unicum affascinante
nella tumultuosa ragnatela del centro storico di Napoli, una strada
tranquilla che invita al passeggio, il cui tracciato fu realizzato al
momento dell’ampliamento della cinta muraria della città, voluta dal viceré
don Pedro di Toledo tra il 1533 e il 1547. Nacque così una lunga e nobile
galleria di edifici, chiese, monasteri di grande valore, che ancora oggi
rappresentano una delle mete più ambite per il turista che visita la città.
Alcuni grandi monasteri e chiostri si sono nel tempo trasformati in edifici
pubblici. Il chiostro di San Giovanni Battista delle monache è sede
dell’Accademia delle Belle arti, il monastero della Sapienza è divenuto il
vecchio policlinico, palazzo Firrao è occupato dalla sede dell’Acquedotto,
mentre il monastero della chiesa di S. Maria di Costantinopoli è sede di una
scuola media frequentata tanto tempo fa da un illustre studente: il
sottoscritto.
Via Costantinopoli non solo è ricca di monumenti, chiese e ricordi storici
della città, ma è anche fervore di vita, di vivace e colorata animazione
studentesca ed intellettuale e sede di numerose attività commerciali di
carattere culturale come antiquari, librerie specializzate, botteghe di
artigiani, dai battitori di ferro ai corniciai, inframezzata da antiche e
famose pizzerie, dove si può gustare la più prelibata cucina napoletana e
luoghi di intrattenimento come la Libreria Luna o i locali dell’editore
Intra Moenia, dai quali cominciamo la nostra passeggiata.
L’elegante caffetteria di piazza Bellini nasce nel 1989 ad opera di Attilio
Wanderlingh, estrosa figura di editore e manager olandese napoletanizzato,
innamorato della città, per la quale si batte da tempo con una serie di
encomiabili iniziative. Lo incontriamo per una chiacchierata, sorbendo un
espresso servito con le fatidiche tre C, seduti nel suo accogliente locale,
frequentato prevalentemente da giovani studenti ed intellettuali impegnati e
sin dalle prime fasi si ricava l’impressione di un personaggio tutto teso
alla ricerca di migliorare la vivibilità della strada, facendone un centro
di periodiche fiere antiquarie, esposizioni di libri rari e di stampe
antiche, allietate da concerti all’aperto, prendendo linfa ed ispirazione
dalla vicinanza con il Conservatorio di San Pietro a Maiella. Iniziative che
potrebbero sorgere più facilmente se si decidesse finalmente a chiudere la
strada al traffico, premessa necessaria ad un’estesa pedonalizzazione del
centro storico, che solo così potrà essere goduto da un numero sempre
crescente di visitatori locali e forestieri.
All’angolo della piazza, dove è presente la più affascinante testimonianza
delle origini di Napoli con le antiche mura greche riemerse ad ammonire il
distratto viandante sul glorioso passato della città, della quale molti
hanno perduto la memoria storica, si trova l’antica bottega di antiquario
della famiglia Errico, che da cinque generazioni si dedica con competenza e
passione alla commercializzazione di oggettistica di grande pregio, anche se
è in grado di offrire articoli raffinati per tutte le borse. Una costante
della famiglia Errico, la cui storia è ricordata nel famoso libro di
Romualdo Marrone sulle strade di Napoli, è stata quella di presentare
accanto a testimonianze del passato anche opere di artisti contemporanei,
per cui si può ammirare e scegliere da una vasta selezione di lavori di
giovani pittori e scultori, maestri ed alunni della vicina Accademia delle
Belle arti, il tutto a prezzi molto interessanti.
Altra bottega interessante è quella di Vincenzo Grossi, che si incontra poco
più avanti percorrendo sulla destra via Costantinopoli. Anche lui ci riceve
con il figlio Alessandro, caratteristica di tutti gli antiquari della zona,
che tramandano la loro attività, dando così l’opportunità di lavorare ai
giovani.
E siamo giunti in prossimità del regno della libreria Regina, una delle più
famose d’Italia del settore. A riceverci è la signora Concettina, la gentile
e competente padrona di casa, che dal 1945 dirige col marito la celebre
bottega, ove accanto a libri rari e stampe pregevoli si possono trovare, e
sono rarissimi, antichi spartiti musicali e vecchie carte geografiche. Nella
“antiqua libreria” è facile incontrare personalità di fama nazionale ed
internazionale: ministri, senatori, gente di spettacolo, musicisti,
giornalistici, critici d’arte ed anche gente comune, come neobibliofili e
curiosi che vengono attratti irresistibilmente dal buon odore dell’antico e
dal colore del tempo che fu, il quale traspare dalle vetrine della libreria.
Continuando il nostro giro entriamo nell’elegante negozio di Antonio
Affaitati, anche lui in compagnia del figlio Giuseppe col quale si è giunti
alla quinta generazione. Membro del consiglio direttivo dell’associazione
napoletana degli antiquari ci intrattiene a lungo sulle difficoltà in cui
versa la nobile strada e sulle iniziative di cui si è fatto promotore per
farla risorgere agli antichi splendori.
Concludiamo la nostra passeggiata visitando la più antica libreria della
strada, posta di fronte alla chiesa di S. Maria di Costantinopoli, così
ricca di ricordi e così poco conosciuta dai napoletani. Il tempio della
cultura è stato a lungo il regno incontrastato del decano e maestro dei
librai napoletani, il saggio don Luigi Lombardi ed oggi il testimone è
passato al figlio Antonio, che offre un amplissimo repertorio di volumi
antichi importanti e rari, splendide stampe e con cadenza trimestrale un
esauriente catalogo che fa il giro d’Italia fra i bibliofili più incalliti,
i quali si contendono a colpi di bigliettoni e sul filo del tempo i testi
più rari.
Ricordo, quando ero ricco, che ero riuscito dalla tipografia dove si
stampava il catalogo ad averne in visione le bozze per poter ordinare, in
anteprima assoluta, i libri, soprattutto d’arte, che mi interessavano. Che
emozione ogni qual volta riuscivo a comprare un testo inseguito da anni,
quante decine, se non centinaia, di milioni spesi, ma la soddisfazione
intellettuale ha ripagato il notevole sacrificio economico.
Alcuni cataloghi in passato hanno dato luogo a delle vere e proprie aste,
come nel 1999, quando in occasione del bicentenario della rivoluzione
napoletana fu offerta ai bibliofili una interminabile serie di titoli.
Nella libreria Lombardi si possono reperire sempre i classici dell’editoria
napoletana dalla raccolta di Napoli nobilissima voluta da Benedetto Croce ai
saggi storici e filosofici di Giannone e Cuoco.
Il recupero di via Costantinopoli alla dignità goduta per secoli passa
necessariamente attraverso la pedonalizzazione; una decisione che a Napoli,
paese di automobilisti incalliti, appare poco meno di una bestemmia.
Il trionfo dei mercatini
Napoli ha avuto sempre piazze e strade in cui si svolgevano periodicamente
piccoli e grandi mercati. Lo testimoniano i celebri dipinti di Micco Spadaro
raffiguranti piazza Mercato ed una Fiera di paese o in tempi più recenti le
tele di Migliaro.
In passato si trattava di mercati prevalentemente alimentari e gli stessi
contadini ogni giorno all’alba portavano i loro prodotti in città per la
vendita: uova, frutta e verdura.
Da alcuni anni si è rinfocolata la diatriba tra commercianti proprietari di
negozi e gestori di mercatini più o meno organizzati, i quali negli ultimi
tempi, segnati da una galoppante crisi economica, hanno visto aumentare
vertiginosamente la loro clientela.
Le accuse sono precise e circostanziate: merci scadenti, spesso
contraffatte, evasione fiscale, igiene ai limiti della decenza. A fronte di
queste contestazioni innegabile è la possibilità di avere gli stessi
prodotti a prezzi decisamente inferiori, una circostanza non trascurabile,
che permette a moltissime famiglie di continuare a sopravvivere.
Tra questi luoghi di vendita una certa notorietà ha acquisito il “mercatino
dei vip”, come suole essere denominato il disordinato assembramento di
bancarelle che ogni giovedì mattina prende possesso dei vialoni di accesso
del Parco delle Rimembranze a Napoli, un gioiello di verde regalato alla
città da un celebre cavaliere, senza macchia e senza paura. Attenzione non
si tratta del rampante Berlusconi, ma del ben più carismatico Mussolini.
In questo allegro bazar di sapore medio orientale, allietato dalle stridule
voci dei venditori, che rimembrano le antiche voci degli ambulanti
partenopei, si vende di tutto ad eccezione degli alimentari, con la
presunzione di inseguire le griffe alla moda imitate in maniera prodigiosa e
spacciate per vere.
Il mercatino è frequentato da una folla allegra e ciarliera nella quale si
distinguono le signore e signorine bene della città alla ricerca spasmodica
del capo di moda firmato, poco conta se apocrifo, perpetuando con l’aiuto
del falso l’antica abitudine di vestire all’ultimo grido.
Sono naturalmente finte signore dalle labbra rifatte e dalle movenze
sguaiate, inconsapevoli protagoniste di un doloroso quanto irrefrenabile
epicedio: il malinconico tramonto di una classe borghese, che per secoli ha
comandato ed oggi è sostituita da una casta prepotente e camorristica,
volgare e sfacciata.
Altri mercatini meno chic, spesso gestiti da extracomunitari, anche se
controllati dalla malavita organizzata, vendono merci più dozzinali, ma
necessarie. Si può agevolmente constatare l’estrema convenienza di alcuni
prodotti. Ho visto gli shampoo di primarie marche offerti ad un euro, gli
stessi in vendita, anche nei discount, ad una cifra 3 – 4 volte superiore.
Camicette e magliette alla page, con impercettibili errori di manifattura
quasi regalate, senza parlare degli alimentari e dei detersivi acquistabili
da tutti.
Naturalmente questi prezzi stracciati, stupefacenti, sono dovuti all’assenza
di spese di fitto, tasse e gabelle varie, ma soprattutto da una ridotta
esosità da parte del venditore, che vuole vivere, non arricchirsi. Benedetti
mercatini siete l’ultimo baluardo contro la globalizzazione, un’isola felice
lontana dall’egoismo e dalla frenesia del guadagno.
Grazie a nome di tante famiglie che sarebbero altrimenti ridotte alla fame.
Un discorso a parte merita il mercatino dell’antiquariato, che si svolge in
alcuni fine settimana nei vialoni della Villa comunale, un appuntamento
vivace che, nato in sordina, ha conquistato in breve tempo la fiducia dei
collezionisti napoletani e soprattutto ha fatto avvicinare alla passione per
l’antico ampie fasce di neofiti. La merce esposta è la più varia: mobili e
ceramiche, quadri e vasi, croste e cianfrusaglie, tappeti, statue,
cartoline, manifesti, libri antichi e moderni, telefoni d’epoca e giradischi
rotti, e chi più e ha più ne metta. Ogni tanto ci scappa l’affare per
l’intenditore, più spesso capita l’imbrusatura per chi si avvicina per la
prima volta a questo tipo di mercatini.
Gli espositori non sono solo napoletani, ma vengono da tutta la Campania ed
anche da altre regioni.
Qualche domenica, con il sole ed il divieto di circolazione, la folla è
straripante e gli affari per i commercianti vanno a gonfie vele.
Alcune bancarelle sono tenute da persone colte e competenti, come è il caso
del signor Carmine Ceraso, antico libraro e lui stesso appassionato
collezionista, che commercia in libri, stampe, documenti antichi, vecchie
cartoline, foto osé d’epoca.
Oppure il signor Aniello D’Ambrosio, artigiano muratore, specializzato in
restauri e mosaici, in grado di soddisfare qualsiasi ordinazione. E che dire
di masto Antonio, basta il nome tanto è famoso e ricercato per le sue rare
cose superflue, che fanno la gioia di ogni appassionato.
Ampia e variegata è l’offerta del Rigattiere con bottega in piazzetta Nilo e
qui in trasferta con una nutrita esposizione di oggetti in vendita, dalle
statue più o meno discinte, ai pupi siciliani riprodotti in legno e di varie
dimensioni, fino alle composizioni di ceramica dei Castelli, di Vietri e
napoletane.
I libri antichi dalle preziose copertine sono offerti in numerose bancarelle
e l’occhio del conoscitore spesso riesce a fiutare il pezzo di pregio
sfuggito allo stesso commerciante. Molto è anche il ciarpame e tutta una
serie di cose inutili che sembra incredibile possa trovare un acquirente, ma
molti sono i frequentatori di bocca buona ed alla fine ogni oggetto, se ha
pazienza, trova la sua collocazione.
Le vendite sono facilitate dall’atmosfera incantevole di una splendida villa
baciata dal mare, l’elemento regolatore della visibilità e della vivibilità
dell’intera città e della spettacolare via Caracciolo, la strada, senza
false modestie, più bella del mondo.
E su questa bellezza che tutti ci invidiano, concludiamo, per la gioia dei
neoborbonici, con una favoletta.
Un bambino passeggia in compagnia dei genitori sul celebre lungomare e
chiede al padre perché al famoso ammiraglio è stata intitolata una strada
così importante.
“Perché era un martire del ’99 figliolo” - risponde il padre – “e cosa ha
fatto per divenirlo?” – chiede ingenuo il pargoletto – “ ha tradito il suo
re!”.
Partivano i bastimenti, oggi arrivano gli ultimi della Terra
Dopo la repressione del brigantaggio l’economia meridionale subì un vistoso
tracollo e per molti, quasi tutti, l’unico modo per sopravvivere fu quello
di lasciare la propria terra per procacciarsi il pane quotidiano e dare un
futuro ai propri figli. Lo stato sabaudo, dopo aver combattuto la rivolta
con metodi militari, rendendosi responsabile di eccidi spaventosi ,
incoraggiava questo silenzioso genocidio del quale invano cercheremo notizie
nei libri di storia.
La meta preferita era l’America e nel corso di pochi decenni oltre 25
milioni di Italiani sono stati costretti all’emigrazione oltre oceano e
soltanto pochissimi sono ritornati; la maggior parte di questi disperati
proveniva dalle regioni meridionali salvo una sparuta pattuglia di veneti.
Il punto di partenza era il porto di Napoli da dove partivano i famosi
“bastimenti” carichi fino all’inverosimile di un’umanità lacera e
spaventata.
“Ah, ce ne costa lacrime st’America a nui napulitane …“ è il primo verso di
una celebre canzonetta: “Lacrime napulitane”, composta nel 1925 da Libero
Bovio, in cui l’autore cercò di sintetizzare il dolore e la paura di un
giovane emigrante sperduto nell’immensa solitudine di New York. Il
protagonista, bisogna precisarlo, si era deciso ad attraversare l’oceano per
un tradimento della donna amata, un motivo futile rispetto a quello che
aveva spinto al grande passo milioni di connazionali.
Un’altra celebre canzonetta del 1919 “Santa Lucia lontana” parte proprio
con: “Partono i bastimenti”. L’autore è E. A. Mario, celebre per aver
scritto “La leggenda del Piave”.
L’abbondanza di composizioni canore sull’argomento non deve sorprendere
perché l’emigrante, scorrendogli la melodia nelle vene, reggeva una valigia
di cartone ma quasi sempre portava a tracolla una fisarmonica.
Continuavano a celebrare le proprie feste come la processione di San Gennaro
ed organizzavano la festa di Piedigrotta, nella quale fu lanciata “Core
ingrato” composta nel 1911 da Cordiferro e Cardillo.
Straordinaria è poi la vicenda di Gilda Mignonette che, nel 1926, si
trasferì dalla natia Duchesca alla rumorosa Little Italy e venne eletta a
furor di popolo “La regina degli emigranti” grazie al successo planetario
della sua “’A cartulina ‘e Napule”.
I nostri connazionali, dopo un interminabile navigazione vissuta nel
degrado, venivano muniti di cosiddetto “Passaporto rosso” e venivano
sbarcati nell’isolotto di Ellis Island, posto davanti a New York, dove la
polizia li sottoponeva ad un controllo simile a quello che si riserva al
bestiame. Chi superava la selezione, lentamente con l’aiuto di parenti o
amici già da tempo sul posto, riusciva ad arrangiare una sistemazione ed a
trovare un lavoro, sempre faticoso e sfibrante.
A qualcuno la fortuna arrideva ed ecco alcuni diventare magnati, artisti,
persino santi, ma anche gangster e mafiosi. Ma a fronte di un’organizzazione
criminale come la Mano nera, di origine siciliana, a combatterla vi era un
super poliziotto, Joe Petrosino, figlio di emigranti originari di Padula.
E se Al Capone era figlio di emigranti campani egualmente erano di origine
italiana Fiorello La Guardia, che diventerà sindaco di New York, o Frank
Sinatra, celebre cantante, o Frank Capra, uno dei più celebri registi, oltre
a tanti altri scrittori, poeti e saggisti di altissimo livello. Generazioni
di italiani che, inclusi coloro che avevano scelto come meta Argentina e
Brasile, sono stati una notevole fonte di ricchezza per il nostro paese.
Valga un solo esempio: tra il 1900 e il 1922 i soli meridionali, tramite il
Banco di Napoli e quello di Sicilia, spedirono ai loro parenti rimasti in
patria ben 20 miliardi di lire oro e si calcola che una eguale quantità di
denaro sia stata spedita per posta o consegnata a mano. Un fiume di soldi
che ha permesso di sopravvivere a milioni di diseredati.
Con il fascismo il fenomeno rallentò vistosamente per riprendere negli anni
’60 e ’70 nel periodo del boom economico, questa volta verso il Nord e le
ricche regioni europee: Germania, Belgio, Svizzera, dove la manodopera
meridionale veniva maltrattata non solo all’estero ma anche nella civile
Padania, dove abbondavano i cartelli “Non si affitta ai meridionali”,
definiti sprezzantemente terroni.
Oggi esportiamo cervelli e sono i migliori ad andarsene, regalando
conoscenze ed energie vitali ad altri paesi, dopo aver speso cifre ingenti
per farli studiare e specializzare.
A fronte di questa emigrazione di lusso da alcuni decenni l’Italia è
divenuta la terra promessa per milioni di disperati in fuga dalla fame,
dalla siccità e dalle guerre. Un fiume in piena che fra poco sarà difficile
da arginare, fino a quando l’Europa, nel suo miope egoismo, non deciderà di
varare un gigantesco piano Marshall per creare, soprattutto in Africa,
condizioni di sopravvivenza investendo nell’irrigazione, nella sanità e
nell’istruzione. Sono disperati che rischiano al vita tra le onde, dopo aver
percorso a piedi centinaia se non migliaia di chilometri nel deserto per
raggiungere la costa libica dove vengono taglieggiati da autentici negrieri
che li spogliano di ogni oggetto prezioso, oltre a pretendere cifre
vergognose per fargli rischiare la vita su barconi rattoppati, pronti ad
affondare alla prima onda più alta del solito. Nessuno saprà mai le
dimensioni di quel gigantesco cimitero sottomarino che raccoglie
pietosamente i resti di decine di migliaia di uomini, donne e bambini che
sognavano la terra promessa.
Per i fortunati che toccano il territorio italiano sono pronte strutture
simili più ad un lager che a centri di accoglienza dove, stipati fino
all’inverosimile, attendono per mesi sotto al sole e se non sono profughi lo
Stato tenta in tutti i modi di rimpatriarli.
Un’altra porta d’ingresso è quella orientale, preferita dalle popolazioni
slave e dagli ucraini. Molti vengono con visti turistici e poi scompaiono
nel nulla, cercando a qualsiasi prezzo un lavoro per sopravvivere: badante,
manovale, contadino.
Una serie di leggi scriteriate ha cercato negli anni di reprimere unicamente
il fenomeno invece di tentare di regolarlo, attraverso quote annuali secondo
le richieste del mercato, come si comportano molti paesi dagli Stati Uniti
all’Australia.
Questo stolto comportamento, oggi che la storia si ripete all’incontrario
con legioni di disperati che vedono nelle nostre città e nelle nostre
campagne una sorta di paradiso terrestre, dipende dall’aver rimosso gli anni
in cui l’Italia era terra di migranti e di non aver avviato un serio
programma di integrazione, addirittura nemmeno per i figli degli stranieri
in regola nati in Italia ai quali non viene riconosciuta la cittadinanza.
Il problema dell’integrazione tra italiani ed il fiume di stranieri che,
anno dopo anno, sempre più affluiscono nel nostro paese, in un solo luogo ha
trovato piena applicazione: nei penitenziari, soprattutto delle grandi
città: Roma, Napoli, Milano, nei quali ormai gli “alieni” (ma sono nostri
fratelli) costituiscono la maggioranza.
Nel buio delle celle vigono regole di solidarietà sconosciute nel mondo
esterno cosiddetto civile; tutti si considerano membri di una grande
famiglia e chi non conosce la nostra lingua la impara in fretta acquisendo
anche la cadenza dialettale locale.
Un esempio virtuoso di cui tenere conto e da perseguire perché non si può
andare contro il corso della storia. Noi abbiamo bisogno della loro energia
e voglia di conquistare il benessere ed è una fortuna non una calamità che
molti scelgano l’Italia, antica terra di emigrazione, divenuta oggi la terra
promessa. Il nostro passato è dimenticato, seppellito nel più profondo
inconscio complici le istituzioni che non hanno realizzato un museo che ci
rammenti gli anni in cui eravamo carne da macello, pronta a qualsiasi
lavoro, anche il più umile e pericoloso. Un museo dell’emigrazione per
ricordare il passato e per spegnere in noi qualsiasi seme di razzismo e di
becero leghismo. E quale sede più degna del porto di Napoli dove per
un’eternità sono partiti i bastimenti carichi di disperazione e di
nostalgia, di ansia di riscatto e di antica dignità.
Isso, essa e o malamente, l’epopea della sceneggiata
La sceneggiata è una forma di rappresentazione popolare che alterna il canto
con la recitazione su toni drammatici, che si sviluppa a Napoli tra gli anni
Venti e Quaranta del Novecento sulle ceneri del cafè chantant.
Lo spettacolo si basava su una canzone di grande successo, da cui la
sceneggiata derivava il titolo ed attorno al tema musicale veniva costruito
un testo teatrale in prosa.
La nascita del genere è legata ad un motivo fiscale, perché furono istituite
delle tasse sulle canzonette, mentre il prelievo sugli spettacoli teatrali
era più basso, ciò indusse alcuni autori a scrivere commedie sul testo di
canzoni famose.
Uno dei primi spettacoli fu Pupatella nel 1918, basata sulle parole di
Libero Bovio e legata ai temi tradizionali del tradimento e della malavita.
Si affermarono alcune compagnie specializzate, come la Cafiero Fumo, che
mise in scena nel 1920 Surriento gentile di Enzo Lucio Murolo, al quale si
deve l’escamotage di aggirare la tassa sugli spettacoli di varietà con la
creazione di spettacoli misti con recitazione drammatica e canzonette. Nella
celebre compagnia lavorarono anche D’Alessio, Maggio, Taranto, Sportelli e
Trottolino, mentre alcuni teatri divennero dei veri tempi del genere, come
il Trianon ed il San Ferdinando.
Oltre ai protagonisti vi era sempre uno stuolo di caratteristi, a volte
molto bravi, che concorrevano al trionfo del bene sul male ad opera della
giustizia divina o per il decisivo intervento dell’eroe vendicatore.
La sceneggiata ebbe grande successo all’estero tra gli emigranti e
leggendaria si staglia tra gli interpreti attivi a New York nella comunità
di Little Italy la figura di Gilda Mignonette, la regina degli emigranti e
il testo ‘O Zappatore, con accenti fortemente sociali ed ambientata in parte
proprio negli Stati Uniti o Guapparia, un vero e proprio decalogo ad uso di
uomini d’onore.
All’inizio si sfruttavano canzoni famose, spesso di Libero Bovio, e su
questa si creava la trama della sceneggiata, in seguito si lavorò
all’inverso: scrivendo di sana pianta il soggetto per trarne eventualmente
vantaggi con la vendita dei dischi.
Il pubblico si entusiasmava ascoltando i dialoghi stereotipati dei
protagonisti e saliva sul palcoscenico in massa per fermare le gesta del
cattivo, prima che a fare giustizia ci pensasse isso, l’eroe, il guappo
buono. Talune volte invece obbligava gli attori ad un bis della scena
finale, quella nella quale il cattivo veniva ucciso, per cui il ”fetentone”
era costretto a rialzarsi e, dopo improperi e colluttazioni, a farsi sparare
di nuovo.
Il genere lentamente perse il suo contatto con l’anima del pubblico e venne
poco rappresentato, fino agli anni Settanta, quando vi fu una certa ripresa
grazie a Mario e Sal Da Vinci a Pino Mauro, Nino D’Angelo, ma soprattutto a
Mario Merola, dominatore assoluto del Teatro 2000 e protagonista anche di
numerose trasposizioni cinematografiche.
I canoni sui quali si articolavano le trame ruotavano intorno a temi fissi:
l’amore, il tradimento, l’onore, sintetizzato in alcune figure fondamentali:
isso, l’eroe positivo, essa, la donna agognata e ‘o malamente, il cattivo ed
altre parti minori come ‘a mamma, ‘o nennillo e ‘o comico.
La donna è vista costantemente in un’ottica maschilista, pronta sempre a
tradire ed in grado di riscattarsi solo come mamma.
Gli stessi archetipi si trasferiscono sullo schermo negli anni Settanta ed
il successo di pubblico si rinnova, anzi la moltiplicazione degli spettatori
insita nel nuovo mezzo di diffusione permette l’acquisizione di un numero di
fan ancora più alto.
Le pellicole utilizzano gli stessi ingredienti della sceneggiata classica:
l’ingiustizia subita, l’onore ferito, l’amore contrastato, il tradimento
della donna, i pianti, i duelli, il sangue che sgorga a fiotti ed alla fine
il buono che prevale sul cattivo, un topos universale che pervade la
letteratura anche colta dalla notte dei tempi, fino alle moderne
rivisitazioni del mito tipo Batman, 007 e simili.
Il ritmo drammatico della sceneggiata, sia essa teatrale o cinematografica,
si attaglia perfettamente alla cultura napoletana dominante, che ieri come
oggi, è stata quella della plebe con i suoi arcaici riti di sangue ed il
modo sbrigativo, ma a volte efficace, di amministrare la giustizia.
Sarà Mario Merola ad incarnare, nonostante la mole poderosa ed il volto di
innocuo bamboccione, il mito dell’eroe vendicatore, del camorrista
giustiziere, del guappo buono, travasando dai legni dei teatri di periferia
alla gloria della celluloide, che ancora si riverbera, dopo oltre trenta
anni, sulle emittenti private campane, che imperterrite, quotidianamente,
ripropongono le gemme… della sua produzione da I contrabbandieri di Santa
Lucia a Napoli serenata calibro 9, dall’esplicativo sottotitolo: I mandolini
suonano, le pistole cantano.
Sono film che costituiscono un sottogenere, a metà strada tra il poliziesco
americano e la classica storia di camorra, un filone che contagerà anche
altre città, a partire da Milano, ma le pellicole napoletane rimarranno le
più intriganti.
Un altro protagonista di queste cine sceneggiate sarà Pino Mauro con il suo
mitico I figli non si toccano impregnato di retorica e di antiche
consuetudini dell’onorata società; egli veste i panni di un vendicatore
ancora più spietato ed avrà anche lui il suo pubblico affezionato, pur senza
raggiungere il successo di Merola, in versione contrabbandiere o meglio
ancora a bordo di una scalcinata 127, in grado di seminare le Alfa Romeo dei
carabinieri o di caracollare audacemente su un treno merci, facendo perdere
le proprie tracce.
Indimenticabili le sue rivisitazioni del celebre Zappatore, un’icona
idolatrata a lungo anche dagli intellettuali di sinistra, gli stessi che in
passato avevano massacrato i film di Totò. Le scene più commoventi dei suoi
film venivano accolte dal pubblico in delirio con applausi scroscianti.
Negli ultimi anni l’attore era spesso malato e costretto a ricoveri i
ospedale, che veniva letteralmente invaso dai suoi sostenitori, appartenenti
a quel sottoproletariato degno erede della plebaglia seicentesca del vice
regno spagnolo. Nel 2006 ai suoi funerali vi era mezza città, la Napoli dei
vicoli e delle periferie degradate, a mostrare l’egemonia della sua
sottocultura e ad urlare a tutto il mondo orgogliosa: questa è Napoli e
Napoli siamo noi.
Statue che raccontano
Le statue di Napoli, per quanto molte, se non tutte, versano in uno stato
deplorevole di conservazione, raccontano la storia della città.
Raccontano, alcune urlano per lo scempio di cui sono state fatto oggetto dai
cittadini e da un’amministrazione distratta e colpevole.
Alcune sono nate per un motivo estetico ma la maggior parte vogliono
ricordare un evento storico o intendono rammentare un personaggio eminente
della vita cittadina o della nazione: marmi e bronzi che cercano di
glorificare l’esempio di uomini che hanno dedicato la propria esistenza
all’arte, alla medicina, alle lettere, al diritto.
Più che per corso topografico seguiremo un criterio cronologico, partendo
dagli esemplari che ci descrivono le origini della città, per cui prenderemo
in esame il gruppo della sirena Partenope, la quale, secondo la leggenda, si
uccise per amore di Ulisse ed il suo corpo fu sospinto dalle onde del mare
sugli scogli dove sorse la città detta in seguito di Neapolis.
Oggi troneggia imponente al centro della piazza dedicata al poeta Jacopo
Sannazaro ed è composta da una gigantesca sirena emergente dalle onde in un
tripudio di animali marini grandi e piccoli e poggia sopra uno scoglio con
alghe e flora acquatica, eseguita dallo scultore Onofrio Buccini.
Originariamente nel 1869 fu collocata nei giardini antistanti la vecchia
stazione ferroviaria per essere trasferita dove l’ammiriamo oggi nel 1924,
quando venne inaugurata l’adiacente Galleria Laziale.
Un’altra famosa statua che ci porta indietro nel tempo, in epoca romana, è
quella posta a piazzetta Nilo, più nota come largo Corpo di Napoli, centro
geometrico della città, in una zona dove abitava la colonia Alessandrina
costituita da mercanti egiziani. Essa è costituita , almeno come la vediamo
a partire dal 1667, da una poderosa figura barbuta, distesa sul fianco
sinistro e sostenente col braccio destro una cornucopia di frutta, ma un
cronista del XIII secolo la presentava come una donna con i figli che
raffiguravano gli affluenti del Nilo, fiume sacro perché grazie alle sue
periodiche inondazioni ha sempre reso fertili le terre contigue al suo
interminabile decorso, messe in evidenza dalla cornucopia. Sul basamento vi
è una lunga epigrafe latina, che spiega la tormentata storia del monumento.
Rimanendo in ambito mitologico citiamo, nei giardini di piazza Cavour, una
fontana ellittica che ospita, su una base di mattoni, una statua di bronzo
raffigurante un tritone, una divinità metà pesce e metà uomo, figlio di
Poseidone, che irrora con un getto d’acqua dalla bocca la circostante
fontana, che un tempo ospitava delle paparelle, ma che già negli anni ’50 (e
posso testimoniarlo personalmente, perché ho frequentato per sei anni, asilo
ed elementari, il vicino Istituto Froebeliano) era diventata ricettacolo di
rifiuti galleggianti, dove d’estate gioiosamente sguazzavano torme di
scugnizzi.
Un’altra piccola fontana, trasformata oggi in pubblico orinatoio, è la vasca
circolare di porfido, proveniente dal tempio di Poseidone a Paestum, nella
quale sono disposti quattro leoni di marmo di stile egizio realizzati da
Pietro Bianchi nel 1825, quando si trasferì, per toglierlo dalle intemperie,
il celebre gruppo marmoreo del Toro Farnese, oggi tra i gioielli del Museo
Archeologico. Lo stesso artista, alcuni anni prima (1812-16), aveva
realizzato otto statue simili di leoni egizi nell’emiciclo della chiesa di
San Francesco di Paola in piazza del Plebiscito.
Rimanendo nella stessa piazza descriviamo l’imponente monumento equestre
dedicato a Carlo di Borbone, immortalato nel bronzo dal celebre Antonio
Canova nel 1818. Essa fa da pendant alla statua equestre di Ferdinando I di
Borbone, che, commissionata anche essa al Canova, fu completata dal
napoletano Calì per l’improvvisa scomparsa dello scultore trevigiano.
Entrambi i sovrani sono raffigurati con un incedere solenne e vestiti alla
romana, segno evidente del dominante gusto neoclassico dell’epoca.
Sulla facciata di Palazzo Reale per volere del re Umberto I di Savoia furono
collocate nel 1888 otto statue marmoree raffiguranti i più rappresentativi
sovrani delle dinastie che hanno regnato a Napoli. Essi sono in ordine
cronologico, partendo da sinistra avendo di fronte la facciata: Ruggero il
Normanno, opera del Franceschi; Federico II, scolpito dal Caggiano; Carlo I
d’Angiò, scolpito dal napoletano Solari; Alfonso V d’Aragona, realizzato dal
D’Orsi; Carlo V d’Asburgo-Spagna, su un modello del Gemito; Carlo III di
Borbone, immortalato dal Belliazzi; Gioacchino Murat, eseguito da Amendola
ed infine Vittorio Emanuele II di Savoia, primo re d’Italia, realizzato da
Jerace.
Sono tra le statue più note della città, poste in una piazza annoverata tra
le più belle d’Europa, soprattutto per la barzelletta che ogni napoletano
conosce giocata sulla gestualità delle ultime tre statue: la prima sembra
chiedere: chi ha fatto pipì qui a terra; la seconda: sono stato io; la
terza: allora ti taglio il membro.
Andando avanti nel tempo arriviamo al 1799 ed al relativo monumento che ci
ricorda l’evento in piazza dei Martiri. Il monumento sorse per volere di
Ferdinando II dopo i disordini del 1848 e fu affidato all’architetto Enrico
Alvino, che realizzò il basamento ed il piedistallo con la colonna. Poi i
lavori furono interrotti per la morte del sovrano, per riprendere alcuni
anni dopo con la collocazione in vetta della bronzea Vittoria alata
realizzata dal Caggiano. Alla base furono posti quattro leoni in marmo a
simboleggiare le quattro rivoluzioni napoletane: quello morente ricorda la
rivoluzione del 1799 e fu eseguito nel 1866 da Busciolano; viene poi il
leone ferito a simboleggiare la rivoluzione del 1820, opera di Lista,
firmato e datato 1868; a sud compare il leone indomito che regge tra gli
artigli lo Statuto del 1848, opera del 1866 del Ricca ed infine Solari
realizza un leone minaccioso che allude alla rivoluzione del 1860. Vi è poi
un’epigrafe dettata da Giuseppe Fiorelli e dedicata “Alla gloriosa memoria
dei cittadini napoletani caduti nelle pugne o sul patibolo … ”
Tra le statue più belle che ornano la città vanno annoverati i due bronzei
domatori di cavalli che ornano l’ingresso dei giardini di Palazzo Reale,
eseguiti dallo scultore russo Clodt von Jurgensburg e donati a Ferdinando II
dallo zar Nicola I nel 1846, per ringraziare il sovrano napoletano che aveva
ospitato la zarina alla ricerca di un clima mite per meglio curare un
fastidioso malanno.
La statua forse più famosa della città è quella dedicata a Dante Alighieri,
eretta nell’omonima piazza nel 1872 in omaggio all’Unità d’Italia. La piazza
in precedenza si chiamava largo Mercatello perché lì si svolgevano attivi
commerci fino al 1757, quando il re Carlo diede incarico a Luigi Vanvitelli
di creare il cosiddetto Foro Carolino, un grande emiciclo che avrebbe dovuto
fare da scenografia ad un monumento dedicato al re.
Passando a statue dedicate a personaggi più vicini a noi nel tempo come
Giuseppe Garibaldi che viene raffigurato a cavallo con le mani protese in
avanti, poggiate sull’impugnatura della sciabola, l’opera venne eseguita nel
1904 dallo scultore fiorentino Zocchi e fu il motivo per cui la commissione
toponomastica mutò il nome della piazza dedicata all’Unità d’Italia all’eroe
dei due mondi. In precedenza i napoletani l’avevano sempre chiamata “’a
piazza d’a stazione” a rammentare che la prima ferrovia italiana, la
Napoli-Portici, seconda al mondo, venne inaugurata nel 1839 e sarebbe
opportuno che si ritornasse all’antico toponimo.
Su via Caracciolo si eleva maestosa la statua equestre del generale Armando
Diaz, tra gli artefici della vittoria della Grande Guerra (1918). Sul
davanti è riportato integralmente il bollettino della Vittoria di cui
riportiamo l’epilogo: “I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti
del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano
disceso con orgoglio e sicurezza.
Infine descriviamo il monumento al celebre clinico Antonio Cardarelli di
fronte all’ospedale ex 23 marzo che da lui prese il nome attuale.
Concludiamo questa nostra carrellata lamentando la mancanza gravissima di
due statue da dedicare a straordinari personaggi che hanno illustrato la
città: Totò ed Achille Lauro.
Un discorso a parte è costituito dalle statue che sono poste sulla sommità
delle guglie: San Domenico, San Gennaro e la Madonna, che da secoli,
solenni, parlano ai napoletani e nello stesso tempo ascoltano le loro
invocazioni. Rappresentano dei simboli della religiosità popolare e si
presentano come straordinarie macchine barocche in grado di fondere in una
mirabile sintesi architettura e scultura, sacro e profano. Attraverso la
loro mole maestosa hanno esaltato il potere della chiesa e nello stesso
tempo il trionfo fastoso e festoso dell’effimero. Erette per esorcizzare
pestilenze ed eruzioni dominano le piazze alle quali conferiscono grande
prestigio. Prodotte dalla collaborazione di più artisti raffigurano
l’immagine devota della città, fedele ai suoi riti e forte della sua carica
di fedele spiritualità.
Il segno di un’antica pietà nei cimiteri
La notizia trapelata di recente che anche Napoli si doterà di una struttura
per fornire a chi lo desidera la possibilità della cremazione chiude un
periodo e tristemente pone la nostra città, legata da sempre al culto dei
morti, in un panorama di contemporaneità.
A Napoli esiste un circuito di cimiteri di eccezionale valore storico ed
artistico, che meriterebbe di essere conosciuto e viceversa versa in uno
stato di abbandono miserevole. Si tratta di ben diciannove distinti luoghi
demandati a tramandare ai posteri l’amore verso i defunti ed una traccia di
memoria del nostro passato. Sono complessi grandiosi sorti tra il Settecento
ed il Novecento, dall’austero camposanto illuminista delle 366 fosse,
all’aristocratica struttura del monumentale di Poggioreale, con l’annesso
Nuovo, dall’antico cimitero di S. Maria del Pianto ai numerosi campisanti
periferici che servivano gli antichi casali, oltre ad una variegata serie di
spazi dedicati alle comunità straniere, ai non cattolici ed alle vittime
delle frequenti epidemie di colera.
Nel 1806, quando venne esteso alla penisola italiana l’editto di Saint Cloud,
che prevedeva la localizzazione dei cimiteri fuori dalle mura cittadine, la
capitale del Regno delle due Sicilie ne aveva già maturato lo spirito
innovatore, sia riguardo all’igiene ed alla salubrità dell’aria degli
abitati, sia nel decentramento degli insediamenti funerari. Infatti già nel
1779 la situazione era così allarmante che, su incarico di Ferdinando IV, i
medici della Deputazione della salute giudicarono indispensabile vietare le
inumazioni all’interno delle chiese, come era avvenuto fino ad allora e
creare fuori dalle mura cittadine:”due o tre campisanti, ove potrebbero
farsi diverse sepolture, per li vari ceti di persone e per le diverse
confraternite, ospedali, e parrocchie”.
Da allora il caotico sviluppo edilizio li ha posizionati all’interno del
tessuto urbano, configurando, in termini fisici ed ideali, uno specifico
profilo della più vasta ed urgente problematica che investe le periferie.
Il cimitero continua ad essere più che un luogo di sepoltura dei nostri
resti mortali, della nostra misera carcassa, un tempio della memoria, un
sito dove la fede si esprime degnamente nella preghiera e nella speranza di
una vita ultraterrena.
Camminando tra le sepolture, anche nei cimiteri minori, è possibile
osservare un repertorio di espressioni artistiche ora di medio ora di alto
livello, promosse da una ricca borghesia desiderosa di tramandarsi ai
posteri attraverso la riproposizione di testimonianze architettoniche ed
artistiche delle epoche più diverse, facendo si che le sculture funerarie,
le cappelle gentilizie o le stesse pietre tombali costituiscano la distinta
rappresentazione di una variegata umanità.
Questa nuova classe sociale si esalta all’idea di poter essere eternata
grazie ad uno sfarzoso monumento funerario, desiderando ardentemente quello
che a lungo era stato appannaggio quasi unico delle famiglie aristocratiche.
Il complesso dei cimiteri napoletani, per numero e per qualità artistica,
dimostra quanto fossero diffuse le virtù civiche e la pietas nei confronti
dei defunti nel Settecento e nell’Ottocento, pur convivendo con altre forme
di culto funerario più popolari e inquietanti per la borghesia illuminista
partenopea, come quello ancora vivo del cimitero delle Fontanelle, ricco di
valenze antropologiche.
La scomparsa e la inesorabile decadenza economica di tante famiglie ha
vistosamente ridotto l’interesse alla manutenzione di molte sepolture
gentilizie, complice il trascorrere delle generazioni che allenta, fino ad
annullare del tutto la “celeste corrispondenza di amorosi sensi” di
foscoliana memoria, tra vivi e morti.
Ai nostri tristi giorni, domina contro le magniloquenti fanfare della
memoria, il dimesso silenzio dell’oblio e di fronte al fenomeno dello
snaturamento degli assetti cimiteriali originali causato dal caotico
sovraffollamento ed alla luce della criminale spoliazioni dei monumenti
funerari per via di furti e vandalismi, urge la necessità di un’azione di
recupero e di tutela, possibile veramente solo se i cittadini si
riapproprieranno dei luoghi ed ameranno conoscerli e frequentarli.
La morte spesso ci raggiunge all’improvviso, per fatalità, come chiosava
magistralmente Totò, ci rapisce nel fiore della vita ed a Napoli e solo a
Napoli il più delle volte questa tragedia lascia un segno tangibile del suo
passaggio con l’abitudine di decorare con fiori ed altarini e turni di
preghiera costanti il luogo della sciagura. Qualcuno addirittura spesso è
presente sul posto in alcune ore del giorno e rende note al passante le
modalità della vicenda con parole retoriche e strappa lacrime. Da noi,
diversamente da qualunque altra città del mondo, l’esercizio pubblico della
memoria non è riservato solo ai grandi eventi, ma anche a fatti privati, a
morti qualunque.
Altre singolarità nell’ambito cimiteriale si possono osservare solo tra i
napoletani, frutto di una maliziosa ingegnosità e di una predisposizione
truffaldina, che costituiscono la cifra stilistica di una parte non
indifferente della popolazione.
Intendiamo riferirci al subaffitto delle cappelle gentilizie, che famiglie
decadute decidono di mettere a disposizione di morti danarosi, anche se non
blasonati, mentre addirittura alcune bande specializzate riescono a vendere
dei loculi a peso d’oro a chi non riesce a trovare una degna sistemazione
per i propri defunti in cappelle abbandonate o anche solo poco frequentate
dai discendenti. Esistono alcune bande specializzate nel ricavare sepolture
in cappelle private, per rivenderle poi a peso d’oro a chi non trova una
degna sepoltura per i propri defunti. Sulla vicenda ha aperto un voluminoso
dossier la Procura e delle indagini si interessa un celebre magistrato,
passato da tangentopoli a cimiteropoli.
Vi è poi in uno dei cimiteri periferici, quello di Marano, una sorprendente
necessità: i vivi debbono fingersi morti prima del tempo, onde evitare che
il loculo venga occupato da morti “abusivi”. La domenica i visitatori
accendono un lumino a se stessi e si raccolgono in preghiera davanti ad una
lapide col proprio nome e cognome. Un comportamento paradossale che ha
scatenato la fantasia dei patiti del lotto, i quali suggeriscono di giocare
questo terno: 48, il morto che parla, 79, il loculo e 90, la paura di
perdere un bene acquistato a caro prezzo.
Passeggiare nel cimitero di Marano è diventata così una sorta di esperienza
esoterica: arrivare con un mazzo di fiori e porlo sulla propria tomba o su
quella di un amico vivo, dire una preghiera, leggendo sulle lapidi i nomi di
parenti ancora attivi, sorridere e piangere allo stesso tempo, rammentando
l’antologia di Spoon River, mentre il paradiso può attendere.
Una trasformazione epocale che ha modificato luoghi una volta ameni come
Poggio Vallesana, dove a Pasquetta si venivano a trascorrere ore liete,
suonando e mangiando dolciumi o si giocava nella villa comunale, costruita
intorno ad un monumento funerario di epoca romana, testimonianza di un
passato ragguardevole. Oggi a due passi vi è la discarica di Chiaiano,
traboccante di rifiuti, colate di cemento della speculazione edilizia e,
inaccessibile, la roccaforte del famigerato clan Nuvoletta, dominante
l’intera valle che va dal mare di Lago Patria alla piana dei Mazzoni. Luogo
di riunioni tenebrose durante le quali si celebravano processi e si
emettevano sentenze di morte.
L’inarrestabile crescere delle sepolture nei cimiteri ha creato una tale
situazione di affollamento per cui le nostre città sembrano quasi assediate
e soffocate dal regno dei morti, mentre la memoria collettiva si trasforma
in indifferenza davanti alla moltitudine di nomi che si affastellano in
cappelle smisurate in cemento armato che si innalzano a mo’ di mostruosi
grattacieli. Gli spazi dedicati ai morti straripano facendo percepire
sinistramente nell’opinione pubblica il problema della sepoltura una
tematica analoga allo smaltimento dei residui industriali o addirittura a
quello dei rifiuti. Giunti a questo punto di degrado della pietà non resta
che accogliere come un auspicio il diffondersi della cultura della
cremazione, una triste necessità da apprendere per entrare nella modernità.
Necessità di un nuovo Masaniello
Tra i miti creati da Napoli nella sua lunga storia quello di Masaniello è
senza dubbio, assieme alla maschera di Pulcinella, il più duraturo ed
internazionale. Sorto da un personaggio realmente vissuto, anche se il suo
volto e le sue gesta sono avvolte da un alone di mistero, ha finito col
diventare nel tempo il simbolo stesso della ribellione agli abusi del potere
ed espressione dell’ansia di libertà dei popoli, ma in egual misura, ha
rappresentato nell’immaginario collettivo il simbolo di una rivolta cieca ed
autodistruttiva.
Masaniello seppe uscire all’improvviso da una vita grama e dall’anonimato,
conquistare il potere ed assurgere alla fama, per precipitare altrettanto
velocemente nell’abisso della follia, provare il tradimento della plebe e
finire assassinato.
Dieci giorni indimenticabili, dal 6 al 17 luglio del 1647 che pesarono
profondamente sulla storia della città, per rimanere eternamente in un mito,
sentito ancor oggi, e non solo dai napoletani, vivo e vivificante.
La rivolta di Masaniello nel parlare comune viene intesa come esempio di
trasformazione non riuscita, ma la sua impresa all’epoca ebbe risalto in
tutto il mondo occidentale, anche in Paesi che non condividevano con Napoli
niente altro che l’ansia di protesta verso ogni forma di oppressione. Una
cronaca dettagliata delle sue gesta girava già tradotta in Inghilterra ed in
Olanda, dove la sua effige è presente su una moneta sul cui retro compare
Cromwell, mentre in Germania diventa protagonista in teatro di alcuni drammi
e la sua figura si confonde con quella di Guglielmo Tell.
A Bologna nel 1650 viene pubblicata la Partenope sollevata sul cui
frontespizio domina la scritta in spagnolo:”El major monstruo del mundo y
prodixio dela Italia Tomas Annelo de Amalfi” e tale opera si diffonde in
tutta l’Europa. Nello stesso tempo i pittori napoletani da Micco Spadaro a
Coppola, da Andrea De Lione al Cerquozzi ci tramandano le fasi più cruente
della rivolta ed il ritratto idealizzato del capopopolo, a volte
improbabilmente biondo, per cui, come giustamente anni fa Katia Fiorentino
intitolò un suo saggio sull’argomento: “Uno, nessuno e centomila. Le
multiformi immagini di un eroe popolare” non conosciamo il vero volto
dell’eroe.
Anche nell’Ottocento la figura di Masaniello stimola la fantasia di
scrittori e commediografi; l’opera in musica francese La muta di Portici
imbastisce una storia fantasiosa della sorella di Masaniello, riscotendo uno
straordinario successo all’Opera di Parigi, mentre Alexandre Dumas nel
Corricolo dedica alcuni capitoli al leggendario capopopolo.
Proveremo ora a ripercorrere brevemente le gesta di Masaniello, compulsando
i vari libri che nel tempo ci hanno raccontato quei frenetici dieci giorni
che sconvolsero la città, oppressa dalle tasse e senza possibilità di far
sentire la sua protesta, perché l’Eletto del popolo era di nomina vicereale.
A metà del Seicento Napoli è una grande e popolosa città, ricca di attività,
con un florido commercio ed animata da forti tensioni, non è un luogo di
miseria e di arretratezza come una certa storiografia ha voluto
raffigurarla. Per tutta Europa cova una crisi sociale che da noi si
manifesterà con fragore, essendo più stridenti le differenze di reddito ed i
contrasti tra le classi.
L’inizio della protesta si può far cominciare con l’incendio del casotto
della gabella della frutta la notte del 6 giugno ad opera di un gruppo di
lazzari, che nei giorni seguenti Masaniello comincia a radunare fino a
quando, divenuti alcune centinaia, li dirige, armati in maniera rudimentale,
all’attacco del palazzo reale, costringendo il vicerè a trovare rifugio nel
vicino convento di San Luigi. Si cerca una mediazione, ma Masaniello non si
fida delle offerte pervenutegli attraverso il cardinale Filomarino e chiede
l’abolizione di tutte le gabelle e di ridurre il prezzo del pane, nel
frattempo assalta le prigioni, liberando i detenuti, assale le case dei
nobili, uccidendone alcuni tra i più invisi alla plebe, tra questi Geronimo
Letizia, colpevole di aver imprigionato Berardina la moglie del pescivendolo
e Giuseppe Carafa, episodio immortalato nel celebre dipinto del Gargiulo
conservato nel museo di San Martino.
La violenza dilaga ed il viceré si vede costretto a nominare Masaniello
capitano del Popolo e il novello eroe con tutta la sua famiglia vestita a
festa saluta dai balconi di palazzo reale la folla acclamante, che comincia
a vederlo troppo colluso col potere e pensa che egli possa divenire un
traditore.
Si cerca di avvelenarlo e di dividere gli umori del popolo.
L'ultimo giorno del suo regno (è il 16 luglio, giorno della festa del
Carmine), Masaniello affacciandosi alla finestra di casa sua, pronunciò uno
dei suoi ultimi discorsi. "Popolo mio....", così iniziava sempre, "ti
ricordi, popolo mio, come eri ridotto..."
Descriverà tutti i vantaggi ottenuti con il suo governo. I privilegi, le
gabelle tolte. Ma sa benissimo che presto verrà ucciso, ed è proprio questo
il rimprovero. Vigilare sulle libertà ottenute. In questo discorso si vede
un Masaniello ridotto pelle ed ossa, gli occhi spiritati. Qualcosa è
cambiato nel suo fisico, qualcosa di grave. E questo qualcosa riprenderà
possesso della sua coscienza e lo porterà a concludere il discorso in
maniera farneticante, compie gesti insulsi, si denuda, tanto che il popolo
venuto ad ascoltarlo, lo fischierà e lo deriderà. Corre verso la chiesa del
Carmine. Si porta sul pulpito, ma la sua mente è sempre più annebbiata.
Verrà portato in una delle stanze del convento. Ma il suo nemico Ardizzone
con dei suoi compari lo trovano e lo uccidono con 5 archibugiate. Uno di
loro, Salvatore Catania, gli staccherà la testa con un coltello e la porterà
al viceré come prova. Il corpo fu gettato nelle fogne. Ma il popolo si rese
conto presto di aver perso un capo, un riferimento, la guida che aveva dato
la vita per loro: si sentirono soli. I resti mortali di Masaniello verranno
ricomposti e dopo un solenne funerale voluto dal viceré, degnamente sepolti
nella chiesa del Carmine. Ma verranno, dopo circa un secolo, tolti e
dispersi da Ferdinando IV per timore che il suo mito di potesse rinascere. I
nemici o coloro che lo vollero morto moriranno tutti. Da Genoino a Maddaloni.
La rivolta verrà sedata con l'arrivo di Giovanni D'Austria. La moglie
Bernardina, rimasta sola, per mangiare si diede al mestiere più vecchio del
mondo: prostituta in un vicolo del Borgo S. Antonio Abate. Qui verrà più
volte picchiata e derubata dai soldati spagnoli suoi clienti. Morirà di
peste nel 1656.
Ciò che resta di Masaniello è una lapide nella chiesa del Carmine, una
statua nel chiostro ed una piazzetta a suo nome, oscurata da un palazzone in
cemento armato, mentre il suo mito dopo aver attraversato tutta l'Europa,
dall'Inghilterra alla Polonia, sarà sempre sinonimo di libertà ed
eguaglianza.
Per chi crede nell’anima è facile immaginare che quella di Masaniello non
trovi pace ed alberghi ancora da queste parti, disperandosi delle precarie
condizioni di una città da lui tanto amata e per chi vuole, teme, spera
nella reincarnazione l’augurio è che trovi ospitalità in un giovane focoso
ed irruente che metta, per dieci e più giorni, a ferro e fuoco Napoli e la
Campania, liberandoci finalmente dal triste fardello dei nostri incapaci
amministratori.
Ed infatti non bisogna essere un auruspice né una pitonessa, né Nostradamus,
né Cagliostro, per prevederlo: giorno verrà che dalla folla sfiduciata e
pronta a tutto nascerà un castigamatti, che dopo aver conquistato la città,
marcerà con i suoi descamisados, rossi o neri non importa, verso l’Urbe,
indosserà al posto dei panni consunti da pescivendolo un tight troppo
stretto, si affaccerà ad un balcone e dirà: “Basta”.
Un popolo che, con tutti i suoi difetti, cerca di lavorare o quanto meno di
tirare a campare, sbarcando il lunario. Un popolo da sempre abbandonato a se
stesso, incapace di reagire al miasmatico andazzo attuale perché senza
guida. Un popolo che vuole un po’di pace ed una briciola di benessere.
I napoletani amano la propria terra, anche se più a morsi che a baci, a
graffi che a carezze e prima o poi vedranno un eroe che sappia riscattarli.
Queste mie amare considerazioni furono declamate, regnante Bassolino, nel
corso della presentazione alla Feltrinelli di Napoli di un ennesimo libro su
Masaniello, pubblico e presentatori erano quasi tutti di sinistra, ma
l’applauso, interminabile, fu sincero e scrosciante.
L’odissea infinita della metropolitana
Napoli, alla pari di Roma e Milano, è dotata di una rete di ferrovie
secondarie che copre gran parte del capoluogo, dalla vecchia linea della
metropolitana, la prima in Italia, anche se nata come penetrazione urbana
della Roma Napoli, alla Cumana ed alla più recente Circumflegrea, fino alle
numerose tratte della Circumvesuviana ed alla Alifana.
Nel 1975 sembrava, con la posa della prima pietra in piazza Medaglie D’Oro
della nuova metropolitana, che Napoli volesse porsi all’avanguardia in
Italia nel settore delle comunicazioni sotterranee(sono gli anni eroici
della inaugurazione della tangenziale e della costruzione dell’Alfa Sud a
Pomigliano d’Arco). Purtroppo per la seconda pietra si sono attesi anni,
come pure per la terza, la quarta etc, per cui a distanza di 35 anni
qualsiasi previsione su quando finiranno i lavori è un esercizio di pura
fantasia.
La nuova linea della metropolitana unisce la Napoli antica a quella futura e
rappresenta la promessa di una agognata mobilità, dopo un tempo infinito
perduto negli incroci a croce uncinata e nelle file immobili di auto
scorreggianti gas maleodoranti quanto venefici.
Il futuro dell’uomo è legato alla rapidità con cui si raggiungono luoghi e
persone, in un mondo nel quale il tempo corre sempre più veloce ed è
diventato un bene prezioso, che la nuova linea metropolitana promette di
regalare ai cittadini.
Oltre alla nuova metropolitana vi sono progetti anche per collegamenti su
ferro verso i quartieri nati tra Fuorigrotta ed i Campi Flegrei e su questo
percorso nasceranno stazioni faraoniche e sorprendenti, come quella che
servirà il campus universitario di Monte S. Angelo, infatti mentre la
spazzatura inghiotte la città, l’artista Anish Kapoor con l’architetto
Amanda Levete hanno progettato una stazione da 100 milioni di euro, che
allude maliziosamente all’Origine del mondo di Courbet.
I lavori procedono con una lentezza esasperante, perché alle difficoltà
economiche, negli ultimi anni si sono aggiunte le sempre più numerose
scoperte archeologiche, che ci restituiscono le vestigia di un sottosuolo
carico di storia, del quale prima avevamo solo un’idea confusa, una città
fantasma, una gigantesca Atlantide che assume giorno dopo giorno una
consistenza sempre più precisa.
Proseguire i lavori, oltre che avvicinare il giorno della conclusione
dell’opera, serve in un momento di crisi a mantenere i livelli occupazionali
e a ridare ossigeno ad un’economia asfittica, perché oltre alle maestranze
impegnate direttamente nei cantieri, vanno considerati gli addetti
nell’indotto e nei subappalti.
Gli scavi hanno finora restituito una quantità imprevedibile di ritrovamenti
archeologici: in piazza Bovio le viscere della città hanno conservato quasi
intatta una torre medioevale costruita con il reimpiego di marmi strappati
all’arco severiano, che segnava all’epoca l’avamposto sul mare ed è segnata
da numerose decorazioni, dalla prua di una nave ad un leone marino, mentre
nei pressi del Maschio Angioino, nella colmata voluta da Carlo V, sono
spuntati come d’incanto muraglioni, case, botteghe ed una grossa nave colma
di mercanzie. Proprio dove dovrà sorgere uno snodo importante nel settore
dei trasporti sotterranei, perché, su progetto del famoso architetto
portoghese Alvaro Siza, nascerà un’importante fermata della nuova
metropolitana, che si collegherà al capolinea della Linea 6, un altro
tracciato importante, tra Bagnoli ed il centro, che doveva essere pronto per
i mondiali del 1990 e che viceversa è parzialmente pronto solo tra piazzale
Tecchio e Mergellina, grazie alle ruberie dei politici dell’epoca, i cui
reati, complice la ingiusta lentezza della Giustizia sono tutti caduti in
prescrizione. Anche su questo percorso sono venute alla luce interessanti
scoperte, come la necropoli di S. Maria degli Angeli, dove si sono
recuperate anfore funerarie con i resti di bambini.
Ma la novità più esaltante svelata dagli scavi è, in piazza Nicola Amore, la
pista di atletica dove si disputavano le Isolimpiadi, i giochi che dal I
secolo dopo Cristo venivano organizzati per celebrare il culto di Augusto,
oltre al porticato di età flavia dove trovava posto il pubblico ed un tempio
di età imperiale, parzialmente crollato, ma i cui frammenti sono stati tutti
catalogati e dopo essere studiati saranno rimontati dando luogo ad
un’operazione del tipo di quella che venne ideata ad Abu Simbel. Ed anche
questa stazione sarà opera di un celebre architetto: Massimiliano Fuksas.
Questi recuperi, in gran parte inaspettati costituiranno un’opportunità
irripetibile per proporsi sul mercato turistico internazionale come grande
città d’arte.
Nel frattempo la talpa continua il suo lavoro silenzioso verso piazza
Garibaldi, dove si congiungerà, con un percorso di quattro chilometri,
fondamentali per il collegamento urbano perché intrecciati anche con l’Alifana,
un anello di collegamento con Capodichino, dove è previsto un terminal nel
cuore dell’aeroporto.
Quando questi lavori termineranno Napoli cambierà e questa volta in meglio,
nel frattempo possiamo godere delle Stazioni dell’Arte, un unicum al mondo,
ad eccezione della nota linea della metropolitana moscovita. In queste
stazioni si possono ammirare 180 opere di arte contemporanea, che
costituiscono un fiore all’occhiello per la città ed uno degli esempi più
eclatanti di museo decentrato ed offerto agli occhi degli utenti della
metropolitana, che ora sono 110.000 nei giorni feriali e 40.000 nei festivi,
usufruendo delle 14 fermate poste sui 13,5 chilometri dell’attuale percorso.
Uno straordinario museo che permette una meditazione dinamica dell’arte, un
metrò di livello alto, sotto il profilo intellettuale, con la speranza e
nell’attesa che diventi anche lungo.
L’agonia delle torri aragonesi
Napoli è stata ripetutamente capitale di regni estesi e potenti, ma il
periodo aureo per la città fu, ad unanime parere degli storici, costituito
dai sessanta anni di dominio della casa d’Aragona, un vero Rinascimento alla
pari di quello fiorentino, niente a che vedere con la frottola messa in giro
anni fa da una classe politica famelica e corrotta.
I fasti di quegli anni lontani oggi sono difficili da localizzare nel
tessuto urbanistico, stravolto dalle stratificazioni successive e per
l’incuria degli uomini.
La statua di Alfonso il Magnanimo troneggia sulla facciata di Palazzo Reale
a rammentare che con la sua conquista della città il Regno di Napoli si
inserì in maniera articolata nell’economia del Mediterraneo, per il
contributo di mercanti italiani e stranieri, in prevalenza fiorentini e
catalani, le cui attività bancarie e commerciali crearono degli importanti
legami tra il Mezzogiorno e le principali realtà europee.
La corte aragonese era famosa per lo splendore e per il suo amore verso la
cultura e l’arte, che ebbero un notevole impulso. Erano di casa nella
biblioteca reale di Castel Nuovo, straripante di volumi rari e preziosi,
poeti come Sannazaro ed umanisti quali il Panormita ed il Pontano, a cui
venne intitolata la celebre accademia voluta da Alfonso.
Anche sotto Ferrante si espressero forti personalità in campo artistico, da
Giuliano da Majano a Francesco di Giorgio Martini e durante il suo regno la
città acquisisce quella suggestiva immagine impressa nella Tavola Strozzi,
una prospettiva in parte vera ed in parte fantastica, di sicura valenza
simbolica. Nel frattempo viene eretta Porta Capuana, concepita come un vero
arco trionfale e splendide ville come quella della Duchesca o quella di
Poggioreale, immortalata in una tela di Domenico Gargiulo.
Nel campo dell’architettura civile sorgono superbi palazzi, come quello di
Diomede Carafa e dei Sanseverino, ma allo spettacolare arco di trionfo
marmoreo all’ingresso di Castel Nuovo è legata la testimonianza del
contributo di scuole artistiche diverse, che a Napoli riuscivano a
coagularsi, mentre celebri sono le sculture del Mazzoni, che nella chiesa di
Monteoliveto nel commovente Compianto su Cristo morto ci ha tramandato le
figure dei principi aragonesi a grandezza naturale ed i dipinti del
Colantonio e di Antonello da Messina.
Furono approntati sistemi difensivi per la città e le memorie più vistose si
reperiscono nella mole poderosa di Porta Capuana, di Porta Nolana e nei
Bastioni del Carmine, ma vi è poi una serie di torri che vanno dalla Marina
a via Foria, dove alcune si sono trasformate nella caserma Garibaldi, che
sono state fagocitate dallo sviluppo edilizio successivo e versano in uno
stato di degrado e di abbandono vergognoso.
Queste torri aragonesi in agonia sono lo struggente ricordo di una Napoli
medioevale, che l’impeto del successivo barocco ha sommerso, rendendole poco
visibili, ma opportunamente recuperate, potrebbero costituire un
interessante itinerario per i turisti e per gli stessi napoletani, dei quali
ben pochi conoscono questi angoli reconditi della loro città. Procedendo
verso l’interno intorno all’area di San Giovanni a Carbonara sono presenti
numerosi resti di testimonianze della cintura difensiva con torrioni
riutilizzati per uso abitativo o come deposito. Tra questi la torre detta di
S. Anna, per la quale si è tentato di recuperarne l’antica dignità, ma che
rimane ancora quasi irraggiungibile, infatti per accedervi bisogna passare
per un garage e poi, uscendo da una porticina laterale, percorrere un tratto
delle antiche mura. Lo scorrere inesorabile del tempo, ma soprattutto
l’incuria e la strafottenza dei napoletani, ha trasformato completamente i
luoghi e là dove vigilava la ronda delle sentinelle troneggiano oggi schiere
di lenzuola sbrindellate stese ad asciugare, i famosi panni gocciolanti che
rappresentano l’orribile biglietto da visita di tanti vicoli della città.
In peggiori condizioni versa la torre in via S. Caterina a Formiello, la cui
base è stata letteralmente ingoiata dalle superfetazioni dei bassi, da tempo
abbandonati anche dai napoletani più miserabili ed oggi affittati a prezzi
esorbitanti agli extra comunitari, mentre in vetta tracce di un abuso
ottocentesco con una ringhiera civettuola divorata dalla ruggine.
In condizioni disastrate versa anche la torre di San Michele all’angolo
della salita Pontenuovo, crollata parzialmente da anni e con tracce sul
tetto di una costruzione recente, mentre tutto attorno cresce rigogliosa una
boscaglia selvatica popolata da zoccole fameliche, che si nutrono degli
abbondanti rifiuti.
Identica situazione per le altre schegge di torri, invase da garage
addirittura condonati, piccole fabbriche ed incivili abitazioni.
E nel frattempo si attende un finanziamento europeo per collocare nei pressi
di queste antiche torri agonizzanti, nei locali della chiesa di S. Anna e
San Gioacchino, l’archivio urbanistico della città digitalizzato dal
Settecento agli anni Sessanta del Novecento, mentre gli originali cartacei
rimarranno nell’archivio di salita Pontecorvo.
Un tentativo coraggioso quanto disperato di preservare con il muro siliceo
della memoria le memorie delle mura vulcaniche.
Il lotto, il sogno dei poveri
Il gioco del lotto è stato sempre percepito come un fenomeno precipuamente
napoletano, anche se all’ombra del Vesuvio è comparso solo nel 1682, mentre
in Francia si giocava già dal 1539 ed in Italia, a Venezia, dal 1590.
Questa considerazione ha dato luogo ad uno degli aspetti più caratterizzanti
dell’identità, amplificato da film come “Totò e Peppino divisi a Berlino”
(1961), dove la zia monaca suggeriva i numeri da giocare, mentre un giudice
per accertarsi che Antonio La Puzza fosse veramente napoletano, lo interroga
sulla Smorfia. 21! “Allora si dice la verità”.
A lungo il lotto è stato considerato dagli intellettuali, e tra questi
Matilde Serao, causa della rovina economica della città, per la grande
sproporzione tra il premio sperato e la probabilità di ottenerlo ed anche la
chiesa, pur considerandolo un gioco peccaminoso, lo tollerava per
incrementare le entrate dell’erario. L’ultimo tentativo di abolirlo, subito
vanificato, fu di Giuseppe Garibaldi, ma le ragioni dello Stato prevalsero
sui motivi di ordine etico.
La cerimonia dell’estrazione avveniva ogni sabato nel salone di Castel
Capuano, nel Palazzo della Vicaria, con grande concorso di popolo, che
raggiungeva il più intenso coinvolgimento emotivo ed erano presenti anche
molte delle orfane interessate alle quote destinate a costituire la dote per
potersi sposare.
I numeri vengono estratti da un bambino, mentre l’uomo che siede su uno
sgabello alle spalle del Presidente è il capo lazzarone, una specie di
tribuno del popolo.
Non vi è napoletano che non creda ciecamente che tutto ciò che accade
intorno a noi è trasformabile in un numero che bisogna semplicemente
interpretare aiutandoci con la Smorfia, a lungo il libro più venduto dopo la
Bibbia.
Nella più alchemica città del mondo si scommette in ogni dove, senza più
doversi recare al banco lotto. La fortuna si può acquistare dal tabaccaio o
al bar, si può sperare in una piccola vincita o in una grande duratura
fortuna, senza necessità di dover ricorrere agli interpreti dei numeri, i
cosiddetti assistiti ed i veri appassionati giocano piccole cifre.
Il giocatore convulsivo è attirato oggi dai Gratta e Vinci e dalle slot
machine e per questa categoria possiamo applicare la mordace definizione di
un cancro che rode le famiglie e vive alle spalle di coloro che lo venerano.
Gli scrittori dell’Ottocento ci hanno tramandato vari episodi esilaranti,
come quello di frate Stefano, il quale, rubate le elemosine ed impegnati gli
arredi sacri, sognava già di diventare un nobile, acquistare un feudo e di
poter godere delle grazie delle più belle popolane.
Per giocare i numeri si ispira al Crocifisso, il quale gli gioca un brutto
tiro, perché non vince alcunché e per ripicca decide di farsi musulmano e,
catturato dai Cristiani, morirà da turco, senza dare ascolto alle parole del
prete che tentava di convertirlo.
Il sovramondo magico religioso che circonda il lotto è costituito da alcuni
personaggi che vengono considerati intermediari tra presente e futuro, per
cui sono in grado di fornire i numeri giusti da giocare. In questa categoria
sono inclusi alcuni santi come San Pantaleone, considerato il santo
protettore dei giocatori e si racconta che vi fosse una statua cava dietro,
dove recitando novene ed invocazioni si potevano trovare indicazioni utili.
Se la richiedente era una donna si richiedeva che fosse vergine. “Per la
vostra santità, per la mia verginità, datemi tre numeri per carità”.
Altri intermediari che vengono invocati sono le anime del Purgatorio, perché
per la loro condizione di essere sospese tra l’aldilà e l’aldiqua sono più
vicine al futuro che al passato.
A Napoli esiste un culto specifico per le anime del Purgatorio, le quali
comunicavano frequentemente attraverso i sogni o durante dei riti collettivi
che si tenevano di venerdì. Altri personaggi sono il monaciello ed i
cosiddetti assistiti che si ritiene comunichino con gli spiriti. Un discorso
a parte va fatto per i monaci, tra cui famoso era ‘O monaco ‘e San Marco, il
quale per ispirarsi toccava le donne con una particolare predilezione per le
parti intime, pratica che venne interrotta quando un marito sospettoso si
travestì da donna ed allorché la mano sacrilega trovò il membro maschile
ricevette un sacco di legnate.
L’ultima categoria è costituita dai femminielli, i quali, essendo parte di
una marginalità, si pensava possedessero poteri magici. Ed ancora oggi in
occasione delle festività natalizie si organizzano le tombolate dei
femminielli. Irriverente, rumorosa, coinvolgente ed allusiva dà luogo a
storie piccanti, mentre il travestito estrae il numero dal panariello e lo
collega alle più sguaiate definizioni della Smorfia.
Una felice mescolanza di popoli e razze: Napoli chioccia generosa
Napoli è stata sempre giudicata una città porosa, non tanto perché poggia su
di uno strato di tufo, che possiede queste caratteristiche, quanto per
l’innata capacità di amalgamare i vari popoli che nei millenni l’hanno
conquistata, a partire dai Greci ai Romani, fino agli Spagnoli, agli
Austriaci ed ai Francesi.
I risultati di questa ultra secolare stratificazione è stata la creazione
dell’animus del napoletano: socievole, pronto a fare amicizia, disponibile
ad aiutare il forestiero ed a favorirne l’integrazione nel tessuto sociale.
Miti e tradizioni hanno subito una trasformazione che ne ha fatto
dimenticare i caratteri originari. Un solo esempio fra tanti: la festa di
Piedigrotta che, da rito pagano orgiastico in onore del dio Priapo, è
divenuta prima una festa religiosa per scatenarsi poi, soprattutto in epoca
laurina, in un’esplosione gioiosa di energie primordiali tra maestosi carri
allegorici, coppoloni, mano morte, schiamazzi e trasgressioni di ogni tipo.
Negli ultimi decenni il fenomeno migratorio ha assunto un andamento
pluridirezionale: da un lato i giovani migliori, laureati e diplomati,
prendono tristemente la via del Nord e dell’Estero, privando la città
dell’energia vitale indispensabile per arrestare una decadenza ormai
irreversibile e nello stesso tempo una marea di extracomunitari, in fuga da
guerre e carestia, sceglie Napoli come meta di riscatto civile, sicura
almeno di trovare il minimo per sopravvivere. E la città si dimostra
impreparata rispetto al passato ad accogliere con un caloroso abbraccio
questo “melting pot”, il quale diventa ogni giorno più pressante, rischiando
di rompere gli argini come un fiume in piena.
Percorrendo Piazza Garibaldi o Piazza Mercato siamo sommersi dai suoni ma
principalmente dagli odori di una città multietnica: kebab, couscous, pizze
fritte e piede di porco, pesci marinati e trippa. Ma la sera, scomparsi gli
ambulanti, cominciano a confluire razze di ogni tipo: magrebini, cinesi,
rumeni, polacchi, somali, nigeriani, che si posizionano senza alcun
tentativo di instaurare un principio armonico di convivenza.
E questa situazione di cesura la percepiamo più distintamente se ci
trasferiamo nelle favelas e nelle baraccopoli che costituiscono le dimore di
questi poveri disperati ed il fenomeno può essere osservato chiaramente se
prendiamo come punto di riferimento il parco fantasma della Marinella. Una
vergogna nel cuore della città; laddove doveva sorgere uno spazio verde di
30000 mq. Ci sono soltanto baracche e veleni, dolore e lacrime, miseria ed
abbandono, emarginazione ed una punta di razzismo, mentre si respira la
puzza del pesce marcio e si avverte il fruscio di ratti che si aggirano
spavaldi tra i cumuli di monnezza. L’unica nota lieta è il sorriso dei
piccoli rom che tornano sorridenti dalla scuola con lo zainetto sulle
spalle.
La Marinella è un girone dantesco per uomini e donne che hanno commesso il
solo peccato di esistere e di cercare lontano da casa un’opportunità per
sopravvivere in un ghetto dominato dalle regole dell’apartheid, dove ogni
giorno si scatena una guerra per bande per il controllo del territorio, con
gli zingari nel ruolo di sopraffattori.
Le baracche hanno invaso buona parte dell’area ed ogni giorno ne spunta una
nuova facendosi largo tra le montagne di rifiuti, mentre tutt’attorno
carcasse di animali ed un rudimentale pozzo nero che travasa facendo
suppurare una melma putrescente paradiso delle zoccole.
I primi a colonizzare il luogo furono gli arabi, dopo poco scacciati dagli
africani e con loro vi è anche un gruppo di ucraini senza permesso di
soggiorno. Poi sono arrivati i nomadi che vivono rubando ferro e rame e 3-4
volte alla settimana bruciano pneumatici per estrarre il metallo ammorbando
l’aria.
Gli unici volontari che si fanno vedere sono quelli della Caritas, portano
marmellata e Nutella, ma la popolazione ha bisogno di cibo vero e si beffano
gettandole via, ripetendo senza sapere che la storia si ripete ed il pane
non si sostituisce con le brioche come al tempo della regina Maria
Antonietta.
Un altro problema parzialmente affrontato è il rispetto della libertà di
culto per stranieri di fede diversa dalla nostra, soprattutto islamici. Il
sindaco De Magistris ha promesso che saranno realizzati una nuova moschea ed
un cimitero, ma fino ad oggi il luogo di preghiera è costituito, salvo una
piccola moschea in Via Corradino di Svevia, dall’immensa Piazza Mercato dove
il venerdì vi è una folla straripante che ascolta un Imam originario di
Boscotrecase e convertitosi nel 1996, quando il ritrovamento di una moneta
araba fu come una folgorazione e lo spinse a studiare Shari’a a Medina. Egli
ritiene che solo l’Islam è la vera religione dei poveri e degli ultimi.
Osservare un migliaio di ragazzi stranieri radunarsi in uno dei punti più
antichi della città, teatro dei principali episodi della sua storia,
p0regare sotto la guida di un Imam napoletano, mentre tutt’attorno si svolge
il solito caos quotidiano ha fatto affermare a più di un visitatore che
Napoli è la città araba più accogliente dell’Occidente.
Fatti e misfatti di Napoli
Folla delle grandi occasioni per la presentazione nella mitica Saletta
rossa, ritor nata per una sera ai fasti del passato, del libro di Marco De
Marco sulla Napoli da Lauro a Bassolino, una rivisitazione coraggiosa anche
se tardiva della storia recente della città, dall’eccidio dei monarchici
all’infinita emergenza dei rifiuti.
L’autore vuole scontare con questa lucida e spietata analisi un suo peccato
originale:l’aver sognato da ragazzo, comunistello imberbe, un futuro
radioso, ammirando il tramonto infuocato di Bagnoli prodotto dalle colate di
quel mostro ecologico che si chiamava Italsider.
Nei capitoli che scorrono veloci possiamo leggere per la prima volta cose
ovvie, ma che la vergognosa propaganda sinistrorsa ha falsificato negli
anni, dalle Quattro giornate di Napoli, che furono tre e nelle quali i
comunisti non svolsero alcun ruolo, al tanto osannato film Le mani sulla
città,che ancor oggi vuol far sembrare vera la favola metropolitana di un
Lauro devastatore della città, quando è ormai noto da anni che fu durante i
tre anni della reggenza Correra,che, complice la D.C., Napoli fu messa a
ferro e cemento impietosamente.
Il parterre dei presentatori era coordinato da Gian Antonio Stella,
giornalista del Corriere della Sera sceso dal Nord a miracol mostrare e nel
gruppo si salvava solamente lo storico Giuseppe Galasso sobrio e
provocatore, mentre i tre rappresentanti delle istituzioni i senatori
Umberto Ranieri ed Antonio Polito ed il ministro Nicolais sono stati messi
alla berlina da un pubblico rumoroso ed appassionato, da stadio, stipato
fino all’inverosimile e nel quale non mancava nessuno degli intellettuali di
sinistra e di destra, i quali prima dell’inizio si omaggiavano, si
abbracciavano e si baciavano spudoratamente, segno inequivocabile di quel
consociativismo che è stato ed è tuttora la vera iattura della città.
Sulla discussione aleggiava, mai nominato direttamente il fantasma di
Bassolino il vero artefice del disastro della Campania. Finita la conferenza
ed acquistato il libro, sul quale troneggia la dedica” Ad Achille con cui
spesso concordo, non sempre” mi incammino per via Roma ridotta ad un
vociante bazar medio orientale con negri che impuniti espongono la loro
mercanzia contraffatta e giovinastri tatuati e piercingati che passeggiano
spavaldamente con sguardi assassini.
Giunto in Galleria sono attratto da un crocchio di astanti arringati da una
voce troneggiante. Mi avvicino e mi accorgo che il caloroso tribuno non è un
no global, bensì il presidente di un’associazione che si vantava, al
cospetto di migliaia di esponenti della scalcinata borghesia napoletana,
intabarrata in squallidi abiti da cerimonia.
E cosa glorificava alla presenza delle istituzioni, Bassolino in testa, lo
stentoreo oratore? Di aver restituito alla città la statua di Partenope
sulla vetta del teatro massimo, dopo soli 40…anni di esilio, dimenticando, o
forse ignorando, che Carlo III, il famigerato re borbone, in soli sei mesi,
aveva fatto sorgere dal niente il San Carlo, indiscusso tempio della lirica.
E mentre la folla delle auto clacsonanti impazziva per l’ingorgo causato da
questi così eleganti cittadini, si poteva chiaramente comprendere che in
questa cesura tra passato glorioso e presente ignominioso è la chiave di
lettura della dolorosa ed inarrestabile deriva della nostra sfortunata
città.
Dalla peste al colera
La promiscuità, il sovraffollamento, il mancato rispetto delle più
elementari regole dell’igiene sono state nei secoli le cause primarie del
diffondersi nella città di Napoli di disastrose epidemie, che talune volte
hanno falciato quote cospicue della popolazione.
Tra queste il colera sembra essere divenuto quasi endemico; esplode sempre
d’estate tra luglio ed agosto, quando le temperature raggiungono i loro
picchi annuali e colpisce per primi gli abitanti dei bassi, dove le precarie
condizioni di vita favoriscono la diffusione del contagio.
Lungo i secoli bui del Medioevo le epidemie si susseguivano e si
sovrapponevano procurando migliaia di decessi: difterite, tifo, malaria,
vaiolo, epatite e salmonellosi hanno imperversato a lungo in città ed in
provincia.
Tra le epidemie più disastrose bisogna ricordare quella di peste del 1191,
durante l’assedio di Enrico lo Svevo con migliaia di morti, anche se la vera
peste fu quella del 1656, che dimezzò la popolazione, spazzando via
un’intera generazione di pittori, mentre i pochi superstiti ne hanno
immortalato scene indimenticabili, come Micco Spadaro, che ci ha fornito
un’immagine grandiosa dell’odierna piazza Dante con una marea di moribondi,
mentre squadre di monatti compivano il loro triste ufficio o Carlo Coppola
che inquadra gli avvenimenti della grande piazza del Mercato e Luca Giordano
il quale ci mostra San Gennaro nel pieno della sua attività di protettore
della città e nel basso della composizione ci restituisce il particolare
straziante di un bambinello abbandonato al suo destino dalla madre morta,
che cerca disperatamente nutrimento nelle mammelle di una puerpera da poco
spirata. E concludiamo con Mattia Preti che ebbe l’incarico di eseguire
sulle porte della città dei giganteschi ex voto di ringraziamento per la
cessazione del morbo.
Anche il Settecento fu triste sotto il profilo delle epidemie e
nell’Ottocento, dopo l’Unità d’Italia, in poco più di venti anni Napoli
venne colpita ben cinque volte dal colera, pagando nel 1865 un tributo di
oltre 6000 vittime alla furia del morbo ed ancora di più l’anno successivo,
fino a quando, dopo l’ulteriore disastrosa epidemia del 1884, si raccolse
l’urlo disperato della Serao:”Bisogna sventrare Napoli” e si diede mano alla
colossale opera del Risanamento, ridisegnando interi quartieri.
Del persistere delle epidemie molti abitanti davano la colpa ai nuovi
amministratori al punto che in alcuni ospedali circolava il demenziale
ritornello: “Si vulite ca cacammo tuosto, Datece ‘o Rre Nuosto”.
Il colera ha infuriato incontrastato per decenni, complice il degrado in cui
versava gran parte della città antica, servita da un acquedotto, che
chiamare vergognoso significava fargli un complimento, perché in molti punti
era inquinato dai liquami fognari. Anzi in quasi tutti i bassi si utilizzava
per bere e per cucinare l’acqua di un pozzo, che “fraternizzava” con gli
escrementi che scolavano verso la cloaca da un orribile buco, il quale
fungeva in ogni abitazione da cesso, permettendo il passaggio verso il basso
e l’esterno di feci ed urine e verso l’alto e l’interno di topi e zoccole,
da cui la necessaria presenza in ogni basso di una colonia di gatti, che
cercava disperatamente di opporsi al proliferare dei ratti.
Il periodico presentarsi delle epidemie di colera provocava numerosi
decessi, per cui fu necessario realizzare nel 1836 un cimitero dedicato
unicamente ai trapassati per via del morbo. Anzi ad essere più precisi ne
vennero creati due, perché al primo accedevano prevalentemente gli
appartenenti alle famiglie illustri della città, mentre al secondo, un
sepolcreto costruito nel 1837 vicino al cimitero delle 366 fosse, il
popolino, che altrimenti sarebbe finito nelle fosse comuni dell’attiguo
cimitero realizzato dal Fuga per trovare un’eterna dimora ai senza dimora
ospitati nell’Albergo dei poveri.
E qui si apre un’altra dolorosa ferita nella conservazione della memoria
della città, perché il cimitero, per quanto conservi le spoglie del gotha
dell’aristocrazia napoletana, a partire dai Caracciolo e dai Carafa ed un
profluvio di epigrafi che ci raccontano, con accenti commossi, storie di
amore e di sofferenza, versa in uno stato di abbandono deplorevole, con i
monumenti funebri avvolti da un’inestricabile boscaglia che umilia questa
prodigiosa Spoon River partenopea.
Avventurarsi tra il fogliame e leggere le parole incise sul marmo, dettate
da questi alto borghesi ed aristocratici, colpiti negli affetti più cari, ci
restituisce il senso di un’immane tragedia che ha più volte colpito la
popolazione e ritornano attuali le malinconiche intimità di una classe
sociale spazzata via dalla modernità e che pagò, nonostante l’epidemia
colpisse prevalentemente la plebe, un pesante tributo alla furia del
contagio.
Non sarebbe macabro organizzare per forestieri ed indigeni delle visite
guidate a questi luoghi dell’arte e della pietà, della meditazione e della
preghiera, che costituiscono una fondamentale pagina di storia della città.
Ed una tristezza sconfortante coglierebbe il visitatore vedere le stradine,
invase dalle piante e le palme divorate dal punteruolo rosso che guardano
malinconiche i grattacieli svettanti del centro direzionale, mentre tutto
attorno si estende una distesa di tombe dimenticate, di monumenti divelti e
profanati da ladri sacrileghi e le infinite lapidi che ci ammoniscono sulla
caducità della vita.
Durante il fascismo stranamente non vi furono epidemie, ma mentre infuriava
la guerra, nel 1943, scoppiò di nuovo la peste, portata dalle truppe
americane, le quali rimanevano immuni dal contagio. Sono i giorni tristi in
cui capeggiavano le scritte sulle mura:”Off limits” o “Out of bonds”, che
perentoriamente consigliavano ai militari in cerca di puttane di stare alla
larga da alcuni quartieri dove il morbo si manifestava con maggiore
virulenza.
Ed infine l’ultimo capitolo di questo dramma infinito si è avuto nel 1973,
quando il vibrione del colera, complice la scellerata abitudine di consumare
mitili non cotti, prelevati dal mare cittadino, ridotto da tempo ad una
penosa cloaca a cielo aperto, ha di nuovo dilagato in città e provincia
chiedendo il suo implacabile pedaggio di vittime.
E purtroppo in questa occasione i mass media hanno dilatato per tutto il
globo l’immagine di una città perduta, condannata ed irrecuperabile, per via
anche dei suoi abitanti più rozzi, immortalati dalle telecamere mentre si
pascevano scriteriatamente di cozze appena prelevate dagli scogli puteolenti
di via Caracciolo.
Ho ricordi personali ancora vivi del morbo, dal vero e proprio tumulto
scoppiato nel cortile dell’ospedale di Cava de’ Tirreni per accaparrarsi il
vaccino dal quale fui travolto assieme ai colleghi medici e mi salvai
unicamente perché iniettammo soluzione fisiologica una volta finite le dosi
o la delusione patita di vedere al mio matrimonio, celebrato a settembre col
morbo da poco terminato, disertato dalla totalità degli invitati non
napoletani spaventati e perfino da un mio zio residente a Roma, che doveva
fungere da compare d’anello.
Le colpe di queste infinite epidemie, che fanno somigliare Napoli ad una
città del terzo mondo, vanno equamente divise tra amministratori ed
amministrati, presenti e passati. Nei secoli nessuno è riuscito a regolare
la crescita tumultuosa della città, cercando di limitare la sproporzione tra
numero degli abitanti e superficie a disposizione, per cui una quota
significativa della popolazione è costretta a sopravvivere in condizioni
precarie, sia che occupi degli squallidi bassi nei vicoli senza luce del
centro antico o i disumani casermoni delle periferie da Scampia a
Secondigliano.
Un esempio storico di amministrazione mirata alla speculazione ed a
privilegiare le classi sociali più agiate è fornito dall’operazione del
Risanamento, che seguì all’ennesima epidemia del 1884, la quale provocò nel
solo capoluogo 7000 vittime del colera. Anche allora, come si è
pervicacemente ripetuto in seguito, speculatori di ogni risma, politici
corrotti o corruttibili, usurai e profittatori si diedero appuntamento per
sfruttare l’emergenza, un’abitudine inveterata, che in tempi più vicini ha
addirittura programmato la gigantesca struttura della protezione civile,
autorizzata ad agire al di fuori di ogni regola concorsuale ed edilizia.
Ma torniamo al passato: nella mastodontica opera di ristrutturazione del
Risanamento vennero abbattute 17000 abitazioni e scomparvero sotto i colpi
di piccone anche 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi. Prese forma il
Rettifilo lungo quasi due chilometri, che tagliò letteralmente in due il
ventre di Napoli, ma non si costruirono come promesso case economiche, per
cui la popolazione più povera fu costretta a ritornare nei bassi con l’unica
differenza che dove abitavano in sei o otto, dovettero arrangiarsi in dieci
o dodici. Nel frattempo il mercato immobiliare entrò in fibrillazione con
aumenti vertiginosi dei prezzi e guadagni stratosferici per i soliti
speculatori, tra i quali si distinse il piemontese Glisser, che realizzò una
fortuna tra appalti e subappalti.
Ne derivò una celebre inchiesta, venne istituita una commissione, che mise
in luce l’intreccio tra malaffare e politica, ma non riuscì a condannare
nessuno.
La storia si è ripetuta altre volte e sempre con gli stessi risultati, per
cui non ci resta che attendere la prossima epidemia, nel frattempo ci
dobbiamo contentare di una diffusione di epatite virale che non ha eguali
nel mondo occidentale.
La nascita del cinema e della televisione
La nascita del cinema italiano è avvenuta all’ombra del Vesuvio, anzi, ad
essere più precisi, sulla verde (allora)collina del Vomero, quando un secolo
fa sorgeva la prima casa discografica made in Italy.
Si tratta di un altro dei tanti primati della città di cui si è perso il
ricordo, perché non basta certo una piccola targa per imprimere nella mente
del distratto viandante quella straordinaria avventura rappresentata per
anni da studios all’avanguardia e generazioni di tecnici ed artisti
alternatisi nella produzione di molteplici pellicole proiettate nei
cinematografi di tutta la penisola.
Siamo ai primi del Novecento, in un momento di grandi cambiamenti a Napoli,
che cerca di digerire la perdita del ruolo di capitale, attivandosi nel
cambiare il volto della città attraverso il piccone del Risanamento,
cercando di liberarsi dalla morsa del malaffare con l’inchiesta Saredo, che
metterà in luce un perverso intreccio di interessi tra politica e camorra,
purtroppo perpetuatosi fino ai nostri giorni. Sono i giorni della nascita
dell’Ilva, che fornirà lavoro a migliaia di addetti, collaborando alla
crescita di una coscienza operaia, ma che priverà per sempre i cittadini di
una spiaggia formidabile, sono gli anni della Belle Epoque, dei divertimenti
folli, del pullulare di fermenti artistici e letterari in perfetta sintonia
con i circoli culturali europei.
In questo fervore creativo si colloca la figura di Gustavo Lombardo, un
giovane studente universitario, che dopo un’esperienza nel campo del
noleggio dei film, una novità assoluta perché allora gli esercenti dovevano
acquistarli, rilevò gli stabilimenti della Poli film, ed ampliandoli pose le
fondamenta per la nascita di una Cinecittà partenopea.
In poco tempo si gireranno oltre cinquanta pellicole, caratterizzate non
solo da un’ambientazione locale, ma anche da un respiro nazionale, le quali
vedranno tra le principali interpreti Leda Gys, destinata a divenire una
delle più celebri attrici del cinema italiano, all’epoca rigorosamente muto
e la moglie del suo produttore.
Alcuni film erano delle traduzioni per lo schermo di celebri sceneggiate e
lo sfondo per il racconto è rappresentato dal lungomare, dai vicoli, dalle
feste popolari, dal porto, che in quei tristi anni significava emigrazione
verso l’America, la meta preferita anche di tanti film accolti con un
entusiasmo delirante dalle comunità oltreoceano, non solo dai napoletani, ma
da tutti i meridionali, i quali riconoscevano ancora in Napoli la loro
capitale morale. Spesso famosi tenori seguivano la tournee offrendo la loro
voce per la colonna sonora, ma gli spettatori si accontentavano di poco e
nonostante il muto, le immagini avevano una tale forza da sfociare nel
sonoro…
In pochi anni in città si moltiplicano le case di produzione più o meno
piccole, quasi tutte a livello artigianale, a volte addirittura a conduzione
familiare, tra queste ricordiamo la Vesuvio film di Roberto Troncone sorta
nel 1908 in una ridente villetta del Vomero, con i suoi attrezzati teatri di
posa e le sue dive come la mitica Francesca Bertini. All'inizio degli anni
Venti, la Dora Film dei Notari (Nicola nelle vesti di produttore, regista e
operatore, sua moglie Elvira in quelle di soggettista e regista ed il figlio
Eduardo, col soprannome di Gennariello, in quelle di attore) sopravvisse
alla crisi dell’epoca conquistando le folle degli emigrati in America. Le
sequenze dei celebri A santa notte o È piccerella si sincronizzavano
sull’accompagnamento del pianoforte, mentre le didascalie esprimevano con un
lessico che imitava la forma spezzata del dialetto. Il bianco e nero
stilizzava una Napoli insieme arcadica e tragica, mentre gli attori recitano
con sentimentale impeto. Si gira quasi tutto all’esterno, perché negli
interni vi è un insormontabile problema di illuminazione.
In contemporanea alla produzione di film sorgono come funghi i luoghi della
fruizione: i cinematografi. La prima a nascere è la Sala Recanati, sorta nel
1897, a cui seguirono la Sala Roma in Galleria, il Salon Parisien in piazza
Municipio, il Vittoria in via Roma e l’Olympia in via Chiaia.
Tra le altre merita un cenno la Sala Cattaneo, nata dalla trasformazione di
uno squallido baraccone dove si esibivano donne barbute ed uomini nerboruti.
Il proprietario si arricchì rapidamente, aprì un nuovo locale in via Poerio:
la Sala Iride e si costruì a Posillipo una splendida dimora, divenuta oggi
l’ospedale Fatebenefratelli.
Egli fu anche l’artefice del primo tentativo di dare voce al muto…
collocando due attori ai lati dello schermo con degli altoparlanti al posto
delle orchestrine, che aggiungevano un tocco di musica ad alcune scene.
Poi nel 1928 la casa cinematografica di Lombardo si trasferisce a Roma dove
sorgono con investimenti dello Stato grandi stabilimenti ed il sogno della
Hollywood del Vesuvio tramonta tristemente, ma il cinema continuerà a
nutrirsi della napoletanità come di una linfa vitale e vizi e difetti dei
napoletani faranno da musa ispiratrice ad infiniti film di grande successo,
da Le quattro giornate di Napoli a Il camorrista, da Carosello napoletano a
La Sfida, da L’oro di Napoli a Le Mani sulla città e potremmo continuare a
lungo, anche escludendo i più di cento film di Totò, un epifenomeno, un
marziano, che va considerato come un pianeta a parte. Il cinema napoletano è
stato un infinito palcoscenico di situazioni e sentimenti ed ha rispecchiato
fino in fondo la sua innata carica di pathos. Fantasia ed ironia, antica
saggezza e grande euforia, ma anche solidarietà e sofferenza si amalgamarono
sapientemente con la poeticità delle sceneggiature, la varietà dei temi, la
genialità artigianale, l’arte innata e versatile dei grandi interpreti e
l'indiscutibile spettacolarità dei panorami. Dal felice connubio tra la
musica, le arti, la poesia, il teatro ed il cinema è risultato un
affascinante prorompente messaggio culturale che subito si è diffuso fuori
dal contesto partenopeo, per divenire universale e simbolico dell’essere
Italiani. La contraddittoria energia sprigionata dalla città, tante volte
deprecata, è stata infatti capace di produrre per il cinema un patrimonio
inestimabile di immagini, che narrano storie indissolubilmente impregnate di
cruda realtà, capricciosa fantasia e sferzante ironia, antica saggezza e
facile euforia.
Nel dopoguerra vi sarà una curioso rigurgito con la velleitaria rinascita
della Partenope film ad opera di Achille Lauro, l’ineffabile Comandante, che
produrrà un film studiato apposta per Eliana Merolla, una bonazza della
quale il vecchio armatore si era infatuato e che sposerà una volta divenuto
vedovo.
Rossellini in Paisà dipinge il senso dell'abbandono morale, del degrado, ma
anche del desiderio di rinascere, suscitati dalla guerra fascista. Stessi
temi sviluppati da Eduardo nella poetica Napoli milionaria. Vittorio De Sica
gira L'oro di Napoli, tratto dai racconti dello scrittore Giuseppe Marotta.
Ettore Giannini confeziona il capolavoro di Carosello napoletano (1953), che
riesce a fondere lo spirito "alto" e quello "basso" dell'anima popolare
napoletana: uno spettacolo totale, in cui canto, danza e recitazione
s'intrecciano finemente in uno sfavillante caleidoscopio di storia e natura,
sogno e realtà. Con La sfida, premiato alla Mostra di Venezia del 1958,
Francesco Rosi coniuga denuncia e suspense con un rigore ed una tensione
degni del noir americano e cinque anni dopo, con Le mani sulla città,
accentua l'indignazione civile puntando il dito contro l'intreccio politico
che favorisce il malaffare.
Accanto ai film d'autore, esplode un nuovo boom di film popolari: un gran
numero di film a basso costo, facile presa e grande guadagno,
sprezzantemente definiti dalla critica "lacrimevoli", che però venivano
incontro al desiderio del pubblico di ritrovarsi con il proprio dialetto, le
proprie canzoni, i propri volti e di appassionarsi a storie verosimili
quanto improbabili, prevedibili quanto commoventi. I MaIaspina di Roberto
Amoroso, costato due milioni di lire, ne incasserà trecentottanta, di cui
quarantacinque provenienti da due sale di New York.
Segnato dalle critiche, il cinema napoletano si avviava intanto al tramonto.
Il panorama produttivo diventa man mano desolato. Si distingue ancora
Salvatore Piscicelli con Immacolata e Concetta (1979) e Le occasioni di Rosa
(1981) o Antonio Capuano con le sue desolanti denunce sociali.
Il film napoletano ha perso la battaglia contro una critica che non voleva
più “sole, pizza e mandolino” (ma cosa voleva?) e si è rifugiato nel piccolo
schermo dove ogni giorno, c’è spazio per Totò, Peppino De Filippo,Tina Pica
e tanti altri eroi della napoletanità: I due orfanelli, Totò al giro
d'Italia, Fifa e arena, Totò cerca casa, L'imperatore di Capri, Totò cerca
moglie ... in questi vilipesi capolavori di massa il fuoco della vita e
della recita si bruciano nel trionfo della vitalità sottoproletaria, che non
si piega alla speranze, né apre verso un lieto fine. L'arte d'arrangiarsi,
la fame, l'imbroglio, la beffa, l'avidità sessuale perenne dichiarano guerra
a tutte le istituzioni: Totò resta così per sempre il grande ambasciatore
della napoletanità non addomesticata, il portabandiera irredimibile
dell'indiavolata vitalità del sottosviluppo partenopeo, che è cinema e
dramma nello stesso tempo.
La radio non ha primati da vantare, perché le prime trasmissioni ufficiali
italiane partirono da Roma il 6 ottobre 1924, mentre Radio Napoli nacque,
dopo alcuni mesi di esperimenti, il 28 ottobre 1926, prima in un
appartamento di via Cesario Console e poi in una sede più adeguata in via
Egiziaca a Pizzofalcone, dove dispose di un’orchestra stabile per la canzone
napoletana.
Anche la prima televisione privata nasce a Napoli, nonostante le pretese
avanzate da Tele Biella. Il merito di questo altro primato che può vantare
la città è del vulcanico ingegnere ed inventore partenopeo Pietrangelo
Gregorio, il quale, il 23 dicembre del 1966, attivò il segnale via cavo di
Telediffusione italiana – Telenapoli, il cui marchio venne ufficialmente
registrato 4 anni dopo, il 17 dicembre 1970; per trasformarsi poi nel 1976
in Napoli Canale 21, grazie al sostegno economico dell’editore Andrea
Torino.
L’ingegnere fu un rivoluzionario del tubo catodico, in un momento in cui
imperava solitario il monopolio della televisione di Stato. Egli trasformò
un cantinato in uno studio televisivo e sperimentò una televisione
alternativa di quartiere, realizzata da un cittadino per i cittadini, dando
a tutti la possibilità di esprimersi.
Gregorio, ottantaduenne ed ancora attivo nel settore della web tv, come ci
rievoca in un’intervista esclusiva, collegò ad un amplificatore le antenne
del palazzo di piazza Cavour dove abitava e poi fece degli accordi con gli
esercizi commerciali della zona, molti dei quali allestirono delle sale per
assistere alle trasmissioni, che occupavano alcune ore serali e si basavano
su notizie locali, canzoni, barzellette, cabaret e piccoli messaggi
pubblicitari. Erano periodi eroici, non si poteva registrare e tutto
avveniva in diretta. In contemporanea debuttavano sull’emittente gruppi
comici destinati a divenire famosi come i Cabarinieri di Lucia Cassini,
Renato Rutigliano ed Aldo De Martino.
Poi venne Filo diretto una trasmissione innovativa durante la quale si
telefonava al pubblico che diveniva il vero protagonista, lamentandosi di
ciò che non funzionava in città ed a volte chiedendo aiuto. Le istituzioni,
prima guardinghe, in seguito erano attente ai contenuti del programma ed a
volte esaudivano le richieste pubbliche degli spettatori.
Gregorio è anche l’autore della prima trasmissione a colori, avvenuta il 24
maggio 1971 ed è titolare di oltre 300 invenzioni di cui ha depositato il
brevetto.
Nel 1973 Telenapoli poteva vantarsi di essere la più importante televisione
via cavo d’Europa, contando su 380 chilometri di cavo, 6 studi televisivi e
150 dipendenti, tra cui 15 giornalisti.
Poi con la liberalizzazione dell’etere e l’abolizione della diffusione via
cavo tutto cambiò. Le televisioni libere divennero commerciali, entrò in
campo Berlusconi ed il mercato cambiò per sempre per divenire ciò che, nel
bene e nel male, è ai nostri giorni.
L’inesauribile fame dei mangia maccheroni
Parlare di pizza o di maccheroni nel mondo significa rievocare Napoli.
Orgoglio e vanto della cucina italiana, la filante e tubulare pasta ha
affascinato e continua ad attirare personaggi di ogni paese, età e
condizione.
Nati come metodo povero e pratico per conservare la farina di grano e
renderla rapidamente commestibile, i maccheroni hanno conosciuto il destino
di diventare un piatto internazionale e quasi l’emblema della gastronomia
italiana all’estero.
Ma chi ha inventato i maccheroni? Le loro origini sono misteriose, ma oggi
sappiamo con certezza che paste alimentari, atte alla conservazione, come
maccheroni e vermicelli, fossero diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo
tra i secoli XIII e XVI. Ne troviamo traccia in documenti genovesi del
Duecento e del Trecento ed anche in un atto notarile del 1279. Mentre ancora
prima in Cina esisteva un impasto di acqua e farina molto simile agli
gnocchi.
Probabilmente la loro origine è araba o persiana e fu la Sicilia a farsi
mediatrice tra Oriente ed Occidente in un periodo nel quale i napoletani
erano famosi come mangia foglie.
L’ipotesi della nascita a Napoli dei maccheroni è dunque una leggenda di cui
parleremo diffusamente, propagandata da Matilde Serao alla fine
dell’Ottocento, rinforzata dal parere di un dotto come Carlo Tito Dalbono,
grande conoscitore delle abitudini dei napoletani nella prima metà
dell’Ottocento.
Napoli cominciò ad identificarsi con i maccheroni e lo trasformarono in un
cibo europeo quando vari viaggiatori cominciarono a descrivere quei
folkloristici personaggi che li avviluppavano con tre dita e li mandavano
giù, soprattutto quando divenne costume di cucinarli e venderli all’aperto
in spacci ambulanti diffusi in ogni angolo della città.
Per tutto l’Ottocento il maccaronaro divenne uno degli aspetti più salienti
del colore napoletano e l’icona indiscussa di mangiarli con le dita e
addirittura conservarli nelle tasche è costituita dalla memorabile
interpretazione di Totò nel film “Miseria e nobiltà”.
Ma la favola della Serao è talmente ben congegnata che merita di essere
ricordata.
Durante il regno di Federico II viveva a Napoli un certo Chico, il quale
possedeva antichi libri di ricette, una serie di alambicchi e faceva
comprare al domestico una serie variegata di alimenti che poi mescolava in
vario modo.
Accanto a lui abitava una donna maliziosa e linguacciuta di nome Jovannella,
che spiava giorno e notte il mago, finchè un giorno disse: “Ho scoperto
tutto; fra poco saremo ricchi”. La perfida donna riuscì a farsi ricevere dal
re al quale fece assaggiare la sua pietanza.
Federico rimase entusiasta e gli diede un grosso premio. In seguito tutti i
nobili ed i ricchi borghesi mandarono il loro cuoco ad imparare la ricetta e
nell’arco di sei mesi tutta Napoli si cibava dei maccheroni, mentre
Jovannella divenne ricca.
Fu poi Pulcinella a diffonderli dappertutto con la sua abitudine di portarli
in tasca già caldi e fumanti.
Nascono poi i tanti tipi di pasta diversa, grazie a fabbriche specializzate
localizzate tra Torre Annunziata e Gragnano, che grazie ad un’acqua
leggerissima e priva di calcio e ad un’accorta tecnica di ventilazione,
producono formati di gusti diversi, oltre a vermicelli e maccheroni,
lasagne, paccheri e trenette, rigatoni ed orecchiette, che costituiscono il
fondamento della dieta mediterranea che anni fa con una decisione votata
all’unanimità dall’Unesco sono stati considerati patrimonio dell’umanità.
Non si può concludere un discorso sulla pasta senza parlare del ragù, reso
celebre dalla poesia di Eduardo e che a Napoli si prepara in un modo
particolare, la quale richiede molte ore di preparazione, cuocendo per ore
la carne di bovino in umido col pomodoro il cui sugo serve per condire alla
grande maccheroni in grado di resuscitare i morti.
Facciamo questa precisazione perché di recente una multinazionale
anglo-olandese ha registrato la parola ragù negli Stati Uniti, costringendo
in futuro le aziende italiane a pagare un dazio per commercializzare
all’estero un prodotto tipico della nostra cucina.
Il ragout di origine francese è un intingolo con retaglie di pollo finemente
preparato che serve a condire riso e verdure, ben diverso da quello nostrano
che solo a Napoli sanno fa’.
Il crepuscolo delle coscienze
Napoli è stata per secoli una capitale europea, alla pari di Londra e di
Parigi, con il vantaggio di essere posta sul Mediterraneo, una posizione
centrale favorevole per gli scambi non solo commerciali, ma anche culturali;
a differenza delle altre grandi città non ha però avuto celebri scrittori
della statura di Balzac o Hugo o Dickens, che ne abbiano saputo raccontare
la storia e le storie. Pochi i nomi che potremmo citare, come Mastriani o la
Serao, ma parliamo sempre di narratori d’appendice che scrivevano in
dialetto o si interessavano di problematiche prive di un respiro universale.
Il motivo di questa carenza va ricercato, oltre che nel carattere
autoreferenziale che ha sempre caratterizzato la nostra cultura, nella
circostanza, comune a tutte le società povere e con molti analfabeti, di
utilizzare come principale forma espressiva il teatro e la musica popolare
con le sue canzoni struggenti e malinconiche, vivaci ed appassionate.
Il cuore palpitante di Napoli ha trovato degni interpreti in Viviani,
attento ai bisogni del sottoproletariato, che affollava i vicoli brulicanti
di passioni e di umanità ed in Eduardo acuto osservatore della piccola
borghesia con i suoi pregi ed i suoi difetti.
Tra gli scrittori del secolo scorso in grado di portare le vicende
napoletane, per quanto squallide, all’attenzione di una platea
internazionale, vi è il solo Curzio Malaparte, oggi in parte dimenticato, ma
all’epoca in grado di incendiare il dibattito sulla città.
Dopo il successo planetario di Gomorra la letteratura napoletana, già povera
di firme prestigiose, ha inseguito un solo tema: la camorra, con la segreta
speranza, fomentata dagli stessi editori, di sfruttare l’effetto Saviano.
Abbiamo avuto un diluvio di pubblicazioni, tutte brutte copie
dell’originale, dal libro della giornalista Capacchione a quello del
pluriscortato giudice Cantone, oltre ai testi di Simone Di Meo, che
rivendica alla sua penna di cronista interi brani di Gomorra.
Il risultato è stato un aumento di prestigio dei clan, dotati ora di una
celebrità gratuita legata a libri, film e spettacoli teatrali.
Napoli ha un disperato bisogno di autori che sappiano raccontare una società
in trasformazione dopo essere stata immobile per secoli, al punto da far
pronunciare a Pasolini la celebre frase che “I Napoletani sono l’ultima
tribù che lotta contro la modernità”.
Nessuno ha saputo raccontare le immense periferie, che sono cresciute come
funghi e palpitano di mestieri e di piccoli commerci, di amori impossibili e
di sogni infranti, di dolore e di ansia di vivere; nessuno ha saputo
raccogliere e fare suo il grido di dolore che proviene dalla Napoli vera,
che non compare mai sui giornali: quella dei disoccupati cronici, dei
giovani senza futuro, dei pensionati alla fame, dei commercianti strangolati
dal pizzo, dei lavoratori al nero per 500 euro al mese, la folla degli
onesti costretti in un angolo dalla prepotenza dei vincitori; nessuno si
interessa a far conoscere le antiche chiese cadere in rovina, gli abusi
edilizi ubiquitari, l’esercizio spietato della prevaricazione dei burocrati
come regola di vita.
Nessuna voce, né indigena né aliena, ha saputo captare quel coacervo di
suoni, odori, sapori, sensazioni che promana potente come un afrore
inebriante dai tanti immigrati, di colore o meno, che a decine di migliaia
hanno sostituito i napoletani nel centro storico.
Aspettiamo ancora quell’intellettuale il quale, invece di limitarsi a
descrivere, sappia spiegarci il perché in tanti quartieri della città vi sia
un odio verso le forze dell’ordine, verso lo Stato e verso la legge, visti
come carnefici, come persecutori, come custodi di norme incomprensibili.
Come in così vasti settori della popolazione vi sia un’idea di aggregazione
limitata a pochi isolati, a poche famiglie e non si riconoscano regole che
non siano quelle dettate da secoli di ignoranza e di incuria pubblica e dove
si perpetuano usanze tribali, portando inesorabilmente verso il degrado, la
povertà e la subordinazione alla malavita, che a sua volta considera la
polizia come un esercito straniero e le vittime degli scontri caduti in
guerra.
Negli ultimi decenni la città si è dilatata in una periferia anonima, un
mondo grigio di palazzi tutti eguali, abitati da centinaia di migliaia di
persone che non si conosco più come nel vicolo, un popolo senza memoria
storica e senza un ragionevole progetto per il futuro, costretto a vivere,
purtroppo, in un interminabile e soffocante presente.
Un universo che somiglia a tante periferie del sud del mondo con le stesse
ansie e gli stessi problemi, ma che a Napoli non poteva non avere il suo
lato comico nello stridente contrasto tra il nome altisonante di alcune
strade e lo squallore che le circonda, indirizzi beffardi a Secondigliano
per abitanti costretti a vivere gomito a gomito con la criminalità
organizzata. La più grande piazza per lo spaccio della droga d’Europa che
confina con Il posto delle fragole o Il giardino dei ciliegi, mentre le
vedette della camorra si stagliano prepotenti in via La certosa di Parma o I
racconti di Pietroburgo. A Ponticelli, altro Bronx invivibile, si passeggia
in strade desolate che richiamano un lontanissimo mondo di favola da via
Walt Disney a via Marilyn Monroe o viale Fratelli Grimm. Come se i nostri
incauti amministratori avessero voluto affidare ad un’improbabile
toponomastica il compito improbo di rendere quei luoghi inospitali, vivibili
e civili.
Ed infine in questo disperato crepuscolo delle coscienze attendiamo un
valido cantore di una borghesia malata e collusa e dell’intreccio
inestricabile tra imprenditori voraci e politici corrotti, mentre
magistratura ed opinione pubblica non si accorgono di nulla.
Scugnizzi, un mito duro a morire
Gli scugnizzi, i ragazzi del popolo napoletano, definiti nel tempo anche
guaglioni o sciuscià, sono presenti in ogni epoca ed assieme ai lazzari
rappresentano l’anima più genuina della città. L’oleografia ce li
rappresenta sorridenti e distesi al sole, ma la loro vita è stata
frequentemente una storia di miseria, analfabetismo e sofferenza.
Spesso sono stati al centro di avvenimenti cruciali: da cuore pulsante della
rivolta di Masaniello a piccoli eroi ardimentosi protagonisti delle Quattro
Giornate, che portarono alla cacciata dei tedeschi, ma senza dimenticare la
partecipazione spontanea alle grandi manifestazioni di giubilo come la
Piedigrotta o le tante altre feste tradizionali, che cercano di far
dimenticare ai cittadini la tristezza di una vita povera e priva di
speranze.
La pittura e la scultura ed in tempi più recenti la musica, il teatro ed il
cinema ne hanno tessuto le lodi, spesso grazie ad artisti, anche essi
scugnizzi per nascita o vocazione come Gemito, Mancini o Viviani.
Gemito venne allevato nel brefotrofio dell’Annunziata, dove assunse il suo
cognome per il continuo lamentarsi. Della sua condizione di figlio della
Madonna si vantò per tutta la vita e più volte immortalò la figura dello
scugnizzo nelle sue sculture come nel celebre Pescatorello, più volte
replicato, nel quale imprime, con la magia del suo cesello, un brivido di
luce alla superficie bronzea. Egli si serviva come modelli di scugnizzi
presi dalla strada, che teneva a lungo in piedi su di un sasso cosparso di
sapone per cogliere l’energia potenziale e la fame atavica, ben espressa dai
pesciolini portati alla bocca, per poterle poi immortalare nel metallo.
Anche Mancini, nasce scugnizzo e continuò a lungo a rappresentare questi
candidi fanciulli, mentre scalzi con gli abiti laceri ed una coppola
sgualcita sulla testa contemplano un piatto di pasta od una festa alla quale
avrebbero voluto partecipare.
Viviani come nessun altro commediografo ha saputo cogliere l’essenza degli
scugnizzi, creando un pantheon di volti tristi o gioiosi, di corpi macilenti
e sgraziati ed ha saputo sottolineare il loro carattere beffardo e la gioia
di vivere, prelevando i suoi protagonisti dai bassifondi e dal mondo dei
diseredati, ma assegnando a questi eterni emarginati il compito di far
sentire polemicamente la loro voce nel denunciare le contraddizioni di una
società dove troppo vistose erano le ingiustizie e troppo stridente il
divario tra poveri e ricchi.
Tra i registi Vittorio De Sica dà voce alle miserie del dopoguerra e colloca
gli scugnizzi napoletani in una nuova nomenclatura coniando il termine
sciuscià, dall’americano shoe shine, pulisciscarpe. Sono bambini di sei
sette anni costretti dal furore degli avvenimenti ad inventarsi un mestiere
per sopravvivere e saranno magistralmente descritti da Malaparte nella
Pelle;” Bande di ragazzi cenciosi, inginocchiati davanti alle loro cassette
di legno, gridando sciuscià, shoe shine”.
Seguiranno altri registi: Nanny Loy con Le quattro giornate di Napoli ed in
tempi più recenti Piscitelli con Baby gang e Capuano con Vito e gli altri.
Centinaia di migliaia di napoletani hanno fatto la fila per applaudire e
commuoversi per il recital Scugnizzi, che da anni fa il tutto esaurito
dovunque venga rappresentato, imperniato sulla figura di un prete che
combatte la camorra, pochissimi sanno però che l’ispiratore del personaggio
è veramente vissuto a Napoli ed ha fatto cose ben più grandi di quelle che
si raccontano nel musical.
Egli era il celebre Don Vesuvio, soprannome assegnatogli dagli emigranti e
nello stesso tempo Naso stuorto, come lo chiamavano affettuosamente gli
scugnizzi dei vicoli napoletani. Oggi, ritornato allo stato laicale, è
semplicemente il dottor Mario Borrelli, vive abitualmente ad Oxford ed è
venerato da estimatori e studiosi di tutto il mondo.
La sua storia straordinaria comincia in una stradina del quartiere Porto,
dove nasce nel 1922 in una famiglia di doratori. A otto anni è a bottega da
un barbiere, quindi garzone in un bar, dove conosce un prete, al quale
confessa che di notte, ogni notte, sente la voce di Dio che lo chiama
ripetutamente. Grandi sacrifici per la madre che favorisce la sua vocazione
e si fa in quattro per pagare le rette del seminario.
Nel 1946, quando diventa sacerdote, si trova a confrontarsi con una Napoli
colma di macerie materiali e morali. Gli scugnizzi senza famiglia sono
legioni, figli di genitori morti sotto i bombardamenti o abbandonati da
prostitute senza scrupoli. Egli capisce subito che il suo compito è di
redimerli dal loro triste destino e chiede al cardinale il permesso di
infiltrarsi tra di loro e vestirsi da straccione. Comincia la sua doppia
vita: di giorno sacerdote ed insegnante di religione in un liceo classico
del Vomero, di notte scugnizzo alla disperata caccia del sostentamento
quotidiano.
Lasciamo a lui la parola: «Allora, la fame era la madre della vita, i
trucchi per sopravvivere erano infiniti e a metterli in atto erano esseri
ibridi senza genitori, mezzo uomini e mezzo bambini, e tuttavia né bambini
né uomini, capaci però di realizzare stupefacenti strategie di arrangiamento
esistenziale senza la violenza di oggi, che fa accoltellare chiunque per un
nonnulla”. Egli rammenta con malinconia quei giorni ricordando l’abilità
degli scugnizzi nel turlupinare soldati americani a caccia di ”segnorine”,
ridotti letteralmente in mutande (e a bocca asciutta), e scaricati dormienti
nei cassonetti importati dagli Usa, gli abiti venduti, dopo una bella
sbronza a base di vino spacciato per prelibato moscato: «Nel senso che ci
mettevano le mosche dentro» ride divertito. «Sono questi ragazzi che mi
hanno donato il senso stupendo della libertà».
Questo racconto lo ascoltai dalla sua viva voce presso la sede napoletana
dell’Ucid, negli anni Sessanta, dove era stato invitato dall’ingegnere
Sergio Lamaro a parlare della sua vita avventurosa ai giovani. Rimasi
colpito dai suoi abiti civili, all’epoca i preti non prediligevano il
clergyman, e dalle sue parole, semplici e prive di enfasi. Mi resi conto che
quegli episodi leggendari meritavano la penna di un grande scrittore, che
avesse l’occhio acuto del pittore e l’impietoso angolare dello storico.
Ma ritorniamo a quegli anni eroici. Per essere accettato pienamente dalla
sua banda non si spaventa a dover usare le mani, anzi, prese lezioni di
boxe, sfida il capo della combriccola, esperto a manovrare il coltello e lo
sconfigge, divenendo all’unanimità capo banda.
Egli riesce a procurarsi un tetto, utilizzando una vecchia chiesa
sconsacrata di Materdei, che, con l’aiuto di alcuni volenterosi, trasforma
in un centro di accoglienza. Attira lì i primi scugnizzi con l’offerta di
cibo e di ricovero per la notte. In seguito gli regalano un carretto grazie
al quale recupera rottami di ferro da rivendere. Possiederà poi un biroccio
ed infine un camion, col quale trasporta e vende abiti smessi e calzature
usate, procurandosi fondi per il suo centro di accoglienza.
Ma l’occhio benevolo della Provvidenza non smetteva di seguirlo e gli fece
capitare tra le mani il biglietto vincente della lotteria di Agnano, che il
proprietario del tagliando non aveva riscosso. Cominciano le prime
incomprensioni con la curia che vuole destinare il denaro per un’altra
iniziativa, ma don Borrelli non molla e fa nascere l’edificio sulle ceneri
della vecchia chiesa di Materdei. L’arcivescovo cerca allora di
impossessarsi della struttura, chiedendo all’indomito prete di assumerne
unicamente la direzione con uno stipendio; una soluzione che non piace al
fondatore, il quale diventa gerolomino dell’ordine di San Filippo Neri, un
ordine che non prende ordini dalla curia. Divenne bibliotecario all’oratorio
dei Girolamini, dove pazientemente catalogò i settantamila volumi custoditi,
con cura e competenza, perché egli non era solo uomo di fede e di impegno
civile, ma anche teologo e paleografo, specializzatosi in Inghilterra presso
la London School of Economics.
Nel frattempo il nome di Don Vesuvio fa il giro del mondo grazie ad un libro
The children of the sun di uno scrittore australiano, Morris West, che per
un lungo periodo affianca in prima linea l’indomito prete per raccontarne le
fantastiche imprese. Il volume arriva sulla scrivania della Casa Bianca,
letto con commozione dalla first lady, Eleanor Roosevelt, che commenterà
entusiasta:”La più straordinaria avventura che abbia mai letto”. Il libro
diverrà poi un film che farà conoscere le eroiche gesta di don Borrelli
dall’Australia al Canada, dalla Francia alla Germania, favorendo la
creazione di comitati di sostegno che faranno affluire denaro per la sua
iniziativa.
Soltanto nel 1963 in una autobiografia scritta con Anthony Thorne ed
intitolata Napoli d’oro e di stracci, all’ultima pagina il battagliero prete
si confessa, ritenendo, evangelicamente, che sia il momento di tirare a riva
la rete.
”Si sono io Don Vesuvio, ma sono anche Naso stuorto, sono tutti e due
assieme”.
La sorpresa fu grande e finalmente tanti scugnizzi capirono, con le lacrime
agli occhi, perché ci teneva tanto ad insegnare loro un mestiere.
Nel 1967 ritorna allo stato laicale, ma continua indefesso la sua opera,
ritenendo che bisognasse agire alla base del fenomeno, altrimenti gli
scugnizzi non sarebbero mai scomparsi, perché essi rappresentano solo il
sintomo più appariscente di un diffuso malessere sociale. Cominciò a
combattere al fianco dei baraccati e divenne un’icona dell’ultra sinistra
napoletana. Sfiorò più di una volta la condanna in tribunale e forgiò
un’intera generazione di animatori sociali.
Nel 1971 si sposò con una ragazza sudafricana ed ebbe una figlia, che oggi
dirige un prestigioso istituto scientifico di caratura internazionale.
Ad ottantaquattro anni conserva la grinta e l’ardore giovanile, con un lampo
negli occhi, che sovrasta i capelli oramai di un bianco candore.
“Oggi vedo molta prostituzione tra il potere e la povertà ed i nuovi
scugnizzi sono gli immigrati extracomunitari, i nomadi i profughi, che hanno
preso il posto dei disperati ragazzi di strada della Napoli del dopo
guerra”. Parole come frecce che egli ebbe modo di scandire tempo fa in
occasione di un suo breve ritorno nella città natale. Napoli rappresenta il
richiamo della foresta, al quale non riesce a resistere a lungo. Qui vi è la
sua creatura, vi è sua figlia, vi è sua moglie, gravemente ammalata.
“Alla mia età non mi resta che lo studio e la ricerca, ma anche per questo
vi è necessità di coraggio e fantasia”.
Sono lontani i tempi eroici quando decise di intrecciare concretamente la
propria vita di sacerdote oratoriano ed erudito studioso con gli scugnizzi
orfani del dopoguerra napoletano, con i baraccati e le puttane senza
diritti, vivendo e combattendo con loro sulla strada, al di là di ogni
convenzione, da scomodo e ribelle prete scugnizzo, da polemico avventuriero
di Dio, vagabondo tra i vagabondi e maieuta caparbio e insofferente a
qualunque forma di sopraffazione e iniquità dell'uomo sull’uomo. In una
Napoli d’oro e di stracci, come il titolo della sua autobiografia, seppe
creare la Casa dello Scugnizzo nel cuore di Materdei, pionieristico punto di
riferimento per uomini di buona volontà.
Il testimone della sua attività è passato ad Ermete Ferraro, oggi presidente
della Fondazione, insegnante, ma soprattutto ex scugnizzo.
La piazza dell’eterna confusione ed i fantasmi degli impiccati
Piazza Mercato incombe poderosa nella storia della città, da quando, campo
incolto al di fuori delle mura della città, era chiamato Campo del Morocino,
all’epoca angioina, allorché nel 1270 fu inclusa nel perimetro urbano e vi
si teneva due giorni alla settimana il mercato, da cui prese il nome,
inizialmente detta Mercato a Sant’Eligio, in omaggio alla chiesa gotica
teatro della capitazione di Corradino di Svevia.
Per secoli ha costituito il cuore pulsante della città, sostituendo
lentamente l’antica Agorà situata nell’odierna San Gaetano.
Nel 1647 vi scoppiò la rivolta di Masaniello, l’anno successivo vi è la resa
di Napoli a Don Giovanni d'Austria, episodio immortalato dal Coppola in un
dipinto del museo di San Martino e da allora si svolgevano l’esecuzioni dei
condannati a morte, ricordate da un vicoletto appellato fino al 1850 Vico
sospira bisi, fantasiosa traduzione dal vernacolo di suspire ‘e
‘mpise(sospiri di impiccati), perché da quella stradina giungevano al palco
del boia sito al centro della piazza i tristi cortei con i condannati,
torturati ad ogni quadrivio con piombo fuso e sonori mazziatoni, mentre la
folla sghignazzava ed imprecava, senza risparmiare ai moribondi sputi e
pietrate.
I cortei erano attesi dalla forca e dagli strumenti di tortura, adoperati di
frequente, davanti ad una folla acclamante, allo scopo di arginare i furori
di una plebe dedita a consumare ogni tipo di reato. Spesso in un giorno
erano previste numerose esecuzioni, per cui, allo scopo di intrattenere il
pubblico, sorgevano come funghi improvvisati palchetti, dai quali guitti e
saltimbanchi si esibivano, alternando applausi scroscianti a sonore
pernacchie.
Prima di raggiungere piazza Mercato si percorre quel dedalo vociante di
stradine che si diramano passando nei pressi del solenne arco della chiesa
di Sant’Eligio. Ad ogni angolo torme di scugnizzi che giocano a pallone,
utilizzando come porte degli scalcinati cassonetti della spazzatura, le mura
afflitte sono costellate di graffiti sconclusionati, opera di quel moderno
flagello ubiquitario costituito dai writers, alternati a manifesti cadenti,
alcuni vecchi di anni. Le lancette dell’orologio, uno dei pochi funzionanti
in città, ci ammoniscono dello scorrere inesorabile del tempo, ben manifesto
nelle minacciose crepe presenti nella maggior parte degli edifici della
zona. L’arco che contiene l’orologio anticamente congiungeva le due ali di
un importante ospedale trasformato in seguito in un educandato femminile. Ai
lati dell’orologio due teste di un uomo e di una donna ci rammentano una
leggenda che vuole raffigurassero i volti di Antonella e Costanzo, due
giovani amanti vissuti nel Cinquecento, travolti da un dramma passionale dal
finale tragico, più funesto e raccapricciante di quello celebre di Giulietta
e Romeo.
Mentre ci avviciniamo alla piazza l’atmosfera surreale della celebre chiesa
viene travolta dalle sagome orripilanti di alcuni palazzacci moderni e da un
caos sfrenato di negozi straripanti di mercanzie e da una moltitudine di
popolo che sembra muoversi senza una meta precisa.
Ampie pozzanghere e bancarelle ad ogni angolo rendono il percorso
un’avventurosa gimkana, ma alla fine finalmente siamo arrivati e
nell’ammirare la facciata della chiesa del Carmine possiamo cominciare il
nostro viaggio a ritroso nel tempo.
Nella piazza, a dovuta distanza, si fronteggiano due fontane, eseguite nel
Settecento, formate da un obelisco piramidale poggiante su un robusto
basamento con quattro leoni e sfingi agli angoli. Le fontane non avevano
solo funzione decorativa, bensì fungevano principalmente da abbeveratoio per
le bestie da tiro che trasportavano le merci. Oggi queste superbe fontane,
come tutti i monumenti della città, versano in un pietoso stato di
abbandono, oltre ad essere a secco, appaiono deturpate da sanguinose scritte
in vernice rossa, mentre le teste di donna delle sfingi hanno subito la
stessa misera sorte di Corradino e di Fra Diavolo:decapitate.
La folla di oggi, equamente composta da indigeni ed extra comunitari, ci
rammenta il furore dei moti scatenati da Masaniello e quasi rimpiangiamo
l’assenza del boia e le centinaia di teste mozzate, non solo di incauti
rivoluzionari, ma soprattutto di tanti criminali.
Enzo Striano nel suo celebre romanzo Il resto di niente ci ha ha descritto
in maniera mirabile il sacrificio di Eleonora Pimentel Fonseca, la nobile
poetessa portoghese che prese parte ai moti insurrezionali del 1799 a tal
punto da perderci la testa.
Questi flash back che ci compaiono continuamente agli occhi della mente
vengono puntualmente e fragorosamente interrotti dalle urla sguaiate dei
venditori ambulanti, dagli appiccichi tra vajasse affacciate ai balconi,
dagli stereo a pieno volume delle bancarelle, dalla musica neomelodica che
straripa dagli appartamenti, ma su tutto domina il rombo dei motori delle
infinite auto alla spasmodica ricerca di un parcheggio.
Osservando attentamente i volti anonimi della folla in preda ad una lucida
confusione si ha l’impressione che il peso della storia, che impregna questa
piazza, sia la causa prima della follia collettiva che agita una così
vistosa calca di popolo. Ogni tanto si creano piccoli assembramenti per
assistere in diretta ad una zuffa o semplicemente vicino al solito
imbroglione specialista del gioco delle tre carte. Poi tutti si disperdano,
dimenticando ciò che è accaduto. Sembra un revival delle parole del boia
dopo aver tranciato l’ennesima testa:” finita la festa si sparpaglieranno in
mille direzioni, domani avranno già scordato”.
In poche lapidarie parole si tratteggia il carattere precipuo del
napoletano: la curiosità ai limiti dell’ossessione per il particolare,
l’incapacità di derivarne regole generali, facendo tesoro dell’esperienza.
A poca distanza dalla chiesa del Carmine è sita la chiesa di San Giovanni a
Mare, una delle più antiche della città, nei cui pressi, il 24 giugno, si
svolgeva una festa dalle origini remote, che si perdono nel paganesimo,
anche se rivisitata dal cristianesimo, il quale vi intendeva rappresentare
il battesimo di San Giovanni Battista. Essa cominciava con una funzione nel
tempio, proseguiva con una processione del santo e si concludeva con un
bagno di massa in costume adamitico con tutte le conseguenze dovute ad una
così eccitante mescolanza di corpi nudi, al punto che il viceré, duca di
Castrillo, su pressione della moglie, celebre ed invidiosa racchia, timorata
di dio, si vide costretto a sopprimerla, affermando che la “promiscuità di
homini e femmine” procurava inquietudini e turbamento.
La piazza è stata irrimediabilmente deturpata negli anni del sacco edilizio
da un orrendo palazzaccio costruito da Ottieri e sul quale una storiografia
sinistrorsa, collusa col potere, ha favoleggiato per decenni che fosse tutta
colpa di Achille Lauro. Il tetro edificio con i suoi dieci piani spezza
l’armonia della piazza, separando la zona del mercato da quella adiacente la
chiesa del Carmine, proiettando sin dalle prime ore pomeriggio un’ombra
inquietante.
Il disordine edilizio, come l’assenza di ogni regola, ben si armonizza con i
segni della schizofrenia che si leggono negli occhi della gente. Dopo la
grande confusione delle ore mattutine, con la chiusura del mercato, la
solitudine ed un senso di vuoto si impossessano dei luoghi, amplificando al
diapason la percezione chiara e mortificante dell’incuria e dell’abbandono.
La sera la piazza diventa terra di nessuno, con bande di teppisti che si
impadroniscono dei luoghi sotto i fumi dell’alcol e della droga, mentre i
radi lampioni proiettano una sinistra ombra a forma di falce. Sembrano
impauriti gli stessi obelischi alla vista di tanti ceffi, nonostante ne
hanno visti nella loro lunga storia di volti patibolari.
La città da tempo ha scelto piazza del Plebiscito come nuovo Agorà e piazza
Mercato, dopo secoli di gloria è sempre più abbandonata al suo destino tra
trascuratezza e disordine, sporcizia e degrado. Sembra quasi di rivivere la
descrizione accorata della Pimentel Fonseca: ”Si camminava su di uno strato
molle di escrementi e fango che il sole, sebbene martellasse, non riusciva
ad asciugare”.
Di notte poi, andati finalmente a dormire balordi e rompiballe, gli unici a
girovagare per la piazza sono i fantasmi degli impiccati, molti dei quali
morti con l’illusione di migliorare la città, per cui dannati a vederla
andare irrimediabilmente verso il baratro.
Una grandiosa festa dimenticata: le Quarant’ore
Tra l’arrivo in città nel 1683, come viceré, del marchese del Carpio, che
proveniva da Roma, dove era stato ambasciatore di Spagna ed il 1759, anno
della partenza di Carlo di Borbone, Napoli è teatro di una stagione
scintillante di feste di piazza, celebrazioni sacre, allestimenti all’aperto
ed apparati effimeri di ogni genere, che per ottanta anni allietano la vita
dei cittadini, dai più ricchi ai più poveri, lasciando un segno indelebile
su tutte le forme di arte praticate in città, dalla pittura di paesaggio al
capriccio architettonico, dalla natura morta alla decorazione d’interni,
oltre alla stessa architettura.
Il modello seguito fu quello romano della travolgente festa barocca,
tradotto in realtà da artisti regnicoli con in testa Luca Giordano, il suo
allievo de Matteis ed una serie di specialisti di natura morta, mentre tra i
mecenati committenti si distinse il viceré in persona.
Il luogo principale dove si svolgevano questi eventi fu Palazzo Reale, con
l’ampio spazio davanti alla sua facciata, all’epoca chiamato Largo di
Palazzo. Tra queste chiassose feste di popolo spiccava il Carnevale con
l’attesissimo rito della Cuccagna, quando alla classe sociale più sfavorita,
costituita dai lazzari, veniva consentito l’effimero ribaltamento della
quotidiana emarginazione, secondo un costume paternalistico che, per quanto
sapientemente ritualizzato, sfociava spesso in risse prima del saccheggio
finale della macchina, carica di ogni ben di Dio.
La festa con i suoi mirabolanti apparati scenici, frutto del sapiente lavoro
di artigiani specializzati, assomigliava ad una cometa luminosa che appare
all’orizzonte per sparire rapidamente, lasciando però dopo di sé una corposa
scia di cronache, immortalate da illustrazioni a stampa, ma anche da quadri
che ci permettono di conservare un’idea abbastanza precisa di quelle feste
tanto attese e vissute con ampia partecipazione emotiva dalla cittadinanza.
Un olio su rame di Tommaso Ruiz ci ricorda la spettacolare macchina di
cuccagna innalzata nel 1740 in Largo di Palazzo in occasione dei
festeggiamenti per la nascita dell’Infanta Reale, mentre una serie di tele
di Joli, commissionate da un “milordo” durante un canonico Grand Tour,
fissano i momenti culminanti di quelle indimenticabili feste.
Un reperto prezioso di macchina effimera è costituito da un apparato per la
festa delle Quarant’ore, conservato in una chiesa di Castellamare di Stabia,
che, con i suoi 10 metri di altezza e la sua sfavillante raggiera di legno
dorato, chissà quante volte avrà svolto la sua funzione di far da
spettacolare cornice al rito di veglia e preghiera durante l’esposizione
pasquale del Sacramento.
Ma il nucleo più avvincente e singolare è costituito dalle quattro enormi
tele dipinte da Luca Giordano in collaborazione con numerosi altri artisti,
collegabili ad uno dei più straordinari apparati scenici promossi dal
marchese del Carpio, quello allestito nel 1684, probabilmente nella Cappella
di Palazzo Reale, in occasione della festività del Corpus Domini, uno dei
più importanti episodi di committenza artistica della seconda metà del
Seicento a Napoli, portando ad un grado di spettacolarizzazione mai
concepito prima di allora la tradizionale metafora dell’eucarestia, che si
basa sulla visualizzazione dell’abbondanza spirituale della grazia divina
attraverso la ricchezza materiale dei frutti della terra, del mare e del
cielo.
Il celebre pittore progettò un apparato che constava di ben 14 enormi tele,
in cui le figure umane da lui dipinte svolgevano un ruolo di fatto
sussidiario a fronte del dilagante protagonismo di fiori, pesci, ortaggi,
armenti, cacciagione e frutta. A dipingere i quali chiamò i maggiori
specialisti del momento: Abraham Brueghel, Giovan Battista Ruoppolo,
Giuseppe Recco e Francesco della Quosta, mantenendo ben saldo il timone di
tutta l’operazione, come testimonia il particolarissimo modo con cui si
firma per l’occasione: Jordanus accordavit.
Quadri di altissima qualità, purtroppo finiti ad adornare lontane collezioni
ed ancor più antichi musei stranieri dall’Olanda all’Australia, che si sono
potute ammirare anni fa grazie ad una mostra organizzata da Riccardo
Lattuada.
I sontuosi quadroni del Corpus Domini, qualcuno per fortuna visibile nel
museo di Capodimonte, traboccano di vitalità ed estro decorativo e
costituiscono senza dubbio oltre che una palpitante testimonianza, una vera
e propria gioia per gli occhi, a dimostrazione lampante di quanto l’effimero
barocco sia stato capace di sfuggire al suo destino di precarietà, riuscendo
ad imprimere il suo sigillo nell’eternità dell’arte. Da queste grandi tele,
adoperate fastosamente per un evento effimero, deriva la profonda svolta in
senso scenografico, che mutò il corso della natura morta a Napoli,
promuovendola a genere, una importante corrente nel mare esuberante del
barocco napoletano.
Una città sacra abitata da diavoli
Secondo la definizione di molti dei viaggiatori del Grand Tour Napoli era un
paradiso abitato da diavoli, ma si trattava semplicemente di poveri lazzari
e di scugnizzi senza famiglia, mentre Napoli può e deve a tutti gli effetti
essere considerata una città sacra per eccellenza per il numero di chiese,
superiore a quello di Roma, per la cospicua concentrazione di monasteri ed
ordini monastici, che un tempo copriva gran parte del centro storico, ma
soprattutto per il gran numero di santi, indigeni o di adozione, tra cui
alcuni dei più importanti e famosi del cattolicesimo.
Napoli, a partire dal Seicento, possiede addirittura 52 compatroni che si
affiancano al protettore per eccellenza San Gennaro, di cui non parleremo
perché ne abbiamo diffusamente trattato nel primo volume.
Cominceremo viceversa la trattazione con una santa, legata al più celebre
collega dallo stupefacente prodigio della liquefazione del sangue, un
fenomeno estremamente diffuso all’ombra del Vesuvio, e che nel suo caso
avviene, oltre che nel giorno del suo onomastico, tutti i martedì dell’anno
sotto gli occhi stupefatti ed increduli degli osservatori, nella chiesa di
San Gregorio Armeno, dove sono conservati i suoi resti mortali.
Santa Patrizia (Costantinopoli, ? – Napoli, post 685) fu una religiosa
bizantina, nata da una ricca e nobile famiglia discendente dall’imperatore
Costantino e secondo alcune fonti era destinata a sposare Costante II, ma
lei con la fida nutrice Aglaia si recò a Roma per ricevere dal papa la
consacrazione verginale.
Tornata in patria alla morte del padre lasciò il palazzo imperiale,
distribuì la sua eredità ai poveri e partì verso la Terra Santa, ma durante
il viaggio, secondo la leggenda, naufragò a Napoli presso l’isolotto di
Megaride, dove fondò una comunità di preghiera e di assistenza ai bisognosi,
ma dopo breve tempo morì.
Sant’Aspreno (IV secolo – Napoli, IV secolo) fu il primo vescovo di Napoli
ed il suo carisma fece crescere di numero la locale comunità cristiana.
Ricevette l’apostolo Pietro in viaggio da Antiochia verso Roma, il quale
compì alcuni miracoli. Aspreno fondò la basilica di San Pietro ad Aram,
prima chiesa napoletana, dove è ancora conservato l’altare dove Pietro
celebrò il sacrificio eucaristico.
San Gaetano Thiene (Vicenza, 1480 – Napoli, 1547), dopo un apostolato svolto
al nord e dopo essere stato cofondatore dell’ordine dei chierici regolari
Teatini, nel 1533 giunge a Napoli per fondarvi una casa dell’ordine ed il
viceré Pedro de Toledo gli concesse la basilica di San Paolo Maggiore. Egli
curò anche la formazione dei sacerdoti impegnati nell’ospedale degli
Incurabili. Diresse il monastero delle domenicane della Sapienza e guidò
Maria Lorenza Longo nella fondazione delle monache Cappuccine.
E’ invocato come santo della Provvidenza.
San Tommaso (Aquino, 1225 – Fossanova, 1274), di famiglia nobile (il padre
era imparentato col Barbarossa ed occupava una carica importante alla corte
di Federico II a Foggia), consacrava allo studio ed alla preghiera il tempo
che i coetanei dedicavano al gioco.
Il padre lo inviò a Napoli dove all’Università insegnavano i più celebri
maestri d’Europa, quindi voleva recarsi a Parigi per specializzarsi in
teologia, ma la famiglia era contraria e la madre lo fece rinchiudere in una
cella del castello, dove cercarono di convincerlo mandandogli una procace
ragazza nuda per sedurlo, ma lui la indusse alla fuga brandendo un tizzone
acceso. Anche la sorella cercò di farlo ragionare ma il risultato è che si
fece suora.
Nel 1272 fu nominato a Napoli professore di teologia con uno stuolo di
allievi da ogni parte d’Europa.
Chiamato al Concilio di Lione da papa Gregorio X, dove si discuteva la
riunificazione della Chiesa romana con quella greca, durante il viaggio
cadde da cavallo, battè la testa e dopo pochi giorni chiuse la sua esistenza
a soli 49 anni.
San Tommaso lasciò alla Chiesa un’eredità immensa: la Summa, che si divide
in 38 trattati, 631 questioni e 10000 obiezioni riguardanti non solo la
teologia ma anche la metafisica, l’ontologia, l’etica, la politica e il
diritto.
Al Concilio di Trento, che sanzionò la spaccatura del mondo cristiano in
cattolici e protestanti, la sua Summa fu posta sull’altare al fianco dei
Vangeli e la sua dottrina divenne quella ufficiale della Chiesa.
Tra le numerose sante, oltre a Santa Patrizia, di cui abbiamo parlato, non
possiamo dimenticare Santa Restituta, Santa Candida e Santa Maria Francesca
delle cinque piaghe, l’ultima a raggiungere l’onore degli altari e la cui
casa, sita nei Quartieri Spagnoli è continua meta di visite, soprattutto da
spose sterili, perché vi è conservata una sedia dotata di poteri prodigiosi
perché molte donne dopo essersi sedute sono rimaste gravide.
Ed infine vogliamo completare questa carrellata con San Giuseppe Moscati
(Benevento, 1880 – Napoli, 1927), un medico che dovrebbe essere preso ad
esempio dai suoi avidi colleghi di oggi, il quale nel suo studio aveva in
bella evidenza una cesta dove si poneva l’onorario, sul quale campeggiava un
cartello esplicativo: “Chi può dia, chi non può prenda”.
Originario di Benevento, si trasferisce con la famiglia a Napoli, dove, dopo
la laurea, farà carriera nell’Ospedale degli Incurabili, ma dedicandosi
anima e corpo alla cura dei poveri dai quali rifiutava qualsiasi ricompensa.
E quando nel 1921 a Napoli scoppiò il colera, fu uno dei pochi che si
prodigò giorno e notte senza alcun timore di contrarre il terribile morbo.
Beatificato nel 1975, è divenuto santo nel 1987 e nella chiesa del Gesù
Nuovo vi è una cappella a lui dedicata, stracolma di ex voto e dove si può
ammirare il suo studio, il suo letto e la poltrona dove serenamente si
spense il 12 aprile del 1927 ad appena 47 anni.
Un record di chiese sconsacrate
E’ da tempo che a Napoli si parla di restituire alla pubblica fruizione le
tante chiese del centro storico, che versano in completo stato di abbandono
e di degrado, sdegnate persino dai ladri che hanno asportato spesso anche
statue ed altari. La Curia nel 2011 ha emesso un bando: “ Chiese da
riaprirsi” con l’obiettivo di affidare ad associazioni il compito di
restituire alla città, alla cultura e all’artigianato luoghi da decenni non
più accessibili.
Ma fino ad ora solo poche sono state assegnate: tra queste la basilica di
San Giovanni Maggiore, affidata all’Ordine degli Ingegneri, che organizza
concerti, conferenze e convegni, lasciandola libera la domenica per attività
di culto. Da allora quel tratto di via Mezzocannone ha riacquistato una
vitalità ed un fermento culturale incidendo positivamente anche sul contesto
sociale ed economico.
Il terremoto del 1980 inferse un colpo mortale al patrimonio artistico
napoletano. Da allora molte, moltissime chiese, anche di primaria
importanza, sono negate alla fruizione del pubblico e dei turisti.
Le chiese di una città sono la testimonianza del suo glorioso passato, ma
soprattutto possono costituire un potente volano di sviluppo perché in grado
di attirare, come ai tempi eroici del Grand Tour, un esercito di forestieri.
Il calendario realizzato con tanto amore dal fotografo Listri e
sponsorizzato dalla Sovrintendenza può determinare uno scatto d’orgoglio e
può far capire, anche al grande pubblico, la necessità di provvedere
all’incuria che si trascina con tracotanza ormai da troppo tempo.
E’ un grido di dolore che si leva disperato affinché questi sacri templi
possano tornare alla stupefatta ammirazione dei visitatori.
Si tratta di edifici più o meno noti come Sant’Agostino alla Zecca o Santa
Maria delle Grazie a Caponapoli, come la Sapienza o Santa Maria del Popolo
agli Incurabili, ma anche le altre, prima di essere depredate ed abbandonate
a vandali e ladri, hanno costituito un tassello fondamentale nella storia
della città: Sant’Aspreno ai Crociferi, l’Immacolata a Pizzofalcone, San
Giuseppe a Pontecorvo, la Scorziata, la Disciplina della Croce, i Santi
Severino e Sossio, i Santi Cosma e Damiano ai Banchi Nuovi, Santa Maria
Vertecoeli.
Bisogna mobilitarsi per salvare e soprattutto bisogna fare presto.
Su queste chiese che dovranno ospitare attività sociali aleggiano leggende e
miti, con vergini e draghi che vogliamo rammentare assieme a cenni su quando
e da chi furono edificate.
Partiamo da quella già assegnata, San Giovanni Maggiore, che nel I secolo
fungeva da tempio pagano, fatto erigere dall’imperatore Adriano in onore di
Antinoo. Nel IV secolo poi l’imperatore Costantino trasformò il tempio in
chiesa che volle dedicare a San Giovanni Battista per essere poi arricchita
da quadri e suppellettili.
La chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli sorge su una piccola altura dove vi
era un boschetto utilizzato spesso per le sfide a duello e dove molti
pensavano che vi fosse la tomba della sirena Partenope, fondatrice della
città e conosciuta dal popolino come “’a capa ‘a Napule”.
Un’altra leggenda ci parla di un’edicola votiva pendente da un albero,
davanti alla quale una donna sterile venne ad impetrare la grazia di un
figlio, che dopo poco nacque e venne battezzato col nome di Agnello, in
vernacolo Aniello, il quale da grande ascese alla gloria degli altari.
Questa chiesa verrà destinata a Centro per informazioni turistiche.
Alla stessa destinazione verrà adibita anche la chiesa dei Santi Cosma e
Damiano ai Banchi Nuovi, entrambi medici. Essa venne edificata nel 1616
dall’associazione dei barbieri e la cosa non deve destare meraviglia, perché
a quell’epoca e per lungo tempo questi artigiani svolgevano anche attività
sanitarie.
Trecento vergini di nome Immacolata frequentavano nel ‘500 una chiesetta
denominata del Rosario, sulla collinetta di Pizzofalcone, frequentata dai
soldati spagnoli lì acquartierati. Nel 1850 il re Ferdinando II la fece
completamente riedificare ed in ricordo dell’antica frequentazione le impose
il nome di Immacolata a Pizzofalcone. Essa verrà adibita a centro
polifunzionale per fornire servizi ai Quartieri Spagnoli.
Orefici e gioiellieri, quasi tutti genovesi, fondarono nel 1857 in via
Medina una chiesa, San Giorgio dei Genovesi. Oltre a questi artigiani molto
ricchi vi era una vasta colonia di liguri, abilissimi nell’attività di
ristoratori. Infatti ai napoletani piaceva molto la carne alla genovese.
Cuochi e camerieri si recavano a pregare nella cappella dell’infermeria di
Santa Maria la Nova prima dell’edificazione della loro chiesa, la quale
divenne famosa perché sull’altare maggiore troneggiava un dipinto
raffigurante San Giorgio mentre trafigge un drago. A breve diverrà sede di
una biblioteca pubblica.
In via Medina si trova anche la celebre chiesa della Pietà dei Turchini,
fondata nel 1592, a cui era annesso un orfanotrofio i cui componenti erano
avviati allo studio della musica indossando un abito talare di colore
turchino. Tra gli allievi vi fu il grande Alessandro Scarlatti e nella
chiesa fu dato l’ultimo saluto ad Aurelio Fierro. Nella sede del vecchio
conservatorio è prevista la nascita di un laboratorio musicale.
Grandi tribunali per una giustizia negata
Oggi i tribunali si interessano ad argomenti erotici(vedi caso Ruby ed
affini), una volta, almeno quelli dell’Inquisizione, si interessavano agli
eretici e non faceva eccezione Napoli, anche se spesso si blatera che la
città non ha conosciuto mai questa assurda giurisdizione.
Tale affermazione si basa sulla circostanza che nel 1547 i napoletani si
ribellarono con violenza al tentativo di don Pedro di Toledo di introdurre
l’Inquisizione spagnola. Un editto resosi necessario per il diffondersi
delle dottrine valdesiane e per i tentativi di arginare alcuni episodi di
intolleranza, durante i quali erano stati bruciati molti libri e chiuse
tutte le Accademie.
I tumulti scoppiati per evitare l’introduzione di tribunali ecclesiastici
secondo il “costume di Spagna” videro in armi oltre 50.000 persone e 300
morti nei disordini, ma nel mese di agosto dello stesso anno l’imperatore
annullò il provvedimento e promulgò un’amnistia generale nei riguardi dei
ribelli.
A Napoli vi è stata costantemente la presenza di due diverse Inquisizioni,
una vera anomalia del Sant’Ufficio, per cui Roma non aveva il completo
controllo territoriale ed il Tribunale arcivescovile godeva di un’autonomia
senza eguali.
Un potere della Chiesa napoletana molto forte ed autonomo da spingere nel
1596 il cardinale Alfonso Gesualdo a chiedere l’abolizione del Tribunale
delegato nel vice regno, in poche parole far scomparire la struttura locale
della Congregazione romana.
Da poco la cupa atmosfera di giudizi sommari, di eretici torturati e
condannati al rogo si può rivivere visitando l’antica sala
dell’Inquisizione, sita nei locali del convento annesso alla chiesa di San
Domenico Maggiore, restituita alla fruizione pubblica dopo secoli di oblio.
Ad essa si accede da un infrequentabile vicoletto, disseminato di siringhe
di drogati e maleodorante per un piscio ubiquitario, che collega via San
Sebastiano con piazza San Pietro a Maiella.
Per secoli a partire dal 1231 tra quelle mura sorde e grigie si è riunito il
Tribunale dell’Inquisizione, sono passati migliaia di eretici tra i quali
anche Giovan Battista Della Porta e Giordano Bruno. La sentenza, se non si
abiurava, era già segnata, ancor prima della discussione ed i metodi
adoperati per ottenere la confessione facevano impallidire i futuri lager
tristemente attivi nel Novecento.
A pochi passi dalla cella di San Tommaso d’Aquino, rimasta inalterata ed
ammonitrice, pregna di serena beatitudine e di severe meditazioni e dalla
grande sala Capitolare, a lungo adoperata come aula della Corte d’Assise,
dove fino a pochi decenni orsono si sono svolti processi leggendari davanti
ad una folla plaudente ed eccitata e dove sembra ancora di poter ascoltare
le memorabili arringhe dei più celebri principi del foro da Leone e De
Marsico, a Carnelutti.
Fu papa Gregorio IX ad istituire la spietata sezione del Tribunale
dell’Inquisizione nella quale sono transitate circa 12000 persone dalle
streghe, mandate in massa senza troppi complimenti al rogo, ai rari(allora)
omosessuali, tra cui le cronache ci rammentano i nomi di Taddeo Imparato e
Alessandro De Ayllar, alle grandi personalità della cultura accusate di
eresia.
Le carte processuali, pervicacemente rintracciate dagli storici, ci
permettano di conoscere le fasi del procedimento intentato nel 1574 contro
il Della Porta, inquisito per i suoi studi di scienze naturali. Egli si
salvò abiurando e trasferendosi a Roma, mentre Giordano Bruno, che pure in
quel convento era entrato bambino per studiare ed avvicinarsi a Dio, subì le
prime accuse ed il processo, conclusosi a Roma, che lo condusse a morire
arso tra le fiamme di Campo dei fiori.
Non solo eretici venivano processati e condannati, ma anche appartenenti al
clero, soprattutto per peccati legati alla fornicazione ed alla
concupiscenza.
Spesso i religiosi sfruttavano la confessione come bieco sistema per
abbindolare candide fanciulle e convincerle a soggiacere alle loro brame.
Nel 1599 si svolse un processo paradigmatico dell’abuso del sacramento per
approfittare dell’ingenuità delle penitenti. Esso riguardò un parroco di
Pollena Trocchia accusato non solo di aver approfittato delle grazie di
numerose fanciulle vergini, indotte ad immolare l’integrità dell’imene a
redenzione dei propri peccati veniali, ma anche di girare armato alla
stregua di un boss camorristico.
Ai primi del Seicento risale un altro singolare processo conclusosi con una
severa condanna nei riguardi di un frate teatino, che praticava un originale
esorcismo efficace solo se praticato sulle parti intime femminili.
E concludiamo con una condanna al carcere a vita inflitta a suor Alfonsina
per simulazione di santità; processo durato oltre dieci anni, con una tappa
intermedia del giudizio a Roma presso la Congregazione del Sant’Ufficio ed
una volta ritornato a Napoli, nonostante la strenua difesa delle religiosa
che, per quanto analfabeta, si difese mettendo in mostra una profonda
conoscenza della teologia, conclusosi con una sentenza di colpevolezza.
Feste popolari e tradizioni secolari
Di alcune feste conosciute a livello internazionale come la Piedigrotta o il
Pellegrinaggio alla Madonna dell’Arco, il Carnevale o le Quarantore, abbiamo
dedicato una specifica trattazione, per cui questo capitolo è dedicato a
celebrazioni meno note, anche se molte ancora vivamente sentite dalla
popolazione.
Le espressioni più antiche del folklore napoletano sono e restano le feste
tradizionali, collegate ad un evento religioso, ma le cui radici si perdono
spesso nella notte dei tempi in riti di matrice pagana. Durante il periodo
borbonico la vocazione festaiola del popolo ebbe momenti di pura esaltazione
grazie alla politica perseguita dai sovrani riassunta nelle famose tre effe:
feste, farina e forca.
Il carattere pregnante di ogni festa napoletana, oltre al puro divertimento
è l’occasione di dimenticare le preoccupazioni quotidiane ed illudersi di un
domani migliore.
Il calendario dei festeggiamenti è quanto mai ampio ed articolato e comincia
col mese di gennaio per raggiungere l’acme in primavera ed in estate. Talune
feste interessano prevalentemente dei quartieri, mentre altre sono
particolarmente sentite in provincia.
La prima ricorrenza si celebra il 17 gennaio in onore di S. Antonio Abate
con la benedizione dei cavalli condotti colmi di fiori e con un collare di
ciambelle fuori dalla chiesa dedicata al santo, ma l’aspetto più eccitante
della festa è costituito dai famigerati cippi, i falò allestiti per le
strade dai popolani che si liberano di mobili vecchi, dando loro fuoco con
l’illusione di liberarsi del male.
Ricordo da bambino, quando abitavo a Salvator Rosa, in un cortile dove si
affacciavano alcune finestre di casa mia dalle finestre e dai balconi, come
invasati, tutti gettavano oggetti di legno, quindi le fiamme duravano alcune
ore giungendo fino al secondo piano dei palazzi, uno spettacolo da far
invidia ai selvaggi, che mi spaventava moltissimo e terrorizzava i
benpensanti.
Un’altra tradizionale festa marinara, anche essa scomparsa e da molto più
tempo era quella di San Giovanni a mare, che vedeva nella notte tra il 23 ed
il 24 giugno (festività di San Giovanni) gruppi di napoletani, uomini e
donne, completamente nudi, cantare e danzare davanti alle acque antistanti
l’antica chiesa eponima, prima di immergersi nei flutti, non prima di
essersi scatenati in riti copulatori.
La festa ha un’origine che si perde nella notte dei tempi, anche se le prime
testimonianze risalgono al Quattrocento, durante il dominio della dinastia
aragonese. Essa ripeteva remote festività solstiziali e presentava aspetti
esoterici e magici, dalla rugiada che si cercava di prelevare da alcune erbe
ritenute magiche, dalla quale si approntavano filtri d’amore, alla
interpretazione che le fanciulle napoletane cercavano di ricavare dalla
lettura nella disposizione delle foglioline della piantina d’orzo,
ricavandone presagi sul futuro marito.
Futuro che si cercava di ricavare anche dal rituale di squagliare il piombo
nell’acqua, una divinazione conosciuta come molibdomanzia, che occupa un
capitolo significativo nell’esoterismo partenopeo.
Sempre nel mese di giugno si celebra a Nola la domenica successiva al 22
giugno la famosissima festa dei gigli, manifestazione presentata, anche se
in tono minore, in altri centri della Campania quali Barra, Portici e San
Giovanni.
La ricorrenza intende ricordare il ritorno del vescovo Paolino dall’Africa,
dove era stato a lungo prigioniero dei Vandali, quando fu accolto da una
copiosa offerta di gigli.
Dopo la sua morte ogni anno otto corporazioni locali cominciarono a
gareggiare tra loro, costruendo delle torri altissime rappresentanti i gigli
che furono offerti al vescovo.
Queste macchine di legno e cartapesta a volte arrivano a sfiorare i trenta
metri di altezza e sono portate a spalle da paranze di portatori forzuti,
percorrendo le strade del paese fino a raggiungere la piazza principale,
dove si eseguono poi una serie di danze caratteristiche.
Fino al 1953(edizione che fu funestata da un grave incidente) l’ultima
domenica di agosto era la data di una curiosa quanto divertente
manifestazione detta la ‘Nzegna, una festa marinaresca collegata alle
celebrazioni in onore della Madonna della Catena, che si svolgevano
nell’omonima chiesa a Santa Lucia, da dove si formava un pittoresco corteo
composto da un popolano travestito da Ferdinando II, mentre un altro
assumeva le vesti del pazzariello e da uno sciame di scugnizzi. L’allegra
combriccola, dopo aver attraversato la strada si portavano davanti allo
specchio di mare davanti Castel dell’Ovo e si trasferiva su piccole
imbarcazioni. Chiunque si fosse trovato a passare da quelle parti veniva
gettato a mare per poi essere ripescato dagli astanti.
In passato la festa era celebrata da marinai e pescatori con grande
solennità e numerosissimi erano i tipi soggetti, che venivano scaraventati a
mare, per essere subito dopo ripescati.
I luciani, gli indigeni di S. Lucia, avevano come distintivo un berretto
rosso e fornivano eccellenti marinai alla flotta borbonica e poderosi
rematori per la lancia reale, oltre ad essere tra i migliori sommozzatori
del Mediterraneo.
Il giorno della ‘Nzegna essi indossavano l’abito nuovo costituito da una
camicia di lana bianca ed un paio di brache di fustagno ed erano molto
orgogliosi che alla festa assistesse il re in persona, Ferdinando I, detto
il re lazzarone, il quale si divertiva moltissimo nel beffeggiare i
malcapitati che venivano gettati in mare.
Essi continuarono ad essere fedeli alla casa regnante, costituendo la
guardia del corpo anche di Ferdinando II, e dopo il 1860 manifestarono il
loro legittimismo con una mascherata annuale il 15 luglio, nella quale
vestivano un vecchio da Ferdinando I ed una popolana da Maria Carolina e poi
con una carrozza di gala, seguita da cortigiani posticci e da finti
generali, riproducevano il corteo regale tra lazzi e schiamazzi.
Nella notte del 15 luglio si svolge un’altra celebre festa: l’incendio del
campanile del Carmine, uno spettacolo entusiasmante perché fiamme e fuochi
d’artificio coprono completamente i 75 metri della struttura architettonica.
L’evento si svolge ininterrottamente dal 1647 a rammentare la rivolta di
Masaniello, che ebbe in piazza Mercato uno degli epicentri più cruenti,
anche se una veste religiosa ha contaminato l’evento. Durante gli anni del
potere borbonico i sovrani offrivano una cifra cospicua per acquistare la
polvere da sparo, mentre ora la festa si svolge unicamente con fondi
raccolti dai fedeli.
La festa di Montevergine è una delle più sentite dalla popolazione campana e
copre un arco temporale di una settimana dal 1° all’8 settembre. Si vuole
onorare la Madonna di Montevergine arroccata nel santuario sul monte
Partenio e familiarmente chiamata Mamma schiavona.
In passato si ascendeva verso il luogo sacro a piedi o su carri
sfarzosamente decorati con i cavalli impennacchiati, oggi si raggiunge la
vetta più comodamente a bordo di macchinone scoperte addobbate con fiori e
nastri colorati. Si portano alla Vergine ex voto, ciocche di capelli ed
abiti da sposa, mentre al centro della basilica si svolge uno spettacolo
agghiacciante con una donna in preda alla spasmodica agitazione di una
tarantolata, mentre le prefiche intonano lugubri lamenti alternati ad
invocazioni. Il pubblico assiste partecipando emotivamente all’evento,
piangendo, agitandosi, pregando scompostamente, nel tentativo di liberarsi
di un tormento nascosto.
A metà settembre un’altra celebre festa, molto sentita dalla cittadinanza, è
quella del Monacone, in ricordo di san Vincenzo Ferrer, che si svolge nel
quartiere della Sanità e che in passato prevedeva una lunga processione,
mentre negli ultimi decenni si è trasformata in una sagra canora finanziata
dai boss della camorra. A questa festa furono molto legati Totò, nativo del
quartiere ed il comandante Achille Lauro, il quale negli anni del suo regno
la riportò alle glorie del passato.
Sempre in settembre si svolge il 19 la festa di San Gennaro, in occasione di
una delle stupefacenti liquefazioni del sangue del patrono. Via Duomo viene
per l’occasione invasa da artistiche luminarie e bancarelle, mentre i
venditori ambulanti si inseguono con le loro voci che reclamizzano la
mercanzia. Nel frattempo le cosi dette Elette di San Gennaro, più note come
le parenti del santo si abbandonano ad epiteti ed imprecazioni, apostrofando
l’austero vescovo con espressioni come: ”faccia ‘ngialluta fa o miracolo”.
Queste assatanate donne del popolo nella loro genuina ignoranza ritengono, e
con loro tanti napoletani, che un eventuale ritardo nella liquefazione
comporti l’avverarsi di eventi calamitosi per la città.
La prima domenica di maggio, quando avviene un’altra delle periodiche
liquefazioni dei grumi posti in una teca gelosamente conservata nella
Cappella del Tesoro, si svolge una processione presieduta dal cardinale che,
partendo dal duomo, percorre il decumano per giungere alla basilica di S.
Chiara. Il corteo espone gran parte dei busti argentei raffiguranti i
numerosi patroni della città, capolavori di arte ed espressione di fede. La
folla si snoda commossa e rappresenta uno spettacolo dal fascino
irresistibile filmato ogni anno dalle televisioni di mezzo mondo.
Il busto di San Gennaro viene accolto da applausi e preghiere, mentre un
tempo dai balconi pendevano drappi di seta e coperte di raso, oltre a
preziosi damaschi stesi da gente pietosa che ha la fede impressa nel suo dna
e vive e muore senza mai dubitare del potere taumaturgico del venerato
patrono. Nella moltitudine, tra fedeli e curiosi, sono presenti tutte le
classi sociali, mentre dai balconi piovono petali di fiori e si vedono
vecchiette incurvate dagli anni e dagli acciacchi farsi il segno della croce
ed inviare un bacio.
Lo spettacolo è grandioso, un mix potente di folklore e religiosità, nel
quale sono implicati più fattori, dal compiacimento per la coreografia ad
una fede vissuta con spontaneità. La stragrande maggioranza dei partecipanti
partecipa alla processione per favorire il miracolo e per riconciliarsi con
Dio. E sono scene di sgomento se san Gennaro ci mette più tempo del dovuto
nel fare il suo dovere…
Suor Giulia, una torbida storia di sesso e religione
Napoli è stata definita sul finir del Seicento la nuova Ossiringo, l’antica
città egizia celebre per la presenza di ben diecimila monaci e ventimila
monache ed infatti all’epoca la città contava ben centoquattro conventi
maschili e all’incirca una quarantina di monasteri femminili, mentre le
chiese enumerate dal Celano nel 1692 erano cinquecentoquattro, al punto che
poteva ben dirsi ogni contrada, ogni angolo o è chiesa o è di chiesa.
Le mura dei monasteri vengono costruite sempre molto alte, perché ciò che
succede all’interno a volte è preferibile che non esca fuori, come nel caso
delle monache di S. Arcangelo a Baiano, che si racconta si abbandonassero
spesso e volentieri a pratiche orgiastiche. E di queste poco commendevoli
abitudini si vociferava da tempo in città, se una loro badessa compariva
degnamente nella novella boccaccesca di Masetto da Lamporecchio.
Il padre spirituale del convento, S. Andrea Avellino, fu costretto ad
intervenire con decisione, trasferendo le religiose, tutte di nobile
famiglia, in un altro monastero quello di San Gregorio Armeno e consigliò al
cardinale Paolo Burali d’Arezzo la riduzione del luogo sacro allo stato
laicale, perché si accorse che agivano forze misteriose, preesistenti alla
costruzione della struttura, dove in passato sorgeva un tempio pagano, la
cui localizzazione veniva delegata a sacerdoti rabdomanti, in grado di
percepire energie sconosciute, la cui presenza facilitava lo svolgersi dei
riti misterici.
La vicenda delle monache di facili costumi è stata immortalata anche dal
pennello di Tommaso de Vivo, il quale, travisando la punizione per le suore,
che fu un semplice trasferimento, immaginò una condanna esemplare ed in un
grande quadro, conservato nella pinacoteca del principe di Fondi, immortalò
un eccidio con monache, avvelenate, trafitte a fil di spada o precipitate
giù dalle finestre.
Un’altra vicenda scandalosa ci viene rivelata da un processo del 1599 in cui
viene condannato un parroco di Pollena Trocchia per aver abusato di alcune
penitenti vergini, adescate attraverso il sacramento della confessione, una
abitudine che pare fosse molto diffusa a quei tempi
Singolare invece la pratica di un religioso teatino, il quale aveva ideato
un particolare esorcismo, che diveniva efficace solo se applicato sui
genitali femminili, una preferenza anatomica che diverrà un vero e proprio
culto nella Confraternita della carità carnale ideata alcuni anni dopo da
suor Giulia.
Una vicenda ancora più inverosimile delle monache di S. Arcangelo a Baiano e
poco conosciuta anche dagli storici riguarda infatti una suora ex
francescana, Giulia de Marco, protagonista nel 1611 di una torbida storia di
sesso e religione, di recente scoperta compulsando antichi documenti
processuali. Infatti della poco edificante storia si occupò la stessa
Inquisizione in uno dei rari interventi negli avvenimenti cittadini.
Della donna non sappiamo molto: ceduta ad una coppia senza figli rimarrà
presto sola per la morte dei genitori adottivi, venne affidata ad una
parente che la condusse a Napoli nella sua casa, dove fu deflorata da un
servo e dalla tresca nacque un bimbo che finì nella ruota dell’Annunziata.
La donna comincia ad avere visioni mistiche e subito viene ritenuta in odore
di santità non solo presso il popolino, ma anche presso la migliore nobiltà
napoletana. Ella fondò una congregazione con un popolano, Aniello Arcieri ed
un avvocato, tale Giuseppe De Vicaris. Si venne a costituire una sorta di
setta, detta della carità carnale, la quale preconizzava la possibilità di
accedere alle porte del paradiso, rendendo omaggio alle parti intime della
suora, attraverso baci ed altre forme materiali di venerazione. Di questa
consorteria facevano parte personaggi insospettabili, tra cui lo stesso
viceré conte di Lemos con la moglie, decine di membri della nobiltà sia
spagnola che napoletana e numerosi cardinali ed arcivescovi.
L’atto sessuale non solo non veniva considerato un peccato, bensì un’opera
meritoria nei riguardi di Dio. Cadevano così gli obblighi di castità e le
preghiere venivano sostituite da accessi più o meno penetrativi alle parti
intime della santona.
La Madre riceveva i fedeli nelle stanze di Palazzo Suarez, dove esistevano
due differenti percorsi iniziatici:uno dedicato agli uomini più attempati o
sposati che potevano solamente pregare, mentre i più giovani e prestanti
avevano accesso alla contemplazione più o meno platonica delle parti intime
di suor Giulia.
Lo straordinario successo di pubblico insospettisce l’inquisitore locale,
messo in allarme da suor Orsola Benincasa, gelosa dell’aura di santità della
collega rivale. Si mette in moto l’ordine dei Teatini, nonostante la
protezione che godeva la donna e Giulia viene accusata di avere legami con
il diavolo, un capo di imputazione consueto sin dai tempi della caccia alle
streghe. I giudici del Sant’Ufficio per evitare tumulti decidono di
trasferire di notte il terzetto a Roma, dove il 12 luglio 1615, essi faranno
pubblica abiura, salvandosi così dal rogo e venendo condannati a finire i
loro giorni nelle tetre prigioni di Castel Sant’Angelo.
La storia di suor Giulia e della sua confraternita, restituita alla sua
oggettività storica, dal reperimento dei documenti, anche se solo
dell’accusa, rimane uno dei capitoli più nebulosi ed accattivanti della
Napoli seicentesca e diventa difficile capirne la matrice, se si trattasse
cioè di semplici pratiche sataniche, di un revival di riti sessuali a sfondo
misterico, da sempre diffusi in area partenopea o di una struttura di potere
che adoperava un paravento confessionale per cementare la sua forza, senza
trascurare le tentazioni e le gioie del sesso.
Un mondo in frantumi
L’emergenza rifiuti che da tempo rattrista la Campania e che entro pochi
anni interesserà tutto il mondo, ha una genesi remota nel mutamento drastico
delle abitudini e nella nascita e sfrenata crescita della civiltà dei
consumi.
Per secoli abbiamo amato gli oggetti che affollavano le nostre case, le
lenzuola del corredo della nonna con le cifre ricamate, che venivano
utilizzate per generazioni, la poltrona in camera da letto sulla quale
vedevamo ancora seduti i nostri genitori, quel quadretto con dei fiori
esotici ricordo di una nostra cugina emigrata in sud America, quel vaso, da
tempo scheggiato, regalo di nozze della zia Donatina. Non vi era
suppellettile che non serbasse ricordi a volte lieti, spesso tristi.
Anche un’antica pentola eravamo certi che possedesse un’anima e non potevamo
separarci da nessuno di essi, perché avremmo sofferto come per la perdita di
una persona cara. Non bisognava essere dotati di poteri paragnostici per
subire il fascino di un coltello o di una sciabola appartenuta a zio
Amilcare ufficiale nel Dodecaneso, vibrare di emozione sfogliando le
ingiallite lettere d’amore, vecchie di un secolo, che ripercorrevano l’amore
contrastato tra zia Amina e Savino, austero colonnello dei bersaglieri.
Da bambino, ricordo ancora con malinconia, amavo passare delle ore in
soffitta, un luogo buio e polveroso dove potevo dare la caccia ai ricordi
della mia famiglia e respirare a pieni polmoni l’odore del tempo, che lì
sembrava fermo per l’eternità. Divenuto adulto non ho perso questa antica
abitudine e ritrovare un vecchio secchiello colorato con delle palette mi
faceva rivivere le felici giornate trascorse in spiaggia a Lucrino o a
Torregaveta, mentre giocavo con mio fratello Carlo sotto lo sguardo attento
ed amorevole di mia madre.
Quegli oggetti apparentemente inutili mi hanno accompagnato negli anni
dandomi sicurezza e tranquillità, perché in ognuno di essi riconoscevo
emozioni e ricordi, fantasie e piacevolezze del passato, un passato che
viveva nel mio animo, ancorato nella memoria.
Le biblioteche aumentavano generazione dopo generazione, perché i libri,
soprattutto se sottolineati, erano trattati come reliquie, forse erano poco
letti, ma rispettati, tenuti in ordine e suddivisi rispettando ancora la
collocazione data dai vecchi proprietari: nonno Biagio, di rinomata
erudizione, preside al liceo o zio Camillo, vescovo di grande cultura,
collezionista di volumi di storia del Cristianesimo, ma anche di atlanti e
cartoline illustrate. Quanto era lontana ed inimmaginabile l’era di internet
e la vana pretesa di raccogliere tutta la cultura in un frammento di
silicio.
Poi all’improvviso con il boom economico un mare di prodotti di ogni genere
ha cominciato a sovrastarci e siamo stati presi da una febbre per l’acquisto
facile, che rapidamente è divenuta un delirio. Abbiamo cominciato ad
accumulare oltre misura per cui abbiamo cominciato a non affezionarci più a
niente ed a cambiare continuamente abiti, scarpe, frigorifero, automobile,
telefonino, a conservare nell’armadio 300 cravatte e 50 paia di scarpe.
L’abitudine allo sperpero è divenuto un imperativo categorico continuamente
rinforzato dai messaggi pubblicitari che ci martellano a tutte le ore. E con
terrore pensiamo a quando miliardi di uomini, che oggi non posseggono
niente, desidereranno almeno un decimo di ciò che noi possediamo.
Ci siamo illusi di una crescita economica tendenzialmente infinita, che ci
avrebbe offerto sempre più prodotti e più benessere, mentre ora ci
accorgiamo di un futoro incombente nel quale vi saranno sempre meno merci e
meno occasioni di spendere e spandere.
Il consumismo sfrenato è stato il veleno sottile di un capitalismo senza
regole, predone e devastatore, basato per anni su una catena infinita di
speculazioni ed indebitamenti per foraggiare l’insensata abitudine allo
sperpero. Poi la grande crisi che ci obbliga ad una rivoluzione nei
comportamenti, fatta di pensieri forti e gesti semplici tali da rovesciare
un sistema di valori effimeri nei quali per troppo tempo abbiamo creduto.
Dopo che l’avere aveva definitivamente trionfato sull’essere, concetti
magistralmente spiegati da Fromm, dobbiamo tornare a riconoscere il valore
delle cose, che devono tornare ad essere progettate per durare e per passare
da padre in figlio.
Pochi si sono resi conto che ci avviamo velocemente verso la catastrofe, se
non ritorneremo alla sobrietà della società agreste e non sapremo
trasferirla nel cuore della civiltà industriale. Quanto erano saggi i nostri
nonni che amavano una sola giacca, un solo paio di scarpe e che si
tramandavano cappotti e sussidiari di padre in figlio.
I primati di Napoli
Negli ultimi decenni i mass media, tutti di proprietà monopolistica del
Nord, hanno non solo falsificato i libri di storia, ma hanno cercato di
diffondere lo stereotipo di un Meridione costituito da fannulloni e
parassiti, alle cui esigenze debbono provvedere le regioni settentrionali,
prospere e laboriose. Solo di recente alcuni seri ricercatori, come Gennaro
De Crescenzo, assiduo frequentatore di archivi ed alcuni scrittori come Pino
Aprile, autore di un pamphlet di successo, che coniuga dati storici
inoppugnabili ad una travolgente vena polemica, hanno cercato di rileggere
con onestà gli avvenimenti del passato, soprattutto il fenomeno del
brigantaggio, che vide un tacito accordo tra i notabili latifondisti e la
borghesia imprenditoriale del Nord. Le campagne erano in rivolta ed il
brigantaggio faceva del Sud un vero e proprio Far West.
Furono i soliti gattopardi, padroni dei voti delle masse popolari, ad
aderire alle scelte politico-economiche post-unitarie, privilegiando
finanziariamente lo sviluppo delle industrie padane a costo di penalizzare
per sempre ogni possibilità di sviluppo del Meridione, i cui abitanti si
videro costretti, a decine di milioni, ad abbracciare la scelta
dell’emigrazione. Fu una diaspora di dimensioni bibliche, un vero e proprio
genocidio del quale vanamente troverete anche un accenno nella storiografia
ufficiale.
Il dato più importante da cui bisogna partire è che all’indomani del
plebiscito, quando il nuovo regime cominciò ad assumere i primi
provvedimenti finanziari, si rese conto che il Regno delle due Sicilie aveva
in cassa 443 milioni, più del doppio dei bilanci di tutti gli altri Stati
della penisola che, tutti assieme, raggranellavano 220 milioni. Tutto ciò a
dimostrazione lampante che l’economia era più che florida, esportando
legname, grano, frutta, olio, primizie, vini pregiati, carne, uova, pasta,
latte ed agrumi, garantendo un costante flusso di valuta estera.
E se passiamo dall’agricoltura all’industria il divario era ancora più
accentuato, dalla produzione di pelletteria agli strumenti di precisione,
mentre la grandiosa fabbrica di Pietrarsa sfornava a getto continuo
colossali macchinari, dalle locomotive alle macchine a vapore, dalle gru ai
ponti di ferro alle rotaie, a parte pezzi di artiglieria, bombe e granate.
Nel frattempo i cantieri di Castellammare producevano centinaia di navi che
facevano della flotta borbonica una delle più importanti del Mediterraneo,
oltre a molte altre commissionate dall’estero. Nella zona di Amalfi era
tutto un susseguirsi di cartiere e di opifici tessili e non poche erano le
risorse minerarie; a parte lo zolfo in Sicilia, si estraeva ferro, piombo,
antracite e talco.
Ma i veri primati di Napoli indiscussi sono nel campo della cultura,
dell’edilizia e della scienza. Accenniamo ai principali:
Nel 1738 si diede inizio ai lavori per la Reggia di Capodimonte.
Nel 1751 Ferdinando Fuga ebbe l’incarico per la costruzione dell’Albergo dei
Poveri, una struttura gigantesca destinata ad accogliere tutti i poveri del
Regno.
Nel 1737, in soli sei mesi, quarant’anni prima della Scala di Milano, si
completò il Teatro San Carlo, che divenne l’indiscusso tempio della lirica
europea.
Nel 1738 vennero alla luce i parchi archeologici di Ercolano e di Pompei,
che attirarono per decenni gli entusiasti visitatori del Grand Tour.
Nel 1743 fu fondata la celeberrima Fabbrica di porcellane di Capodimonte.
Nel 1771 fu affidato il compito a Luigi Vanvitelli di costruire a Caserta
una reggia più bella e sfarzosa di quella di Versailles.
Nel 1778 cominciò a funzionare a Palazzo Reale la celebre Fabbrica degli
arazzi.
L’anno successivo nacque la manifattura di San Leucio, una singolare
fabbrica governata da rivoluzionarie regole socializzatrici.
Nel 1798 la spiaggia di Chiaia si trasformò in una splendida Villa Reale.
L’anno successivo sorsero i colossali Granili.
Nel 1818 prese il mare il primo battello a vapore e l’anno successivo fu
edificato a Capodimonte il primo Osservatorio astronomico d’Europa.
Nel 1837 Napoli fu la prima città italiana ad avere l’illuminazione a gas.
Ma la grande impresa fu il 3 ottobre 1839 l’inaugurazione della linea
ferroviaria Napoli-Portici, la seconda al mondo, alla quale in breve si
aggiunsero altri tratti che misero in comunicazione la capitale con Caserta,
Capua, Cancello, Nola e Sarno.
La rete stradale nel 1855 era di ben 4587 miglia.
Nel 1841 sorse ad Ercolano l’Osservatorio Vesuviano.
Nel 1852 nacque la prima linea telegrafica Napoli-Gaeta ed in breve furono
in contatto tutte le principali città, comprese Reggio Calabria e Messina
attraverso una linea sottomarina.
Nel 1845 si tenne il VII Congresso degli Scienziati.
I presidi sanitari erano all’avanguardia in Europa ed importante fu anche la
funzione dei Monti di Pietà che contrastarono attivamente il fenomeno dello
strozzinaggio.
In campo culturale ricordiamo l’Accademia delle Belle Arti, il famoso
Conservatorio di Musica e una prestigiosa Università.
Molteplici furono le attività artigianali, dalla coniazione di monete alla
legatoria di lusso, dalla lavorazione del corallo e della maiolica
all’intaglio dell’avorio e all’elaborazione di gioielli d’oro e argento.
Potremmo continuare a lungo, ma vogliamo concludere con i tanti teatri, più
di Parigi, che erano sempre stracolmi e testimoniavano la gioia di vivere di
un popolo che scaricava così i suoi timori e le sue insoddisfazioni.
Ricordiamo il Fiorentini, il Mercadante, il San Ferdinando, il San Carlino,
dove la famiglia Petito immortalò in spassosissime commedie la celeberrima
maschera di Pulcinella.
Il mare non bagna Napoli
Il mare non bagna Napoli è il titolo di un famoso libro di Anna Maria Ortese,
ma purtroppo, e da tempo, costituisce un’amara metafora dello scempio
inflitto dai napoletani ad una risorsa, che, diversamente adoperata e
rispettata, avrebbe potuto costituire una ricchezza incommensurabile per la
città. Il percolato scorre nelle nostre vene, devastando la salute ed
inquinando irreparabilmente la coscienza.
Osservare la spiaggia di Vigliena a San Giovanni a Teduccio significa
meditare sulla deriva della città, al mare si giunge infatti attraverso
palazzi dirupati, strade allagate, muretti imbrattati, che più imbrattati
non si può. Nei pressi la vecchia centrale termoelettrica, un mostro di
cemento a dominare la miriade di luride carcasse di imbarcazioni, che
sinistramente interrompono i flutti. A fare coraggio un cartello ammonitore:
pericolo di morte, destino che toccò tempo fa alla giovane madre tuffatasi
coraggiosamente per salvare i suoi figlioli dai gorghi provocati a causa
dell’elettricità che in loco si produce.
Non si spaventa della scritta un incrocio tra un barbone e Caronte, il quale
traghetta per pochi spiccioli i pescatori desiderosi di portarsi sul lungo
braccio delimitante il porto di Napoli, con la speranza di una pesca copiosa
lì dove le prede ingurgitano una melma dalla consistenza e dall’odore degli
escrementi e che infatti è merda che galleggia.
La sabbia è nera, non perché vulcanica, ma perché piena di rabbia, sporca,
viscida e cosparsa da miriadi di siringhe, lattine di Coca Cola e rifiuti di
ogni genere. Bagnarsi in queste acque più luride del Gange è una sfida alla
razionalità più che all’igiene ed anche soltanto camminarci a piedi scalzi è
un insulto alla decenza. A farlo sono solo barboni, extra comunitari
disperati e squallide badanti dalla ciccia debordante, i loro piedi puzzano
di catrame ed i loro passi non spaventano i pochi gabbiani alla ricerca di
qualche tozzola di pane o di qualche pesce semi putrefatto. D’inverno la
spiaggia è abitata da pochi zombi arroccati in decrepite casupole dalle mura
trasudanti di lezzo di orina. Alcuni cartelli tradiscono l’utilizzo estivo
della zona: vietata la balneazione(è il minimo), non consumate acqua a
vuoto(vicino ai resti di una doccia), cercate di essere puliti(patetico, su
un muro sbrecciato).
Frequentare durante la stagione questa spiaggia è il segno più eloquente del
degrado che da tempo si è impossessato degli abitanti della zona, che nel
1799 ha visto la difesa dei repubblicani dall’assalto delle truppe
sanfediste, come testimoniano i resti del fortino, nel quale i patrioti si
fecero saltare in aria pur di non arrendersi.
I progetti di riqualificazione non mancano, anche se come spesso capita,
sono destinati a rimanere nel libro dei sogni e delle promesse elettorali. A
Vigliena dovrebbe sorgere un porto turistico tra i più grandi del
Mediterraneo(all’anima della palla), da collegarsi alla litoranea di Torre
del Greco, aperta da oltre cinquanta anni e, priva di manutenzione, simile
ad un percorso di guerra. Si parla da anni della realizzazione di una
barriera frangiflutti, ma nel frattempo gli audaci frequentatori estivi di
queste spiagge improbabili hanno fatto i capelli bianchi.
Il mare spostandosi verso la zona flegrea acquisisce un colore marrone ed
una patina giallastra condita da materiale schiumoso, mentre la
concentrazione di colibatteri raggiunge la ragguardevole cifra di 200.000
ogni 100 millilitri, ben 100 volte superiore ai limiti di tolleranza. La
situazione apocalittica delle acque è provocata dallo sversamento a mare di
liquami putridi, infetti e tossici provenienti da un entroterra dove
abbandono rifiuti di ogni genere, incluse scorie radioattive.
Una retata di colletti bianchi: dall’ex prefetto al braccio destro di
Bertolaso, dal funzionario corrotto al tecnico compiacente, hanno portato
sulle prime pagine dei quotidiani per qualche giorno la drammatica
situazione del mare e del litorale a nord di Napoli, dove per decenni una
quantità immane di percolato prodotto dalle discariche è stato convogliato a
mare senza essere sottoposto ad alcun processo di depurazione.
“Versiamo tonnellate di merda in mare, ma i lidi balneari vanno alla grande”
è il contenuto agghiacciante di una intercettazione telefonica. Alla
cornetta il responsabile del ciclo delle acque della regione.
Infatti, disperati, i napoletani continuano a frequentare i lidi di Licola e
Varcaturo, per prendere un po’ di sole a due passi da un mare
infrequentabile, nonostante lo sciabordio delle onde pare invitare suadente
ad un’impossibile immersione, per rinfrescarsi docce negli stabilimenti più
casarecci e piscine in quelli alla page, come Varcadoro, dove qualche poppa
al vento di lusinghiere proporzioni può dare ai più eccitati l’illusione di
trovarsi in costa azzurra. Tutto intorno un’edilizia di rapina ha devastato
in egual misura il paesaggio e le coscienze, mentre da più punti, come da
un’immonda gola profonda viene vomitata giorno e notte una melma puzzolente
che va a depositarsi sulla sabbia sottomarina, distruggendo flora e fauna
marina ed appestando l’aria per chilometri con un tanfo pestilenziale.
Decine di chilometri di lungomare da bandiera nera, che più nera non si può,
in agonia irreversibile con una schiuma gialla piena di bollicine, che
lambisce minacciosa un arenile nerastro, dove i gabbiani impassibili
banchettano tra rigagnoli, nei quali galleggiano rifiuti di ogni tipo.
Una zozzimma che ha trasformato una costa da favola in un girone infernale,
mettendo in fuga le stesse divinità marine, che presidiavano da sempre
questi luoghi incantati.
Facite ammuina: i mille suoni di una civiltà
Facite Ammuina (che in napoletano significa fate confusione) sarebbe stato
un comando contenuto nel Regolamento da impiegare a bordo dei legni e dei
bastimenti della Real Marina del Regno delle Due Sicilie del 1841. Si
tratta, in realtà, di un falso storico, il cui testo così recita:
(Napoletano)
« All'ordine Facite Ammuina: tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa
e chilli che stann' a poppa vann' a prora:
chilli che stann' a dritta vann' a sinistra
e chilli che stanno a sinistra vann' a dritta:
tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa
e chilli che stanno ncoppa vann' bascio
passann' tutti p'o stesso pertuso:
chi nun tene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a 'll à".
N.B. da usare in occasione di visite a bordo delle Alte Autorità del Regno.
» (Italiano)
« All'ordine Facite Ammuina, tutti coloro che stanno a prua vadano a poppa
e quelli a poppa vadano a prua;
quelli a destra vadano a sinistra
e quelli a sinistra vadano a destra;
tutti quelli in sottocoperta salgano,
e quelli sul ponte scendano,
passando tutti per lo stesso boccaporto (buco);
chi non ha niente da fare, si dia da fare qua e là. »
Di questo falso passo del regolamento in questione esistono copie, vendute
ai turisti nei mercatini di Napoli anche oggi, che riportano a firma quelle
dell'Ammiraglio Giuseppe di Brocchitto e del "Maresciallo in capo dei legni
e dei bastimenti della Real Marina" Mario Giuseppe Bigiarelli.
Il motivo dell'assenza di copie ufficiali è dovuto semplicemente al fatto
che il regolamento della Real Marina del Regno delle Due Sicilie non ha mai
annoverato un tale articolo e né di Brocchitto né Bigiarelli risultano
menzionati tra gli ufficiali della marina delle Due Sicilie. Tali cognomi
sembrerebbero del tutto inventati poiché il primo non risulta esistere in
nessun archivio dell'intera Italia, mentre il secondo è del tutto estraneo
all'onomastica delle Due Sicilie. Peraltro, il regolamento della Real
Marina, come tutti gli atti ufficiali, era redatto in perfetto italiano, e
perfino l'esame del testo in napoletano lascia dubbi di genuinità,
soprattutto perché usa l'indicativo per degli ordini: per esempio, invece
che «chilli che stanno abbascio vann' ncoppa e chilli che stanno ncoppa
vann' abbascio», ci si aspetterebbe «... jessero ncoppa...». In particolare
il presente congiuntivo nell'ultima frase, s'aremeni era certamente
scomparso nell'uso popolare ottocentesco della lingua napoletana e
sostituito dalla forma ottativa s'ar(r)emenasse.
Si tratta quindi di uno dei tanti aneddoti denigratori sulle forze armate
borboniche (nel loro insieme spregiativamente definite esercito di
Franceschiello) confezionati a fine propagandistico dai piemontesi per
screditare il Regno delle Due Sicilie e la dinastia dei Borbone. Altre
invenzioni simili, riguardanti questa volta l'esercito, sono il facite 'a
faccia feroce e il facite 'a faccia fessa che sarebbero stati gli ordini
impartiti alle reclute durante l'addestramento.
Tra l'altro, la Real Marina del Regno delle Due Sicilie era particolarmente
efficiente, tanto che nell'Italia appena unificata, che si trovò imposte
tutte le istituzioni e la legislazione piemontese, la Marina adottò proprio
divise, gradi e regolamenti di quella napoletana.
Sebbene il facite ammuina non nasca affatto da un regolamento della marina
borbonica, esso trae origine da un fatto storico realmente accaduto (anche
se dopo la nascita della Regia Marina italiana). Un ufficiale napoletano,
Federico Cafiero (1807-1889), passato dalla parte dei piemontesi già durante
l'invasione del Regno delle Due Sicilie, venne sorpreso a dormire a bordo
della sua nave insieme al suo equipaggio e messo agli arresti da un
ammiraglio piemontese, in quanto responsabile dell'indisciplina a bordo. Una
volta scontata la pena, l'indisciplinato ufficiale venne rimesso al comando
della sua nave dove pensò bene di istruire il proprio equipaggio a "fare
ammuina" (ovvero il maggior rumore e confusione possibile) nel caso in cui
si fosse ripresentato un ufficiale superiore, con lo scopo di essere
avvertito e nello stesso tempo a dimostrare l'operosità dell'equipaggio.
Un suono napoletanissimo è quello fragoroso della pernacchia che i puristi
definiscono un suono derisorio, ironico e in genere considerato volgare,
eseguito soffiando con la lingua protrusa all’infuori in mezzo alle labbra
serrate, oppure premendo con il dorso della mano sulla bocca per ottenere un
rumore simile a quello di una flatulenza(alias scorreggia).
Lo spernacchiamento può essere eseguito mediante due tecniche di
disposizione labiale a scelta. Si può poggiare la lingua sul palmo della
mano e soffiare facendo vibrare il labbro inferiore. In questo caso si
ottiene un suono aperto, cosiddetto a “squacchio”, oppure raccogliere la
mano a cono e far vibrare contemporaneamente entrambe le labbra. In questo
caso si ottiene un suono più acuto che può essere modulato dall’esecutore
mediante la crescita progressiva del volume d’aria emesso; questa tecnica
consente anche di variare la nota di escussione della pernacchia maggiore
sia verso gli acuti che verso i gravi.
Quando la pernacchia non viene eseguita da uno specialista(sono tutti
napoletani) e senza il dovuto trasporto si trasforma in una fetecchia che
può essere definita il tentativo fallace di emettere un peto vibrato e
roboante, che invece poi riesce afflosciato e calante, una scorreggia non
riuscita, quindi, potremmo concludere un mezzo aborto di pereta, che, se
consultiamo il dizionario scopriamo trattarsi di un sinonimo di peto,
fetumma, loffa o siluro e qui ci fermiamo perché dai suoni siamo agli odori,
anzi ai fuochi di artificio.
Questo suono così esplicativo pare nasca durante il dominio spagnolo e si
manifestasse spontaneo all’arrivo degli esattori delle tasse, che i popolani
salutavano con particolare affetto.
La pernacchia più celebre nella storia del cinema è quella di Eduardo De
Filippo, contro un nobile arrogante. Era un suono altamente modulato e
studiato, in concorso con la plebe del rione. Oltre all’irrisione, cioè,
esprimeva una protesta sociale. Con un suo stile classista, dal basso,
nazionale più ancora che napoletano.
Di recente anche Bossi, l’immarcescibile ministro padano, si è voluto
esibire con il nobile suono della Terronia, ma il suo gesto è stato un
fiasco sotto il profilo acustico, al punto che avrebbe meritato un riscontro
di eguale entità da parte di un napoletano doc, ma gli è stato risparmiato
tenuto conto della sua incapacità di intendere e di volere.
La triste capitale della monnezza
Per giorni e giorni tutti i giornali del pianeta hanno dedicato la prima
pagina a Napoli che affoga sepolta dai rifiuti, ma nessuno si è chiesto il
perché di un’attenzione mediatica
ossessiva e tutto sommato fuori luogo. Ma la spiegazione è a livello
inconscio: Napoli è l’immagine premonitrice di un futuro quanto mai vicino,
quando, se non si frena una civiltà basata su un consumismo sfrenato ed
irrazionale, tutte le città del mondo saranno sommerse dai rifiuti ed
avvelenate dai gas emessi da automobili ed inceneritori.
Napoli è il laboratorio dove si accavallano una serie di tematiche che da
tempo hanno raggiunto e superato il livello di guardia, ma che interessano
tutti i contemporanei: traffico, disoccupazione, delinquenza organizzata,
smaltimento dei rifiuti, abusivismo, ecc.
Gli Italiani sono stati alla finestra senza muovere un dito, anzi rincarando
la dose attraverso il disprezzo. Non si è voluto affrontare il problema
della delinquenza e questa è dilagata come un cancro, aggredendo il tessuto
sano, non si voluto contrastare il business della falsificazione e tutta
l’Europa è oramai invasa da griffe fasulle e marchi contraffatti, non si fa
niente per risolvere alla radice il dramma dei rifiuti ed il miasma comincia
a dilagare lontano e lo spettro di una crisi generale comincia ad essere
un’ipotesi plausibile.
Le recenti puntate di Porta a Porta, protrattesi fino a notte fonda, sono
state lo specchio di una situazione insostenibile: da un lato gli ospiti in
studio, comodamente in poltrona, elegantemente vestiti a discutere
forbitamente, mentre le telecamere inquadravano un’umanità lacera,
abbandonata da tutti, che gridava disperata la sua rabbia e le sue paure,
respirando la puzza delle discariche ed inalando la micidiale diossina.
Tutti quelli che si meravigliano che la città non sia ancora precipitata nei
gorghi del baratro inabissandosi, dimenticano che rimane ancora
miracolosamente a galla, aggrappata alla sviscerata devozione dei suoi
abitanti che l’amano perdutamente e per il ricordo, mai sbiadito di millenni
di cultura, civiltà e nobili tradizioni.
Ma state attenti perché se dovesse veramente affondare creerà un gigantesco
risucchio e trascinerà con sé negli abissi tutto quello che la circonda per
larghissimo raggio e nessuno si salverà.
Il Riformista 15 gennaio 2008 – Il Mattino 27 gennaio 2008
L’infinita emergenza dei rifiuti
La situazione dei rifiuti in Campania peggiora minuto dopo minuto e non
riesce a raggiungere il fondo, che diviene sempre più profondo come un gorgo
che rischia di trascinarci tutti nel baratro.
Nonostante le ferme parole del Presidente Napolitano, l’impegno personale di
Prodi, la buona volontà di Bertolaso, le accorate proteste di Gerardo
Marotta e dell’Assise di palazzo Marigliano, il coro unanime dei giornali,
la rabbia e la disperazione dei cittadini, le montagne di spazzatura hanno
continuato a crescere imperterrite, raggiungendo e superando i primi piani
dei palazzi, mentre l’olezzo, insopportabile, penetra profondamente le
narici e torme di topi banchettano allegramente, stupite di un così lauto
pasto.
Se avessero un minimo di amor proprio sindaca e governatore, prima di
dimettersi dalle loro cariche, dovrebbero apparire a reti unificate su tutte
le televisioni, dichiarare pubblicamente le loro colpe e chiedere
disperatamente aiuto a chiunque possa fornircelo.
Se avessero il coraggio e l’onestà di compiere questo pubblico atto di
contrizione i cittadini non potrebbero certo perdonarli, neanche i cristiani
più immarcescibili, ma almeno, se dovessero capitargli a tiro, nello sputare
doserebbero il quantitativo sufficiente a mortificarli senza annegarli.
Inutile illudersi o agitarsi alla ricerca dell’impossibile. In attesa di
soluzioni definitive del problema, attualmente una sola via, anche se
transitoria, è percorribile: trasportare altrove la nostra monnezza.
Per organizzare ed attuare un piano adeguato di raccolta differenziata, per
popolazioni poco disciplinate come le nostre, ci vuole un tempo
ragionevolmente di anni, partendo dalla scuola, nella quale in questi anni
di tutto si è discusso salvo che di spazzatura.
Le discariche esplodono letteralmente, emanano miasmi putrescenti fino a
chilometri di distanza, sono da tempo esaurite e non se ne possono creare
altre con un colpo di bacchetta magica. Abbiamo letteralmente esaurito tutti
i buchi disponibili.
Il termovalorizzatore, o per meglio dire l’inceneritore, pare che debba
abortire prima di nascere, non solo per le giuste proteste dei gruppi
ecologisti, preoccupati degli effetti nocivi sulla salute nostra e dei
nostri discendenti, ma perché da anni in tutto il mondo è una soluzione
abbandonata. In Germania gli impianti chiudono uno dopo l’altro e lo stesso
negli Stati Uniti; in Giappone non sono mai esistiti. Tra l’altro quello che
dovrebbe, ma speriamo, che doveva sorgere ad Acerra, era progettato con
tecnologie talmente obsolete e superate, frutto di scelte ottuse e
criminali, che in pochi giorni la magistratura, se pure entrasse in
funzione, non potrebbe fare altro che chiuderlo.
Il luogo ideale dove convogliare le migliaia di tonnellate di spazzatura,
che oramai ci sommergono, è il deserto libico, in grado in pochi decenni di
metabolizzare qualsiasi cosa, salvo la plastica e di assorbire anche le
centinaia di migliaia di ecoballe che affollano la Campania e che nessun
inceneritore prezzolato sarà mai disponibile a trattare, perché di eco non
hanno proprio nulla sono solo balle.
Il trasporto via mare è poco costoso ed in meno di un giorno navi
gigantesche potrebbero trasferire immani quantità di spazzatura sull’altra
sponda del Mediterraneo. Gheddafi in cambio di un po’ di vile denaro
occidentale sarebbe certamente disponibile ed anzi, per contraccambiare la
cortesia, continuerà a fornirci del tutto gratuitamente il nostro quotidiano
quantitativo di immigrati clandestini per incrementare disoccupazione e
delinquenza.
Una rivoluzione culturale
Purtroppo da noi i cittadini sono ancora ritenuti sudditi da tenere
all’oscuro delle beghe di potere; meno sanno, meglio è. Questo è il motivo
per cui fino a pochi mesi fa ignoravamo completamente di residui nucleari,
fusti tossici provenienti da mezza Europa, incendio criminale delle
discariche, addirittura scheletri umani e teschi in libera uscita nelle
campagne. Una realtà al di fuori di ogni immaginazione che viceversa è la
triste realtà di gran parte della Campania e della quale solo pochi libri
coraggiosi hanno parlato.
Ma anche quando, speriamo al più presto, crederemo di aver trovato una
soddisfacente soluzione al problema saremo semplicemente all’inizio di una
improcrastinabile rivoluzione culturale.
Sia gli imprenditori che i lavoratori debbono infatti rendersi conto che
viviamo senza accorgercene agli albori di una terza rivoluzione industriale
e soltanto un uso più razionale delle materie prime e dell’energia
consentirà la sopravvivenza degli affari e del lavoro.
Gli standard di qualità delle merci, in una società sostenibile, debbono
essere basati sui principi di maggiore durata, più lunga vita utile ed ampia
possibilità di riutilizzo e di riciclo. Purtroppo l’accettazione di norme di
qualità cozza contro il perverso andamento della civiltà dei consumi,
vincolata al credo della produzione di merci sempre meno durature, al
successo di mode effimere di oggetti usa e getta e di un mercato che spinge
verso una continua produzione senza alcuna preoccupazione per il futuro.
Bisogna agire in fretta e con la massima decisione, un ritardo di cinque
anni ci costringerebbe a fare i conti con una massa di rifiuti (cemento,
ferro, plastica, imballaggi, carta, scarti alimentari e conciari, ecc.)
aumentata di un altro mezzo miliardo di tonnellate, una valanga in grado di
travolgerci e se i governi del mondo continueranno ad ignorare la gravità
del problema, sarà necessario far nascere e crescere un movimento di
liberazione dai rifiuti. Un modello di trattamento dei rifiuti esemplare,
che possa essere adottato a Napoli, come al Cairo o a Tokyo, a Milano come a
Città del Messico, un cambiamento rivoluzionario necessario ed urgentissimo
davanti ad un mondo dominato da un capitalismo spietato ed un consumismo
suicida, che in pochi anni si avvia a divorare tutte le risorse naturali e a
divenire una pattumiera planetaria.
Napoli è l’indiscussa capitale mondiale della monnezza. Le foto dei cumuli
di rifiuti che osano sfidare il cielo, i roghi disperati che vomitano al
vento micidiale diossina, i cassonetti divelti hanno fatto più volte il giro
del mondo ed hanno avuto il disonore della prima pagina sui giornali di
tutto il mondo.
Americani e cinesi, gli europei già ci conoscevano, sanno che la nostra
città è la più fetente della Terra.
Sarebbe bello che questa necessaria rivoluzione nascesse all’ombra del
Vesuvio ad opera di un popolo, paziente fino all’ignavia, ma che quando si
incazza non si sa mai dove può arrivare.
Il Brigante luglio 2007 (editoriale) L’Opinione 20 luglio 2007
La guerriglia di Capodanno
Ancora un tragico Capodanno, ancora morti e feriti per botti esplosi senza
controllo e fuochi acquistati sulle bancarelle abusive. Il bilancio
complessivo delle persone coinvolte negli incidenti verificatisi nella notte
di San Silvestro è di due morti e 361 feriti. Una vera notte di barbarie che
ha attraversato l’Italia dal Sud al Nord e che ha trovato come sempre il suo
epicentro a Napoli ed in Campania, dove da anni si svolge una vera e propria
guerriglia e dove si sono verificati i due decessi: uno a Caserta per colpa
di una miccia troppo corta e difettosa di un missile che ha frantumato il
cranio del proprietario di un noto ristorante ed a Benevento dove un razzo
ha decapitato un imprenditore dopo avergli devastato il volto.
Anche questa volta si è perso il conto di dita e mani amputate, accecamenti,
ustioni gravissime. I botti diventano di anno in anno sempre più potenti e
pericolosi, dando luogo a danni gravissimi e invalidità permanenti.
Napoli è affetta da un’assurda malattia, la cui febbre sale con
l’implacabile scandire delle lance verso la mezzanotte.
Non sono mai serviti gli inviti alla prudenza, nemmeno quelli arrivati da
testimonial amati e prestigiosi. Subiamo senza reagire il fascino perverso
di questa tradizione arcaica. Attraverso i botti si esorcizza la paura e si
grida forte la rabbia. Più c’è crisi economica e più si spara, meno soldi si
hanno più si spende per girandole e botte a muro. In una gara insensata con
i vicini di casa, giurando di riscattarsi l’anno successivo, se qualche
condomino ha sparato più forte di tutti.
Comprare prodotti illegali è semplicissimo; un ragazzino conosce le
dinamiche del mercato meglio di un finanziere. Ciò che è vietato è
facilissimo da comprare.
E da questa strage non sono immuni gli animali domestici, cani e gatti,
compagni fedeli della nostra vita quotidiana, per i quali questa assordante
follia collettiva si traduce in una tortura incomprensibile che porta al
terrore estremo, causa panico anche in esemplari di grande coraggio, come
cani lupo, mastini e rottweiller.
Questo Capodanno secondo i dati delle associazioni animaliste le vittime
sono state più di 900: bruciate, investite dai razzi, ma anche morte di
crepacuore per la paura.
Sarebbe stato più opportuno devolvere tutti questi soldi in beneficenza. C’è
un mondo che soffre in silenzio e dignità: aiutiamo costoro, anziché sparare
in aria in maniera inconsulta. Perché in futuro questo auspicio possa
avverarsi sarebbe necessario ed improcrastinabile che i botti venissero
puniti con pene molto severe sia per chi li fabbrica che per chi li
acquista. Ci vorrebbe una sorta di tolleranza zero in primo luogo contro gli
abusivi che bisogna smettere di considerare dei poveri cristi che si
guadagnano la giornata e poi punendo anche chi li detiene per adoperarli,
equiparando i petardi che contengono un certo quantitativo di polvere da
sparo in tutto e per tutto al possesso di esplosivi e trattati anche dal
punto di vista come tali.
Le bancarelle per la vendita dei botti sono spuntate come funghi un po’
dovunque in città e in provincia: a Secondigliano, Pianura, Ponticelli,
Piazza Mercato, Fuorigrotta, con la camorra che gestisce la distribuzione
della materia prima proveniente dalla Cina ormai per il 90% del mercato.
Buona parte della produzione è appannaggio dei laboratori privati che si
contano a decine nelle zone periferiche della Campania. Sono capannoni o
sottoscala nei quali vengono mescolati ed assemblati polvere nera, nitrato,
potassio e zolfo. Il risultato sono botti micidiali, venduti con nomi
suggestivi o folkloristici che nell’ultimo decennio ha provocato una dozzina
di morti ed oltre 4000 feriti.
Vi sono almeno 50 aziende fuorilegge, ma anche chi dovrebbe essere in regola
non lo è perché il personale lavora in nero come nel caso del fuochista
morto ad Angri poco prima di Natale.
Una situazione di precariato strutturale che finisce per portare altri soldi
nelle casse dei clan ai quali produttori pagano lucrose tangenti nonostante
le forze dell’ordine abbiano intensificato i loro sforzi pe reprimere il
fenomeno. Infatti nel 2012 i sequestri di materiale illegale sono arrivati a
23 tonnellate a fronte delle 8 del 2011.
Nonostante tutto razzi e cipolle dilagano, non fanno nessun gioco luminoso
ma solo un gran botto; proiettili che, sparati ad altezza d’uomo, sono
micidiali.
Sono quelle stesse cariche micidiali che la camorra adopera per far saltare
saracinesche e vetrine dei negozianti che non vogliono pagare il pizzo.
Scì scì piazza dei Martiri
“ ... scì scì ... piazza dei Martiri” recitava il ritornello della famosa
canzone scritta da Fulvio Rendine negli anni Cinquanta e portata al successo
dalle indimenticabili voci di due eterni ragazzi: Aurelio Fierro e Roberto
Murolo; a lungo incontrastato regno dei gagà partenopei, oggi territorio
preferito da supergriffati e borchiate, rappresenta ancora, nonostante il
degrado generalizzato, il salotto buono della città, dove pulsano boutique e
negozi delle più famose maison del mondo e dove passeggiare è un rito con
regole e consuetudini da iniziati. Via Chiaia, piazza dei Martiri, via
Calabritto, piazza Vittoria costituiscono un percorso caro allo struscio ed
alle vasche e agli antichi nobili napoletani, che in materia di savoir vivre
non hanno avuto chi li superasse. Nel cuore del salotto si giunge da piazza
Trieste e Trento lungo via Chiaia, ricca di negozi importanti e di palazzi
nobiliari. Questa breve quanto elegante strada ha origini antichissime,
derivando il nome da Chiaja, ferita o spaccatura ed il suo tracciato da un
canalone naturale scavato dalle acque che scorrevano tra la collinetta di
Pizzofalcone, sede di un’antica acropoli e la dirimpettaia collinetta delle
Mortelle, per lungo tempo straripanti di giardini lussureggianti. All’epoca
di don Pedro da Toledo, dove oggi si trova il caffè Gambrinus, da sempre
luogo di incontro di letterati e musicisti, fu posta una delle porte che
chiudevano la cinta muraria cittadina: Porta Pietruccia, che vantava uno dei
sette affreschi dipinti da Mattia Preti come ringraziamento per la fine
della peste, che imperversò nel 1656, dimezzando in pochi mesi la
popolazione napoletana. Nel centro della strada sorge il ponte di Chiaia
costituito da due robuste arcate di pietre e mattoni alla cui sommità
troneggia una lapide, che il popolo volle erigere in ringraziamento al re
Filippo di Spagna per aver egli facilitato il tragitto tra le due collinette
prima ricordate. Fino al 1861 era effigiato uno stemma borbonico,
sostituito, dopo la vittoria dei nordisti, da quello dei Savoia. Dopo il
ponte sorge il Sannazzaro, piccolo ma delizioso teatro che ben si merita
l’appellativo di bomboniera. Prima di divenire il regno incontrastato di
Luisa Conte e della sua esilarante compagnia, esso vide in azione il
leggendario Eduardo Scarpetta ed in anni successivi i fratelli De Filippo,
che profusero generosamente i tesori della loro arte così connaturata allo
spirito ed al carattere delle nostre genti. Poco piùavanti il palazzo
Cellammare, pur ridotto negli anni nelle dimensioni, signoreggia dall’alto i
resti di quello che fu il Metropolitan, un cinema caro alla memoria di
generazioni di napoletani, aperto richiuso, il quale sembra non trovare
pace. Il palazzo Cellammare costruito ai primi del ‘500, come dimora estiva
di don Giovanni Francesco Carafa, ha ospitato gloriosi cenacoli letterari ed
i suoi saloni furono affrescati in pieno Settecento dai più famosi pittori
del tempo, da Giacomo del Po a Giacinto Diano, da Fedele Fischetti a Pietro
Bardellino. Sede anche di una ricca pinacoteca, quando fu abitato dal
principe di Francavilla, possiede ancor oggi alle sue spalle,
miracolosamente intatti, degli splendidi giardini, oasi di pace e
tranquillità per pochi fortunati non toccati dalla devastante colata di
cemento, che ha cambiato il volto della nostra Napoli. Via Chiaia sfocia
infine nel largo Santa Caterina, che prende il nome da una chiesa del
Seicento, unanimemente riconosciuta come la più aristocratica della città. A
piazza dei Martiri vi è uno dei locali più a la page del centro: la
Caffetteria, galeotto luogo di incontri più o meno ravvicinati tra giovani e
meno giovani, dove possono gustarsi le specialità più raffinate della
pasticceria nostrana. Il nome della piazza deriva dal monumento ai martiri
per la libertà che fu eretto nel secolo scorso. I quattro caratteristici
leoni alla base della colonna, frutto del lavoro di altrettanti scultori,
vogliono ricordare episodi gloriosi della nostra storia legati ad eventi
rivoluzionari: il leone morente la rivolta del 1799, il leone ferito che si
volge indietro a mordere la spada quella del 1820, il leone indomito la
rivolta del 1848, quello inferocito gli eventi del 1860. Sulla piazza si
affacciano importanti palazzi tra cui il più antico fu acquistato ai primi
del Settecento da Baldassarre di Partanna, da cui prese il nome che conserva
anche oggi, marito della bellissima Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia,
che lo cornificava con il giovane re Ferdinando IV, di cui divenne in
seguito moglie morganatica, dopo che il marito tolse il fastidio morendo. La
duchessa come è noto amava ricevere qualche regalino dai suoi amanti; la
Floridiana al Vomero con la vicina villa Lucia furono per l’appunto
l’oggetto di uno di questi presenti, che il re elargì alla sua bella per
ringraziarla delle sue arti maliarde. Breve ma elegantissima via Calabritto
prende il nome dalla famiglia omonima proprietaria del fastoso palazzo ad
angolo; essa conduce a piazza Vittoria che ci rammenta il più grande
successo delle armi cristiane sugli infedeli: la battaglia navale di Lepanto
combattuta nel 1571. Nella piazza, dedicata a Santa Maria della Vittoria, fu
fatto costruire a perenne ricordo del grande evento un tempio da don
Giovanna d’Austria, figlia del capitano vincitore dei turchi. In epoca
successiva una turgida colonna, proveniente dai reperti archeologici di
epoca romana scavati in via Anticaglia fu posta su di un basamento
ottocentesco e funge da monumento a ricordo di tutti i caduti del mare, e
mai collocazione fu più felice di questa, in prossimità e quasi baciata
dalle rassicuranti onde del Tirreno. Fino ad alcuni decenni fa nella piazza
si trovava un celebre ritrovo che fu ribattezzato dai suoi soci il
Caffettuccio, nel quale si riuniva la jeunesse dorè dell’epoca, una sorta di
Caffè Greco napoletano che rivaleggiò a lungo col più celebre Gambrinus, il
quale all’epoca occupava una superficie molte volte piùampia dell’attuale.
A piazza Vittoria ha sede uno di quei negozi grazie al quale il nome di
Napoli fa più volte il giro del mondo: la bottega di Marinella, creatore
delle originalissime cravatte ricercate dai potenti della terra da Clinton
ad Eltsin, da Agnelli a Berlusconi. Per gli amanti dell’antiquariato e
soprattutto per i raffinati collezionisti di pittura napoletana una attenta
visita a Napoli Nobilissima è improcrastinabile. Non parliamo certamente
dell’autorevole rivista fondata da Benedetto Croce, bensì dell’accorsato
negozio che Vincenzo Porcini gestisce con rara competenza da molti anni
coadiuvato dai due figlioli Dario ed Ivana, che si sono affacciati al mondo
mercantile soltanto al termine di adeguati studi universitari. In
particolare la signorina Ivana cura il settore delle gouaches e delle
stampe. Il secolo d’oro della pittura napoletana: il Seicento, è
rappresentato da molte opere nelle vetrine e nelle eleganti sale della
galleria Napoli Nobilissima ed é facile poter ammirare opere di artisti
sommi, che hanno fatto la gloria delle nostre arti figurative, da
Battistello a Stanzione, da Preti a Giordano, da Solimena a tanti altri
autori più o meno conosciuti. I prezzi sono più che abbordabili, tenendo
conto della qualità e della rarità delle opere proposte, tra le quali
abbiamo scelto un gruppo di vere e proprie chicche da intenditore che
illustriamo brevemente. Un imponente ribalta napoletana lastronata in ebano
rosa e viola collocabile a metà del Settecento. Un gruppo pastorale
rarissimo rappresentante la regina negra in portantina che seguiva i re
Magi, citata in molti testi antichi e ricordata anche da Roberto de Simone.
L’autore della composizione è Lorenzo Mosca, militare borbonico che divorato
da una grande passione divenne scultore di figure presepiali, realizzando
superbi esemplari. A tale proposito vogliamo sottolineare che l’attività del
signor Porcini nel settore presepiale ha una lunga e notissima tradizione.
Un ritratto di re Carlo III ed un altro con il volto del famigerato
Ferdinando IV da giovane, prima ricordato per le sue imprese... Queste due
tele, in grado di nobilitare le pareti di qualsiasi salotto costituiscono il
capolavoro del Liani, pittore specializzato nei suoi ritratti a cogliere il
carattere della persona raffigurata, che spesso egli sottoponeva ad una
preventiva severa introspezione psicologica. Una spettacolare natura morta,
tutta giocata su colori scuri e freddi, frutto del prezioso pennello di
Adriaen Van Utrecht, uno dei pittori fiamminghi più celebri, le cui opere
sono conservate nei più importanti musei del mondo da Amsterdam a
Leningrado, da Parigi a Madrid, da Stoccolma a Vienna. E dulcis in fundo
un’accattivante Lucrezia di Massimo Stanzione pronta a trafiggersi il seno
con il pugnale, tra lo squillore di un lucente impasto cromatico che ha
fatto la cifra stilistica del sommo artista. La leggenda di Lucrezia è a
tutti nota: la giovane nobildonna romana fu costretta con la violenza a
soggiacere alle turpi voglie del figlio di Tarquinio il Superbo.
All’indomani ella corse ad informare dell’accaduto il padre ed il marito e
non potendo sopravvivere all’onta ricevuta preferì morire trafiggendosi il
petto. Il ricordo di una storia così edificante e la vista di un seno così
invitante, fecero senza dubbio la felicità di qualche smaliziato
collezionista seicentesco; il sottile fascino erotico che promana invariato
da questa nobile figura può ancora deliziare la vista di un collezionista
moderno, dopo aver sfidato indenne il trascorrere del tempo, traghettando la
gioia dei suoi colori nel nuovo millennio.
La solitaria protesta della tammurriata
C’era una volta il passato, quando era la memoria a guidare il presente, una
memoria collettiva che parlava la lingua dei morti, ma era una parlata viva
e tonificante, depositata presso genuini rappresentanti di una cultura
millenaria, oggi quasi tutti scomparsi. Essi possedevano l’interiorità
religiosa, per rappresentare autorevolmente quei canti, quelle musiche, quei
riti con gesti immutati nei secoli. Erano virtuosi del tamburo e del canto,
intriso di sacerdotale sacralità, grazie ai quali prendeva corpo quella
liturgia di dialoghi con un linguaggio fuori dal tempo, in cui tutti si
riconoscevano in un perenne presente metastorico, che inglobava il passato
mentre si proiettava nel futuro.
Oggi nelle date canoniche sopravvivono larve di antiche feste, gestite
spesso dalle pro loco o da organizzazioni pseudo culturali di carattere
politico, nelle quali danze e canti sono totalmente svuotati di forma e di
contenuto e scandalizzano gli anziani abituati a ben altre interpretazioni.
Manca del tutto quel vissuto di religiosità che possa restituire al
linguaggio sonoro una purezza affinché si produca una socializzazione della
musica. Un canto rituale che simboleggi invocazioni di grazia, canti lirici
di vendemmia e cerimonie di morte.
Capita in alcune cittadine della provincia di vedere giovani borghesi muniti
di tamburo e studentesse abbigliate con lunghe gonne esotiche esibirsi in
balli tradizionali e critici improvvisati parlare a sproposito di energia,
di solarità, di mantra e di riti liberatori, come se quegli ectoplasmi di
tamorre e tarantelle non fossero l’espressione di uno squallido perbenismo
di matrice sinistroide.
Nelle principali piazze dei decumani a Napoli è frequente vedere gruppi di
giovani malvestiti agitare insensatamente sonagli e tamburi, mentre le
ragazze dimenare le braccia e dinoccolare i polsi per scuotere nacchere,
scimmiottando impudicamente le contadine, senza avvedersi di essere del
tutto prive di quell’aristocrazia che caratterizzava la tradizionale
gestualità delle classi rurali.
Sono tutte persone che non hanno mai respirato l’atmosfera carica di forze
che permeava le vecchie feste di paese, né hanno ascoltato quelle preziose
registrazioni che Roberto De Simone ha raccolto a futura memoria, cercando
di preservare per le nuove generazioni un patrimonio in frantumi. Si tratta
di preziosi nastri incisi nel momento culminante del rito, magari privi di
perfezione tecnica, ma ricchi di una coralità prorompente, di una verità
espressiva, di uno spessore religioso rappresentato al massimo grado.
Per gli anni a venire queste registrazioni costituiranno la celebrazione
dell’assenza e fungeranno da cartina al tornasole per evidenziare le
innumerevoli mistificazioni e contraddizioni operate in nome di un mondo
estinto per sempre.
Quel piccolo mondo antico e rituale, che in passato costituiva il tessuto
vivo e palpitante di un popolo ed oggi è tristemente evocato nelle
dilanianti note delle tammurriate, che rappresentano una celebrazione
dell’assenza, un pozzo senza fondo della memoria collettiva, un requiem
della cultura più genuina, appassionato quanto dolente.
La tammurriata è stata sempre la regina tra le danze tradizionali della
Campania, ballata in una vasta zona dalla bassa valle del Volturno all’area
circumvesuviana, fino all’agro nocerino sarnese ed alla costiera amalfitana.
In una più ampia classificazione dei balli etnici italiani, la tammuriata va
inclusa nella famiglia della tarantella meridionale, di cui costituisce uno
specifico e originale sottogruppo basato sul ritmo rigidamente binario,
sulla partecipazione al ballo esclusivamente in coppia (mista e non), su
un'intensa dinamica delle braccia, sull'uso delle nacchere che, oltre a
fornire il ritmo di base, obbliga ad una particolare cinetica di mani,
braccia e busto. Il ballo trae il nome dal fondamentale ritmo binario che
viene marcato con il tamburo (detto anche tammorra). La "tammorra" è un
grande tamburo a cornice dipinta con sonagli di latta, con possibile
accessorio addobbo di nastri o pitture policrome e campanelli.
Altri strumenti possono accompagnare lo strumento solista, cioè la voce
umana, maschile o femminile, modulata secondo tecniche e stili particolari.
Questi strumenti sono: il putipù, il triccheballacche, lo scetavajasse.
Tammurriata nera è una canzone napoletana scritta nel 1944 da E. A. Mario
(musica) ed Edoardo Nicolardi e racconta la storia di una donna che mette al
mondo un bimbo di colore, concepito con un soldato durante l'occupazione
americana.
(Napoletano)
« È nato nu criaturo, è nato niro,
e 'a mamma 'o chiamma Giro »
(Italiano)
« È nato un bambino, è nato nero,
e la mamma lo chiama Ciro »
La donna tuttavia accetta il figlio, forte del proprio amore materno.
L'intera vicenda è raccontata da una specie di coro greco, che ironizza sul
fatto che per quanto la donna rigiri il figlio (Seh, vota e gira, seh seh,
gira e vota, seh), o gli affibbi nomi italiani come Ciccio, Antonio, Peppe o
Ciro (ca tu 'o chiamme Ciccio o 'Ntuono, ca tu 'o chiamme Peppe o gGiro), il
bambino che ha partorito è comunque nero (chillo 'o fatto è niro niro, niro
niro comm'a cche).
La nascita della canzone prende ispirazione da un episodio accaduto a
Nicolardi, l’autore, che vide un certo trambusto nel reparto maternità
presso l'ospedale di Napoli Loreto Mare, di cui era dirigente
amministrativo. Una giovane aveva dato alla luce infatti un bambino di
colore, e di fatto non era l'unica in quel periodo ad essere rimasta incinta
dei soldati afro americani.
Tale episodio rappresentava una vera e propria svolta epocale per la società
napoletana ed italiana, e Nicolardi, già autore di canzoni napoletane di un
certo successo, fra cui la famosa Voce 'e notte, insieme all'amico e
consuocero, il musicista E. A. Mario, autore fra l'altro della Leggenda del
Piave, scrissero di getto Tammurriata nera.
Fra i primi interpreti a rendere celebre Tammurriata nera vi fu Renato
Carosone, che contribuì a far diventare famosa la canzone in tutta Italia,
rendendola parte del proprio repetorio. A livello discografico, però, la
versione più ricordata di Tammurriata nera è quella registrata nel 1974
dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, che rimase nella hit parade dei
singoli più venduti in Italia per diverse settimane.Fra gli altri interpreti
ad aver cantato una propria versione del brano si ricordano Angela Luce,
Marina Pagano, Vera Nandi, Peppe Barra, Teresa De Sio e Gabriella Ferri.
La cintura degli ipermercati e dei centri commerciali
Un nuovo, ennesimo, faraonico centro commerciale è stato aperto alle porte
di Napoli, con il solito codazzo di potenti all’inaugurazione e con il
consueto plauso dei mass media, amplificato dal progetto di Renzo Piano e
dalla benedizione del premier.
Stranamente in Campania, mentre le industrie e le poche attività produttive
languono in stato comatoso, i templi del consumismo fioriscono senza sosta.
Non si capisce da dove dovrebbero provenire i soldi da spendere se non si
crea più ricchezza, ma la civiltà dei consumi pare abbia trovato la
soluzione attraverso l’abuso perverso del credito e della rateizzazione,
convincendo lo stolto consumatore che l’importante è acquistare anche cose
inutili, a pagare vi è sempre tempo e se non pagherà lui, pagherà qualche
altro, attraverso la gigantesca truffa dei derivati.
Si glorificano i nuovi posti di lavoro indotti dai nuovi centri commerciali,
ma nessuno calcola la chiusura continua di negozi e botteghe con
disoccupazione indotta in ragione di numeri dieci volte superiori.
E mentre il traffico si strozza sulle autostrade alle porte di Napoli e nei
fine settimana si paralizza completamente, le vie del centro si
desertificano, vanificando le occasioni di incontro e stravolgendo la stessa
filosofia con cui sono state costruite le nostre città, senza che il
consumatore ne tragga un reale vantaggio, a differenza di questi colossi
della distribuzione, spesso di proprietà straniera e sempre collusi con il
potere politico che elargisce le licenze e la camorra che gestisce i
terreni.
Il copione della nascita di questi megacentri commerciali è sempre lo
stesso: una multinazionale, incurante dell’effetto devastante sulle attività
commerciali medio piccole della zona, prende contatto con i politici locali,
i quali si rivolgono alla camorra per procurare i terreni, precedentemente
dediti all’agricoltura, costringendo alla vendita i legittimi proprietari.
Identificato il luogo dove dovrà sorgere la struttura, cadono come d’incanto
i vincoli paesaggistici ed urbanistici, se presenti, mentre le licenze di
edificazione vengono concesse a tempo di record. I ricavi della vendita dei
prodotti, quasi tutti comperati in Cina, sfuggirà alla tassazione, perché la
sede legale della società si trova in uno dei tanti paradisi fiscali, nati
come funghi da quando il capitalismo, perso ogni volto umano, è divenuto
selvaggio. Per i brand più affermati il rischio viene trasferito ad un
commerciante locale, il quale viene coinvolto con la formula del franchising.
A fronte di questa spoliazione di reddito del territorio, la multinazionale,
assume, con contratti capestro a termine, un po’ di personale indigeno,
indicato dai mammasantissimi, i quali devono procurare ai politici di
riferimento un cospicuo serbatoio di voti per le frequenti competizioni
elettorali.
Negli ultimi anni l’entroterra napoletano, una volta regno incontrastato di
broccoli e pomodori, è stato invaso da un proliferare sconsiderato di centri
commerciali sempre più grandi, dal Campania al Polo della Qualità, dal Tarì
a Vulcano buono, uno degli ultimi ad essere edificato.
Sono costruzioni imponenti, che dominano le campagne e si collocano tra un
intreccio inestricabile di sopraelevate, le quali smistano in maniera
caotica il traffico in tutte le direzioni. Se dovessimo ascoltare i cartelli
indicanti infinite località, da città della Puglia a località più o meno
note del salernitano e del beneventano ci troviamo nel cuore palpitante
delle regione, crocevia di merci e di consumatori, luogo di passatempo e di
passeggiate, in grado di sostituire in pieno le funzioni dell’antica Agorà.
Ed infatti questi enormi spazi, serviti da parcheggi grandiosi, sono un
pullulare, oltre che di negozi, anche di fast food e ristoranti, multisale
ed american bar, molto amati dai giovani che vi trascorrono, soprattutto nel
fine settimana, gran parte del tempo libero.
La confusione regna sovrana e fa somigliare questi spazi ultramoderni ai
tradizionali bazar arabi, dove si commerciavano, tra le urla dei venditori,
merci provenienti spesso da lontano.
Ad un occhio attento si percepisce subito la stridente differenza tra questi
non luoghi, enormi superfici senza storia e senza anima, partoriti dalla
modernità e le antiche piazze cittadine, dove tutti si conoscevano e si
passeggiava vedendo le vetrine.
Oggi questi centri commerciali, più che vendere, in un periodo di crisi
economica, sono affollati da torme di giovanissimi: ragazzine di 14 – 15 con
abiti succinti e barocchi, quasi tutte over size, con addomi batraciani che
fuoriescono dai jeans a vita bassa e le più bone con pantaloni trasparenti
che, senza lasciare nulla alla fantasia, sono uno sfacciato trionfo di
mutandine tanga, mentre i ragazzi, di poco più grandi, sfoggiano camice
sgargianti e tagli di capelli alla Hamsik o quanto meno alla selvaggia. Le
fanciulle amano parlare ad alta voce per farsi notare, i maschi viceversa
gesticolano silenziosi, indicandosi le prede più appetitose da puntare. Si
muovono incessantemente per ore, facendo la spola dal cinema ai bar più
frequentati, senza mai sedersi e senza consumare, al massimo il più
economico dei gelati.
Provengono quasi tutti dalla provincia ed i loro genitori si sentono sicuri,
perché ritengono questi faraonici centri commerciali una zona off limit per
scippi ed aggressioni; spesso le mamme accompagnano i figliuoli nelle prime
ore del pomeriggio e li vengono a prelevare a notte fonda.
I giovani si recano volentieri in questi templi della modernità, in grado di
omologare gusti e tendenze e far somigliare, nell’abbigliamento e nelle
scelte consumistiche, europei ed americani, giapponesi e sud coreani, ma
credo che solo nell’hinterland napoletano gli esercenti di tavole calde e
bar abbiano avuto l’idea di chiamare Arapaho un panino imbottito di spezie o
un piatto di pasta Don Peppe o malommo ed una pizza a taglio multisapori Re
di denaro.
Un museo per Totò, Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non
più
Principe del sorriso sì, Altezza imperiale da oggi non più. Un libro su
Napoli e la napoletanità che non dedichi un capitolo a Totò non si può
nemmeno immaginare, ma su di lui sono stati scritti decine di volumi, per
cui è difficile aggiungere qualcosa di originale.
Faremo tesoro di alcune interviste che abbiamo avuto modo di fare alcuni
anni fa alla figlia e ad un cugino del grande artista per parlare del museo
del quale da anni, ad ogni tornata elettorale, si annuncia l’apertura e
della presunta nobiltà del principe, sulla quale possiamo presentare
documenti decisi che dimostrano che si tratta di uno scartiloffio.
Negli ultimi giorni le pagine dei quotidiani napoletani si sono infittite di
altalenanti notizie sulla casa natale di Totò che cambiava proprietario,
mettendo a repentaglio il destino di due anziani coniugi ultraottuagenari,
da decenni custodi fedeli ed a richiesta dispensatori di memorie sui primi
vagiti ed i primissimi anni dell’immortale attore. Si sono susseguiti
innumerevoli colpi di scena, quali la scoperta anagrafica, ottenuta
compulsando antichi archivi, che l’abitazione oggetto della diatriba, sita
in via Santa Maria Antesecula 109 nel popolare rione Sanità, non era forse
il vero luogo di nascita del principe della risata, bensì l’evento sarebbe
avvenuto nel palazzo adiacente, oppure che i nuovi proprietari, dopo un
sogno premonitore, erano intenzionati a farne un Vittoriale di rimembranze.
Tanto casino sui giornali ha dato come sempre l’occasione alle autorità
politiche di occupare la scena, imponendo tardivi vincoli di destinazione
alla povera casetta o blaterando vanamente sull’imminente apertura del museo
dedicato ad Antonio De Curtis nello storico palazzo dello Spagnolo. Apertura
della quale da anni si parla come prossima in comunicati stampa diramati a
gara ad ogni ricorrenza dal Comune e dalla Regione, ridondanti di paroloni,
ma vuoti come consuetudine di pragmatismo.
A tal proposito abbiamo voluto sapere come realmente sta la situazione dalla
viva voce della figlia dell’artista, la quale ci ha concesso un’intervista:
“E’ tutta colpa di un cesso”, così ha esordito la signora Liliana in un
romanesco stretto e cacofonico lontano mille miglia dalle sonorità
onomatopeiche del nostro vernacolo.
“Un cesso?”. “Certo, il museo si trova agli ultimi piani del palazzo ed è
perciò necessario un ascensore; a tale scopo ne ho fatto approntare la
tromba già da tempo, ma mentre i mesi e gli anni passano per le lungaggini
burocratiche un inquilino del palazzo ha deciso di costruirvi abusivamente
all’interno un cesso. Cose che capitano solo a Napoli”
“E’ fiduciosa nell’inaugurazione autunnale?”
“Lo spero con i dovuti scongiuri e quando aprirà io sarò in prima fila
nell’organizzazione con seminari, dibattiti ed incontri con i giovani. Sarà
un museo molto vivo e Totò sarà contento”
“Si riuscirà a riempire tutti i locali?”
“Certamente c’è molto materiale, sarà anche ricostruita la stanza dove
nacque mio padre”
Da parte nostra speriamo che a ciò che metterà a disposizione la signora De
Curtis, si riuscirà ad aggiungere il contenuto di quel famoso baule , oggi
proprietà del figlio di un cugino dell’ attore, da poco scomparso, un certo
Federico Clemente. Il baule, conservato a Pollenatrocchia è ritenuto poco
meno di un reliquario, infatti la richiesta del proprietario è di 800
milioni delle vecchie lire, una cifra cospicua per la quale bisogna sperare
nell’intervento delle Istituzioni.Quando tutto sarà pronto il museo
costituirà un’attrazione molto forte per i napoletani e per i forestieri,
per cui si tratterà pur sempre di un buon investimento.
Questi episodi di attualità invitano a parlare di nuovo di Totò, una figura
ormai entrata di diritto nella leggenda, ma dopo i fiumi d’inchiostro
versati sull’argomento in decine di libri che hanno saturato da tempo le
scansie delle librerie degli appassionati, non è lecito scriverne ancora se
non si è in grado di aggiungere qualche novità. Ed è quello che ci
proponiamo di fare grazie all’amicizia che nutriamo da anni con un cugino
dell’indimenticabile attore: il maestro Federico De Curtis.
Prima di discutere della nobiltà dell’artista vorremmo spendere quache
parola su un aspetto trascurato dell’arte di Totò: il surrealismo.
Il genio di Totò è universale ed incommensurabile, ma la sua fama è sempre
stata circoscritta ai confini patri, colpa di una critica miope, quando
l’attore era in attività, di traduzioni e doppiaggi a dir poco deleteri e di
una distribuzione all’estero maldestra ed approssimativa.
Negli ultimi anni grandi rassegne in Europa ed oltreoceano sui suoi film più
celebri hanno in parte colmato questa grave lacuna, ma forse è troppo tardi
per portare in tutto il mondo il suo umorismo straripante, la sua figura
dinoccoluta, la sua maschera comica e tragica allo stesso tempo, degna della
fama e dell’immortalità di un archetipo greco. Il ritmo dei suoi film mostra
i segni del tempo, né più né meno della produzione di mitici personaggi come
Chaplin o Gianni e Pinotto ed è un peccato che dalla sua immutata vitalità
possano continuare a trarre linfa vitale solo gli Italiani e pochi altri.
Il Totò surreale che si esprime già nei suoi film più antichi e nel suo
teatro, del quale purtroppo non è rimasta che una labile traccia, è stata
sottovalutata anche dalla critica più attenta. Nei trattati di
cinematografia infatti si parla soltanto di Bunuel e delle sue impeccabili
creazioni e non vi è un solo rigo sul funambolismo verbale di Totò, che
avrebbe fatto impazzire i fondatori del surrealismo, i quali avrebbero
sicuramente incluso qualcuna delle sue battute nel Manifesto del nuovo
verbo.
I due orfanelli, uno dei suoi primi film, in coppia con Campanini, ne è la
lampante dimostrazione. L’altro giorno è stato messo in onda dalla
televisione ed ho potuto gustarlo credo per la centesima volta. Quelle sue
battute al fulmicotone, immerse in un’atmosfera onirica, cariche di antica
saggezza invitano alla meditazione ed acquistano smalto ed attualità col
passare del tempo. Sono degne di un’antologia da studiare in tutte le
scuole. Ne rammento qualcuna per la gioia della sterminata platea dei suoi
ammiratori:
Ai generosi cavalieri corsi a salvarlo nelle vesti di Napoleone.
“Ma quando mai coloro che provocano le guerre corrono dei pericoli”
All’amico che gli manifestava stupore nel constatare che i cattivi vengono
premiati ed i buoni vengono castigati.
“Ma di cosa ti preoccupi la vita è un sogno”
Ed infine all’abate Faria che lo invitava a scappare
“Ma perchè debbo scappare, sono innocente”
“Proprio perché sei innocente devi avere paura della giustizia!”
Una frase scultorea che ho fatto mia di recente, mentre moderavo la
presentazione di un libro in presenza di magistrati di altissimo rango e che
mi ha permesso di fare un figurone.
Ma ritorniamo al racconto del cugino di Totò, il quale con squisita
gentilezza ci ha fornito una serie di notizie che, integrate da alcune
ricerche genealogiche, ci permette oggi di escludere categoricamente la
nobiltà tanto agognata da Totò, perché lo riscattava da un triste passato di
figlio di N.N.
Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commneno Porfirogenito Gagliardi de
Curtis di Bisanzio, Altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro
Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e d’Illiria, principe di
Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania,
del Peloponneso, conte e duca di Drivasto e di Durazzo, così amava definirsi
il grande Totò, il quale pur di fregiarsi di questi altisonanti titoli
nobiliari spese una fortuna, ma senza rimpianti.
Questa sfilza di titoli, a cui tanto teneva il Principe del sorriso non
furono altro che il frutto di un raggiro ad opera di un tal Pellicani,
esperto di araldica oggi ottantenne ma ancora attivo con studio a Roma e a
Milano.
Il primo a sentire puzza di bruciato e odore di truffa fu Indro Montanelli e
lo esplicitò in un suo articolo, ma all’epoca non vi erano le prove
inoppugnabili dello scartiloffio.
Oggi viceversa sono disponibili due ben distinti alberi genealogici, uno di
Totò e della sua famiglia e l’altro di un tal Camillo de Curtis, un
gentiluomo di settantanove anni, da anni residente a Caracas, legittimo
erede dei pomposi titoli nobiliari, assunti in epoca remota da un suo avo
tale Gaspare de Curtis.
Il Pellicani, che tra l’altro, come ci ha assicurato il colonnello Bellati,
è stato per un periodo ospite dello Stato…creò, secondo quanto riferitoci
dal tenore De Curtis, che da decenni s’interessa alla vicenda, documenti
dubbi, quali una sentenza del Tribunale di Avezzano emessa nel 1914, pochi
mesi prima che un cataclisma devastasse la città, distruggendo la cittadella
giudiziaria ed altre due sentenze, l’una del 1945, l’altra del 1946, del
Tribunale di Napoli, oggi conservate all’Archivio di Stato, completamente
diverse nella grafia da tutte le altre carte contenute nel faldone ed
inoltre pare combinò artatamente le due discendenze carpendo l’ingenuità del
grande artista che, una volta riconosciuta la sua preclara discendenza, fino
alla morte amò distinguere la maschera, irriverente scoppiettante e
canzonatoria, dal Nobile, gentile, educato e distaccato dagli eventi e dalle
passioni. Pubblichiamo per la prima volta questi due alberi genealogici, uno
dei quali indagato fino al 1750 e dal loro esame è incontrovertibile che il
marchese Camillo de Curtis appartiene ad una diversa schiatta.
Ciò che abbiamo riferito sulla base delle confidenze del maestro Federico,
non sposta naturalmente una virgola nella straripante venerazione con cui
legioni di estimatori ricordano il grande, inimitabile, immortale artista e
tra questi ai primi posti, teniamo a precisare a scanso di equivoci, sta il
sottoscritto, il quale ha rivisto ogni film di Totò non meno di quaranta -
cinquanta volte ed è in grado di ripeterne a memoria qualsiasi battuta,
tutte le poesie e tutte le canzoni. Ma a proposito di canzoni, trovandoci,
vogliamo rendere pubbliche altre confidenze forniteci gentilmente dal
parente dell’attore, cugino di secondo grado, il quale, a riguardo
dell’indimenticabile canzone “Malafemmina” tiene a precisare che la stessa
fu dedicata alla moglie Diana, ancora oggi vivente e non a Silvana Pampanini,
che l’idea della melodia Totò la prese da una analoga canzone dello zio,
padre del maestro Federico, ed infine che a ritoccare musica e parole misero
mano il maestro Bonagura e Giacomo Rondinella. E per terminare anche la
famosa “Livella”si mormora fosse stata corretta…da Mario Stefanile.
Concludiamo un articolo, apparentemente denigratorio, ma rispettoso della
verità storica con un inno all’arte di Totò, sublime nel senso più puro,
come inteso da Nietzsche, infatti il grande pensatore tedesco riteneva che
il sublime si raggiungesse soltanto quando la comicità della commedia si
congiungeva al dramma della tragedia.
E siamo inoltre certi che Totò dalla tomba se leggesse ciò che abbiamo
scritto saprebbe commentare le nostre parole se non con una pernacchia
almeno con un perentorio:”Ma ci facciano il piacere.”
Il flagello ubiquitario della droga
Da tempo il grande mercato all’aperto di Scampia è divenuto un supermarket
della droga, con prezzi imbattibili e con in vendita anche il kit per
consumare il loco la dose; un tempio dello spaccio in grado di attirare
clientela da tutta Italia, tossici e pusher, che soprattutto nei fine
settimana raggiungono la città da Milano e da Firenze, da Bologna e da
Genova, da Bari e da Reggio Calabria.
Molti approfittano del viaggio per ubriacarsi in qualche locale del centro,
prima di recarsi nelle piazze dello spaccio a fare rifornimento per i
consumi di qualche settimana.
Le forze dell’ordine hanno scoperto il flusso turistico e gli arresti sono
divenuti giornalieri senza però minimamente intaccare un giro di affari per
la criminalità organizzata nell’ordine di milioni di euro al giorno.
A Capodanno arrivarono in undici dalla Toscana per festeggiare la
ricorrenza, sballandosi all’ombra delle Vele, alloggiavano in hotel di
lusso, insospettabili, mentre avevano ognuno di loro 40 grammi di
stupefacenti tra crack e cocaina, decisi a continuare a drogarsi a casa loro
nelle settimane successive.
I motivi del successo sono legati ai prezzi concorrenziali, ad una buona
qualità del prodotto, disponibile in ogni angolo del famigerato quartiere,
il quale fino a pochi mesi fa vantava addirittura una dettagliata mappatura
su Google Earth.
Da sempre per colpa di una politica miope e suicida sono stati trascurati, e
molti versano in un penoso abbandono, dalla Piscina Mirabilis agli stessi
scavi archeologici di Pompei, i siti artistici e le località in grado di
attirare i turisti, monumenti unici al mondo e delittuosamente lasciati
cadere in rovina. Nello stesso tempo hanno preso piede alcune umilianti
forme di turismo alternativo, che vanno dalla gita in provincia a
meravigliarsi per le strade intasate dalla monnezza, con una sosta per
fotografare cumuli di rifiuti e bambini che vi giocano allegramente,
preferite dagli stranieri e dai settentrionali, fino alle incursioni nella
più grande piazza europea dello spaccio per acquistare un sostanzioso
quantitativo di droga da consumare poi con comodo nelle stanze di un albergo
del lungomare. Sono tour del degrado non dissimili da quelli praticati nelle
città del terzo mondo, lì uno sguardo veloce alle favelas brasiliane o agli
slums africani, da noi il brivido dell’immersione per qualche ora nel cuore
di Gomorra. Questa moda è la cartina al tornasole di una trasformazione
radicale dell’immaginario della città, da pizza e mandolini, monumenti ed
una popolazione allegra ed affabile, a terra di nessuno senza speranza. Come
una Thailandia mediterranea, come una Amsterdam del sud, una città dove
prolifera divertimento proibito ed illegalità.
Ma l’aspetto più drammatico è costituito dai protagonisti di queste gite
disperate, da un lato ragazzi con il portafoglio pieno provenienti da tutta
Italia per acquistare droghe e sballarsi, dall’altro giovani napoletani che
vedono nello spaccio l’unica fonte per sopravvivere. Sono due facce della
stessa medaglia, di una società profondamente malata, senza regole e senza
guida, in cui le giovani generazioni non trovano collocazione e precipitano
volentieri nel baratro dell’autodistruzione.
La città somiglia sinistramente al grande bordello che era diventata negli
anni Sessanta, quando continuamente nel porto sostavano le grandi navi della
flotta americana, che scaricavano migliaia di marinai in preda ad astinenza
alcolica e sessuale, per i quali Napoli era una città del vizio, ne più né
meno che Saigon o Manila.
Gli arrivi dei nuovi carichi da sniffare sono salutati dal fragore dei
fuochi d’artificio che illuminano la notte; sparano a Scampia, alla Sanità,
ai Quartieri e non certo per festeggiare compleanni o matrimoni, unica
eccazione l’uscita da Poggioreale di un boss.
Napoli, come sempre fa da battistrada nell’abisso della perversione ed
inaugura una sorta di turismo all’incontrario, una pallida risorsa per
un’economia immersa nel vortice della crisi, non ad ammirare bellezze
artistiche o paesaggi ragguardevoli, che pure sono presenti in misura
cospicua, bensì per scendere nei gironi infernali dell’abiezione e del
degrado spinto al massimo grado, un originale safari attraverso la metropoli
dominata dalla camorra sostenibile, con le stigmate dell’irreversibilità.
Se ci trasferiamo nei quartieri bene, ad esempio a Chiaia, il panorama è
completamente diverso con il consumo di cocaina che rappresenta il più
preoccupante fenomeno di massa sviluppatosi negli ultimi anni, interessante
tutte le classi sociali, l’unica moda, assieme al tifo per la squadra del
Napoli, in grado di tenere legate le diverse anime della città.
La coca che circola a Chiaia o a Posillipo è di qualità superiore rispetto a
quella che è possibile acquistare per pochi euro nelle piazze dello spaccio
di Secondigliano o di Scampia; è meno tagliata è costa di più. Inoltre se
sei un cliente abituale è anche possibile averla a domicilio dal puscher di
fiducia, come ha dimostrato una recente inchiesta che ha coinvolto
professionisti ed imprenditori tra i più noti, incluso un celebre
ginecologo, giustamente glorificato in un capitolo del libro, il quale
spesso se la faceva consegnare in clinica, prima di cominciare una seduta
operatoria.
Dietro questa abitudine nefasta vi sono giovani avvocati, figli di notabili,
industriali più o meno rampanti, abbronzati proprietari di barche, vecchi
rattusi dall’aria laida; tutti in movimento tra i baretti della zona alla
ricerca di una fanciulla da abbindolare con un sorso di rum ed una sniffata
di coca.
A questi figuri si aggiungono la ragazza di buona famiglia isterica, il vip
da strapazzo, il tossicomane perduto appena rientrato da un soggiorno in
comunità, l’alcolizzato cronico, tutti personaggi patetici abituati a calare
il panaro dal balcone ed a farsi consegnare dal bar all’angolo la dose
quotidiana di droga ed alcol.
E durante le ore della movida le sostanze tossiche scorrono a fiumi, non
solo polvere bianca, ma anche ectasy ed erbe varie, psicofarmaci ed
eccitanti, per sincerarsene, più che i periodi sequestri della polizia,
basta farsi un giro nei bagni dei locali in, che nel fine settimana
diventano lerci di sangue e catarro.
Sono ritrovi che aprono, chiudono, cambiano nome a ritmo frenetico, dietro
ai quali vi è la mano del racket e delle lavanderie di denaro sporco, che
intestano tutto a compiacenti teste di legno. Mentre ad impedire lo
svolgersi di una normale attività notturna come in tante altre città
europee, vi è l’ingombrante presenza di una microcriminalità invadente ed
ingovernabile per la stessa camorra, che va dall’inmancabile posteggiatore
abusivo arrogante, che nasconde una pistola nel cassonetto dell’immondizia,
alla moltitudine di muschilli pronti in gruppo serrato a catapultarsi sulla
prima borsa Prada o Louis Vuitton comparsa all’orizzonte.
A questa baraonda si aggiunge da anni una sorta di lotta di classe tra i
ragazzi delle periferie ed i figli della gente bene, etichettati da questa
sordida subburbia con l’epiteto di chiattilli, un universo di emarginati che
cerca di entrare a gamba tesa in un mondo di presunti privilegiati, che si
manifesta col tentativo di entrare nelle discoteche alla moda e provocare
risse. Sono sempre, quando gli omaccioni posti a presidiare l’ingresso non
riescono a prevenirle, le prepotenze di un gruppo numericamente superiore,
ma antropologicamente inferiore, verso singoli impauriti ed indifesi.
Un altro fenomeno di allarmante gravità è costituito dall’abuso di bevande
alcoliche tra i giovanissimi. Indagini recenti hanno evidenziato che nove
ragazzi su dieci consumano almeno un drink ed il 50% degli avventori che
esce dalle discoteche per fare ritorno a casa si mette alla guida con un
tasso di alcool nel sangue superiore al limite prescritto dal codice della
strada, mettendo in pericolo la propria e l’altrui vita. Una sciagurata
abitudine, da tempo divenuta uno stile di vita all’estero, che si sta
diffondendo a macchia d’olio tra le giovanissime generazioni senza che alcun
provvedimento riesca minimamente ad arginare.
Da Villa reale a Villa comunale
Ferdinando IV Borbone, quando ordinò nel 1778 all’architetto Carlo
Vanvitelli di ideare e costruire la Villa reale fu categorico: “Deve essere
una passeggiata da re”. Ed il Vanvitelli prese l’ordine alla lettera,
profondendo il massimo impegno nell’opera che, grazie all’indefesso lavoro
delle maestranze, fece nascere nella zona di Chiaia il Real passeggio, oggi
Villa comunale.
L’apertura al pubblico nel 1781 coincise con la fiera annuale, che prima si
teneva al Largo di palazzo, l’attuale piazza del Plebiscito e mostrò al
numeroso pubblico accorso un luogo da sogno, improntato al raffinato gusto
francese, rispettoso dei principi di simmetria e assialità prospettica
tipica dei giardini transalpini. A cagione di questa somiglianza i
napoletani più eruditi coniarono il vezzoso nomignolo di Tuiglieria a
ricordare i prestigiosi giardini parigini.
Essa accolse tra i suoi viali fontane ed opere d’arte, come le celeberrime
statue della Flora, dell’Ercole e del Toro Farnese, posto quest’ultimo nel
mezzo del vialone centrale, dove fece a lungo bella mostra di sé, fino a
quando venne sostituito dalla fontana con gran vasca di granito proveniente
dagli scavi di Paestum sorretta da quattro leoni, opera dell’architetto
Pietro Bianchi, e denominata amorevolmente dai napoletani “delle paparelle”.
La villa illuminata di notte costituì il più ricercato luogo di svago, di
divertimento e di tranquillo riposo per l’aristocrazia napoletana e solo per
essa, perché infatti l’ingresso era vietato ai servitori, ai poveri, agli
scalzi, ai malvestiti ed ai malintenzionati. Se queste regole severe fossero
in vigore ancora oggi la Villa comunale sarebbe una landa deserta.
Soltanto una volta l’anno, l’8 settembre, l’accesso era libero a tutta la
popolazione, che poteva assistere al pomposo corteo reale che si recava alla
chiesa di Piedigrotta.
Nel 1807 Giuseppe Bonaparte decise di prolungare il tracciato della villa,
le dimensioni aumentarono notevolmente e si creò un’area boschetto, mentre
anche nella zona vanvitelliana venivano sistemate numerose statue copiate da
originali romani, greci e rinascimentali dagli scultori Tommaso Solari e
Giovanni Violani.
Nel 1834 venne completato l’ultimo tratto della villa. Che per un tempo
assunse la denominazione di Villanova, ad opera del Gasse, il quale
raggiunse l’odierna piazza della Repubblica, seguendo l’ispirazione dei
giardini all’inglese. Negli stessi anni venne allestito un galoppatoio, che
contribuì a conferire un carattere internazionale ed aristocratico ai
giardini reali, che divennero comunali in epoca post unitaria, quando furono
eseguiti amplissimi interventi lungo il litorale con la costruzione di via
Caracciolo, che mutò la fisionomia originaria della villa, trasformata così
da passeggio reale ad insula parco chiusa tra due grosse arterie viarie.
Alla fine dell’800 risale la costruzione della stazione zoologica, un
classico edificio che richiama il carattere delle fabbriche rinascimentali
fiorentine.
L’acquario fu un’istituzione propugnata da Anton Dohrn, celebre scienziato,
convinto assertore delle teorie evoluzionistiche del Darwin. Essa non è
soltanto un’opera pregevolissima sotto il profilo scientifico, ma riveste
notevole interesse per la storia dell’arte, non solo napoletana ma europea,
perché costituisce il punto di coagulo di un gruppo di artisti stranieri:
Fiedler, Hildebrand ed il più noto Von Marèes, che realizzò i grandi
affreschi a tempera, ancora oggi perfettamente conservati “Scene marine ed
agresti di vita meridionale”. Un esempio diretto di pittura sviluppato
secondo cadenze del tutto inedite per la nostra cultura. L’acquario, dotato
della più ricca biblioteca scientifica del sud Italia, è uno dei più
importanti laboratori scientifici a livello internazionale.
Alla fine del secolo la villa fu arricchita da numerose strutture
architettoniche quali la Casina pompeiana utilizzata dalla società di Belle
arti e la grande Cassa armonica, stupenda struttura in vetro e ghisa,
preziosa testimonianza del Liberty partenopeo, tempio della musica,
costruita da Enrico Alvino in fondo al grande viale centrale, di fronte alla
severa statua di Giovan Battista Vico.
Il grande giardino ospita rare specie vegetali e splendidi e rigogliosi
esemplari di lecci, pini, palme, aruncarie ed eucalipti.
Nel corso del Novecento la villa è decaduta giorno dopo giorno. Priva di
recinzioni e di sorveglianza è divenuta, salvo durante il Ventennio, regno
incontrastato di perdigiorno e filonisti, con torme di scugnizzi sempre
pronte, con eguale solerzia al gioco del pallone, come ad infastidire i
tranquilli visitatori.
Il punto più basso lo si raggiunse durante l’occupazione anglo americana,
quando la villa, divenuta ostello di sbandati e terra di nessuno, fu a lungo
recintata con filo spinato per impedire alle tante sciagurate signorine di
appartarvisi per i loro turpi convegni.
Il recente recupero della villa è storia di oggi ed è uno dei meriti
dell’amministrazione comunale che, con formule sbrigative che pur hanno
fatto discutere, ha assegnato ad un celebre architetto del nord, Francesco
Mendini, il compito di restituire ai giardini un respiro ed una dimensione
europea.
La villa è stata così illuminata in maniera originale, le statue sono state
nettate(ma quanto resisteranno?) dalle scritte blasfeme e demenziali,
apposte dai nuovi barbari, le aiuole ridisegnate, le piante vecchie e malate
sostituite; inoltre sono stati predisposti parchi giochi ed eleganti
chioschi di generi di conforto. Oggi è possibile, grazie a questi benemeriti
interventi, passeggiare con serenità in un ambiente confortevole, beandosi
della vista del mare e perché no colloquiare con le memorie del nostro
passato, effigiate nelle tante statue, ritornate all’antico splendore, con
l’aiuto di un aureo ed economico libretto sull’argomento, scritto da un
valente studioso: il professor Nicola Della Monica.
Un esercito di puttane colorate nel regno dei casalesi
Da anni la popolazione di Napoli e provincia è supportata da un flusso
migratorio sempre più ampio e variegato e molti dei nuovi arrivi vengono con
l’intenzione di eleggere la nostra città a nuova patria; nello stesso tempo
aumentano i matrimoni misti e la prole che nascerà costituirà il napoletano
del domani, con il suo carico di tradizioni secolari, che andranno però a
mescolarsi con nuovi costumi provenienti da lontano.
Il cous cous farà concorrenza alla pizza ed ai maccheroni, i ritmi frenetici
dei tamburi africani si affiancheranno a chitarre e mandolini, vesti
sgargianti renderanno più allegro il nostro vestiario e, lo speriamo
vivamente, la minigonna soppianterà lo chador.
Diventa perciò necessario conoscerci ed accettarci, ma in questo il
napoletano con la sua antica saggezza e la sua proverbiale tolleranza non
accetta lezioni da nessuno.
Bisogna conoscere realtà a volte spiacevoli, dai campi rom alle innumerevoli
prostitute che presidiano gli stradoni della periferia e dell’hinterland.
Il centro di interruzione della gravidanza della clinica S. Anna di Caserta
costituisce un osservatorio privilegiato per comprendere a fondo la vita
miserabile delle innumerevoli prostitute di colore che animano strade,
cavalcavie e viottoli di campagna nel regno dei casalesi.
Conoscerle superficialmente è alla portata di tutti, basta percorrere, non
solo di sera, quando le micidiali fiamme dei copertoni di camion ne
segnalano da lontano la presenza, ma anche di giorno, il reticolo di vie
principali e secondarie che vanno da Licola a Castel Volturno ed oltre.
Sono per la maggior parte minorenni ed offrono le loro grazie senza che la
fantasia debba lavorare più di tanto; poppe e sederi vigorosi sono esposti
alla luce del giorno o riverberati dalle lingue di fiamme velenose, che
spargono al vento la micidiale diossina.
Sono particolarmente ricercate, non solo per i prezzi, competitivi rispetto
alle slave, spilungone dall’epidermide alabastrina e dai biondi capelli, ma
soprattutto perché non pretendono dal cliente l’uso del profilattico e tanti
sconsiderati, ignari dei rischi mortali dell’aids, corrono ad appagare il
loro oscuro quanto umido oggetto del desiderio tra le loro gambe nere, dando
libero sfogo alle loro lubriche pulsioni sessuali.
Il poter ascoltare le loro confidenze, come mi è capitato durante gli anni
di collaborazione che ho intrattenuto con la clinica casertana, permette di
scandagliare dettagliatamente la loro via crucis dalle foreste africane
all’asfalto metropolitano. Un lungo percorso intessuto da ogni genere di
reato: riduzione in schiavitù, stupro, protezione e sfruttamento della
prostituzione, adescamento, estorsione, minacce, violenze varie, evasione
fiscale ecc.. ecc.
Prima di entrare nel vivo del racconto mi sia concesso di accennare al
servizio offerto, in regime di assoluto monopolio, dalla suddetta,
benemerita casa di cura, unica struttura convenzionata per l’aborto a sud di
Roma, situazione di raro privilegio, che le permette di eseguire il 30 - 40%
delle interruzioni che si eseguono ogni anno in Campania, con una spesa per
il contribuente di svariati milioni di euro. Lo status di clandestina non è
naturalmente un ostacolo quando a pagare sono i contribuenti.
Ma torniamo alle foreste del Ghana, della Nigeria, della Costa d’Avorio,
luogo di provenienza di questo esercito di giovani donne, vendute dalle
famiglie per pochi denari a spietati trafficanti di schiave, i quali, le
conducono in Europa per via aerea, transitando per i paesi dell’est, dove i
controlli sono più aleatori e malleabili. Si tratta infatti di merce
pregiata che non può certo rischiare il viaggio sui barconi dalla costa
libica verso Lampedusa, per via della terrificante percentuale di
affondamenti.
Durante le ore del volo le ragazze vengono brutalmente sverginate e giunte a
terra consegnate ad aguzzini che continueranno per giorni a violentarle
senza ritegno durante il percorso tra boschi e montagne che le condurrà,
evitando imbarazzanti frontiere, a Trieste.
Lì vengono smistate nelle varie città dove vengono prese in consegna da una
maman, una sorta di magnaccio in gonnella, che le ha acquistate a scatola
chiusa.
Sono quindi sottoposte a riti ancestrali(vodoo), che sanciranno per sempre
obblighi di sudditanza assoluti verso questa megera, che pretenderà per il
loro riscatto una cifra di 50 - 100.000 euro a seconda dell’avvenenza della
fanciulla.
La maman la istruirà poi nelle arti erotiche, le stiperà in squallidi
appartamenti ed in pochi giorni saranno pronte per il marciapiede. Dovranno
versarle ogni mese non meno di 500 euro e circa il doppio sono pretesi dalla
malavita locale, proprietaria indiscussa del territorio, in barba alle leggi
dello Stato e saranno dislocate, a secondo della loro bellezza, dappertutto,
chi sulla provinciale, chi sotto un cavalcavia, mentre le meno attraenti
dovranno contentarsi di una poco frequentata stradina di campagna. Un vero e
proprio esercito del piacere nel regno dell’orrore e della violenza, nello
stato dei casalesi.
Le più fortunate, pagato il loro debito in 3 – 4 anni, potranno mantenere
nel lusso gli uomini delle quali si innamoreranno e mandare denaro alla
numerosa famiglia rimasta in patria, permettendo così ai genitori di aprirsi
un negozietto ed a qualche volenteroso fratello di studiare.
La maman è prodiga di consigli e le invita a prendere ogni giorno una dose
di antibiotico, con l’illusione di tenere lontane le malattie veneree ed una
pillola contraccettiva, senza alcuna interruzione, allo scopo di evitare non
solo gravidanze indesiderate, ma anche il fastidio delle mestruazioni, che
intralcerebbero il lavoro.
Purtroppo l’aids non teme i farmaci e ghermisce le sue prede in breve tempo,
mentre per le gravidanze indesiderate ci pensa la clinica S. Anna, tanto
paga pantalone... e si tratta di un grande progresso, perché il consiglio
che viene loro dato dalla maman in questi casi è quello di adoperare una
micidiale mistura di farmaci contratturanti o addirittura di introdurre in
vagina una pasta di vetro tritato.
Fortunatamente esistono alcuni volontari, laici e religiosi che, a rischio
della loro vita, le avvicinano durante le ore di lavoro e le inducono a
consultare gli ambulatori ginecologici dell’asl dove, lentamente, vengono
istruite ad una corretta contraccezione e ad una profilassi più accorta nei
riguardi delle malattie sessualmente trasmissibili.
Ogni tanto qualcuna di queste sventurate, dopo aver pagato il riscatto,
decide coraggiosamente di affrontare una gravidanza e di mettere al mondo un
figlio napoletano, con la segreta speranza che possa avere un vero futuro,
possa parlare il nostro dialetto, forse un domani anche l’italiano, possa
studiare e vivere in un mondo migliore e chi sa, un giorno raccontare al
mondo il dramma delle sue origini e la triste epopea di un popolo di
migranti, per troppo tempo avvolto senza pietà nella sofferenza e
nell’orrore.
Una diaspora rovinosa
La totalità degli italiani e, purtroppo, gran parte dei napoletani, credono
oramai che la città sia perduta ed irrecuperabile, per cui l’hanno
abbandonata, come si lascia una vecchia moglie che col tempo diventa sempre
più brutta e petulante. Oggi i giovani cercano altrove un’amante, che sia in
grado di far dimenticare il passato e le radici e la cercano in tanti luoghi
diversi, a Londra come a Barcellona, in Germania ma anche in Brasile.
Da anni la ricerca di un lavoro per i giovani è divenuto il problema più
assillante a Napoli dove pure le emergenze non si contano.
E lentamente sta erodendo il sistema sociale e sta depauperando in maniera
irreversibile l’unica risorsa primaria costituita dalle giovani generazioni,
che tristemente hanno preso la via del Nord e dell’estero per non più
ritornare. Siamo davanti oramai ad una diaspora rovinosa, che toglie ogni
speranza di un futuro per la città e nello stesso tempo sta cambiando anche
la composizione sociale dei quartieri. Zone come Posillipo ed il Vomero, una
volta abitate dalla borghesia, lentamente stanno divenendo la residenza di
spavaldi commercianti con attività ai margini della legge, gli unici che
oggi possono disporre di cifre cospicue di denaro per acquisti di immobili
che hanno raggiunto quotazioni record.
Nello stesso tempo nei quartieri del centro storico gli abitanti, stanchi di
bassi e di case malsane, si trasferiscono verso l’immensità di un hinterland
senza strutture e senza servizi, senza collegamenti, ma soprattutto senza
anima. Al loro posto legioni di extra comunitari, felici di passare dalle
capanne ad un tetto qualsiasi e disposti ai lavori più umili pur di
riscattare un domani migliore.
I motivi di questa deriva si perdono nella notte dei tempi e storici ed
intellettuali si sono scervellati a cercarne una spiegazione. Per Francesco
Durante tutto è cominciato da quando la città da tranquilla polis medioevale
è divenuta una capitale di regni che si sono succeduti l’uno dopo l’altro;
Benedetto Croce faceva risalire l’inizio di questa sventurata eclisse al
Trecento per aggravarsi in epoca vicereale col dominio degli Spagnoli,
quando il paradiso abitato da diavoli, divenne un eden affollato di lazzari,
Raffaele La Capria spostava l’inizio della fine al 1799 con il fallimento
della rivoluzione ed il cementarsi dell’alleanza tra plebe e monarchia.
Altri, come Ermanno Rea, hanno indicato il dopoguerra come momento fatale
per la città con l’inizio della guerra fredda che ha tarpato le ali alla
vocazione mercantile e commerciale dei napoletani o con la scomparsa della
cultura operaia successiva alla chiusura dell’Italsider.
Sono spiegazioni parziali, che in ogni caso non risolvono la situazione
divenuta drammatica e tale da far apparire la città ed i suoi abitanti come
un’entità clinicamente morta e qualunque tentativo di rianimarla
semplicemente un inutile accanimento terapeutico.
Da troppi anni a Napoli sono gli omicidi a scandire ritmicamente il
calendario, mentre tutto il territorio sfugge al controllo dello Stato,
vicariato dalla delinquenza organizzata, che detta legge oramai in ogni
faccenda. Il Comune e la Regione sono prive di potere. L’incertezza del
diritto fa sì che gran parte dei malavitosi siano certi di farla franca e di
dover rispondere al massimo ai rimorsi della propria coscienza, un
tribunale, almeno da Dostoevskij in poi, di tutto rispetto, ma purtroppo,
non ancora parificato agli ordinamenti di una moderna Repubblica. I giovani
fuggono in massa verso un destino meno amaro, una diaspora di dimensioni
bibliche che preclude ogni speranza di miglioramento futuro; restano
soltanto i vecchi borghesi, pensionati e piccoli commercianti che oramai si
sono arresi. Leopardi che pure l’amava la definì “terra di lazzaroni e di
pulcinella” e tanti altri insigni personaggi, da Campanella alla Serao,
condivisero pareri negativi, senza parlare dei tanti viaggiatori stranieri,
in visita a Napoli, quando la capitale era una delle mete obbligate del Gran
Tour. Si giunse così al laconico giudizio di “ un paradiso abitato da
diavoli”, coniato quando la camorra non era ancora divenuta una delle
organizzazioni criminali più feroci della Terra. Eppure nonostante questa
antica maledizione gravi come un macigno, non esiste città dove
disorganizzazione e gioia di vivere convivano con maggiore armonia. Ed è
questa la colla che tiene ancora uniti tutti coloro che amano
svisceratamente il loro luogo natio, la loro patria e soffrano una
struggente malinconia quando sono costretti a cercare altrove pane e
tranquillità. È probabile che la nostra città rappresenti un laboratorio
dove affrontare una serie di tematiche che da noi hanno da tempo raggiunto e
superato il livello di guardia, ma che interessano tutti gli Italiani:
traffico, disoccupazione, delinquenza organizzata, smaltimento dei rifiuti,
abusivismo, ecc. I Napoletani sono gente antica, che non ha reciso le radici
col passato e che ha rifiutato vigorosamente le suadenti sirene della
modernità. Rappresentiamo una delle ultime tribù della terra in lotta contro
la globalizzazione. Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo
fieri, passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora, ci
affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso che protesse
Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche melodie contaminate dalla
melopea fenicia ed araba, ma soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il
clamore clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il
frangersi del mare sulla scogliera sottostante. Avere salde tradizioni e
ripetere antichi riti con ingenua fedeltà è il segreto e la forza dei
Napoletani, gelosi del loro passato ed arbitri del loro futuro, costretti a
vivere, purtroppo, in un interminabile e soffocante presente.
Ed ogni giorno la situazione è più drammatica del giorno precedente, sempre
più giù verso un fondo che diviene sempre più profondo e sempre più
somigliante ad uno spaventoso gorgo, che inghiottirà tutto e tutti e dopo il
quale il mondo non sarà certo migliore e Napoli non sarà più quella che per
secoli abbiamo conosciuto.
La Napoli che nessuno racconta
Vi è un’altra Napoli, diversa da quella raccontata da Roberto Saviano, ma
non meno tragica e disperata, della quale nessuno parla. Una faccia della
città dominata non dalla droga e dalla delinquenza organizzata, quanto dal
degrado civile, da giovani senza futuro, dai riti esasperati del consumismo
e dalla disperazione.
Napoletani inquinati dalla televisione spazzatura, dal Grande fratello e da
Maria De Filippi, che idolatrano miti negativi e li propongono
incessantemente ad un pubblico privo di barriere critiche, facendo trionfare
un rude maschilismo, una virilità antiquata e spudoratamente esposta nei
suoi attributi più eclatanti, dai tatuaggi ubiquitari ai piercing più
sfacciati, un bullismo degenerato e frotte di donne che litigano per i
favori di un tronista sultano.
Si viene così a creare un nuovo immaginario popolare, il quale sostituisce
l’antica oleografia di pizza e mandolini con canzoni neomelodiche fracassone
e sguaiate, folle squattrinate che si danno appuntamento nei megacentri
commerciali, novelli agorà, dove si guarda e non si compra, pseudo stelle
delle televisioni locali che si credono divinità e folle di giovani
sfaccendati delle immense periferie dormitorio passeggiare senza sosta e
senza metà con le loro divise tutte eguali fatte di jeans sdrucidi, borchie
pacchiane e camicette multicolori, senza accorgersi del tanfo della monnezza
materiale e morale che li avvinghia in una stretta mortale.
Lo struscio, un’antica tradizione napoletana che in passato si praticava
lungo via Toledo una volta l’anno durante la celebrazione dei Sepolcri, oggi
a Secondigliano, sul corso principale è divenuto un rito settimanale ogni
domenica al pomeriggio.
Si tratta di una passeggiata tutta particolare con una precisa liturgia. Ad
essa non partecipano quella moltitudine di adolescenti che preferiscono
grazie alla metropolitana invadere le strade eleganti del Vomero o, i più
adulti, imperversare con gli scooter con le marmitte truccate sulla collina
di Posillipo.
L’abbigliamento indispensabile è fatto da abiti griffati(naturalmente
falsi), nelle cui tasche il contante è difficile da trovarsi. Lo scopo
apparente della passeggiata è quello di divertirsi, anzi a sentir loro
pariare, un vecchio termine dialettale che, dal significato di digerire, è
passato a quello di pavoneggiarsi e farsi burla degli altri.
Corso Secondigliano, dove si svolge il rito, è lunga poco più di due
chilometri, dal quadrivio di Secondigliano a piazza di Vittorio e di
domenica appare come una landa desolata con tutti i negozi chiusi, ad
eccezione di rari bar e dei centri scommesse che pullulano di avventori. Si
percorrono una serie interminabili di vasche, andata e ritorno, diverse a
secondo del sesso, infatti mentre le ragazze, in gruppetti di due o tre al
massimo camminano lento pede, vociando e fermandosi ogni tanto, i ragazzi
utilizzano lo scooter, per ridurre i tempi di percorrenza e poter così
avvicinare leggiadre fanciulle in entrambi i sensi di marcia, aumentando
così le possibilità di fare un’acchiappanza, o per essere più precisi e
volgarmente alla page una posteggia, la quale si caratterizza per un preciso
codice di corteggiamento sfrontato e volgarmente sessista.
Il modello di riferimento di questi adolescenti sono i personaggi privi di
educazione e di talento proposti dalla tv spazzatura e le loro frasi intrise
di protervia e di cattiva educazione:” Bella c’aggia fa per parlarti, na
serenata?”; “Senti addo vai cu sti doi cape e criature”. Un campionario
sguaiato di stereotipi e di frasi sconclusionate rappresenta il lessico
predominante di queste tribù disordinate abortite dalla globalizzazione del
villaggio globale, il quale amalgama verso il basso, gusti, parlate ed
abitudini di una gioventù priva di ideali che non siano quelli pontificati
dai media televisivi.
E nessuna voce che si sollevi a denunciare questo silenzioso epicedio di una
città antica capitale, sprofondante ogni giorno di più in un gorgo senza
fondo che sdegnoso si rifiuta di inghiottirla.
La scuola di Posillipo ed il mito dell’armonia perduta
All’epoca del Grand Tour Napoli era una delle mete predilette dai
viaggiatori europei e tra questi vi erano anche molti pittori alla ricerca
di panorami da riprendere, ma soprattutto del sole, del mare e di una luce
particolarissima che mutava, ora dopo ora, la prospettiva e la stessa natura
delle cose da fissare sulla tela.
Nei primi decenni dell’Ottocento la capitale borbonica esercitava una
duplice attrazione sugli intellettuali e sugli artisti grazie al fascino
dell’incomparabile bellezza del suo golfo ed al richiamo di un’antica
civiltà riportata alla luce di recente con eccezionale abbondanza di
reperti. Ed a riempire di umanità quello spettacolare scenario naturale e
quel vetusto emporio di arte, che continuava sorprendentemente a svelarsi
giorno dopo giorno, vi era la solare esuberanza dello spirito partenopeo.
Da sempre inserita come tappa fondamentale nell’itinerario neoclassico, la
città magnetizzò anche l’interesse dei paesisti di ispirazione romantica da
Turner a Corot e, aldilà di questi nomi famosi, tutta una pletora di
francesi, tedeschi, inglesi, svizzeri ed in generale di nordici, abbacinati
dalla potenza della luce. Tra questi, tolto qualche artista inclinato ad un
vedutismo documentario da cartolina, tutti si attennero ad una colorata
topografia di vaga ascendenza vanvitelliana ovvero ad un paesismo condito di
motivi pittoreschi, che riproponevano in termini piuttosto esteriori gli
attributi romantici del paesaggismo napoletano settecentesco, derivato dalla
lezione di Salvator Rosa e di Micco Spadaro.
Da questa folla poliglotta, intenta a rispondere ad una richiesta turistica
sempre più pressante, si stacca la figura di Antonio Sminck van Pitloo, un
olandese, divenuto napoletano a tutti gli effetti, che insegnò ai locali a
dipingere il paesaggio dal vero. Egli fu un abile eclettico e seppe
ricondurre verso le categorie del piacevole, dello scenografico e del
pittoresco il paesaggio del Turner, del Constable e di Corot, quasi
intendesse accordarlo ai paesaggi ellenistici delle case di Ercolano e
Pompei. Una riuscita formula di alleggerimento che ebbe molta fortuna e che
introdusse a Napoli, con singolare precedenza rispetto agli altri centri
italiani, la nozione di importanti fatti europei, contribuendo così a
liquidare i ritardatari neoclassici e ad orientare verso una più fresca
scioltezza i nuovi intenti romantici. Il Pitloo riuscì a suscitare a Napoli
quella particolare atmosfera stilistica, tutt’altro che priva di fascino,
che i contemporanei vollero contrassegnare ironicamente con la definizione
di Scuola di Posillipo e che influì profondamente sulla formazione del
maggior paesista napoletano delle prima metà del secolo: Giacinto Gigante.
Anche Degas, prima di dedicarsi anima e corpo ai tutù vaporosi delle
ballerine, era stato in città dal 1858 al 1860, mentre nel 1874 giunse
all’ombra del Vesuvio Mariano Fortuny, dallo stile leggero e brillante.
Napoli dopo l’Unità d’Italia non fu più una protagonista tra le capitali
europee, ma rimase all’avanguardia con le novità artistiche che venivano
dall’estero e riuscì ad imporre i suoi pittori anche a Parigi.
Si configurò una vera e propria scuola basata su una pittura accattivante e
disimpegnata, alla quale si convertirono anche molti artisti, in precedenza
famosi per quadri impregnati di crudo verismo o dedicati ad esaltare episodi
storici.
Con la caduta dei Borbone e l’annessione al nuovo regno monopolizzato dai
Savoia, la città si trovò a dovere interpretare un ruolo di provincia e la
sua borghesia non si trovò più rappresentata in quei grossi dipinti storico
patriottici che adornavano i salotti più eleganti.
Il ruolo di ex capitale di un regno con nove milioni di abitanti, in gran
parte analfabeti, contrastava con una città dove si stampavano ottanta
periodici, vi erano più teatri che a Parigi, l’università annoverava docenti
prestigiosi e la nobiltà e la borghesia, colte e cosmopolite, erano la punta
di un iceberg che poggiava su una massa di povertà ed ignoranza.
I principali pittori:Morelli, Michetti, Migliaro, Dalbono con decine di
allievi e seguaci, spesso anonimi ed imitatori fino al falso dello stile dei
maestri, creano una formula di successo, assemblando un verismo superficiale
con un’esaltazione del folclore e della tradizione, grondante di pescatori e
popolane, immersi in un’atmosfera allegra e spensierata, resa con pennellate
vivaci ed una tavolozza smaltata ed iridescente. Non mancano scugnizzi
impertinenti ed animali da cortile, a scimmiottare un’Arcadia idilliaca,
agognata, ma irraggiungibile.
Questa pittura sgargiante dai colori luccicanti unì i gusti della nobiltà e
del popolino, piaceva agli uni e agli altri, nella stessa misura e negli
stessi anni durante i quali la canzone napoletana, prorompente e retorica,
raccoglieva applausi da tutte le classi sociali, in Italia ed all’estero.
Sono gli anni in cui si sviluppa il mito dell’armonia perduta, l’antica
illusione, fallace quanto tenace, che imprigiona da sempre Napoli,
propagandata da scrittori ed intellettuali, che attraverso libri e convegni
vorrebbero farci credere ad un’Arcadia resa infelice da lazzari ignoranti
asserviti alle mire del potere.
Questo sogno dai contorni di fiaba è raffigurato con tinte idilliache nei
dipinti della Scuola di Posillipo e dell’annacquato verismo di fine
Ottocento e questi sono non a caso i quadri ancora presenti a rappresentare
una sorta di status symbol nelle case che contano all’ombra del Vesuvio. Ma
in verita si tratta di un incubo, che annichilisce ogni speranza di
palingenesi della città e la rende incapace di pensare seriamente al suo
futuro, in sorprendente coincidenza con un dialetto, assurto a piena dignità
di lingua, che esclude questo tempo dalla sua sintassi.
L’Eden vagheggiato da artisti e narratori non è mai esistito al di fuori
della rappresentazione oleografica ai limiti con l’agiografia, né mai è
esistito un popolo in grado di stemperare i propri interessi in una visione
di bene comune. Viceversa e purtroppo a scandire la storia di Napoli è stato
il percorso distaccato di due mondi paralleli: la plebe e l’aristocrazia.
Nei secoli entrambi sono cambiati senza cambiare le loro traiettorie
divergenti.
Napoli paga lo scotto della latitanza di una borghesia imprenditoriale, che
sappia investire nella produzione e sappia ridisegnare la propria cultura
conservatrice e nello stesso tempo di una classe operaia e lavoratrice, che
sia in grado di essere parte attiva in un programma di sviluppo
dell’economia.
Il risultato nefasto è una civiltà costretta a sopravvivere con
l’assistenzialismo statale, con mille truffe e sotterfugi e destinata ad
implodere fragorosamente se dovesse realmente realizzarsi un federalismo
fiscale.
Napoli è da tempo priva di centri decisionali e vede la sua ricchezza
concentrata nelle tasche dei ceti professionali o redditieri, dediti per
inveterata abitudine all’accumulo infruttifero e non all’investimento, che
preferiscono il tranquillo buono postale, che sopperisce agli sperperi di
uno Stato inadempiente e parassitario, ai titoli azionari, che fungono da
volano delle industrie. Ma soprattutto negli ultimi decenni una smisurata
quantità di ricchezza è stata accumulata dalla criminalità organizzata, il
cui potere è così notevolmente aumentato, al punto da dettare regole ed
essere parte in causa in tutte le più importanti decisioni.
Eppure Napoli è stata sempre l’unica città che ha visto convivere, fianco a
fianco, nello stesso quartiere e nello stesso palazzo, ricco e povero,
signore e plebeo e questa vicinanza urbanistica avrebbe potuto costituire un
propellente capace di sprigionare quella carica di energia vitale necessaria
al cambiamento. Ma ciò è avvenuto unicamente nella musica, nel teatro e
nell’arte, mai nell’economia e nel sociale e per questo che Napoli ed i
napoletani continuano a vivere costretti in un opprimente presente senza
saper ipotizzare un decente futuro.
Napoli nelle pagine degli scrittori
La letteratura da sempre ha denunciato il degrado della città e le
miserevoli condizioni dei suoi abitanti, in maniera ancor più efficace delle
arti figurative, che pure hanno raggiunto dei vertici assoluti, dalle Sette
opere di Misericordia di Caravaggio, nella quale Napoli è descritta come un
dedalo inestricabile di vicoli pericolosi, frequentati da ceffi patibolari e
sguaiate meretrici, alle precise documentazioni dal vivo di Micco Spadaro,
preciso illustratore di eventi tumultuosi:peste, rivolte e catastrofi
naturali.
Già il Boccaccio, vissuto a Napoli, dove conobbe ed amò la sua Fiammetta,
nella novella del Decamerone di Andreuccio da Perugia, rappresenta una città
senza mare e senza sole, in balia di prepotenti e malfattori.
Nell’Ottocento, senza attendere il verismo, scrittori e giornalisti,
continueranno, in omaggio alla verità a delineare con puntigliosa precisione
il ritratto di una città omertosa e delinquenziale, afflitta da povertà ed
ignoranza e popolata dalla concentrazione di plebe più alta del mondo
occidentale.
I Vermi di Mastriani, ma soprattutto il Ventre di Napoli della Serao
denunciano la miseria diffusa che per secoli il ceto politico dominante ha
inteso nascondere, la faccia oscura ed impresentabile di un’antica capitale
decaduta al ruolo di provincia. La città in questi scritti mostra il suo
volto oscuro, di una divisione netta tra l’aristocrazia ed il ceto medio ed
il popolo dei lazzari e degli scugnizzi, le belle strade di rappresentanza
alle quali si contrappongono i vicoli sudici e maleodoranti, i superbi
palazzi e le residenze di lusso, mentre gran parte della popolazione è
costretta a vivere in squallidi tuguri.
Una Napoli esaltata dai viaggiatori del Gran Tour per le sue bellezze
naturali ed i suoi tesori artistici, per il clima salubre, mentre i
cittadini indigenti, che sono la maggioranza, obbligati a sopravvivere in
bassi dove il sole così celebrato non riesce ad arrivare e dominano
incontrastati il rachitismo ed il colera.
Il libro della Serao è una serrata indagine giornalistica, ma ha la forza
impetuosa del romanzo, rappresenta una denuncia severa e particolareggiata,
ma anche un atto di amore infinito.
Vi furono dei risultati, anche se non risolutivi. Furono abbattuti i
fondachi più tetri, caddero sotto i colpi del piccone le case inabitabili,
scomparvero interi quartieri malsani, come il Malpertugio che risaliva agli
angioini, Mezzocannone fu tagliata, assieme a palazzi storici, spostati o
affettati. Fu sviluppata una rete fognaria moderna e l’acqua giunse in quasi
tutte le case, furono costruite grandi arterie che cambiarono il volto della
città.
L’Italia non seppe però affrontare e risolvere atavici problemi ed ecco di
nuovo un libro di accorata denuncia, il più spietato: La pelle di Curzio
Malaparte, un romanzo che offre un ritratto spietato del degrado umano, più
che materiale, della napoletanità ridotta a brandelli con la prostituzione
ubiquitaria e la sconfitta di un popolo che si vende al miglior offerente,
con i corpi dei suoi figli concessi per un pugno di dollari alle turpi
voglie dei vincitori. Un libro dalla prosa barocca e magniloquente intriso
di una ferocia beluina nel descrivere con furia dantesca un rassegnato
paradiso abitato da diavoli, che fotografa una grande metropoli, la quale
dopo aver perso la guerra ha dissipato scriteriatamente anche la pace.
L’antica Partenope, costantemente sedotta e tradita, sottomessa, ma che ha
sempre saputo ammaliare il vincitore, cade in un abisso di dissolutezza, in
una vertigine di perdizione, dalla quale faticherà a sollevarsi.
Una girandola di episodi sospesi tra una realtà che sfida la più accesa
fantasia, inseguendo la verità, un racconto scomodo intriso di ribrezzo e
poesia, rabbia ed anelito di libertà, furore dei sensi e disperata ricerca
di spiritualità. Un dettato orgiastico per narrare a tutti il sommo dolore e
la sopita voglia di un domani migliore.
Il consiglio comunale di Napoli, inorridito, nel 1950, censurò pubblicamente
Malaparte, il Santo Uffizio lo mise all’indice tra le opere immorali, la
critica si divise nel giudicarlo. Pochi percepirono la scintilla che lo
pervadeva, l’indicazione di una strada impervia per ricercare un senso
morale della vita, un’esaltazione di un popolo martoriato nei giorni più bui
della sofferenza, una sofferenza che ci è rimasta appiccicata sulla pelle.
Da allora comincia il compito degli scrittori di salvare Napoli, la
letteratura esprime una funzione di supplenza sostituendosi alla politica ed
alla stessa società civile, che da tempo ha abdicato ad ogni funzione e si è
consegnata alla camorra ed al malaffare.
I mali arcaici, trasformati ed ingigantitisi nel tempo, continuano a
manifestarsi nel corpo malato della città a guisa di purulente metastasi, a
confermarci che la notte edoardiana non è ancora passata e brancoliamo
ancora nello smarrimento delle coscienze.
Ci saranno ancora altri scrittori, che con foga lanceranno inascoltati il
loro grido di dolore. Anna Maria Ortese con il suo Il mare non bagna Napoli,
La Capria con Ferito a morte, Ermanno Rea con Mistero napoletano, fino al
romanzo saggio di Roberto Saviano, il quale con Gomorra compone un affresco
corale della camorra divenuta Sistema e dopo aver conquistato il commercio
internazionale della droga nella latitanza assoluta dello Stato, ha preso
possesso delle anime, ha ipotecato il futuro dei giovani ed umiliato ogni
residua speranza di riscatto civile.
Diviso per episodi, dalla falsificazione delle griffe allo spaccio della
droga, Gomorra descrive con malapartiana ostentazione il degrado della
vivibilità, il crollo dei valori, il predominio della prepotenza, la banale
propensione all’esercizio del crimine.
Il messaggio non dà speranza di redenzione, né di cambiamento, anzi, la
spirale della violenza e del malaffare sembra oramai impazzita e dilaga
senza argini alla conquista di sempre nuovi territori.
Le uccisioni si sprecano come avviene nella cruda realtà ed alla fine è
difficile ricordare il numero dei morti ammazzati nei luoghi e con le
modalità più varie.
La camorra viene correttamente descritta come un mostro a più teste, un’idra
dai tentacoli vigorosi e rapaci, che si agitano in più direzioni senza un
vero comando centrale. Le centinaia di famiglie malavitose, che oggi
controllano la Campania, sono infatti in perenne fibrillazione, forti degli
smisurati proventi della droga, alla ricerca di investimenti internazionali
nei settori più svariati, dagli immobili all’alta finanza.
Nel libro non vi è posto per lo Stato, disperatamente assente, le poche
volanti della polizia sono esili ectoplasmi che scompaiono subito
all’orizzonte, non vi è posto per l’amore di alcun genere e vomitevoli sono
le poche scene destinate al sesso ed imperniate su lubrici strofinamenti tra
inesperti minorenni e lardosi cinquantenni con bonazze brasiliane e
nigeriane, dalle movenze feline e dalle poppe smisuratamente protrudenti in
virtù di generose mastoplastiche additive.
La fame atavica non è più quella degli abitanti dei bassi nei secoli
precedenti, ma è un desiderio sfrenato di beni materiali, che coinvolge
tutti coloro che vivono da sempre nel vuoto morale e nell’ignoranza e
considerano un solo dio: il moloch denaro come misura di tutte le cose.
Napoli affonda sempre più e si fatica a vedere un barlume di luce oltre le
tenebre.
Il patetico canto dei neomelodici
Il successo della musica neomelodica si può far risalire a non più di venti
anni fa, quando nomi come quelli di Franco Ricciardi o Ida Rendano
cominciarono a divenire noti nei quartieri popolari e nello stesso tempo
Gigi d’Alessio cercava di assurgere ad una dimensione nazionale con un brano
dal titolo esplicativo Fuori dalla mischia tour.
Questi patetici menestrelli, cantori di un amore contemporaneo, infarcito di
sms e di videochiamate, sono oggetto di una venerazione sproporzionata da
parte di un esercito di fan scatenati, costituito da decine di ragazze dai
dodici ai venticinque anni, disposte ad attendere per ore sotto una sala di
registrazione, con lo sguardo languido e la camicetta sbottonata,
sventolando una sua foto e chiedendole supplichevoli un bacio.
Questo nugolo di cantanti neomelodici, che allieta le feste della Napoli più
popolare e della provincia, ha molteplici occasioni di mettersi in mostra,
perché all’ombra del Vesuvio, ad eccezione dell’estrema unzione ogni
sacramento viene santificato tra parenti ed amici, dal battesimo alla
cresima, dalla prima comunione al matrimonio, senza considerare le
molteplici feste di piazza in onore di santi più o meno patroni e le
trasmissioni delle televisioni locali, attraverso le quali, con una
piccolissima spesa, si può parlare in diretta con il proprio beniamino,
chiedergli una canzone o una dedica o addirittura ingaggiarlo per un
banchetto o una cerimonia nuziale.
Il settore può essere assimilato alla grande tradizione cittadina della
contraffazione. Dopo aver imitato alla perfezioni griffe della moda e
profumi francesi, oggi si sviluppano idee a basso costo, una Bollywood in
piena regola, che ha sviluppato una sorta di mercato della musica low cost
al di fuori delle logiche di profitto delle grandi case discografiche.
Questo universo parallelo che anima, col frastuono delle sue canzoni, la
vita dei vicoli ed i palazzoni della periferia più degradata, è stata sempre
giudicata con severità dalla morale borghese, salvo nei primi anni della sua
nascita, quando sgorgò come un pollone spontaneo dalle visceri della città,
salutata con entusiasmo dalla intellighenzia di sinistra come una
manifestazione spontanea di parte dell’anima più profonda della napoletanità.
In seguito politici ed intellettuali non hanno perso occasione pubblica per
sottolineare la sub cultura dei neomelodici, usi a glorificare il camorrista
come eroe positivo e chi lo denuncia come un infame e la contiguità del
mondo della canzone popolare e la criminalità organizzata, dimenticando che
la piovra, o meglio ancora ”o sistema” avvolge tranquillamente, senza che
nessuno protesti, tutte le attività imprenditoriali.
La polemica non è accolta dall’ambiente dei neomelodici, anzi, alcuni
esponenti di spicco ci hanno tenuto a controbattere che i loro testi
rispecchiano la realtà che li circonda, è necessario cambiare Napoli, non
certo le parole delle canzoni.
I benpensanti collocano questo tipo di musica, sia chi la esegue che chi la
ascolta, nella stessa categoria dove vengono collocati gli ultras delle
curve o i contestatori di una discarica, personaggi pittoreschi quanto
infrequentabili.
L’ambiente in cui nasce un nuovo cantante è sempre lo stesso, come pure il
cammino verso la celebrità, anche se relegata a matrimoni e feste di piazza.
La famiglia del fanciullo dalla bella voce è costantemente di infimo livello
sociale, ma dotata di una grande voglia di riscatto sociale, un riscatto che
non prevede lo studio né il preparasi seriamente ad apprendere un mestiere,
ma fa affidamento a doti naturali: un buon dribling, una voce ben intonata,
delle forme ben aggraziate; calciatore, cantante, velina sono i sogni
proibiti di una generazione perduta per l’insipienza dei loro genitori.
Prima della pubertà eccoli in sala di registrazione per incidere il primo
disco, primo passo verso la fama, che però richiede un notevole sacrificio
economico, con denaro preso in prestito, oltre a perdere giornate di scuola
per le prove, le incisioni e le serate, ma i genitori, lontani anni luce
dalla cultura, minimizzano: tanto finirà per sistemarsi grazie alla voce,
mentre la scuola non serve a niente.
I soldi per le prime fasi della carriera provengono da usurai che
vivacchiano nell’ambiente musicale, pronti ad accettare una restituzione
attraverso serate, spesso presso persone poco raccomandabili o contratti
capestro, che legano per la vita una giovane promessa ad un impresario.
Se andiamo ad esaminare il substrato antropologico, che sottende al genere
neomelodico scopriremo che l’amore è, come ai tempi dei giullari o del Dolce
stil novo, il motore di tutta la poetica dei neomelodici, un sentimento a
seconda dei casi eterno o fugace, virginale e platonico o sfacciato ed
impudico, costantemente retorico e strappalacrime. Oltre all’amore una
componente fondamentale è costituita dalla telefonia cellulare il tramite
attraverso cui dialogano i protagonisti. Un esempio calzante è fornito da
uno dei successi di Maria Nazionale: Ossessione, incentrata su una
conversazione tra due amanti impossibili.
Il comico si alterna al tragico con nonchalance, come la commistione di
valori tradizionali, quali il culto della verginità e l’attaccamento alla
famiglia, inneggiato da volti lampadati e capigliature bizzarre.
In molte feste di paese troneggia la statua di Padre Pio, costretta ad
ascoltare, oltre alla Madonnina dai riccioli biondi, canzoncine a sfondo
erotico come ‘A campagnola o Te piace ‘o gelatino. Una fusione in salsa
nazional popolare di sacro e profano, che vede come cantori improponibili
personaggi come Jo Donatello o Gigione, mentre tra la folla convivono senza
problemi vecchiarelle senza denti e prodi fanciulle con indosso minigonne
estreme (chiù cort’ de’ mutande), che cercano disperatamente come recitano i
versi della melodia: nu guaglione che ‘e vo’ bene e poi s’è sposa.
Ragazzine giovanissime che costituiscono l’unica allegria di oscure
periferie o di antichi paesi, assorbiti dai tentacoli urbanistici e ridotte
a tristi dormitori.
La musica neomelodica rappresenta il volto genuino di gran parte della
popolazione partenopea ed un pessimo biglietto da visita per pubblicizzare
la città. Con il progressivo abbassamento dell’età dei suoi protagonisti,
complici importanti trasmissioni della televisione di stato, in onda proprio
dall’auditorium di Napoli, la competizione tra album e videoclip è divenuta
ancora più frenetica, senza che gli organizzatori di questo squallido
baraccone, abbiano mai favorito il passaggio ad un panorama nazionale di
interpreti legati al vicolo ed al piccolo cabotaggio dei matrimoni e delle
emittenti private.
La passione per i neomelodici ha sviluppato negli ultimi anni una moda
perversa tra gli studenti dei quartieri popolari: il filone party, il poter
trascorrere una mattinata dalle 9 alle 13 in una discoteca ad ascoltare dal
vivo per 10 euro i propri beniamini, il tutto organizzato, sfruttando
facebook, da un gruppo di organizzatori giovanissimi denominato Staje a casa
toje.
Come sono lontani i tempi in cui chi marinava(vocabolo caduto in disuso) la
scuola puntava sul defunto Roxy o sull’attuale Modernissimo se abitava in
centro o le sale dell’America a san Martino se frequentava istituti del
Vomero. Io persolmente preferivo il Bellini, allora solo cinematografo,
perché, con una piccola mancia alla maschera, ci si poteva accomodare in uno
dei palchi superiori, dove, se si era con una ragazza, tutto si faceva salvo
che vedere il film.
Una nuova attrazione turistica per Napoli
Napoli è piena di attrazioni turistiche, paesaggistiche e culturali, ma da
qualche mese se ne è aggiunta una nuova che rappresenta una novità assoluta,
unica ed irripetibile.
Tutti sapevamo che, per motivi di sicurezza, Ferdinando II aveva incaricato
Enrico Alvino di costruire un percorso sotterraneo, rapido e protetto, che
congiungesse Palazzo Reale con la Caserma Vittoria. L’opera non fu conclusa
e rimase circondata da condotte idriche seicentesche con le relative
cisterne.
Nelle vicinanze si trova una galleria scavata negli anni Ottanta, attraverso
la quale doveva transitare una linea tranviaria rapida, presentata come una
rivoluzione interna ai trasporti e che fortunatamente non ha mai visto la
luce, limitandosi a dilapidare decine di miliardi con relative tangenti,
altrimenti Napoli avrebbe potuto vantare un altro record negativo: il primo
affondamento di un treno.
Nel frattempo tutto era stato sommerso da tonnellate di immondizia ed invaso
dalle acque, mentre una parte asciutta è stata adoperata per anni dal Comune
come deposito giudiziario per le auto sequestrate.
Poi vi erano sotto Monte di Dio vaste grotte collegate ai palazzi, che
venivano adoperate come ricovero durante gli oltre cento bombardamenti che
hanno martellato Napoli. Ci sono tuttora sorprendenti testimonianze: da
borracce a materassi sfondati oltre a vasini per una pipì d’emergenza. La
guerra si faceva sopra le nostre teste e molti, risalendo, avevano l’amara
sorpresa di trovare la propria casa distrutta.
In più punti sta sgorgando un’acqua rossastra, ricca di ferro e minerali,
come quella che una volta sgorgava al Chiatamone ed i Napoletani
raccoglievano nelle caratteristiche mammarelle sale da falde che si
credevano esaurite ed è un simbolo di speranza in un’epoca di siccità nella
quale il modo rischia di sprofondare.
Su questo magma scomposto si è esercitato con tenacia il lavoro di due
speleologhi, Minin e De Luzio, che in dieci anni, scavando a mano e
servendosi di carrucole artigianali hanno permesso queste visite guidate,
che ci permettono di conoscere Napoli nella sua realtà di città
pluristratificata con luoghi invisibili che nascondono tracce di storie, di
vite, di uomini.
Il percorso tradizionale di 530 metri prevede di visitare le grotte che
diedero riparo nei bombardamenti, dove si trovano le auto sequestrate e le
antiche condotte idriche, mentre nel nuovo percorso “avventuroso” si scende
nel tunnel moderno invaso dall’acqua per una profondità di tre metri, dove
vi è una piccola banchina ove attracca una piccola zattera a remi, che
permette di percorrere il fiume alla fioca luce di due lampade ad olio,
guidati ogni cento metri da altre tenui fiammelle che indicano il percorso.
Non si vede e non si sente niente, si naviga nel nulla sotto terra.
Un’esperienza emozionante che ci fa vivere tempi lontani quando la mitologia
dominava sulla razionalità.
A breve partirà anche un’opzione “speleo” per i più audaci che potranno,
opportunamente imbracati calarsi nei pozzi, ovviamente assistiti da
speleologhi esperti. Quindi un nuovo motivo per trascorrere un fine
settimana all’ombra del Vesuvio, anche in pieno inverno, perché sottoterra
la temperatura è stabilmente a 18°.
Dal biribisso alla tombola
A Sorrento, nel Museo Correale, un gioiello che meriterebbe un maggior
numero di visitatori, è conservato uno dei pochi esemplari pervenutici di un
gioco che ebbe grande successo nell’alta società dell’epoca: il biribisso,
un incrocio tra gioco dell’oca e monopoli, una splendida tavola con un
caleidoscopio di colori con molteplici caselle raffiguranti le varie tappe
del gioco.
Dal ‘700 in poi e fino ai nostri giorni, soprattutto durante le festività
natalizie, si è imposta la tombola con il caratteristico “panariello” e la
sorte legata ai numeri, inventata a Napoli nel 1734 e adottata in tempi
recenti all’estero sotto il nome di bingo.
Si tratta di un gioco la cui genesi si lega all’esoterismo e più
precisamente alla cabala, detta anche càbbala o più esattamente Kabbalah,
dall’ebraico Qabbàlàh che significa ricezione, con la quale si indicano le
dottrine mistico-esoteriche ebraiche, riferite a Dio e all'universo,
rivelate ad una cerchia ristretta di persone e poi tramandate di generazione
in generazione.
Secondo la Qabbàlàh, nella Bibbia non esiste parola, lettera o numero privo
di un significato celato, nel solco del simbolismo sul quale si basa il
mondo stesso.
Su questa base i cabalisti formarono una dottrina interpretativa che formulò
una concezione secondo la quale, utilizzando la correlazione numerologica
tra lettere e numeri, era possibile calcolare il numero preciso
corrispondente ad ogni parola.
A tutto ciò si unì la convinzione che i sogni fossero lo sfogo comunicativo
delle forze extra umane, capaci però di manifestarsi anche tramite
accadimenti naturali che venivano considerati segni del destino, e subito
tradotti in numeri.
Si maturò così la codificazione e la numerazione dei simboli onirici e
fisici che divennero elemento per tentare la fortuna nella Napoli del ‘700,
città esoterica per antonomasia, dove il Lotto nacque come gioco popolare
benché clandestino.
Resa indipendente Napoli nel 1734, il re Carlo di Borbone, nel suo
illuminato progetto di sviluppo sociale e di accrescimento culturale, volle
ufficializzare il gioco del Lotto nel Regno per strapparlo alla
clandestinità che sottraeva entrate alle casse dello Stato.
Trovò però l’opposizione del frate domenicano Gregorio Maria Rocco, uomo di
grande carisma e potere, noto in tutta la città perchè capace di ispirare
numerose iniziative grazie alle quali la delinquenza fu decisamente
arginata.
Il frate riteneva eticamente sbagliato introdurre un simile gioco in un
regno in cui gli insegnamenti cattolici erano alla base del fondamento
educativo. Si arrese al Re quando questi lo convinse che il Lotto, se
giocato clandestinamente, avrebbe potuto arrecare danno alle tasche dei
sudditi.
I due contendenti strinsero un patto secondo il quale il gioco del Lotto
sarebbe stato sospeso nella settimana delle festività natalizie per evitare
distrazione al popolo in preghiera. Ma ormai quel gioco era entrato nel
costume dei cittadini che a quel punto, per non doverne fare a meno, si
organizzarono per conto proprio.
Fu così che la fantasia popolare fece in modo che i novanta numeri del lotto
fossero infilati nei cosiddetti “panarielli” di vimini e ognuno si
disegnasse delle cartelle improvvisate con dei numeri scritti a caso. Il
gioco pubblico del lotto divenne gioco familiare della tombola, figlio
quindi del matrimonio tra il Lotto stesso e la fantasia dei Napoletani. La
parola “tombola” deriverebbe da tombolare, ovvero roteare e far
capitombolare i numeri nel “panariello”.
Gioco natalizio per eccellenza, proprio perché nato nel Natale del 1734, ma
la Tombola è giocata a Napoli durante tutto l’anno nei quartieri popolari
dove per tradizione possono partecipare esclusivamente donne che seguono la
chiassosa chiamata dei numeri effettuata dai “femminielli”, mentre agli
uomini è consentito solo assistere fermi sulla porta o alla finestra.
La tombola è un tradizionale gioco da tavolo originario dell'Italia
meridionale e specialmente tipico della regione della Campania (Smorfia
Napoletana). Sostanzialmente equivalente al gioco di diffusione
internazionale noto come bingo, la tombola è tecnicamente un gioco
d'azzardo, in quanto i partecipanti sono tenuti al versamento di un somma in
denaro che viene poi ridistribuita come premio ai vincitori. Tuttavia, la
tombola italiana viene normalmente giocata in un contesto familiare (è un
tradizionale gioco natalizio) e le somme che si impegnano e si vincono hanno
solitamente valori puramente simbolici (quando non si scelga addirittura di
utilizzare premi di altra natura).
Il carattere casuale del gioco unito al talvolta notevole valore dei premi
in palio ha reso il termine tombola sinonimo di evento fortunato o di
acquisizione fortuita di una ricchezza o somma di denaro.
Un giocatore con ruolo di croupier ha a disposizione un tabellone sul quale
sono riportati tutti i numeri da 1 a 90, e un bussolotto riempito con pezzi
numerati in modo analogo. Il suo compito consiste nell'estrarre i pezzi in
modo casuale, e annunciare agli altri giocatori il numero uscito. L'annuncio
generalmente include anche la citazione di una delle immagini che la
tradizionale smorfia napoletana associa proprio ai numeri da 1 a 90 propri
di un altro gioco, il lotto, strettamente legato alla tombola.
I giocatori dispongono di una o più cartelle precedentemente acquistate,
composte da 3 righe, su ciascuna delle quali sono riportati cinque numeri da
1 a 90. Ogni volta che il numero estratto è presente su una o più delle sue
schede, il giocatore "copre" la casella corrispondente. Nella versione
tradizionale della tombola, le schede sono semplici cartoncini stampati e i
numeri vengono coperti con fagioli, ceci, lenticchie, pasta o altro
materiale disponibile dopo i cenoni natalizi come i gusci di frutta secca.
Tali cartelle sono realizzate in gruppi di sei in modo che in ogni gruppo i
numeri da 1 a 90 capitino una ed una sola volta.
Le cartelle vengono acquistate in numero variabile dai giocatori secondo un
prezzo unitario predefinito non necessariamente in denaro. Similmente il
giocatore che detiene il tabellone è tenuto a versare l'importo relativo
alle sei cartelle virtuali che compongono il tabellone. È possibile, come
variante alle regole classiche e previo accordo generale, che il tabellone
venga acquistato dal croupier in forma parziale. È anche possibile che venga
richiesto per il tabellone un versamento ulteriore per compensare il fatto
che sul tabellone vengono sempre posizionati tutti i numeri estratti.
L'importo derivante dall'acquisto di tutte le cartelle e del tabellone
definisce il monte premi che viene di norma suddiviso in vari premi di
importo crescente.
Lo scopo ultimo del gioco è quello di realizzare la tombola, ovvero arrivare
per primi a coprire tutti i numeri presenti su una delle proprie cartelle.
Normalmente vengono anche assegnati premi minori per risultati intermedi,
come l'ambo (vinto dal primo giocatore che copre due numeri presenti sulla
stessa riga di una cartella), il terno (tre numeri sulla stessa riga), la
quaterna (quattro numeri sulla stessa riga) e la cinquina (tutti e cinque i
numeri della riga). Talvolta viene assegnato anche un premio al cosiddetto
tombolino, ovvero alla seconda cartella in ordine di tempo a totalizzare la
tombola.
Una regola non sempre applicata, e poco comune in Campania, prevede che chi
vince un premio su una riga non può vincere il premio successivo sulla
stessa riga della stessa cartella. Quindi chi fa un ambo sulla prima riga
non può fare terno sulla prima, ma solo sulla seconda e sulla terza, ma può
comunque fare quaterna sempre sulla prima riga. Questa regola ha lo scopo di
distribuire con più uniformità i premi (coerentemente col fatto che la
tombola è intesa come un gioco di aggregazione, al quale partecipano spesso
anche i bambini). Tuttavia l'interpretazione più in voga stabilisce che il
terno la quaterna e la cinquina possono essere eseguiti sulla stessa riga,
per consentire più vincite ex aequo.
Per il gioco della tombola a premi (tipicamente utilizzato in sagre paesane,
circoli ricreativi, etc.) sono disponibili dei fogli contenenti sei schede
standard ciascuno. Le schede contenute in ogni foglio sono costruite in modo
tale che il foglio contenga una ed una sola volta tutti i numeri da 1 a 90
(6 schede x 15 numeri a scheda = 90). Tale disposizione è molto ingegnosa:
mentre a prima vista la ripartizione dei numeri sembra del tutto simmetrica
(5 numeri e 4 spazi per riga), la prima colonna contiene solo 9 numeri (da 1
a 9) e 9 spazi, le colonne intermedie contengono 10 numeri e 8 spazi, mentre
l'ultima colonna contiene 7 spazi e addirittura 11 numeri (da 80 a 90). Il
fatto che i fogli di schede contengano tutti i numeri ha un benefico effetto
psicologico sul giocatore, il quale, potendo segnare ogni numero estratto,
ha l'impressione di procedere speditamente verso la vittoria.
I fogli di cartelle di vecchia produzione inoltre hanno una disposizione
uniforme degli spazi rispetto ai numeri che li rende gradevoli alla vista,
mentre i fogli di produzione più recente (che non copiano le vecchie
disposizioni), hanno dei "grumi" di numeri e vistosi spazi vuoti. Spesso le
schede standard sono prodotte dalla suddivisione in 6 parti dei fogli
interi, in modo da rendere uniforme la distribuzione dei numeri presenti.
I giocatori "professionisti" di tombola, possono arrivare a giocare con due
o tre fogli di schede contemporaneamente (per un totale di 18 cartelle).
Dato che l'estrazione dei numeri può essere molto veloce, questi giocatori
devono poter segnare i numeri molto velocemente. Un metodo per la segnatura
veloce dei numeri è il cosiddetto metodo "alla francese". In questo metodo
si utilizza un solo fagiolo per riga; per prima cosa si posiziona un fagiolo
a sinistra della prima casella di ogni riga. Ogni volta che viene estratto
un numero, il fagiolo della riga corrispondente viene fatto avanzare fino
alla prossima casella bianca verso destra. In questo modo il numero di
caselle bianche occupate indica quanti sono i numeri estratti per ogni riga.
Quando un fagiolo raggiunge la parte destra della scheda si ha la cinquina.
Quando tutti e tre i fagioli di una scheda raggiungono il traguardo si ha la
tombola. Questo metodo permette di segnare i numeri molto velocemente anche
se non si può conoscere quali sono i numeri estratti ma solo quanti sono.
Tra i giochi simili alla tombola ricordiamo : il bingo, un gioco di azzardo
diffuso soprattutto negli Stati Uniti, ma ormai anche in Italia ; il lotto e
sue varianti come il Superenalotto, che è un gioco gestito dallo Stato.
Infine segnaliamo che le probabilità di vincere per un giocatore sono
proporzionali al numero di shede acquistate ; la tombola si può considerare
una variante pittoresca della lotteria o della pesca di beneficenza.
Un Sud che non deve morire
Quando parliamo di Napoli, non intendiamo riferirci unicamente al suo centro
antico o al suo sterminato hinterland, che copre oramai tutta la provincia,
bensì anche ai territori corrispondenti al suo regno, che copriva tutto il
meridione e, per alcuni tempi, anche la Sicilia.
In molti sperduti paesini sono ancora vive antiche tradizioni che vanno
dalla cucina alle feste patronali, molto simili, e spesso oggi ancora più
sentite di quelle della capitale.
Molte di queste località sono poco conosciute e rischiano di essere travolte
dal mito della globalizzazione.
In particolare, quella di cui tratteremo, San Marco Argentano, rischia di
scomparire fisicamente perché è interessata dalla faglia San Fili-San Marco
Argentano di circa 30 km, il cui smottamento sta portando a continui
movimenti tellurici, alcuni di notevole intensità, che toccano l’intero
insediamento del Pollino ed alcuni bellissimi paesi come Altomonte e Morano
Calabro.
Il paese meriterebbe ben più fortuna, considerato che, nonostante la sua
storia, i monumenti, la bellezza e la grande cura del verde pubblico, è
tagliato fuori dai flussi turistici, forse per la mancanza di locali alla
moda, e ci si incontra solo per il piacere di stare assieme, magari davanti
al camino d’inverno, per suonare l’organetto o il tamburello e cantare le
canzoni tradizionali, anche quelle albanesi e greche dal momento che nei
dintorni ci sono paesi un tempo abitati da popolazioni venute dall’Albania e
dalla Grecia, come Santa Caterina Albanese e San Demetrio Corone.
Il territorio comunale è servito da un’estesa rete stradale, con un asse
viario che lo collega sia allo Ionio che al Tirreno.
Le origini del nome derivano da San Marco Evangelista, patrono della città,
mentre Argentano fu aggiunto in seguito con una delibera comunale del 1862,
in onore della famiglia degli Argento.
Taluni storici hanno identificato San Marco con la città di Argentum, citata
da Tito Livio, assieme ad altri centri Bruzi, che si unirono ai Romani nella
guerra contro Annibale. Di certo, la zona fu abitata dall’uomo fin dai tempi
del neolitico, come attestano numerosi ritrovamenti, mentre tracce di
insediamenti di epoca romana, rinvenute in località Cimino, sono conservate
nel Museo Archeologico di Sibari.
L’epoca cristiana è segnata dal passaggio dell’Apostolo Marco mentre
l’assetto urbanistico dell’attuale centro storico è dovuto all’arrivo dei
Normanni ed in particolare di Roberto il Guiscardo, come testimoniano vari
monumenti, quali la Torre, la Cripta del Duomo e l’Abbazia della Matina,
d'origine benedettina.
L’originaria struttura feudale è evidente nel percorso che unisce il Duomo
alla Torre Normanna mentre chiese, palazzi e blasoni gentilizi giustificano
l’antico appellativo di “Città dei Nobili”.
Tra i numerosi monumenti ricordiamo l’Abbazia della Matina con l’aula
capitolare (sec.XI-XII), la Torre Normanna (sec.XI), la Cattedrale con
annessa Cripta (sec.XI) e la Chiesa della Riforma di epoca successiva.
Tra le feste e gli eventi più importanti si segnalano la festa di San Marco
Evangelista il 25 aprile e la “Partita del Re” che, la terza domenica di
agosto, riproduce una battaglia medievale su una scacchiera gigante i cui
protagonisti, pedine e pezzi in abiti storici, seguono le rigide regole di
una partita a scacchi.
L’economia fino agli anni settanta era prevalentemente agricola, poi ha
subìto una profonda trasformazione con piani di industrializzazione, mentre
la presenza di scuole, uffici pubblici e servizi sanitari ha accresciuto
notevolmente il settore terziario.
Vi sono diverse botteghe che vendono artigianato locale che spazia dalle
cartoline di legno alle terracotte, mentre, tra i prodotti gastronomici,
famosi sono i cardi selvatici sott’olio.
La cucina contadina punta sulla genuinità degli ingredienti. I piatti forti
sono le paste fatte in casa, le minestre a base di verdure e legumi e la
mischiglia, composta da nove erbe spontanee cotte assieme. Tipiche del luogo
sono le cicerchie, un raro legume tra i ceci e i lupini. Tra i dolci
spiccano quelli al miele di tradizione araba. Vi sono poi deliziosi formaggi
dal gusto dolce da gustare con fragrante pane casareccio. Nella cucina di
San Marco si rispecchiano le caratteristiche di tutte le cucine meridionali,
con olio e verdura in abbondanza e la pasta lavorata in casa, ma soprattutto
si manifesta la gioia di vivere degli abitanti di questa terra antica,
custodi della fedeltà ai più semplici princìpi della vita.
Motivo in più per visitare questa cittadina e respirarne la fraterna
solidarietà e l’attaccamento alle tradizioni.
Viaggio tra le grotte dove San Michele sconfisse il male
Nei primi secoli di affermazione del Cristianesimo in numerose grotte del
meridione si veneravano ancora divinità pagane. Per arginare queste
tradizioni nelle popolazioni locali, la Chiesa si attivò per sostituire
questi antichi riti con il culto della Madonna e dei Santi. Tra questi venne
scelto San Michele, l’Arcangelo che simboleggia la vittoria contro gli
angeli ribelli capitanati da Satana, che, sconfitti, vennero precipitati
negli inferi. Egli presentava molte delle caratteristiche possedute dalle
precedenti divinità pagane, come Anubi, Apollo, Mercurio e Mithra.
Il culto di San Michele, originario dell’ Asia minore, si diffuse poi ad
Alessandria d’Egitto per essere poi introdotto in occidente dai bizantini.
Approdò inizialmente sul Gargano, insediandosi nella grotta di Monte Sant’Angelo,
dove il Santo apparve nel 490, nel 492 e nel 493, mentre in precedenza vi si
veneravano Calcante e Podalirio, divinità legate al culto delle acque
miracolose.
La duplice presenza delle forze del bene e del male, secondo alcuni racconti
popolari, si protrasse per molti secoli. In seguito il culto di San Michele
si diffuse in tutto il mondo occidentale grazie ai longobardi, che lo
elessero a patrono nazionale, dopo la loro conversione al cristianesimo
avvenuta alla fine del VII secolo.
La grotta di Monte Sant’Angelo divenne così la capostipite di tutte le
cavità legate al culto micaelico e la sua fama divenne tale da diventare,
insieme al sepolcro di Gesù a Gerusalemme, alle tombe degli apostoli Pietro
e Paolo a Roma ed al santuario di Santiago de Compostella in Spagna, uno dei
centri della cristianità più frequentati e tappa obbligatoria per i
pellegrini che si recavano in Terra Santa.
In Campania numerose sono le grotte dedicate al culto di San Michele, tra le
più belle va annoverata quella ad Olevano sul Tusciano, che mostra subito il
suo utilizzo nel corso dei secoli, a partire dall’età del ferro come
dimostrano vasellame e selci del periodo preistorico.
La parte più importante è composta da sei cappelle, collegate tra loro da
camminamenti, visitate da Gregorio VII nel 1614.
Nella più importante sono conservati affreschi bizantini di pregevole
fattura risalenti all’VIII – IX secolo. Vi è anche un passaggio che conduce
ad un ramo laterale noto come il rifugio del brigante Nardantuono.
Sempre nel salernitano, nei monti Alburni, a Sant’Angelo a Fasanella, vi è
un ipogeo sorprendente che, attraverso un portale con due leoni stilofori,
immette in un vasto antro, frequentato già nel paleolitico, in cui si
conservano un altare dedicato all’Immacolata con una pregevole tela del 1600
e, in un corridoio, due statue di Vergini con Bambino.
Infine ad Avella, in provincia di Avellino, la cosa più bella della grotta è
la cappella dedicata a San Michele, dominata da un grande baldacchino in
stile barocco del 1816, che ospita una statua del seicento con il santo che
schiaccia un Lucifero ringhiante.
Il pesce Nicolò e la leggenda del coccodrillo
Le leggende napoletane sono numerose e molte sono legate al mare, come
quella del “Pesce Nicolò”, nota da tempo immemorabile, della quale si
rischia di perdere il ricordo perché non vi è più traccia, in Via
Mezzocannone, del bassorilievo di epoca classica rappresentante Orione,
venuto alla luce durante gli scavi per le fondamenta del Sedile di Porto,
murato nel settecento, ricordato poi da una lapide.
Il bassorilievo, cui accenna anche Benedetto Croce, raffigura un uomo
coperto da un vello con in mano un coltello. Il nome del protagonista è
“Cola Pesce” o “Pesce Nicolò”.
La storia prende spunto da un'antica leggenda siceliota in cui si parla di
un ragazzo, maledetto dalla madre, che, a furia di nascondersi tuffandosi
nel mare ed a vivere tra i flutti, assume le sembianze di un vero e proprio
pesce che, per lunghi spostamenti, si serve del corpo di grossi “Collegni”,
dai quali si fa inghiottire per poi tagliarne il ventre, una volta giunto a
destinazione.
Da questo illustre progenitore prese origine una confraternita di
sommozzatori, che venivano iniziati ad un culto marino in onore di Poseidone,
con lo scopo di prendere possesso delle ricchezze poste nelle grotte più
profonde del golfo. Essi adoperavano delle alghe che, trattate con una
formula segreta, erano in grado di aumentare considerevolmente il tempo di
resistenza in apnea, pari o superiore ai sommozzatori dotati di bombole.
Taluni di questi si accoppiavano con dei rarissimi sirenoidi, oggi scomparsi
dal golfo di Napoli ed è bello pensare che le rare foche monache, che ancora
si scorgono al largo di Capri, siano gli antichi discendenti di questi
accoppiamenti ibridi.
Sembrerebbe che uno degli ultimi di questi soggetti sia stato utilizzato
dagli Alleati, in assoluta segretezza, per ricerche sottomarine nel golfo di
Napoli.
La leggenda di Colapesce si diffuse per tutto il Regno ed in Sicilia si
racconta che uno di questi esseri, sceso nelle acque più profonde, resosi
conto che uno dei tre pilastri che reggevano l'Isola stava cedendo, si
sacrificò per sostituirsi nell'opera di sostegno.
Gli ultimi discendenti di questi mitici personaggi possono essere
considerati quei ragazzini che ancora oggi, tutti nudi sempre abbronzati
d'estate e d'inverno, si tuffano per raccogliere con la bocca le monete
gettate a mare da turisti ammirati e, nello stesso tempo, preoccupati per la
lunga apnea di quegli esili corpicini, più volte immortalati dal grande
scultore Vincenzo Gemito.
Un'altra leggenda famosa è quella di un famelico coccodrillo che, forse, al
seguito di qualche nave, dopo aver percorso tutto il Mediterraneo, trovò
alloggio nei sotterranei del Maschio Angioino, dove i castellani, accortisi
della sua presenza, pensarono di utilizzarlo per sopprimere sbrigativamente
i condannati a morte.
Sebbene poco credibile, la storiella trovò accoglienza dai napoletani a tal
punto che a lungo un coccodrillo impagliato fu appeso all'ingresso del
Maschio Angioino.
E qui si innesta una seconda leggenda secondo la quale i suoi pasti più
sostanziosi erano costituiti dai numerosi amanti che la regina Giovanna,
dopo l'amplesso, faceva precipitare giù, attraverso una botola, fino
all'alloggio del famigerato coccodrillo.
Ma, dobbiamo chiederci, questa assatanata regina Giovanna è mai esistita?
Gli storici conoscono due sole regine: Giovanna D'Angiò e Giovanna di
Durazzo, entrambe dai costumi sessuali alquanto disinibiti.
A risolvere la querelle fu Benedetto Croce, secondo il quale la Giovanna
della leggenda va ricercata nella sovrapposizione delle due Giovanne
realmente esistite e miscelate, aumentando i difetti dell'una e dell'altra,
fino a creare un terzo orripilante personaggio.
Guappi e malafemmene
Quando si parla di “sceneggiata” si pensa a Napoli, mentre il teatro dei
Pupi ci porta diritto in Sicilia. Invece anche questo tipo di
rappresentazione popolare è nata a Napoli quando, durante gli anni del
Viceregno, i “Titeros” castigliani trasferiscono all’ombra del Vesuvio un
formulario ricavato dalle gesta eroiche di cavalieri in lucenti armature,
impegnati in cruente sfide a colpi di fendenti.
Mal sul finire dell’Ottocento le turbolente vicende ricavate dall’ Orlando
il Furioso e dalla Gerusalemme Liberata cominciarono lentamente ad essere
soppiantate da storie ambientate nel mondo della camorra ed i Pupi dismisero
armature e spadoni per vestire gli abiti eleganti del “Masto”, il capo
quartiere che dirime le questioni del guappo, abile con il coltello e
sboccato nel linguaggio o della donna contesa, dalle forme esuberanti, causa
di sfide tra pretendenti, che si concludono costantemente con un
accoltellamento e copioso versamento di sangue, ottenuto da interiora di
pollo, gettate al momento opportuno sul palcoscenico, mentre il pubblico
esaltato grida “muori omme e merda” e reclam il bis.
Questo ulteriore primato napoletano sarebbe rimasto disconosciuto senza il
paziente lavoro di Alberto Baldi, docente di Antropologia culturale alla
Federico II, il quale con un certosino lavoro di ricerca ha recuperato in
polverose soffitte un materiale documentario dimenticato e condannato alla
dispersione.
Tutto andrà irrimediabilmente perduto se non viene reso pubblico ma,
soprattutto, è importante che una lodevole iniziativa dell’amministrazione
provinciale, di creare una piccola struttura museale di alcune stanze del
convento di Santa Maria La Nova, possa trovare i modesti fondi per aprirsi
alla pubblica fruizione creando così anche un’intrigante attrazione per i
turisti.
Castelnuovo, una superba fortezza
Nel 1266 Carlo D’Angiò, quando conquistò Napoli, non trovò adeguata la
residenza reale di Castelcapuano, nonostante Federico II l’avesse resa
sfarzosa, per cui volle costruirsi un castello fortificato che affacciasse
sul mare.
Scelse il “Campus Oppidi”, una località fuori dalle mura, dove sorgeva una
chiesetta francescana, che venne demolita e ricostruita altrove.
Affidò i lavori a due architetti francesi, Pierre De Chaule e Pierre D’Angicourt,
che, lavorando alacremente, la completarono in soli 56 mesi, dotandola di 4
torri di difesa, un profondo fossato ed un ampio ingresso, al quale si
accedeva da un ponte levatoio.
Il re non riuscì mai ad abitarla perché impegnato nei Vespri Siciliani,
scoppiati nel 1282, ed a sedare una sommossa popolare a Napoli. Ne prese
possesso nel 1285 suo figlio Carlo II, il quale provvide ad abbellirla,
affidando le decorazioni interne a Pietro Cavallini e Montano D’Arezzo,
mentre il suo successore Roberto D’Angiò, detto il “Saggio”, si servì anche
del sommo Giotto, a Napoli dal 1328 al 1333, il quale affrescò le pareti
della cappella palatina con scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, di cui
rimangono piccoli lacerti, ma che all’epoca furono molto ammirate, anche dal
Petrarca, che le descrisse nell’”Itinerarium Syriacum”.
Il re fu grande amante delle lettere e delle arti per cui creò un vero e
proprio cenacolo con pittori, letterati e poeti, oltre ad una rinomata
scuola di giuristi: da Andrea D’Isernia a Bartolomeo Caracciolo e Cino da
Pistoia.
Tra le mura di Castelnuovo si consumò anche il “gran rifiuto” di Celestino
V, uno dei pochi precedenti, in 2000 anni di Chiesa, dell’abdicazione di
Benedetto XVI. Il 12 dicembre 1294, nella sala maggiore, da allora detta del
“tinello”, il vecchio eremita, davanti alle alte cariche della Chiesa, lesse
l’abiura, si sfilò l’anello, rimase in cotta bianca, benedì il popolo e si
ritirò a vita privata. Dieci giorni dopo, nella stessa sala, il conclave
elesse pontefice Benedetto Caetani, il famigerato Bonifacio VIII, che Dante
collocò nell’Inferno.
Alla morte di Roberto I il Saggio, il “Maschio” fu abitato da Giovanna D’Angiò,
donna dai costumi disinibiti, che fece uccidere il marito, fratello del re
d’Ungheria, scatenando le ire del popolo guidato da Tommaso De Jaca, che fu
eliminato dall’amante della regina. A vendicare il fratello intervenne
personalmente il sovrano magiaro, il quale saccheggiò il castello, senza
però catturare la regina, scappata prudentemente in Francia. Il maniero fu
ridotto in uno stato pietoso a tal punto che alcuni storici raccontano che
divenne una sorta di lupanare.
A consolidare questa leggenda collaborò anche la seconda regina di nome
Giovanna, sorella di Ladislao, la quale consumò una serie frenetica di
amplessi con giovani di ogni estrazione sociale, che, dopo la coniuxio,
venivano eliminati attraverso una botola.
Nel 1442 vi fu un cambio di dinastia con la corona di Napoli cinta da
Alfonso D’Aragona, detto il ”Magnanimo”, grande mecenate e protettore delle
arti, sul modello di Lorenzo il Magnifico a Firenze. Fondò la celebre
Accademia Pontaniana, che riunì i migliori ingegni del tempo, da Sannazaro a
Summonte, fino a Masuccio Salernitano, autore del “Novellino”, una raccolta
di novelle alla maniera del Boccaccio.
Il re fece imponenti lavori di consolidamento ed anche gli ambienti interni
furono abbelliti da maestri spagnoli, quali Guglielmo Segrera, a tal punto
che il pontefice Pio II paragonò il castello alla reggia di Dario.
La sala maggiore è un miracolo di statica architettonica con il soffitto a
costoloni. Essa prese il nome di “Sala dei Baroni” perché nel 1486 il figlio
di Alfonso, Ferrante D’Aragona, riunì tutti i nobili del regno, che gli
erano ostili e, fingendo una tregua, diede ordine di arrestarli in massa.
Alfonso volle lasciare un messaggio ai posteri del suo ingresso in città e
fece erigere uno spettacolare Arco di Trionfo che rappresenta una delle più
belle opere del Rinascimento, al quale lavorarono Guglielmo Da Majano,
Luciano Laurana, il Pisanello e Pietro Da Milano, i quali realizzarono un
delicato equilibrio tra volumi e spazi, coniugando valori plastici ed
architettonici in un insieme estremamente armonioso.
La realtà storica è alquanto diversa perché Alfonso conquistò la città non
attraverso una battaglia, bensì introducendosi con i suoi guerrieri
attraverso una cloaca, sbucando da un pozzo in un cortile di Santa Sofia: a
conferma della verità, vi è una pensione annua di 36 ducati alla portiera
dello stabile, le cui ricevute sono conservate nella Tesoreria Aragonese.
Grande interesse rivestono le porte di bronzo del castello, attualmente
conservate nel Museo Civico del Maschio Angioino, che presentano degli
squarci: in uno di questi fa bella mostra di sé una palla di cannone. I
sotterranei del castello presentano tetre prigioni corredate da catene
arrugginite e porte cigolanti.
Durante gli scontri tra Spagnoli e Francesi, Carlo VIII saccheggiò il
maniero che, piano piano, perse d’importanza, nonostante Carlo V vi
soggiornasse nel 1535 e Don Pedro Da Toledo lo circondasse con un’ampia
cinta bastionata.
I Borbone preferirono altre sfarzose residenze, anche se Ferdinando I
provvide, con un agile ponte, a collegarlo al Palazzo Reale.
Nel secolo scorso la decadenza ha raggiunto l’acme quando fu trasformato in
uffici, tra i quali la Direzione della Nettezza Urbana , e, soprattutto, la
Sala dei Baroni, che aveva accolto Pontefici e Cardinali, Re e Regine, si
trasformò in aula del Consiglio Comunale, dove gli eletti del popolo si
abbandonavano ad insulti e scazzottate, mentre turbe di disoccupati
esasperati lo assediavano reclamando il miraggio di un lavoro.
La nuova metropolitana: una felice sintesi tra arte, storia e
funzionalità
In un altro capitolo dedicato alla metropolitana e al sistema ferroviario
che collega gran parte della provincia di Napoli si era sottolineata la
lungaggine dei lavori, cominciati nel 1975 e non ancora conclusi, ma negli
ultimi tempi, grazie anche al corretto utilizzo dei fondi europei, il
progetto ha cominciato a galoppare con l’apertura di nuove importanti
stazioni ed oggi il completamento sembra non più un sogno ma quanto mai
imminente.
La Napoli del futuro, in cui tutti speriamo, dovrebbe divenire una città
dove la storia si coniuga al paesaggio con nuovi spazi che infondono
coraggio e rasserenano l’anima.
La società privata concessionaria del progetto adopera le tecniche più
avanzate nell’esecuzione dei lavori, valorizza le numerose rarità
archeologiche trovate durante gli scavi con la finalità di realizzare una
rete di trasporti sotterranei tra le più efficienti d’Italia, dove al
momento vi sono appena 150 chilometri di metropolitane a confronto della
sola Parigi che ne possiede 210.
Fino ad ora la linea 1 ha in esercizio 13 chilometri che servono 14
stazioni, ma a breve vi sarà l’apertura delle fermate più affascinanti, dove
l’arte, la storia e l’archeologia si fondono con il trasporto underground:
Piazza Municipio, Duomo, Piazza Garibaldi.
Un tracciato ideale di porte di accesso alla città con la sua storia, un
movimento sotterraneo in grado di snellire il traffico e rendere finalmente
vivibile lo spazio urbano.
Vi saranno quattro porte: quella del mare a Piazza Municipio, quella di
terra in Piazza Garibaldi, quella di storia al Duomo, per finire alla porta
del cielo all’aeroporto di Capodichino.
Tra i più importanti ritrovamenti archeologici, oltre a quelli di Piazza
Municipio, vi sonno quelli a Piazza Nicola Amore, ove è venuto alla luce un
tempio del II secolo d. C., che ha confermato che anche a Napoli si
svolgevano le Olimpiadi, mentre il favoloso porto di Neapolis, ricostruito a
Piazza Municipio, sarà un sottopassaggio che comunicherà con la Stazione
Marittima attraverso un vero e proprio museo. Un progetto frutto
dell’ingegno di due archistar di livello internazionale. Alvaro Siza Veira
ed Eduardo Souto De Moura.
Entro l’estate aprirà poi la stazione di Piazza Garibaldi, mentre di recente
è stata inaugurata la fermata di Toledo in un’area dove sono venuti alla
luce reperti dal paleolitico agli anni del dominio aragonese.
Fino ad ora abbiamo parlato di sfarzo architettonico delle stazioni, ma non
bisogna dimenticare le numerose opere di artisti contemporanei, le quali
trasformano le fermate in un vero e proprio museo.
L’unica amara constatazione è che a Napoli la cultura e l’arte moderna siano
finite sottoterra dopo che, in occasione del G7, i cittadini cominciarono a
vibrare di nuova linfa creativa e abbandonarono (temporaneamente, purtroppo)
il loro inconcludente fatalismo per rivolgersi al futuro.
La scintilla fece divampare il fuoco: emersero scultori (Mimmo Paladino,
Jannis Kounellis, Anish Kapoor), registi (Mario Martone, Pappi Corsicato,
Roberta Torre), musicisti (Almamegretta, 99 Posse, I Zezi), aprirono atelier
di artisti, il teatro sperimentò, nacquero case editrici ed etichette
discografiche.
Si coniò il termine, a lungo abusato, di Rinascimento napoletano, poi tutto
è finito.
La produzione artistica è tornata quella oleografica di sempre, tra
neomelodici e sceneggiate, mentre i musei di arte contemporanea, il MADRE e
il PAN, vuoti di fondi, opere e passioni, rischiano di chiudere.
Per vedere all’opera i grandi artisti bisogna scendere le scale mobili della
stazione Toledo, aperta di recente e giudicata dal Daily Telegraph come la
più bella d’Europa, grazie alle opere di William Kentridge, Bob Wilson e
Achille Cevoli.
Il sindaco è giustamente orgoglioso di avere una delle metropolitane più
belle del mondo e di aver lottato per non perdere i finanziamenti necessari
al completamento, cosa frequentemente avvenuta in passato; come pure è del
parere che andrebbe eliminato il filtro regionale, affidando direttamente ai
sindaci i finanziamenti per opere della loro città.
Come pure solleva l’importante problema di chi dovrà essere responsabile
della sorveglianza e della manutenzione; infatti qualche scarabocchio
comparso in alcune stazioni rappresenta già una spia allarmante.
La nascita di Fuorigrotta
Fino all’inizio del secolo scorso Fuorigrotta era tutta verde, abitata da
famiglie di contadini.
Era un luogo alquanto malfamato, rifugio di latitanti e chi vi accedeva
attraverso la Canzanella (l’attuale Via Caravaggio) lo faceva col cuore in
gola perchè continue erano le aggressioni alle quali il Fascismo, con le
maniere forti, mise fine.
La spiaggia di Coroglio era un paradiso in terra, affacciata su un mare
limpidissimo, meta di villeggiatura delle famiglie borghesi, che avevano le
loro villette a Bagnoli (inclusi i miei nonni, i quali possedevano un
palazzetto in Via Ilioneo, che ancora esiste, trasformato in un condominio
di sottoproletari).
Erano ancora lontani i tempi dell’Ilva, che rappresentò a lungo il fiore
all’occhiello della siderurgia italiana e collaborò alla formazione di una
classe operaia consapevole, per diventare poi Italsider e, crollato il
mercato, una roccaforte comunista, che ha divorato migliaia di miliardi allo
Stato, ha inquinato il mare e l’ambiente, per trasformarsi infine in quel
mostro ecologico inamovibile, per le beghe dei politici, che grida vendetta
a Dio, perché preclude ogni progetto di rinascita della città, mentre
potrebbe trasformarsi in un grande porto turistico con alle spalle alberghi
di lusso e, semmai, anche un casinò che, attirando una ricca clientela
internazionale, procurerebbe benessere e posti di lavoro.
Ed arriviamo al fatidico 6 maggio 1936, quando Mussolini, dal
balcone-pulpito di Piazza Venezia, ad una folla accorsa ad osannarlo,
annuncia trionfante, “Al di là dei Monti, al di là dei Mari, al di là degli
Oceani”, la fine della guerra di colonizzazione ed il “ritorno dell’Impero
sui colli fatali di Roma”.
Un anno dopo stabilisce la creazione di un grandioso complesso per ospitare
ogni tre anni una mostra delle “Terre Italiane d’Oltremare” non a Palermo,
non a Bari, non a Genova, bensì a Napoli, centro del Mediterraneo, ed in
meno di due anni, lì dove erano vecchi casali agricoli, sorgerà la Mostra
D’Oltremare, un polo di grande attrazione turistica e commerciale.
Dopo le triennali di Mussolini vi furono quelle repubblicane. All’architetto
Carlo Cocchia fu affidato il compito di dare una nuova identità alla
struttura ed il 9 giugno 1952 il presidente Einaudi inaugurò la prima
triennale della nuova epoca dedicata al “Lavoro Italiano nel Mondo”.
La Mostra d’Oltremare, uno degli ultimi grandi lavori pubblici della Napoli
moderna, rappresentò il canto del cigno dell’imprenditoria artistica
meridionale.
Fu l’atto finale del decennio d’oro dell’architettura e dell’urbanistica a
Napoli, che vide sorgere gli ospedali collinari “XXIII marzo” ed il
sanatorio “Principe di Piemonte” (poi ribattezzati “Cardarelli” e “Monaldi”),
il nuovo Rione Carità (con i palazzi delle Poste, delle Finanze, della
Provincia, della Questura, del Banco di Napoli), le strade panoramiche di
Posillipo, la stazione di Mergellina e la stazione marittima, l’Istituto dei
Motori fino ad arrivare al Collegio Ciano, che diverrà la sede della Nato ad
Agnano.
La triennale delle Terre d’Oltremare era suddivisa in tre padiglioni
indipendenti, ognuno dei quali illustrava le caratteristiche geografiche
delle zone conquistate e le opere di valorizzazione industriale messe in
atto dall’Italia. Vennero impegnati 120 artisti che realizzarono sculture,
mosaici e tappeti di ceramica.
Vi erano anche dei leoni berberi, divisi dai visitatori da un profondo
fossato, che dava l’impressione di essere a stretto contatto con quei felini
stupendi. Nel padiglione della Libia si gustava un ottimo caffè turco,
mentre si poteva ammirare una splendida libica che danzava a seni nudi.
Erano i tempi in cui il pubblico affollava i cinema per godere dei seni di
Clara Calamai, che comparivano per cinque secondi.
Che tristezza vedere una superba struttura, adibita negli ultimi anni ad
ospitare, al massimo, la “Fiera della Casa”.
I riti della fertilità
Tutti i popoli antichi hanno tenuto in grande considerazione la fertilità
della terra senza trascurare quella femminile, per cui agli uomini piacevano
le donne grasse, come la Venere di Willendorf (cfr. sul web: a.della ragione
pag. 9 - fig. 1) oppure le opulente modelle di Giorgione e Tiziano (cfr.ibidem,
pag. 28/29, fig. 39/41), perché ritenevano che avrebbero certamente
allattato il nascituro. Inoltre tenevano in grande considerazione le
puerpere, come ci dimostrano le maestose “Matres Matutae” (cifr.ibidem, pag.11,
fig.6) conservate al Museo di Capua.
Veneravano la dea Demetra, mentre nel Medio Evo andò di moda il culto delle
“Madonne del Latte” (cifr.ibidem, pag. 11, fig. 4) o la “Madonna del Parto”,
il celebre capolavoro di Piero della Francesca, conservato nel Museo di
Monterchi (Arezzo), cui possono accedere gratuitamente le donne incinte.
In area napoletana i riti pagani subiscono nel tempo una metamorfosi per
l’influsso della religione cristiana.
Noi descriveremo tre riti: il primo prettamente pagano, il secondo con
un’evidente contaminazione, il terzo squisitamente cattolico.
Nella grotta di Piedigrotta si svolgeva il rito a “Venere Genitrice”,
praticato dalle spose sterili, che invocavano la grazia della fecondità e
durante tutto il mese di settembre, alcuni volenterosi e ben dotati
sacerdoti, grazie all’effetto di potenti afrodisiaci, si attivavano in
maniera biblica per ingravidare quante più donne possibile.
Petronio, Seneca e Strabone ci raccontano che, mentre all’interno ci si
attivava per la riproduzione della specie, all’esterno, tra anfratti e
cespugli, la plebe si abbandonava al ritmico suono di strumenti musicali, ad
amplessi multipli, in un’atmosfera delirante di eccitazione.
La più divertente commistione tra riti pagani e ritualità cattoliche resta
senza dubbio quella del “vaso ‘o pesce ‘e San Raféle” (bacio al pesce di San
Raffaele) che, per secoli, le ragazze da marito, e qualcuna ancora oggi,
officia nella chiesa dedicata all’Arcangelo nel quartiere Materdei.
San Raffaele, protettore dei pescatori, è rappresentato come un bellissimo
”Genio Alato” che regge nella mano il pesce, a rappresentare il “phallos
neapolitano”, antico simbolo della virilità napoletana.
Ogni giovane e casta promessa sposa napoletana ha baciato con speranza e
passione quell’ancestrale archetipo della fecondità, che assicura la
sopravvivenza della specie come il pescato assicura la sopravvivenza
quotidiana.
L’ultimo rito di fecondità che si svolge in Occidente, a Napoli, è
perfettamente cattolico e si svolge nel cuore dei Quartieri Spagnoli, a due
passi da Via Toledo, nella casa dove abitò Santa Maria Francesca delle
Cinque Piaghe, l’unica donna meridionale salita alla gloria degli altari.
Il sei di ogni mese, al numero 13 di Vico Tre Re, sin dalle prime ore del
mattino, si mettono in fila decine di donne desiderose di prole, per
accedere al “Sancta Sanctorum” della procreazione e potersi sedere sulla
sedia dei miracoli, quella dove la Santa trascorse la sua vita a pregare e
ricamare.
Prima vengono ricevute da Suor Giuliana, che ascolta pazientemente storie di
odissee da un medico all’altro con miriadi di tentativi falliti. Quindi la
religiosa sfiora il ventre della donna con un reliquiario contenente una
vertebra ed una ciocca di capelli della Santa, al che molte percepiscono una
vampata di calore, uno strano formicolio, una sorta di energia positiva, in
grado di infondere speranza.
Si tratterà di suggestione, di un raffinato effetto placebo, certo è che
molte ritornano l’anno successivo a ringraziare col figlioletto in braccio.
E tutto ciò avviene da alcuni secoli, dal 6 ottobre 1791, giorno della morte
della santa francescana, la quale, in vita, oltre al dono della profezia,
aveva anche quello di compiere prodigi, come quello di indurre una statua di
Gesù Bambino ad animarsi, per farsi vestire con gli abitini che lei stessa
aveva cucito per Lui (statua che anni fa fu oggetto di un furto sacrilego
che scatenò l’indignazione popolare).
Da devozione locale, in un mondo globalizzato, grazie al web, la fama della
Santa dei Quartieri ha raggiunto tutto il mondo, facendo accorrere donne da
Milano e Palermo, ma anche da Madrid, da Parigi, dagli Stati Uniti e
dall’America latina.
Addirittura alcuni armatori offrono ai crocieristi in viaggio di nozze uno
speciale pacchetto, che include la visita alla casa-sacrario, colma fino
all’inverosimile di fiocchi rosa ed azzurri, oltre a bomboniere, esposti
come ex-voto.
Tra gli ospiti d’onore ricordiamo Sua Altezza Reale Sergio di Jugoslavia,
figlio di Maria Pia di Savoia, nata proprio a Napoli.
Ed inoltre crescono come funghi i siti che celebrano il culto su internet,
dai quali è possibile scaricare la preghiera per chiedere la grazia alla
Santa, scritta in uno sgangherato italiano ottocentesco.
Naturalmente, non mancano le implorazioni in community e le segnalazioni dei
miracoli on-line.
Il triste declino della biblioteca dei Girolamini
La biblioteca dei Girolamini ha costituito da sempre uno dei fiori
all’occhiello di Napoli, con un prezioso patrimonio librario secondo solo a
quello della Nazionale ed una spettacolare sala Vico, di una tale
grandiosità che è arduo trovare in Italia un’altra con cui possa gareggiare.
Sala Vico da tempo immemorabile non visitabile. Ricordo che quando
accompagnai, nel corso delle mie visite guidate, un centinaio di
appassionati a visionarla, dovetti chiedere permessi e favori a destra e
manca, come nessun altro monumento “negato” della città.
La biblioteca è stata sempre custodita dai monaci dell’annesso convento,
dove spesso vi erano fenomeni tra il magico ed il segreto, che richiedevano
per essere interpretati di un esperto in esoterismo che avesse “occhi per
vedere ed orecchie per sentire”. Ed a conferma di questi fenomeni ci viene
in aiuto un inquietante episodio accaduto nel convento dei Girolamini,
citato da diverse fonti, riguardante la permanenza come ospite di un
illustre cavaliere Don Carlo Ulcano, durante la quale, di notte le
suppellettili si spostavano, pietre cadevano dal soffitto, in un incalzare
di frastuoni di catene e porte che cigolavano, mentre spesso i monaci si
svegliavano legati tra loro per la tonaca. Di giorno tutto si svolgeva
regolarmente, mentre di notte si scatenava un vero e proprio Inferno.
Andato via il cavaliere i fenomeni scomparvero ma le fonti non spiegano il
perché.
Don Carlo si era recato nel convento né per meditare, né in preda ad una
crisi mistica, bensì perché intendeva consultare durante la notte quei
libri, allo scopo di scoprire i segreti della evocazione, che tanto
interesse destavano nella aristocrazia tra il Cinquecento ed il Seicento, un
secolo che vide celebrarsi numerosi processi per stregoneria.
Inesperto egli nel legger le formule scatenava incontrollate presenze
malefiche, che si riversavano sui malcapitati frati, senza riuscire a creare
quel cerchio difensivo che avrebbe saputo preparare un occultista esperto.
Con il terremoto del 1980 fu assestato il colpo di grazia alla biblioteca,
prima con i gravi danni provocati dal sisma, poi con l’invasione da parte di
coloro che abitavano in case pericolanti, i quali senza che nessuno si
opponesse al loro disegno criminoso, si trasferirono in massa con materassi
e suppellettili nei locali della biblioteca, dove vissero indisturbati per
anni e colmo della sfrontatezza, novelli barbari, bruciarono le pagine di
centinaia di codici ed incunaboli per riscaldarsi nelle tiepide notti
partenopee.
Dopo la plebaglia ed un interminabile periodo di chiusura, è stato il
momento dei colletti bianchi, che per anni, con la regia del direttore De
Caro, hanno depredato migliaia di preziosi volumi della sfortunata
biblioteca, che sono finiti in private raccolte e sul mercato
internazionale. In un filone secondario dell’indagine è spuntato anche il
nome del senatore Dell’Urti, bibliofilo accanito, indagato per in concorso
in peculato, il quale ha dichiarato che si trattava di omaggi del direttore
ed ha restituito alcuni volumi, ma non ancora una copia dell’Utopia di
Tommaso Moro, che dichiara candidamente di aver smarrito.
Finalmente si è giunti alla 1^ udienza del processo con rito abbreviato, nel
quale il PM Antonella Serio ha chiesto pesanti condanne per i 6 imputati, i
quali, con ruoli diversi avrebbero portato nottetempo via, nascosto e
rivenduto i libri antichi “con un brutale e sistematico saccheggio”, dei
quali solo una piccola parte è stata ritrovata, grazie alla collaborazione
di antiquari stranieri. Risaltano i dieci anni di reclusione per il
direttore De Caro ed i sei anni e sei mesi per Viktoriya Pavloskiy, la sua
factotum tuttofare…
Antico splendore ed attuale miseria delle Ville Vesuviane
Il “Miglio d’oro”, per più di un secolo indiscusso protagonista della
mondanità napoletana, versa oggi in un vergognoso stato di degrado che grida
vendetta.
Delle 31 ville vesuviane censite e tutelate dall’omonimo Istituto, nato allo
scopo di salvaguardare l’enorme patrimonio ereditato dall’epoca borbonica,
in cui erano molte di più, poche appartengono allo Stato, come il Palazzo
Reale di Portici, sede della facoltà di Agraria, e Palazzo Mascabruno, da
poco liberato dagli occupanti abusivi, del quale è in corso un parziale
recupero, così come per il Galoppatoio Reale, di cui parleremo più avanti.
Sempre a Portici, vi sono Villa Mascolo, restaurata dal Comune, e Palazzo
Valle, sede della Polizia Penitenziaria.
Tra quelle private in condizioni di deplorevole abbandono, vi sono Villa
Lauro Lancellotti, Villa Zelo e Palazzo Ruffo di Bagnara. Villa d’Elboeuf,
ridotta ad un cumulo di macerie, fra poco sarà messa all’asta per la gioia
degli speculatori.
Tutto nacque proprio da questa villa, quando nel 1711 il Principe d’Elboeuf
ordinò ad uno dei massimi architetti del tempo, Ferdinando Sanfelice, di
costruirgli una dimora “la più sfarzosa possibile”, su una superficie di
oltre 40.000 metri quadrati, protesi sul mare, dotati di spiaggia privata,
da cui si poteva ammirare estasiati l’intero arco del golfo.
Proprio affianco, re Carlo di Borbone costruì la sua reggia estiva e poco
dopo nel 1839, re Ferdinando II inaugurò la ferrovia Napoli-Portici, seconda
al mondo e prima in Italia.
Il Principe d’Elboeuf arredò la villa con tantissime statue e reperti
archeologici provenienti dagli scavi di Ercolano tanto da dare l’impressione
a re Carlo ed a sua moglie Amalia di Sassonia, ospiti del nobile dopo essere
stati sopresi da un fortunale durante una gita in battello, di trovarsi in
un vero e proprio museo.
Tutti i nobili napoletani, pur di abitare nei mesi caldi accanto al loro
sovrano ed invitarlo alle loro feste, intrapresero la costruzione di ben 121
ville, circondate da giardini lussureggianti, commissionandole a grandi
architetti che, da Luigi Vanvitelli a Ferdinando Fuga, da Domenico Vaccaro a
Ferdinando Sanfelice, si sbizzarrirono in un estroso roccocò.
Mentre le ville più celebri cadono a pezzi, alcune strutture sono oggetto di
un tentativo di recupero: Villa Matarazzo si trasformerà in un auditorium
con vista sugli scavi di Ercolano ed il terreno circostante sarà occupato da
uno stadio di 10.000 posti in grado di ospitare partite di serie B; la
Reggia della Favorita sarà convertita in un polo culturale delle arti ed i
cinque ettari di vigneto contigui, attualmente abbandonati, diventeranno
un’azienda vinicola.
Ma il recupero più grandioso sarà quello del Galoppatoio Reale, realizzato
nel ‘700 da Carlo di Borbone per consentire alla cavalleria reale di
allenarsi al coperto d’inverno.
Portici come Vienna, che a Hofstallgehaude vanta l’unico maneggio equestre
esistente in Europa.
Storia dell’aborto a Napoli ed in Italia
L’aborto in epoca romana si cercava di ottenere attraverso la
somministrazione di filtri a base di prezzemolo ed altre sostanze venefiche
(Pocula abortionis) che spesso portavano a morte anche la donna che li
assumeva.
In epoca classica non fu considerato un reato, ma solo un atto immorale ed
il Paterfamilias che avesse autorizzato la donna ad abortire poteva al
massimo essere oggetto di una censura, in quanto l’orientamento prevalente
era che il feto non era soggetto giuridico.
In età imperiale Settimio Severo e Antonino Pio introdussero due sanzioni
penali, tra cui quello molto severo di Relegatio in insulam. Infine in età
giustinianea, a causa delle influenze cristiane fu punito come delitto
contro il nascituro.
Per non appesantire ulteriormente l’articolo, consiglio chi volesse
approfondire la legislazione successiva fino alla 194 del 22/05/1978 e la
cangiante posizione della dottrina della chiesa, di consultare su internet
il mio saggio “L’Embrione tra Etica e Biologia”, pubblicato su Quaderni
Radicali n. 70-71-72 (maggio-agosto 2000) e la mia relazione “Metodiche
farmacologiche per provocare l’IVG”, tenuta il 17/01/2001 all’Istituto per
gli Studi Filosofici di Napoli, visibile integralmente nella teca di radio
radicale.
Entriamo così nel vivo della storia che vogliamo raccontare.
L’aborto a Napoli nel dopoguerra. Si tratta di aborto clandestino, almeno
fino al 1978, quando vigevano le normative del codice Rocco, che prevedevano
pene severe sia per il medico che per la donna, perché l’aborto era
considerato un reato contro l’integrità della stirpe. Per quasi venti anni
le donne povere erano costrette a ricorrere alle mammane, che applicavano il
“laccio”: un catetere introdotto nell’utero, che provocava una copiosa
emorragia ed un aborto spontaneo, che le permetteva di ricorrere in ospedale
per una “pulizia” tramite raschiamento.
Le signore e le signorine della borghesia si rivolgevano a tre nomi sulla
bocca di tutti: Monaco, Sivo, Ammendola, che chiedevano cifre iperboliche
anche un milione fino a quando non si presentò prepotentemente alla ribalta
Geltrude (lo chiameremo così perché è ancora vivente), il quale introdusse,
dopo averne conosciuto in America l’inventore, il Metodo Karman
(aspirazione), che rivoluzionò il mercato e mandò in pensione i tre colleghi
di cui prima abbiamo detto i nomi, ma sui quali vogliamo raccontare
qualcosa.
Monaco era il più celebre (a Napoli si cantava una canzoncina: ”Hai fatto “o
impiccio”, va’ addo’ monaco che to fa passa”), con studio in via Caracciolo
13, aveva strane manie, fascistone della prima ora, aveva sulla scrivania
una testa del duce, per chi volesse lasciare un’offerta al partito,
aggrediva le donne con parolacce e spesso era di mano lunga con preferenza
per le tette voluminose. Eroe misconosciuto dell’aviazione e sverginatore di
una celebre parlamentare, dal nome illustrissimo, che ancora siede sui sacri
scanni ( per chi volesse conoscerlo a fondo rinvio al mio breve libro su di
lui, sempre reperibile sul web: “Un eroe dimenticato da non dimenticare”).
Sivo, da consumato furbacchione, aprì anche lui il suo studio in via
Caracciolo 13. Sostituiva in agosto il più celebre collega, dividendo il
malloppo, ed aveva prezzolato il portiere, che inviava a lui tutti coloro
che dalla provincia si recavano al famigerato indirizzo, ignorando il nome
dell’abortista. Sperperò il denaro guadagnato e quando perse tutti i clienti
per via di Geltrude, chiuse miseramente la sua carriera come medico della
mutua a Marano.
Anche il terzo: Ammendola, con studio in piazza Amedeo, aveva le rotelle
fuori posto. Riteneva che l’uomo discendesse dall’orso e scrisse
sull’argomento in maniera così convincente da indurre un’autorevole rivista
come Tempo Medico a dedicargli la copertina ed un articolo di fondo.
Ammendola s’intreccia con il destino di Geltrude, il quale, quindicenne,
dovette ricorrere alla sua arte, avendo messo incinte in un mese due
ragazze. Alla vista del cassetto colmo di soldi, in cui con nonchalance lo
scienziato… riponeva il denaro decise in cuor suo: “Diventerò medico e farò
il triplo dei suoi soldi”.
Facciamo ora un salto al 1972, anno di laurea di Geltrude, il quale, avendo
appreso la nuova tecnica, si mise in contatto col Cisa e con l’Aied, che gli
procacciavano i clienti nell’ordine di migliaia al mese. Si organizzavano
dei pullman e dei voli charter per condurre plotoni di gravide presso il suo
studio in via Manzoni 184.
Egli oltre ad adoperare una tecnica rivoluzionaria, indolore e della durata
di un minuto, applicava una tariffa politica: 50.000 lire, a fronte del
milione dei colleghi e sulla sua scrivania troneggiava un cestino per il
denaro con una scritta esplicativa: "Chi può dia, chi non può prenda”.
Nel 1978, mentre in parlamento si discuteva della legge sull’aborto, si
autoaccusò di averne eseguito in due anni 14.000 in una intervista che uscì
a nove colonne sulla Stampa e fu ripresa da tutti i giornali e le
televisioni con uguale risalto.
L’ospedale dove lavorava lo licenziò in tronco, ma dopo 15 anni di cause lo
dovette riassumere pagandogli un miliardo di danni.
Geltrude si mise subito all’opera ed ideò una metodica farmacologica per
indurre l’aborto, accoppiando due sostanze riconosciute dalla farmacopea
ufficiale.
Di nuovo licenziato, perseguitato dalla magistratura, decise di continuare
la sua attività presso la clinica S. Anna di Caserta, autorizzata e
convenzionata per l’Ivg e da anni in mano alla camorra.
Cadde sulla classica buccia di banana: una sua vecchia paziente tentò di
estorcergli 200 milioni, altrimenti lo avrebbe denunciato di averla
sottoposta ad un aborto con violenza. Processato, dopo aver rinunciato a
patteggiare una pena di due anni e otto mesi, alla fine di un decennale
processo, con giudici cattolici e donne, è stato condannato ad una pena
degna di un boss della mafia: 10 anni, che attualmente sta scontando nel
penitenziario di Rebibbia
Il Teatro Margherita e il Cafè-Chantant
Possiamo cominciare questo capitolo con la fine della passeggiata per Via
Toledo, magistralmente descritta da uno scrittore straniero innamorato di
Napoli, la quale costituiva l’antipasto prima del divertimento, che aveva il
suo tempio nella Galleria dove si trovavano i più celebri Caffè-Chantant.
Alla fine del percorso possiamo immaginare che stia scendendo la sera, la
luce dei lampioni a gas, le insegne dei negozi: si illumina la scena. E
possiamo “vedere” la duchessa Caffarelli che passeggia con due gentiluomini,
il conte Perrone che esce dalla pasticceria Pintauro, alcune donne che
conversano allegramente concedendosi prolungate risate: sono le
demi-mondaines, giovani donne che si concedono solo agli uomini facoltosi.
Con le loro toilettes, ma più ancora con la loro bellezza, gareggiano con
dame aristocratiche. Dai negozi si entra e si esce sorridenti, coppie di
innamorati passeggiano scambiandosi sguardi languidi, schiocchi di frusta
sollecitano i cavalli. E’ l’ora della vita, è l’ora del cicaleccio, è l’ora
dell’amore, è l’ora in cui Toledo offre il gran finale del suo meraviglioso
spettacolo. (Alexandre Dumas)
Sul finire del XIX secolo, quando Parigi divenne il simbolo del divertimento
e della vita spensierata, i cafè-chantant valicarono le Alpi per essere
importati anche in Italia. La novità esplose a Napoli, dove l’epoca d’oro
del caffè-concerto coincise con quella della canzone napoletana. Nel 1890
per merito dei fratelli Marino, che capirono l’importanza di un’attività
commerciale redditizia da unire al fascino della rappresentazione dal vivo,
venne infatti inaugurato l’elegante Salone Margherita, incastonato nella
Galleria Umberto I.
L’idea fu vincente e ricalcò totalmente il modello francese, persino nella
lingua utilizzata: non solo i cartelloni erano scritti in francese, ma anche
i contratti degli artisti e il menu. I camerieri in livrea parlavano sempre
in francese, così come gli spettatori: gli artisti, poi, fintamente
d’oltralpe, ricalcavano i nomi d’arte in onore ai divi e alle vedettes
parigine. E’ chiaro come la clientela che affollasse il Salone Margherita
non fosse gente del popolino: in ogni caso, per i più disparati gusti,
sorsero altri cafè-concert come l’elegante Gambrinus, l’Eden, il Rossini,
l’Alambra, l’Eldorado, il Partenope, la Sala Napoli ed altri ancora che
ricalcavano spesso, anche nel nome, i cafè-chantant parigini. Anche altri
bar di Napoli, che in passato non presentavano spettacoli, si adattarono al
gusto del momento presentando numeri di varietà misti a canzoni.
Solitamente gli spettacoli proposti erano presentati in successione, con un
intervallo tra primo e secondo tempo del susseguirsi di rappresentazioni.
Solo verso la fine del primo tempo qualche personaggio noto appariva in
scena ma il clou veniva raggiunto al termine, quando il divo eseguiva il suo
numero. Importanti e famosi artisti che iniziarono la loro carriera proprio
nei caffè-concerto furono Anna Fougez, Lina Cavalieri, Lydia Johnson,
Leopoldo Fregoli, Ettore Petrolini, Raffaele Viviani.
Il cafè-chantant divenne in Italia non solo un luogo ed un genere teatrale,
ma anche qui, come in Francia, il simbolo della bella vita e della
spensieratezza, nel pieno della coincidenza con la Belle èpoque.
Al successo della canzone napoletana si accompagna la nascita del
cafè-chantant con l’inaugurazione del Salone Margherita, una settimana dopo
l’apertura della Galleria Umberto I, che in breve diverrà il cuore pulsante
della cultura e della mondanità cittadina. Il nuovo locale occuperà gli
spazi sotterranei ed ottenne in breve lasso di tempo un successo
internazionale, grazie al coraggio imprenditoriale dei fratelli Marino, che
sul loro palcoscenico fecero sfilare le più celebri vedettes internazionali,
come la Bella Otero o Cleo de Mérode, alle quali si affiancarono non meno
brave ed affascinanti prime donne indigene, che, pur sfoggiando modelli e
pseudonimi francesi, in onore del paese dove era nato quel tipo di
spettacolo, erano originarie del Vasto o del Pallonetto.
Assursero a grande notorietà anche molti comici come Gill, Pasquariello e
Maldacea o magnifiche cantanti, tra le quali spiccava il nome di Elvira
Donnarumma, la prediletta di Libero Bovio.
Sciantosa deriva dal francese chanteuse che vuol dire cantante, ma anche
primadonna, attrazione, fantasia: quella che oggi si definirebbe una star.
Sull’esempio del cafè-chantant di Parigi, negli anni che precedettero la
prima guerra mondiale, a Napoli furoreggiò il caffè-concerto, con
protagonista, appunto, le sciantose. Per essere il più possibile simili alle
colleghe d’oltralpe, le indigene adottavano nomi d’arte francesizzanti e gli
autori di canzoni ironizzavano volentieri su questa moda. Nacquero così “A
frangesa” di Mario Costa nel 1894, “Lily Kangy” del 1905 (la macchietta di
successo di Nicola Maldacea) e infine la famosa “Ninì Tirabusciò”, un nome
ed un cognome certo più eleganti di Nina Cavatappi. Questa leggendaria
figura fu creata nel 1911 da Califano e Gambardella e negli anni Sessanta il
ritornello, che fu il cavallo di battaglia di Gennaro Pasquariello, venne
rilanciato in televisione e al cinema da Monica Vitti in veste di sciantosa.
In epoca più vicina a noi le gustose tiritere di Ninì Tirabusciò sono state
rivisitate da Mirna Doris, autentica vedette dell’avanspettacolo, dalla
dosata ironia e dal gustoso piglio popolaresco.
Il successo del cinema fu tale che anche il mitico Salone Margherita fu
costretto ad inserire, all’interno della programmazione serale, alcuni
minuti di proiezione di un film. Una consuetudine che si ripeterà dopo circa
50 anni con l’avvento della televisione: infatti, a dimostrazione che ogni
nuovo mezzo espressivo cerca di scalzare il precedente, il giovedì sera
tutti i cinematografi interrompevano la pellicola in corso per permettere al
pubblico di seguire la puntata di “Lascia o raddoppia” con un allora
giovanissimo, ma già irresistibile, Mike Bongiorno.
Poco tempo dopo l’inaugurazione della Galleria Umberto I, al suo interno fu
aperto il Caffè Calzona. Ben presto i napoletani impararono a conoscerlo per
le serate di gala e i luculliani banchetti ufficiali che vi si tenevano.
Fu qui che, al ritorno da Parigi, fu festeggiata Matilde Serao per il
successo raccolto in terra francese e fu al Calzona che, per la prima volta
sul palcoscenico di un Cafè-chantant napoletano, ancor prima che al Salone
Margherita, si esibirono le girls. Era la mezzanotte del 31 dicembre 1899,
quando 12 bellissime ragazze, con il loro balletto, un po’ osè per quei
tempi, salutarono l’Ottocento come il secolo d’oro appena concluso e diedero
il benvenuto al neonato Novecento.
Ma gli spettacoli di varietà nel Caffè della Galleria non costituivano un
avvenimento eccezionale: erano in programma ogni sera. Il piccolo
palcoscenico, posto proprio al centro e rivolto verso Via Santa Brigida, fu
calcato da personaggi dello spettacolo rimasti famosi, in particolare dalla
coppia Scarano-Moretti, cioè il padre e la madre di Tecla Scarano. Gli
spettacoli del Calzona avevano tale successo di pubblico che anche i
giornali dell’epoca, spesso, ne pubblicavano le recensioni. Di solito, i
critici dei quotidiani seguivano solo le prime dei lavori in scena nei
numerosissimi teatri napoletani.
Anche il Caffè della Galleria, per i prezzi particolarmente bassi che
praticava e per gli spettacoli gratuiti e di buon livello, era divenuto un
punto d’incontro tra le classi ricche e quelle meno abbienti. Con la spesa
di soli tre soldini si prendeva il caffè seduto al tavolino e si poteva
trascorrere l’intera serata a godersi lo spettacolo.
C’era chi, più fortunato, poteva assistere dalle finestre del suo ufficio al
primo piano. Era il caso di Matilde Serao che, dalla redazione del Il
Giorno, tra uno scritto e l’altro, volgeva volentieri lo sguardo verso il
piccolo palcoscenico del Calzona.
Il Caffè, con la sua attività di spettacoli e con il suo pubblico
eterogeneo, fornì lo spunto ad una macchietta, inventata dal cronista
mondano del Mattino Ugo Ricci. La interpretò l’attore Nicola Maldacea nel
vicinissimo Salone Margherita. Nel dialogo si magnificavano le
caratteristiche del locale: <In fatto di cafè, presentemente, non v’è di
meglio d’ ‘o CafèCalzona…/ Questa è la mia modesta opinione: sempre secondo
il mio modo ‘e vedè>.
In realtà qualcosa di meglio doveva esserci se è vero che pian piano il
Calzona perse la parte più consistente della sua clientela in favore di
altri locali, in particolare, a beneficio dei soliti Gambrinus e Salone
Margherita.
In questi anni, dopo Ninì Tirabusciò, nata dalla penna prolifica di Aniello
Califano, Ferdinando Russo firma il primo fascicolo della Piedigrotta e,
grazie alla casa discografica Polyphon, annunzia l’ambizioso progetto di
esportare la canzone napoletana in tutto il mondo.
Giungeranno così per i siti più lontani la poetica del nostro animo
sognante, l’idea di un mare divino, di un sole ammaliante, della nostre
armonie gentili ed accattivanti.
Il fenomeno dei cafè-chantant napoletani fu tale che in breve tempo cominciò
ad espandersi nelle altre grandi città italiane. La prima città ad
introdurli a sua volta fu Roma. Il perché di tale diffusione non deve
stupire: così come a Napoli, anche a Roma, a Catania, a Milano, a Torino ed
in molte altre città letterate d’Italia si riunivano spesso, nei bar e nelle
trattorie, cantanti e poeti che, nel corso di riunioni semiprivate, si
dedicavano al canto ed alla declamazione di poesie. Questa forma artigianale
di spettacolo fu il fertile terreno su cui si basò il successo dei
caffè-concerto, che negli ultimi anni del 1800 aprirono anche nella
Capitale.
Sempre i fratelli Marino, già proprietari del Salone Margherita di Napoli,
inaugurarono nella Capitale due nuovi locali: un altro Salone Margherita e,
successivamente, il Teatro Sala Umberto. A questi seguirono numerosi altri
cafè-chantant dai nomi altisonanti ed esotici (non proprio tutti: il primo
caffè-concerto della città, aperto in Via Nazionale, portava il poco allegro
nome di “Cassa da morto”).
Vorremmo concludere delineando la figura di Ersilia Sampieri, al secolo
Ersilia Amorosi, la prima diva del cafè-chantant.
Torinese di nascita e napoletana di adozione, usò la sua fama e la sua
ricchezza per aiutare i bisognosi. Era orfana dei genitori, che le
lasciarono un solo capitale: una prorompente bellezza ed una bella voce.
Dopo aver lavorato in una compagnia di bambini, la Lillipuziana, in breve si
trovò ad esibire nei locali del lungomare di Marsiglia. A Napoli si trasferì
a 17 anni e, con il nome di Piccola Andalusa, si esibiva alla Birreria
dell’Incoronata, cantando in napoletano, francese e spagnolo. Divideva il
palco con giovani di grande talento come Elvira Donnarumma ed il
macchiettista Davide Tatangelo. Alla fine girava col piattino per le
offerte, facendo intravedere il seno. Passò poi al Caffè Scotto-Jonno e da
lì spiccò il volo per esibirsi nei locali italiani più rinomati con puntate
anche all’estero.
Nel 1901, quando i fratelli Marino la scritturarono al Salone Margherita,
era già una diva. Vi rimase sei anni, alternando esibizioni a Parigi e
Londra, dove venne definita la “Sarah Bernhard del caffè-concerto”, mentre
Edoardo Scarfoglio preferiva l’epiteto di “la Fenice della Fenice”.
Gli impresari le misero a disposizione un secondo camerino, dove procurava
lavoro, trovava un letto in ospedale, facilitava permessi ed esoneri ai
militari: tutto solo per umanità.
Su di lei circolavano svariate leggende: amante di un rampollo di casa
Savoia o membro della massoneria.
Di lei si innamorò perdutamente Libero Bovio, che le dedicò una struggente
poesia.
Nel 1907 sposò Mister Muscolo, un lottatore acrobata gelosissimo, che le
vietò le attività benefiche e la portò in breve alla separazione ed alla
solitudine.
A Parigi fece innamorare un petroliere e durante una tournée in Medio
Oriente, conquistò un pascià disposto a follie pur di averla nel suo harem.
Resse la scena fino ai 45 anni e piano piano, finiti i risparmi, per
sopravvivere si improvvisò chiromante con studio a Roma. Resistette 12 anni,
poi finì all’ospizio dove si spense a 78 anni nel 1955.
La sua voce è giunta fino a noi grazie ai dischi della Phonotype, che ci
permettono di riascoltare i suoi cavalli di battaglia: “ I te vurrìavasà”,
“Voglio siscà” e “Donna Fifì”.
Un grande progetto per rilanciare la Campania
L’ultima speranza per Napoli e la Campania di invertire il senso di marcia
che ci sta conducendo verso il baratro e proiettarsi verso il futuro è
legata ai 19 progetti finanziati con 5 miliardi, il cui scopo è far
decollare ambiente, infrastrutture, turismo e banda larga per internet.
Le risorse, in passato diluite in mille rivoli, saranno concentrate
unicamente su grandi assi strategici.
Come giustamente è stato definito dal governatore Stefano Caldoro, si tratta
di un “Piano Marshall” per la nostra regione.
Le opere più qualificanti sono il completamento della linea 6, che unirà in
pochi minuti la Mostra d’Oltremare con Piazza Municipio; la realizzazione
della tratta del metrò, che collegherà Piscinola e Secondigliano con
Capodichino, creando un anello ferroviario completo con la linea 2, che
quanto prima raggiungerà Piazza Garibaldi e, con altre fermate, il Centro
Direzionale, il Tribunale, Poggioreale e l’Aeroporto di Capodichino; la
riqualificazione ed il disinquinamento del fiume Sarno, cui è collegato il
risanamento ambientale dei laghi dei Campi Flegrei e dei Regi Lagni, con
l’obiettivo di far ottenere la bandiera blu al litorale domizio, ed infine
la costruzione del Polo Fieristico Regionale con strutture congressuali a
livello internazionale, che avrà come fiore all’occhiello la Mostra
d’Oltremare, dove dovrebbe svolgersi il famigerato Forum delle Culture, del
quale, fino ad ora, molto si è parlato, ma non se ne è ancora stabilita la
data.
In ambito portuale, lo scalo marittimo napoletano, attraverso nuove
infrastrutture al servizio delle imprese e con fondali adeguati all’attracco
delle supernavi da crociera e mercantili, incrementerà il traffico merci e
passeggeri, mentre il porto di Salerno punterà sull’approdo delle meganavi
da crociera e sul movimento dei containers che trasportano principalmente
automobili.
Con internet superveloce, grazie alla diffusione della banda larga in tutti
i comuni della regione, si colmerà il gap digitale che permetterà ai
cittadini un più semplice accesso ai servizi ed alle imprese di svilupparsi
in maniera moderna.
Per la zona di Bagnoli è previsto un grande parco urbano che preservi il
ricordo dell’acciaio attraverso la conservazione di esempi di archeologia
industriale.
Ma il progetto più affascinante è quello che si propone di far tornare a
pulsare vigorosamente il cuore antico di Napoli: dalle porte della città
storica ai decumani, il centro diventerà un museo a cielo aperto che
attirerà turisti e migliorerà la vivibilità dei residenti, in linea con le
direttive dell’Unesco, che da tempo ha posto sotto la sua tutela il centro
antico più vissuto e frequentato del mondo.
Utopia o realtà?
Molto dipenderà dall’impegno di tutti i cittadini che saranno arbitri del
proprio destino: una gloriosa rinascita o una decadenza inarrestabile.