Le tribolazioni di un innocente

Breve ma intenso viaggio nell’inferno del carcere di Poggioreale

di Achille della Ragione

prefazione On. Amedeo Laboccetta.

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Ai miei compagni di sventura
rimasti nei gironi dell’inferno di Poggioreale

 

 


Prefazione

Ho raccolto con piacere l’invito del dottor Achille della Ragione a scrivere questa prefazione al suo lavoro.
Ho letto tutto di un fiato il suo resoconto del “soggiorno” nella casa circondariale di Poggioreale ed ho rivissuto tante delle sensazioni che mi sono rimaste dentro, dopo un mio “soggiorno” nello stesso Grand Hotel, tanti anni orsono.
Io fui meno fortunato perché per me era stato prenotato un periodo di permanenza ben più lungo: ebbi modo di apprezzare le amenità ed i confort di quella struttura per circa tre mesi.
Achille della Ragione, lucidamente, rende pubblico che le cose non sono cambiate.
Angoscia che la struttura, i comportamenti, le prassi, i piccoli abusi, le insensibilità siano rimaste essenzialmente le stesse.
Il tempo nel Grand Hotel Poggioreale è fermo.
Il racconto, con trasporto, del dottor Della Ragione della commovente estensione della solidarietà umana che immediatamente affascia ogni “nuovo giunto”, non mi ha per nulla sorpreso.
Della nobiltà dei comportamenti dei reclusi, anche di coloro che all’esterno delle possenti mura vivono esistenze da efferati criminali, serbo un caro ricordo.
Non mi sorprendo che essa sia rimasta immutata.
Non auguro a nessuno l’esperienza mia e di Achille della Ragione: penso però che tanti operatori della giustizia, a prescindere dal colore della toga, da una breve permanenza in quella casa circondariale trarrebbero utili ragioni di riflessione per meglio svolgere la fondamentale funzione che l’appartenenza alla istituzione della magistratura gli attribuisce.
Auguro invece al dottor Della Ragione di veder riconosciuta la sua innocenza in tempi brevi, senza dover attendere, come è successo a me, quindici anni sino a che il Tribunale, su richiesta del Pubblico Ministero, pronunziasse sentenza di assoluzione.
Qualche mese fa, appena eletto parlamentare della Repubblica Italiana, sono tornato al “Grand Hotel” Poggioreale in visita ispettiva.
Non avevo certo nostalgia della suite che mi vide ospite nel 1993.
Ma desideravo fare un parametro comparativo tra la “mia stagione”e l’organizzazione attuale del triste albergo partenopeo.
Ho potuto rilevare che al “Torino”, il mio padiglione, non vi sono più i cessi alla turca, che mi avevano accompagnato per circa tre mesi.
Ed anche un’altra “straordinaria conquista” è offerta oggi dalla Direzione agli ospiti: adesso la doccia è consentita due volte a settimana!
Nel 1993 ne potevamo “godere” di una alla settimana; e quasi sempre l’acqua veniva offerta o bollente o ghiacciata. Adesso può essere ben miscelata.
Passare qualche minuto sotto il getto dell’acqua è certamente tonificante e rigenerante.
Poterlo fare al Grand Hotel Poggioreale provoca una sensazione stupenda che ti “resta dentro” almeno per un’intera giornata.
È quasi bella come il colloquio con un familiare.
Anche la descrizione della domenica a Messa che fa della Ragione ha provocato in me uno straordinario tuffo nel passato.
Anche se, devo sottolineare, che, a mio parere la maggior parte degli ospiti del Grand Hotel Poggioreale, partecipa alla funzione religiosa per muovere qualche passo in più. E per incrociare qualche volto nuovo proveniente da altro padiglione.
Ho sempre creduto che la solidarietà debba essere praticata e non certo predicata: in quel postaccio e per tutti quelli che vi transitano è la prima regola.
Il 2 giugno 2008, festa della Repubblica, sono stato in visita al Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere, per portare solidarietà e conforto ad un servitore dello Stato, il dottor Bruno Contrada, ex dirigente del SISDE che ha già frequentato per cinque anni alcune strutture carcerarie.
Un esperto in materia.
Un uomo anziano, di 77 anni, afflitto da 26 gravi patologie. Un morto che cammina. Ma che un magistrato di Sorveglianza si ostina a non voler liberare: ha scritto che ‘nel caso di Bruno Contrada non è stato ancora superato il limite della umana tollerabilità’. Roba che neanche nel Medioevo!
Mi auguro che quando Achille della Ragione avrà dato alle stampe questo suo libro l’amico Contrada non sia morto. Anzi, possa aver riabbracciato, da uomo libero, la sua famiglia ed i suoi amici, e pubblicare anche lui un libro su questo tema, che potrà far crescere il tasso di sensibilità e di umanità che alcuni Italiani sembrano aver smarrito.
 

On. Amedeo Laboccetta.

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Introduzione


Questo diario vuole raccontare a chi non la conosce l’allucinante realtà della segregazione in un penitenziario, che rappresenta un ignobile monumento alla sofferenza, all’ottusa severità ed alla mortificazione della dignità umana, senza speranza alcuna di redenzione e di reinserimento sociale.
Il triste edificio del carcere di Poggioreale è noto universalmente come il posto meno indicato dove scontare una pena o peggio ancora attendere innocente i vari gradi del giudizio.
Emblematico che esso si trovi a Napoli, per secoli antica e gloriosa capitale, oggi miseramente ridotta al rango di capitale della monnezza, dove la vivibilità è degradata paurosamente, gli ospedali sono i più sgangherati, le strade sono le più affollate, gli uffici pubblici sono i meno efficienti, mentre, lo posso urlare perentoriamente, i napoletani non sono i peggiori tra gli italiani.
Il libro, tranne l’ultimo capitolo ed alcune appendici, è stato tutto scritto nei 15 interminabili giorni di ospitalità… dello Stato, dal 24 giugno 2008 al giorno 8 luglio, quando, a seguito della decisione del Tribunale del Riesame, il quale, non accettando le ipotesi dell’accusa, ha annullato il provvedimento di custodia cautelare, ho riacquistato la libertà.
Esso è stato scritto inizialmente con una matita spuntita reperita nella spazzatura sul retro di fogli già scritti, su bordi di giornale, sulla carta igienica, perché all’ingresso, tra le tante cose che mi furono sequestrate, oltre alle foto dei miei figli e dei miei nipoti, mi fu vietato di portare con me un innocente quadernetto ed una penna che, timidamente, mia moglie aveva aggiunto al mio bagaglio per permettermi di scrivere qualche appunto, tenendo conto che da oltre dieci anni, lasciata per gravi motivi di salute la mia professione di medico, sono a tempo pieno uno scrittore. Ma il timore che possa uscire fuori qualche notizia sulle spaventose condizioni di vita all’interno di quelle tristi mura prevale, nel regolamento, al rispetto dei più elementari diritti umani.
Nel famigerato carcere dello Spielberg, in periodi famosi per repressione e ferocia, a Silvio Pellico fu permesso di scrivere “Le mie prigioni”, la cui diffusione costò all’Austria più di una grande guerra perduta.
Auspico che queste amare riflessioni che mi accingo ad elaborare possano, grazie al magico potere della scrittura, riuscire ad incrinare, se non scardinare le fondamenta di un assurdo edificio predisposto ad infliggere sofferenza ed umiliazione, senza speranza alcuna di resipiscenza e di avviamento al lavoro in assoluto dispregio del dettato costituzionale, della logica e della pietà.
Tra le pagine del libro la mia vicenda giudiziaria è appena accennata, come pure la spietata gogna mediatica alla quale sono stato sottoposto, esse non hanno alcuna importanza per i lettori, perché il mio scopo è unicamente quello di fotografare, senza astio alcuno, la situazione di un carcere costruito per 1200 reclusi e che ne ospita costantemente più del doppio e dove le condizioni di vivibilità sono intollerabili.
Esso è dedicato ai miei compagni di sventura rimasti nei gironi dell’inferno di Poggioreale, ma è indirizzato all’opinione pubblica, a tutti coloro che ritengono che sia un problema che non debba interessarli, alla classe politica alla quale chiedo una legge per ristrutturare un penitenziario costruito oltre cento anni fa con criteri che gridano vendetta e che ci portano fuori dall’Europa e dal mondo civile. Dopo il lodevole impegno del governo per liberare Napoli dalla spazzatura, auspico, chiedo, invoco una promessa in favore di coloro che sono ritenuti a torto spazzatura umana.
A nessuno in futuro sarà lecito giustificarsi candidamente non lo sapevo!

Achille della Ragione

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1° Capitolo - La cattura


Martedì 24 giugno ore 6.30. Il citofono bussa all’impazzata, nessuna risposta, penso allo scherzo di un buontempone, mi affaccio e scorgo un uomo in borghese vagare per il cortile che si qualifica carabiniere. Alla mia richiesta di spiegazioni compaiono dal garage e dal giardino altri militari, di cui metà in divisa, per un totale di una decina di unità. Scoprirò solo dopo che uno di essi con abilità scimmiesca, aveva scavalcato il muro di cinta ed aveva aperto il cancello della villa, permettendo l’ingresso ai suoi colleghi del nucleo catturandi.
Segue una perquisizione, per quanto soft, della mia casa, forse hanno capito subito che non era necessaria, forse intimoriti dalla inutile fatica di dover scovare qualche carta segreta tra le pagine dei miei 15.000 volumi. Per evitare il sequestro del computer, dove vi sono i files di alcuni miei libri da consegnare a breve agli editori, decine di migliaia di immagini e tante altro materiale frutto di decenni di lavoro, invito l’esperto in informatica dell’equipe a visitare il mio sito, a prendere visione della mia casella di posta elettronica e ad esplorare il cestino, dove a volte ci si libera di notizie imbarazzanti.
Ci rechiamo poi nel mio studio dove vengono sequestrate, oltre al registro delle fatture, costellato da ben pochi nomi vecchi di anni, alcune foto di una paziente alle prese con il vaginometro, un apparecchio da me ideato e brevettato, adoperato per la diagnosi e la terapia della frigidità, il quale viene scambiato per un macchinario idoneo a provocare l’aborto; per inciso tali immagini mi vennero già sequestrate nel lontano 1996 e date in pasto alla stampa, che parlò enfaticamente di materiale pornografico, per poi essermi restituite, senza scuse, quando si appurò trattarsi di materiale esclusivamente scientifico.
Vengo poi trasferito alla caserma Pastrengo per le foto segnaletiche e le impronte digitali. Quindi in un ufficio trascorro alcune ore con il permesso di leggere i tre quotidiani che mi erano stati comprati da mio figlio Gian Filippo. Mi viene offerto con gentilezza da bere, in seguito anche del caffè ed un cornetto, che non prendo per non turbare le mie delicate funzioni fisiologiche. I vari militari che si alternano nella stanza, quasi tutti in abbigliamento da falchi, tipo giustizieri della notte, scambiano con me qualche parola con umanità, chiedendo pareri medici e consigli di vita.
Dopo meno di un’ora dall’arresto percepisco che in rete e sui notiziari circolano già notizie trionfali sul grande blitz…
Il tempo scorre apparentemente senza motivo, ma tutto si chiarisce solo intorno alle 14. Si attendeva di completare il carico di pericolosi delinquenti: il collega Langella, la sua segretaria e l’anestesista, che non conoscevo neanche di nome e che sarà poi, per qualche giorno, il mio compagno di cella.
All’uscita della caserma un’accecante tempesta di flash di fotografi e telecamere di televisioni da tutta Italia, pronte ad immortalare in prima pagina i mostri. Parte poi in pompa magna un felliniano corteo con carosello assordante di sirene delle gazzelle, che fendono il traffico impazzito della città, percorrendo in pochi minuti il tragitto che normalmente richiede alcune ore. I cittadini, sbalorditi, credono sia in atto una meritoria caccia a mercanti di droga o a spietate bante di rapinatori, viceversa stavano trasferendo anziani e malandati medici verso l’inferno di Poggioreale.
(Nei giorni successivi, ascoltando a tutte le ore del dì le sirene spiegate delle vetture delle forze dell’ordine entrare con un nuovo carico…, capirò che non si era trattato di un trattamento eccezionale, ma di normale routine dettata probabilmente da motivi di sicurezza).

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 2° Capitolo – L’ingresso a Poggioreale


Giunti all’ingresso del tetro penitenziario le sirene finalmente si placano. Non mi è parso di scorgere all’entrata un dantesco avvertimento: “Perdete ogni speranza voi che entrate”, sarebbe stato quanto mai opportuno.
Il carcere è un luogo di finta democrazia mantenuta al livello più basso possibile. Sintomatico che per la spesa mensile qualsiasi detenuto possa spendere un massimo di 520 euro e con quella cifra debba acquistare tutto, dal cibo alla carta igienica.
Appena vi entri non conta se sei innocente o colpevole, in attesa di giudizio o condannato a pena definitiva, se sei un soggetto fragile o duro e spietato. Non fa alcuna differenza se prima abitavi in una casa degna di questo nome o se sopravvivevi in una baracca, se eri abituato a lavarti regolarmente o se col sapone avevi una idiosincrasia insuperabile. Se mangiavi a pranzo ed a cena o solo quando capitava. Naturalmente a soffrire di più sono coloro che vivevano decentemente, che sono innocenti, malati, sensibili, culturalmente e socialmente distanti anni luce dai nuovi compagni di cella.
La prima intollerabile offesa alla dignità è il dover consegnare in deposito le cose più innocenti: il pettine, una spugna naturale, i medicinali; assurdo, come nel mio caso, che ti vengano sequestrati anche i libri, le foto dei tuoi familiari, addirittura un blocchetto di carta ed una penna per scrivere qualche appunto, per timore che possa uscire fuori qualche notizia sulle spaventose condizioni di vita all’interno di quelle tristi mura.
Nel famigerato carcere dello Spielberg, in periodi famosi per repressione e ferocia, a Silvio Pellico fu permesso di scrivere “Le mie prigioni”, la cui diffusione costò all’Austria più di una grande guerra perduta.
Auspico che queste amare riflessioni che mi accingo ad elaborare possano, grazie al magico potere della scrittura, riuscire ad incrinare, se non scardinare le fondamenta di un assurdo edificio predisposto ad infliggere sofferenza ed umiliazione, senza speranza alcuna di redenzione e di reinserimento, in assoluto dispregio del dettato costituzionale della logica e della pietà.
Sono diventato la matricola 137584, un semplice numero, privato dei più elementari diritti. Trascorro 5 - 6 forse 7 ore (il tempo non si può misurare, in assenza non solo di orologi, ma anche della luce, che a stento filtra tra robuste e crudeli sbarre) in un locale di pochi metri quadrati assieme a una decina di nuovi ospiti, naturalmente senza potere, né bere, né compiere la funzione fisiologica contraria. Tra gli improvvisati compagni di attesa volti patibolari, assidui frequentatori dei penitenziari e spauriti personaggi come il mio collega di professione e di sventura, l’anestesista della famigerata(a parere dei giudici) banda criminale…, un uomo di quasi 70 anni, reduce da pochi giorni da un grave episodio di edema polmonare.
Ad ognuno di noi viene consegnato, dopo un’umiliante ispezione corporale, un bacile, una brocca di plastica, delle scodelle metalliche miserevoli, un cuscino di spugna, una federa ed un lenzuolo.
In serata saliamo ad un piano superiore. Nuova interminabile attesa in una cella confortata dalla presenza di un rubinetto, a cui abbeverarsi dopo ore di arsura ed un maleodorante cesso turco nel quale finalmente poter sfogare almeno i nostri improcrastinabili, quanto bollenti, bisogni corporali.
Un momento di luce è rappresentato dal colloquio con lo psicologo, una bella, ma soprattutto umanissima signora, la dottoressa Caputo, che ringrazio pubblicamente ed alla quale avrei voluto dedicare il libro. Mi accoglie con parole di conforto, mi assicura che la mia permanenza sarà breve e forse mi servirà di esperienza per un nuovo libro, mi confida di aver letto il mio volume sul problema dei rifiuti in Campania. È tarda sera quando raggiungo la cella 22 del padiglione Avellino riservato ai neofiti, che costituirà l’argomento della prossima puntata.

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3° Capitolo - Padiglione Avellino cella 22


Dopo le formalità di rito che hanno occupato circa 12 ore, vengo condotto a tarda sera nel padiglione Avellino, il più tranquillo, dove vengono confinati i neofiti, coloro che per la prima volta si confrontano con la dura realtà della reclusione.
Assieme al collega Grillo entro nella cella 22, occupata da tre ragazzi: Emanuele 18 anni alla prima rapina, Antonio 30 anni alla prima estorsione, Sasà 21 anni preso con una pistola nell’auto prima ancora di poter cominciare la sua carriera…

La cella è di 12- 13 metri quadrati, oltre ad un vano cucina di un metro ed un cesso (non lo si può chiamare altrimenti) con una parvenza di doccia, che due volte alla settimana, per pochi minuti, vomita un liquido caldo dal colore sospetto e dall’odore indefinibile. Per lavarsi ogni giorno si usa una brocca con la quale ci si getta addosso un po’ di acqua prelevata dal lavandino allagando tutto il vano, che andrà poi svuotato a colpi di ramazza, facendo convergere la pozzanghera verso un fetido buco tenuto a bada da un peso per evitare visite imbarazzanti: scarafaggi nel migliore dei casi, qualche volta, anche se non ho avuto l’emozione dell’incontro ravvicinato, luridi topi di fogna.
I tre ragazzi con cameratismo esemplare ci cedono nei letti a castello i posti più bassi, anche se più caldi; infatti la temperatura è costantemente vicino ai 40° e l’umidità dell’aria da bagno turco.
Il vitto è vomitevole e tutti i detenuti sono costretti, a loro spese, ad acquistare allo spaccio il cibo, come pure tutto il resto: dai piatti ai bicchieri di plastica, dal sapone alle sigarette, le quali in carcere costituiscono il bene più prezioso. La spesa si può fare una volta alla settimana con prezzi più alti dell’esterno e prodotti più scadenti, da discount, per un totale di 520 euro al mese. Negli ultimi giorni quasi tutti i prezzi hanno subito un aumento del 30%. La propria spesa arriva non prima di 10 -15 giorni dall’entrata in carcere durante i quali scatta la solidarietà della cella: i compagni di sventura dividono con te ogni cosa, fino a togliersi il boccone da bocca e dividere le sigarette.
La solidarietà tra reclusi non solo in cella, ma anche negli spazi comuni: il cortile per il passeggio o la chiesa, è sbalorditiva. Niente a che vedere con il mondo esterno dominato dal più crudo egoismo. Pare che questa ferrea regola, questo imperativo categorico sia stato imposto in tempi remoti dalla camorra, ma sicuramente sotto ispirazione di una benefica divinità. Anche i più incalliti criminali rispettano spontaneamente questa legge di sopravvivenza encomiabile che, se per incanto fuoriuscisse ed impregnasse la vita delle nostre città, le farebbe somigliare ad una Paradiso terrestre.

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4° Capitolo - “Amare considerazioni”


La solidarietà tra carcerati non si manifesta solamente nella divisione di beni materiali, ma interessa anche ciò che più distingue l’uomo dalle bestie: i sentimenti. Ci si conforta infatti a vicenda perché la malinconia, i momenti di profonda tristezza, le irrefrenabili crisi di pianto, lo scatenarsi della rabbia repressa sono frequenti, se non quotidiani, anche tra i soggetti più duri che, privati della libertà, della dignità di uomini, allontanati dalla famiglia e dagli amici, diventano dei vegetali, ma, purtroppo dei vegetali dotati di una sensibilità spiccata, che permette di percepire tutte le più svariate tonalità della sofferenza. Bisogna pazientemente ascoltare le storie personali di ognuno, non una, ma dieci, venti, cento volte. Ho scoperto che la quasi totalità dei detenuti si proclama innocente, anche se si trova a confidarsi con un suo pari e non con il giudice il quale ha in mano il suo destino, un potere che può spettare solo e soltanto ad una divinità.
I pochi che ritengono di aver commesso un reato hanno sempre una scusante: povertà, mancanza di lavoro, cattive amicizie.
Avere il proprio futuro legato alla decisione di uomo o più spesso di una donna… è una sensazione straziante, perché nessuno ha più fiducia nella giustizia umana.
Per il credente essere nelle mani di Dio dà sicurezza perché si è certi dell’onnipotenza e della bontà del proprio giudice, che conosce la verità e sa cosa sia la misericordia.
Chi crede nel Fato, immagina il destino non come una forza cieca e spietata, bensì dominata da leggi ragionevoli che non ci è dato conoscere.
Per un detenuto sapere viceversa che il suo domani e quello della sua famiglia siano legati ad una decisione terrena, fallibile, legata agli umori e agli ormoni di cui siamo schiavi e ad un’interpretazione dei fatti influenzabili dall’errore e dal preconcetto è una sensazione che “non la sa chi non la provi”.

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5° Capitolo - “I giorni passano”


Fuori dal carcere molti di noi sono certi che con la forza del pensiero e dell’intelligenza si possa raggiungere qualsiasi obiettivo, un peccato di orgoglio che colpisce non solo gli intellettuali, ma anche coloro che si ritengono superiori agli altri, perché hanno più denaro, più beni materiali o perché hanno avuto più fortuna nella vita. Il nostro cervello è una mirabile realtà, un microcosmo costituito da un centinaia di miliardi di neuroni, ma che grave presunzione scambiare i nostri desideri, il nostro pensiero, la nostra volontà con il centro dell’Universo! La permanenza in carcere ti insegna in pochi giorni ad esercitare l’umiltà, la modestia, la semplicità, la discrezione, virtù del tutto desuete ai nostri giorni.
Ma continuiamo con il nostro racconto dei giorni trascorsi nella cella 22 del padiglione Avellino, che abbiamo interrotto con il nostro ingresso alle ore 21.00 del primo giorno.
Lo spazio è talmente poco che bisogna alternarsi ad occuparlo; vi sono due tavolini, mentre alcuni mangiano, altri poltriscono nel letto e viceversa.
La televisione è un vero tormento accesa dalle 7 del mattino fino a notte fonda. Chi afferma che i programmi infessiscono ha perfettamente ragione. In una settimana ho assistito a soaps, serials, cartoni animati, documentari, film di Totò (non meno di una cinquantina incluso le repliche), telegiornali e televendite in quantità industriale, Veline, La Squadra, I Cesaroni, Un posto al sole e tanti altri programmi di cui conoscevo appena il nome. Ho evitato solo Il grande fratello e Maria de Filippi che erano in pausa estiva. Un certo interesse si creava intorno alle 24, quando sul teleschermo cominciavano ad alternarsi bonazze da schianto, uno spettacolo che grazie alla mia età ed ai miei malanni, più che al mio infinito amore per la mia “micia” Elvira, riuscivo a sublimare; mentre i miei giovani compagni di cella erano costretti a mitigare i loro ardori sessuali sconfinati e repressi con non proprio esaltanti masturbazioni, che si svolgevano a turno nell’esiguo vano cesso-cucina. Per i giovani queste donnine nude rappresentano gioia e supplizio nello stesso tempo ed aumentano rabbia, eccitazione e sofferenza. Lo stesso effetto producono le riviste pornografiche che si possono tranquillamente acquistare nella spesa settimanale.
Avremo modo di riparlare dell’argomento alla fine del libro quando proporremo una audace quanto efficace soluzione del problema.
Anche conservare una foto della moglie, della fidanzata o dei figli è fonte di gioia, ma anche di infinita tristezza.

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6° Capitolo - Il colloquio con i parenti e gli avvocati


I colloqui settimanali con i parenti sono un conforto molto importante, perché anche se per una manciata di minuti, si possono toccare le mani delle persone care, scambiarsi confidenze, piangere assieme. Purtroppo bisogna affrontare una doppia via crucis: dentro, per i detenuti, attese interminabili tutti stipati in camere di sicurezza stracolme, mentre all’esterno i parenti fanno file massacranti di ore, sotto l’acqua e sotto il sole, senza un briciolo di pietà per bambini, malati ed anziani. Fuori al portone alcuni arrivano alle quattro del mattino, per essere tra i primi e non perdere interamente una giornata di lavoro. La fila si snoda senza alcun controllo, per cui è facile per i prepotenti scavalcare i più deboli o lo scatenarsi di risse, anche se taluni cedono il passo a vecchi che si trascinano con il bastone o alle donne con bambini in braccio. Non è capitato così a mia figlia Tiziana, la quale, giunta appositamente da Barcellona dove vive, dopo alcune ore di attesa con mio nipote Matteo di 12 mesi tra le braccia, si è vista costretta a telefonare alle mie zie novantenni, che si sono dovute precipitare in taxi a prelevare il fantolino.
I parenti vengono sottoposti ad accurate perquisizioni personali, non è capitato per fortuna ai miei, ma ho sentito, di indagini molto spinte fino a curiosare in reggiseni e mutandine da parte di personale femminile.
Durante l’attesa del primo colloquio notai con spavento la presenza di un noto killer, Tonino o’ criminale, alto circa due metri e dieci, con un volto arcigno e terrorizzante, anche lui a mia insaputa mi notò e rimase colpito a tal punto dallo stato miserevole del mio pantalone da farmene pervenire in regalo, attraverso i lavoranti(detenuti addetti a lavare i pavimenti dei corridoi o a portare i pasti) uno nuovo di zecca della mia non facile misura.
Dopo il secondo colloquio mi è capitato invece di essere ospitato in celle sotterranee e di essere stato invitato da un agente di custodia, che portava sempre gli stessi guanti di plastica nel perquisire i detenuti, a calarmi i pantaloni e piegarmi in avanti, immagino per un’esplorazione rettale, fortunatamente lo stato miserevole del mio sfintere, in quei giorni particolarmente sudicio e maleodorante, ha indotto il secondino a più miti consigli ed ho perso l’occasione di provare il brivido di una penetrazione coccinelliana.
In genere si può usufruire di 6 colloqui settimanali di un’ora, quattro ordinari e due premiali, anche se dipende dalla posizione giuridica del detenuto; inoltre si può fare una telefonata di 10 minuti ogni settimana, ma solo se si possiede a casa un apparecchio di rete fissa.
Poter usufruire di più colloqui e con un’attesa minore da parte dei parenti è tra le maggiori aspirazioni dei detenuti. Molti che hanno frequentato altre case circondariali riferiscono che dovunque vi sono migliori condizioni e cercano disperatamente di poter essere trasferiti altrove. Ad esempio al carcere di Marassi a Genova, in una struttura al servizio di una grande città, mi hanno segnalato che si possono avere ben tre incontri settimanali con i parenti con un’attesa di circa 15 minuti.
Ben diversa la situazione nella Russia ottocentesca narrata da Dostoevskij, dove pare che i condannati potessero incontrarsi ogni giorno due volte al giorno con le loro compagne!
Anche i colloqui con gli avvocati sono gravati da attese interminabili, non solo per i detenuti, ma anche per i legali, i quali, per l’esiguità delle camerette adibite alle consultazioni, sono costretti a perdere spesso, nelle ore di punta, l’intera mattinata per poter incontrare il proprio cliente. Naturalmente questo provoca un incremento dell’onorario ed un clima di nervosismo palpabile. Nel caso che mi riguarda il mio difensore, l’avvocato Ivan Montone, per la sua età veneranda, si è più volte sentito male per il caldo soffocante ed ha dovuto rinunciare all’appuntamento programmato.
Un segnale di buona volontà verso le esigenze dei detenuti da parte dell’amministrazione penitenziaria potrebbe manifestarsi in questo settore. Aumentare il numero delle telefonate e dei colloqui e la loro durata, diminuire l’attesa dei parenti, credo, nonostante la ristrettezza delle strutture, l’esiguità delle risorse ed il numero insufficiente di personale, si possa realizzare in tempi brevi. Il nuovo direttore mi è parso persona animata da buona volontà e sono certo che si attiverà in tal senso.
Si creerebbe un clima di pacificazione e di maggiore serenità e la condotta dei detenuti sono certo migliorerebbe.

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7° Capitolo - La Messa


Domenica 29 giugno, nella grande chiesa di Poggioreale alle ore 11 si celebra la santa Messa per il padiglione Avellino; essa non si svolge tutte le settimane, ma solo ogni 15 giorni, di conseguenza ad un fedele non è concesso nemmeno di conservarsi un buon cristiano, poter ascoltare la funzione ogni domenica ed eventualmente accostarsi ai sacramenti.
Il tempio è molto grande, capace di contenere alcune centinaia di persone, spoglio di inutili orpelli artistici, possiede una volta molto alta e soprattutto una fitta serie di ventilatori in grado per un’oretta di combattere la calura asfissiante.
I cappellani suonano la chitarra e cantano, predicano prevalentemente in napoletano con l’illusione di accattivarsi l’attenzione del pubblico particolare al quale si rivolgono, senza accorgersi di infrangere vistosamente la sacralità del rito e di farlo somigliare ad una farsa.
La partecipazione dei detenuti è molto ampia, in tanti si riavvicinano alla fede, perché, senza speranza, vivere in carcere è impresa disperata.
In non meno di cento prendono la comunione, mentre a confessarsi sono in pochissimi, tra questi il sottoscritto, il quale ha la ventura di rincontrare dopo vari anni don Bruno Oliviero, il cappellano, che aveva partecipato al convegno da me organizzato nel 2003 sulla situazione penitenziaria in Italia (vedi appendice).
Egli durante la settimana ogni giorno è impegnato nella cura delle anime dei sottoposti allo spietato regime del 41 bis, pare che anche loro ne posseggano una, anzi il religioso mi disse che quasi tutti i boss si accostano puntualmente ai sacramenti. Egli possiede un sito internet www.solidarity-mission.it e stampa a sue spese e distribuisce ogni domenica un battagliero ed anticonformista bollettino, che perora gli interessi dei reclusi.
Il nostro incontro all’epoca fu fortuito ed avvenne nella pace dei giardini dell’Eremo dei Camaldoli, dove avevo accompagnato un nutrito gruppo di amici ed amici degli amici a visionare i dipinti della chiesa e del refettorio, nell’ambito di un ciclo di visite guidate che da anni organizzo per gli appassionati delle memorie storiche ed artistiche della nostra città. Con mia moglie, congedato il gruppo, ci attardavamo ad ammirare il panorama mozzafiato che si gode dal punto più alto di Napoli, quando incontrammo don Bruno in borghese, con il quale scambiammo qualche parola. Appena lui si qualificò cappellano del carcere di Poggioreale, io immediatamente lo invitai al convegno che stavo preparando. Lui prima di accettare mi chiese:”Tu credi in Dio?”. Io risposi con una di quelle mie battute che vorrebbero sembrare spiritose, ma sono viceversa intrise da tristezza e meditazione:”Veramente io conto di occuparmi di quei problemi dei quali Dio sembra si sia dimenticato”. A distanza di anni don Bruno ricordava la mia frase sulla quale spesso era tornato col pensiero.
Ritornando alla mia confessione egli mi ha posto solo la domanda se fossi sposato in chiesa ed io, nel confermarlo, ho aggiunto che tutti i miei figli sono battezzati e mia figlia a sua volta è sposata in chiesa. “Sei un radicale, ma anche un buon cristiano che cerca il bene del prossimo”. Mi ha assolto dai miei peccati e mi ha detto che Dio vuole mettere alla prova la mia forza ed il mio coraggio. Gli ho sinceramente creduto, piangendo; ho ricevuto la comunione, dalla quale ero lontano da più di mezzo secolo e mi sono riconciliato con gioia col Dio cristiano, che si è affiancato, nel mio cuore e nella mia mente, al Dio programmatore nel quale da tempo credevo.
Il messaggio di pace, di fratellanza, di misericordia che si respirava come un alito soprannaturale in quella pur rustica celebrazione dava a tutti, a me in particolare, la forza di stringere i denti e resistere per qualche altro giorno.

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8° Capitolo - L’ora d’aria

Sarebbe più esatto parlare di due ore di aria, sono questi gli unici momenti che il detenuto passa fuori all’aperto, mentre le altre 22 le passa negli angusti spazi della sua cella. Le strutture destinate a questi sfoghi peripatetici sono cortili delimitati da mura infinite, esposti al sole ed eventualmente alla pioggia e misurano 200 – 300 metri quadrati, utilizzati potenzialmente da un numero di detenuti superiore a cento unità. Nella mia breve quanto intensa permanenza ho fatto la conoscenza di due cortili: quello del padiglione Avellino e quello del padiglione ospedaliero San Paolo, del quale parlerò nell’apposito capitolo.
Nonostante non vi siano particolari attrattive, se non il potersi sgranchire un poco le gambe e fare quattro chiacchiere con persone diverse dal solito, tutti attendono impazienti quei pochi minuti di illusione di libertà.
La mattina è permesso il gioco del pallone, al quale si dedicano i più giovani per scaricare l’energia repressa ed il pericolo di una pallonata in testa più che un’eventualità è una certezza. Di pomeriggio il perimetro esterno viene occupato dai podisti, i quali incuranti del sole cocente e delle temperature africane sembrano prepararsi meticolosamente alle olimpiadi. Tutti fumano accanitamente, anche 3 o 4 sigarette in meno di un’ora. Ciò avviene fino al venerdì, quando le scorte cominciano repentinamente a finire. Il sabato e la domenica chi accende una sigaretta può fare al massimo due tiri, dopo, di bocca in bocca, il mozzicone placa la sete di nicotina di almeno altre dieci persone.
I primi giorni avvengono le presentazioni, dichiarando nome di battesimo e reato: Totore rapina a mano armata, Ciruzzo spaccio, Sasà furto con scasso, naturalmente quando l’interlocutore afferma orgoglioso omicida, le prime volte, lo confesso avevo un misto di timore ed imbarazzo.
L’ora d’aria, a stretto contatto con tanti criminali, può essere pericolosa per chi non appartiene al giro…Infatti se a qualche energumeno venisse lo sghiribizzo di bastonarti, si può essere certi che nessuna delle guardie carcerarie interverrebbe a soccorrerti. Una sola volta ho avuto paura quando un esaltato, dallo sguardo stravolto e dagli occhi iniettati di sangue, cominciò a ringhiarmi appellandomi:”Assassino, assassino, devi morire sporco assassino”. Fortunatamente uno dei miei compagni di cella, un marcantonio dai bicipiti scolpiti e dalla forza straripante lo affrontò e seduta stante lo indusse a desistere. In seguito a questo episodio mi muovevo solo e soltanto con la compagnia di erculei palestrati ed incontri imbarazzanti non si sono più ripetuti.
Andato via dopo pochi giorni agli arresti domiciliari Grillo, l’anestesista, io ero rimasto il più anziano del gruppo, una sensazione imbarazzante e per me assolutamente nuova. Tutti mi chiamavano, con affetto misto a rispetto, zio, per fortuna non nonno, una veste che ricopro realmente, ma i miei nipotini: Leonardo e Matteo hanno soltanto 2 ed 1 anno. Nella vita civile i miei amici più cari sono, salvo poche eccezioni, tutti più grandi di me ed anche i miei numerosi proseliti ai quali, nel corso delle settimanali visite guidate da me organizzate, impartisco in pari misura notizie storico artistiche ed amore per la nostra sfortunata città, sono nella quasi totalità dei vegliardi o dei pacifici pensionati. Provavo la stessa imbarazzante sensazione saggiata sull’autobus quando, mentre fittiavo con un languido sguardo una studentessa dalle forme esuberanti e dalla minigonna vertiginosa, la stessa, che mi illudevo ricambiasse le mie avances visive, si alzò per cedermi il posto a sedere.
Rapidamente si era sparsa la voce che ero un medico e contavo di scrivere un libro sulla situazione carceraria, inoltre non solo la stampa(a Poggioreale si leggono solo il Roma e Cronache di Napoli), ma anche tutti i telegiornali nazionali e locali avevano straparlato a vanvera della mia vicissitudine giudiziaria, scatenando l’ilarità degli astanti, i quali si meravigliavano vivamente che praticare un aborto in privato fosse un reato. Quando poi sentivano che le intercettazioni avevano evidenziato una sola paziente da me inviata ad un collega, la quale poi addirittura aveva cambiato idea, si scompisciavano letteralmente.
Dopo due o tre giorni per parlare con me si faceva la fila, mi sembrava di essere divenuto l’eduardiano sindaco del rione Sanità. Metà mi esponevano casi clinici personali o di parenti, l’altra metà mi parlava di angherie subite, mi chiedevano di scrivere lettere o poesie per i familiari, mi raccontavano di desideri repressi e di sogni nel cassetto.
Alcuni personaggi erano stupefacenti, altri semplicemente incredibili. Tutti si lamentavano del proprio avvocato che era uno stronz… avido di denaro e strafottente.
Le cose viste al cinematografo si ripetevano pedissequamente nella realtà. Nessuno aveva visto il film Gomorra, pochissimi avevano sentito parlare del libro, Saviano era scambiato per il nuovo attaccante del Napoli.
Ninuzzo per due giorni era divenuto maggiorenne ed era a Poggioreale invece che a Nisida. Mi raccontò che faceva la vedetta di primo livello per conto di un clan per una manciata di euro. Furbamente avrebbe scelto l’avvocato d’ufficio e non quello messo a disposizione dall’organizzazione criminosa da cui dipendeva, perché l’accusa di associazione moltiplica la pena in maniera vertiginosa. Era sereno perché aveva saputo che già il giorno successivo alla sua cattura, un incaricato aveva consegnato del denaro alla madre ed alla giovane moglie. “Guadagno di più stando dentro che stando fuori”. Dimenticavo, quasi tutti i reclusi sono sposati ed a venti anni hanno già un paio di figli, bocche da sfamare che spesso, per la cronica mancanza di un lavoro onesto, inducono a delinquere.
Michele mi raccontava affranto che la madre, non ancora quarantenne, mentre si recava da lui per uno dei primi colloqui era stata colta da malore e condotta in ospedale vi era giunta priva di vita. Non era riuscito ad andare al funerale e da quindici giorni aspettava di poter almeno pregare sulla sua tomba.
Tutti indistintamente si lamentavano dello spazio e del tempo limitato dedicato a Poggioreale alla socialità. Già a Secondigliano pare vi siano quattro ore a disposizione e degli ambienti più confortevoli, qualcuno che era stato in penitenziari al nord, parlava di veri e propri alberghi.
Le strutture hanno più di cento anni, immagino però che, sfruttando nella buona stagione le ore pomeridiane, con un pizzico di buona volontà, si potrebbe venire parzialmente incontro alle legittime richieste dei reclusi, sarebbe un primo, ma significativo, piccolo passo: anche la più pazzesca cavalcata è fatta di tanti passi.

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9° Capitolo - Il colloquio con l’ispettore e l’educatrice

Per lavoranti si intendono dei detenuti, in genere condannati a lunghe pene definitive, ai quali viene data l’occasione di lavorare, trascorrendo meglio il tempo e guadagnando qualche spicciolo, in genere 300 euro al mese, per le sigarette o per inviare un piccolo aiuto a casa. Essi si incaricano di lavare i pavimenti dei corridoi, di raccogliere e consegnare la posta, portare il mangiare ai detenuti. Anche il barbiere, che passa una volta la settimana, solo per il taglio dei capelli, è uno di questi. Ho avuto modo di conoscerlo, sembrava un uomo mite, oltre che minuscolo di corporatura; aveva bottega nel centro storico e la sua vita scorreva tranquilla fino a quando la moglie non lo cornificò e lui, in osservanza ad una norma tribale, si ritenne obbligato ad ucciderla. Stava lì da un’eternità ed aveva calcolato che prima di uscire avrebbe dovuto tagliare i capelli a decine di migliaia di detenuti, naturalmente con le stesse forbici mai sterilizzate, per la gioia dei pediculi humanis capitis, per il volgo pidocchi, che si trasferiscono allegramente testa dopo testa, allo scopo di distrarre con i loro vermicolari movimenti i momentanei possessori, che possono in tal modo trascorrere un po’ del loro tempo nel grattarsi e nell’imprecare.
Tutti i reclusi possono avere dai lavoranti, nel momento in cui consegnano la posta o il mangiare, dei moduli con i quali chiedere le cose più disparate all’amministrazione: dal fare un telegramma al sollecitare un colloquio con l’educatore, anche se esso forse non avverrà mai. La visita medica si richiede invece al mattino durante la conta, un’usanza creata, più che per motivi di sicurezza, per infliggere al detenuto l’umiliazione triquotidiana di mettersi sull’attenti, decentemente vestito, sguardo verso il basso, mani dietro la schiena ed attendere il passaggio dei secondini. Poco importa se da poco avevi preso sonno dopo una notte devastante o se eri impegnato nel soddisfare una pur necessaria pratica intestinale.
Sin dal primo giorno ho usufruito di questi moduli facendo le più disparate richieste, dal poter contare sui conforti religiosi ad avere colloqui con lo psicologo, ma soprattutto il permesso dall’ispettore di poter assumere dai detenuti, nelle ore di aria, informazioni atte a formulare una petizione da inviare al Parlamento con delle richieste circostanziate atte a migliorare la vivibilità nell’inferno di Poggioreale.
Una domanda non certo superflua perché, parlando con tante persone, può insorgere il sospetto di essere un sobillatore o, peggio ancora, l’organizzatore di manifestazioni di protesta, con il pericolo reale di essere sottoposto a punizioni previste dal regolamento, che prevede l’isolamento in celle sotterranee per più giorni a pane ed acqua.
Fui convocato dopo pochi giorni dall’ispettore nel suo ufficio in presenza dell’educatrice e mi fu spiegato che la mia era una richiesta incomprensibile, mai avvenuta prima.
Replicai che da anni, ridotta la professione medica, ero a tempo pieno un giornalista ed uno scrittore impegnato in vari campi e non nuovo a trattare problematiche riguardanti la vita nei penitenziari. Accennai ai miei scritti sull’argomento, ai convegni da me organizzati e precisai che numerosi parlamentari di tutte le forze politiche sono miei amici o estimatori.
L’ispettore mi chiese sbalordito:”Ma lei ha capito che si trova recluso in un carcere in cui assoluta disciplina e massima severità sono la regola e tutti sono obbligati a rispettarle?”. Risposi di essere conscio di dover agire in condizioni estremamente difficili, ma, nello stesso tempo, ero deciso a portare avanti la mia battaglia, anche a rischio di mettere a repentaglio la mia incolumità personale.
Davanti alla mia caparbietà non mi furono fatte particolari obiezioni, mi fu solo raccomandato di non avanzare richieste impossibili da realizzare, perché Poggioreale ha una recettività limitata e da tempo immemorabile ospita il doppio dei detenuti previsti, con conseguente invivibilità e grossi disagi anche per il personale di custodia, costretto a sobbarcarsi un carico di lavoro superiore a quello previsto.
Inoltre ho saputo anche, i giorni successivi, da altra fonte, che nel carcere napoletano vige una norma di massima severità dal 1982, all’epoca delle rivolte capeggiate dal leggendario boss Cutolo, la quale doveva rimanere in vigore 25 anni, ma nel 2007 è stata tacitamente rinnovata.
Il giorno successivo fui convocato dall’educatrice, una funzionaria molto garbata ed impegnata nel predisporre, pur nell’assoluta esiguità degli spazi a disposizione, attività per i reclusi. Purtroppo mi disse:” Durante i mesi estivi si ferma tutto, anche il contributo dei volontari esterni, che collaborano ad organizzare corsi sulle tematiche più varie. Di questo avevo avuto cognizione da una lettera di un professoressa di storia dell’arte, affezionata lettrice dei miei libri sull’argomento, la quale si dispiaceva di non poterci incontrare prima dell’autunno.
Il materiale raccolto nelle mie conversazioni con gli altri reclusi è molto copioso, anche se inizialmente fissato solo nella mia mente, esso costituisce la struttura di questo mio libro, che mi riservo di far pervenire a tutti i parlamentari ed attraverso i mass media all’attenzione dell’opinione pubblica.

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10° Capitolo - La conferenza sugli zingari

Ero ospite da pochi giorni quando, intorno alle 13, un agente carcerario fece il giro delle celle del nostro padiglione, avvertendoci che nel pomeriggio, nel grande spazio della chiesa, si sarebbe tenuto uno spettacolo e bisognava prenotarsi.
Tutti accettarono volentieri, qualsiasi occasione per uscire dalla cella veniva colta al volo ed il pienone fu assicurato. In fila per quattro vi fu un lunghissimo prologo nei corridoi, ma alla fine arrivammo in chiesa, dove la temperatura è più sopportabile, complici una serie di ventilatori posti sulle pareti laterali.
Vi erano anche detenuti provenienti da altri padiglioni per un totale di circa 300 spettatori, oltre ad una settantina di guardie.
La delusione fu grande e serpeggiò rumorosa, allorquando il promesso teatro si rivelò una presentazione di un libro sui Rom e un incontro con l’autore ed un’antropologa, organizzato dalla comunità di Sant’Egidio.
La dotta conversazione durò poco più di 30 minuti ed alla fine, timidamente, la dottoressa chiese se qualcuno voleva porre qualche domanda.
Alzai il dito e mi avviai verso il palco ove vi era il microfono. Mi chiesero di dire il mio nome ed io: ”Mi chiamo Achille della Ragione e sono qui da appena cinque giorni. Vorrei farmi portavoce della delusione dei miei compagni, ai quali era stato promesso uno spettacolo, si aspettavano un cantante, i più ottimisti una ballerina, ma anche una discussione ogni tanto può essere utile” continuai ”Mi permetto di prendere la parola perché sull’argomento ho scritto un breve saggio Zingari quale futuro?, pubblicato in parte da alcuni quotidiani, accolto benevolmente dalla stampa internazionale, consultabile sul web ed al quale i principali giornali romeni hanno dedicato la prima pagina dando il titolo Laggiù qualcuno ci ama”.
Cercai poi a memoria di citare qualche passo del mio scritto:
“Ma la Romania aveva titolo a far parte dell’Europa? La risposta è pleonastica: la Romania è stata sempre Europa. Lo era quando le legioni romane di Traiano sono andate a conquistarla trasformandola nel granaio dell’impero, lo era quando ha fatto scudo all’espansionismo ottomano e lo era pienamente quando a Yalta i tre vincitori decisero di darla in pasta al comunismo. Ed a continuato a beneficiare l’Europa anche sotto Ceausescu, conservando le frontiere inviolabili e ritardando di decenni le odierne migrazioni, che in democrazia è pura utopia sperare di poter contrastare.
Nei secoli i tentativi forzati di assimilazione o la ricerca di efferate soluzioni finali…, sono stati numerosi: alcuni Stati europei, tra i quali l’illuminato impero austro ungarico prevedevano di togliere i figli agli zingari, stabilendo che venissero allontanati dai loro genitori e inseriti in famiglie tradizionali, mentre la nomea di rubare i bambini è rimasto invece pregiudizio dei rom, fino alla politica criminale di Hitler, che ha inviato centinaia di migliaia di nomadi nei campi di sterminio senza che nessun giorno della memoria si commemori per ricordare al mondo questo immane olocausto.
Pochi i giorni lieti accanto alle persecuzioni, quando erano attesi e onorati, nelle loro peregrinazioni periodiche e portavano in un paese la loro musica, le loro danze, i loro spettacoli, i loro abiti vivaci, la loro abilità nel riparare utensili rotti, la loro melanconica gioia di vivere. Oggi gli zingari sono trattati dalla legislazione, dalle amministrazioni locali, dai giornali e dalle televisioni, dai cittadini come rifiuti umani, da relegare in quelle discariche a cielo aperto che sono gli accampamenti nomadi, situati sempre nell’estrema periferia metropolitana, vicino a cumuli di spazzatura, a un cimitero, a uno scarico industriale, quasi sempre sotto la massicciata di un ponte autostradale o di una ferrovia, o anche sulle sponde di un torrente o di un canale, là dove la comunità urbana colloca idealmente e materialmente i propri rifiuti. Sono i monumenti moderni alla segregazione, che le nostre amministrazioni comunali, senza distinzione di colore politico hanno creato, cercando di dimenticare il problema senza sforzarsi a cercare una diversa soluzione.
L’Europa ha creato uno spazio unico di libertà, sicurezza, giustizia al quale non difetta la solidarietà e tanta ce ne vorrà per risolvere il problema degli zingari, senza mai dimenticare che sono cittadini europei.
Bisogna convincersi che è del tutto inutile sgomberare una tribù da un terreno occupato abusivamente nella periferia di una città, perché andrà ad occuparne un altro e si potrà essere abusivi su di un terreno, su tutti i terreni, ma nessuno è abusivo sulla Terra, figuriamoci in Europa. Tra i rom esistono figure rivestite di un’autorità e con loro bisognerà fare accordi, riconoscere diritti fondamentali in cambio dell’osservanza dei doveri, rispettare tradizioni e costumi, prestare generosamente servizi ed assistenza in cambio di un impegno alla legalità, includendo l’obbligo per i minori di dedicarsi allo studio. In caso contrario agire con grande severità, togliendo la patria potestà ai genitori che avviano la prole all’accattonaggio.
Una prospettiva che riunisca il bastone e la carota e che sia insieme, sicurezza e solidarietà, libertà e responsabilità, diritti ma anche doveri.
Dobbiamo attivarci cercando di convincerli ad entrare nei cicli delle nostre attività e delle nostre esistenze. Gli zingari rappresentano una riserva straordinaria di vitalità, di adattamento, di voglia di vivere, di solidarietà. Essi sono il banco di prova di quella riforma della società che tutti chiedono e che nessuno ha la capacità di elaborare. Inventare un rapporto di collaborazione con loro e con i flussi sempre più imponenti di profughi, migranti e nomadi di ogni genere trascinati alla deriva lungo le tortuose strade della globalizzazione non è un problema di poco conto, da delegare alla Caritas o al politico di turno, bensì è la scommessa che l’Europa fa con il proprio futuro e gran parte del destino degli zingari è nelle loro mani. Essi sono o fanno credere di essere bravi ed esperti chiromanti, che sappiano leggere il loro futuro, dopo che per secoli ci hanno voluto far credere di saper leggere il nostro”.
Volli poi collegarmi ad un altro mio contributo sotto forma di lettera al direttore, pubblicata da vari quotidiani, sul vile assalto ai campi rom di Ponticelli ed intitolato Napoli brucia:“Da alcuni giorni Napoli brucia senza sosta a tutte le ore, bruciano in cento luoghi i cumuli di spazzatura, ai quali cittadini inferociti appiccano le fiamme innalzando roghi sacrificali generatori di micidiale diossina, ardono i campi rom, situati nella disperata periferia cittadina, ad opera di criminali applauditi da una folla divenuta intollerante e xenofoba, bruciano “e cervelle” a tutti i napoletani che, stretti tra rifiuti ubiquitari, criminalità diffusa, traffico impazzito e disoccupazione da record, vedono la loro città abbandonata ad un destino atroce, ma soprattutto va in fumo definitivamente una grande e gloriosa capitale dopo 2500 anni di storia invidiata, che non ha conosciuto né il Ghetto, né l’Inquisizione, costretta ad un’esistenza da quarto mondo senza speranza di riscatto o di redenzione.
Il fuoco ha sempre rappresentato un segno di purificazione e di rigenerazione, dalla Bibbia alle antiche vestali romane, ma le fiamme napoletane sono quelle dell’inferno dantesco, simbolo di un castigo divino al quale non ci si può opporre, producono solo cenere e distruzione.
La furia devastatrice che si sta scatenando in questi giorni è sintomo di un malessere che ha colpito il cuore pulsante e la stessa anima tollerante della città.
Gli zingari non sono i soli disperati che vivono ai margini della società, vi sono moltitudini di accattoni, di senza casa accampati all’addiaccio, di sbandati che vivono alla giornata, di disoccupati costretti ad una minacciosa quanto sterile protesta.
Attenti che non venga in mente a qualcuno che si possa risolvere questo ed altri problemi scatenando un gigantesco falò”.
Conclusi poi il mio intervento sottolineando che i carcerati conoscono molto bene il dolore e la sofferenza, perciò sanno ben intendere la tragedia del popolo rom.
Ebbi cinque minuti di applausi entusiasti, anche da parte delle guardie carcerarie, molte delle quali di altri padiglioni, mi fu riferito poi, chiedevano meravigliati a coloro che avevano accompagnato:”Ma chi cazz… è quello che ha parlato?”.
Quell’applauso fu per me una droga, mai nelle mie innumerevoli conferenze ne avevo avuto uno così lungo e clamoroso da parte di un pubblico, oltre trecento persone, che neppure Umberto Eco riesce a radunare:
Quando tornai verso il mio posto a sedere, posto all’ingresso della chiesa, decine di colleghi… mi strinsero la mano, anche spietati pluriomicidi, ma la maggior parte voleva complimentarsi, non tanto per quello che avevo detto, bensì per quello che aveva scritto mia moglie in una lettera(vedi appendice) pubblicata integralmente da tutta la stampa locale ed, attraverso il consueto tamtam, letta in tutti i padiglioni. Ti invidiamo, hai una moglie non solo coraggiosa, ma soprattutto innamorata di te, anche noi chiederemo alle nostre mogli ed alle nostre compagne di stabilire un orario nel quale pensarci intensamente, in maniera che il nostro affetto trapassi le mura e le sbarre e viaggi puro e libero nello spazio.
Dopo il mio intervento molti presero coraggio ed i contributi del pubblico furono una decina, in genere arrabbiati verso gli zingari, ritenuti scansafatiche, ladri ed approfittatori. Molti protestarono vivamente per la proposta di un contributo di 500 euro a famiglia avanzata dall’amministrazione regionale, mentre i loro figli e le loro mogli erano alla fame. Chi vive a stretto contatto con i campi dove sono accampati gli zingari, naturalmente la pensa diversamente dagli abitanti delle zone in della città, perbenisti ed a chiacchiere tolleranti, i quali li vedono solo elemosinare, ma non sono costretti a dividere con loro gli stessi spazi vitali.
Alla fine un nuovo appuntamento fu fissato per il giorno 11 luglio, gli organizzatori assicurarono: si tratterà di un festa ed interverrà un personaggio importante, che fonti ben informate mi fecero intendere si sarebbe trattato del cardinale Sepe.
Per fortuna quel giorno scoccherà per me nella tranquillità delle pareti domestiche, anche se, sollecitato da più parti, avevo preparato un discorsetto da fare al presule a nome di tutti i miei compagni, ma non avevo una traccia scritta delle richieste da avanzare, per cui non ho potuto affidare ad altri quello che mi ero prefisso di dire.

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11° Capitolo - Sogni ed incubi

Di sera, nella buona stagione alle 23 con riapertura alle 7, le porte delle celle vengono sigillate da un portoncino blindato con una piccola fessura a mo’ di caveau, il quale ai fini della sicurezza è assolutamente inutile, ma è molto efficace nel provocarti crisi claustrofobiche e la penosa sensazione di essere fuori dal mondo, oltre naturalmente al rischio che, se i tuoi coinquilini vogliono bastonarti o meglio ancora sodomizzarti, non solo nessuno verrà in tuo soccorso, ma nessuno ti sentirà.
La sensazione angosciosa di una cesura netta ed invalicabile verso l’esterno provocata dall’ermetica chiusura del portellone blindato, crea, anche nei veterani, uno stato di ansia e di sconforto. I miei compagni temevano un non improbabile terremoto, che ci avrebbe accomunato alla sorte dei topi in trappola, io, per due volte, ho avuto un episodio anginoso di media gravità. Altre volte nei mesi scorsi ai primi sintomi ero corso in ospedale, una volta rimasi due giorni in terapia intensiva per una crisi ipertensiva, un’altra mi praticarono in pochi minuti una trombolisi, evitando un disastroso infarto.
Nella cella non avevo scelta, né possibilità alcuna di salvarmi. La prima volta, quando il dolore divenne insopportabile, assunsi una compressa di Carvasin, un farmaco salva vita che ero riuscito a non farmi sequestrare al momento dell’entrata, il quale in qualche minuto mitigò la terebrante sintomatologia. La sera successiva il dolore lancinante si ripresentò al centro del torace, cercai di chiamare i miei compagni, ma non mi sentirono, lentamente mi si annebbiò la vista e persi le forze, ero certo di morire, ero contento, anche se pensavo a mia moglie, a mia figlia Marina, la più piccola, che lasciavo per sempre, al sorriso dei miei nipoti che non avrei più visto.
Le notti successive ho invocato la morte, ma non mi ha ascoltato, il dolore non è più tornato ed ho di nuovo desiderato vivere.
In genere io sogno tutte le notti, sogni bellissimi interminabili, gratificanti, segno evidente che sono in pace non solo con la mia coscienza, ma anche con il mio inconscio. Sogno i miei familiari e spesso anche i miei splendidi rottweiler Lady, Athos e Porthos, che vivono purtroppo soltanto nel mio cuore e nel mio ricordo. A volte ho la sensazione di vivere un’esperienza fuori dalla realtà, ma riesco a prolungare la piacevole sensazione ed a non risvegliarmi.
Ho chiesto ad altri detenuti di vecchia data e tutti mi hanno confermato che i loro sonni sono agitati e raramente confortati da divagazioni oniriche.
Io ho fatto un sogno ed un incubo: il primo, molto bello, era popolato da quasi tutti i miei familiari ed è stato interminabile, nonostante alcune interruzioni ha coperto quasi tutta la notte: mia moglie Elvira era giovanissima ed estremamente attraente mentre il mio Attila era ricoperto da uno strano pelo bianco. Vi era anche Tania, la nostra domestica dal sorriso ingenuo e dalla risatina coinvolgente, quanto mi è mancata anche lei in questi giorni, la sua sveglia mattutina con il caffè fumante ed i quotidiani; il secondo da bello si è rivelato il più crudele degli incubi, perché credevo di essere tornato a casa libero e di stare davanti al mio computer consultando la posta elettronica, quando la chioccia voce del lavorante:”Latte!”, mi ha ricondotto alla triste realtà.
Le altre notti mi hanno riservato poche e nervose ore di sonno, dall’una, in coincidenza della fine dei programmi televisivi, alle tre, poi un lungo intervallo a pensare al nulla, mentre i compagni di cella dormivano, avvolto nel buio più assoluto e con la penosa sensazione di essere in trappola, ermeticamente chiuso da quel poderoso portellone. Confesso di aver provato paura, una sensazione vile, ma della quale non credo ci si debba vergognare, anche Gesù Cristo ha provato questo umano sentimento, quando si vide perduto ed abbandonato da tutti nel giardino di Getsemani. Quindi un’altra mezz’ora di torpore, prima dell’alba, la quale, ben prima delle sei, inondava di una pallida luce, filtrata dalle sbarre e dalla rete di ferro esterna(adibita ad impedire l’entrata dei topi e l’arrivo di piccioni viaggiatori), l’angusta celletta nella quale si preparava lentamente a trascorrere una nuova interminabile giornata.

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12° Capitolo - Gli stranieri

Se gli istituti di pena italiani sono superaffollati ciò è dovuto alla massiccia presenza di stranieri, che costituiscono circa un terzo della popolazione carceraria. Oggi si è ritornati, dopo appena due anni di respiro, alla situazione precedente all’approvazione dell’indulto con 61.000 presenze a fronte di una capienza di 43.000 posti.
A Poggioreale gli stranieri sono stipati in padiglioni e celle dedicate a loro, divise tenendo conto delle diverse lingue e nazionalità. I gruppi più importanti sono otto, i più numerosi rumeni ed albanesi, di conseguenza è difficile poter dialogare con un immigrato od uno zingaro, se non in rare occasioni. Nel mio percorso ne ho incontrato una decina e tutti mi hanno descritto condizioni allucinanti di convivenza ben più degradate di quelle dei loro paesi di provenienza, da noi ritenuti terzo mondo, dimenticando che noi viviamo, senza rendercene conto, una situazione da quarto mondo e non solo in via Stadera.
Tre di questi forestieri li ho conosciuti nelle vesti di lavoranti nel padiglione ospedaliero San Paolo. Tra questi un argentino che scontava una lunga pena e nel portare le cibarie faceva il bello ed il cattivo tempo, ma bastava offrirgli una sigaretta per avere le pietanze migliori; un polacco, un giovane molto bello dagli occhi azzurri e profondi, anche lui vivandiere, con fratelli e sorelle sparpagliati in mezza Europa, da anni senza vederne alcuno, condannato per rapina ed apparentemente un bravo ragazzo. Per qualche sigaretta ti lavava la stanza e disinfettava il bagno; sarebbe potuto divenire un ottimo cameriere, ma la lunga permanenza a Poggioreale lo aveva reso inutilmente cattivo e quando per scherzo gli proposi, se una, una volta libero, volesse venire a servizio nella mia villa o presso la casa di qualche mio amico, mi rispose che non poteva, perché appena fuori, per vendicarsi, voleva uccidere tutti gli Italiani. Alì, il marocchino, che pregherà Allah per la mia liberazione, faceva il piantone, una figura tra l’inserviente ed il paramedico alla buona: il suo compito era quello di aiutare i detenuti malati più gravi nelle pulizie personali e di spingere le carrozzine degli invalidi, infatti nel padiglione San Paolo molti detenuti sopravvivono sulla sedia a rotelle. A volte faceva straordinari pagati sotto banco a sigarette, la valuta corrente, lavando a terra nelle celle o portando di nascosto del ghiaccio ai pochi privilegiati proprietari di una borsa termica.
Altri due forestieri ho avuto modo di incontrarli nella camera d’attesa per parlare con gli avvocati o i magistrati, un vezzoso locale di pochi metri quadrati, sudicio da fare vergogna con negli angoli gli esiti remoti e solidificati di impellenti bisogni corporali liquidi emessi in tempi lontani; in grado(pura illusione) di contenere per ore decine di persone, mentre la porta con le sbarre veniva sbattuta senza pietà ad ogni entrata ed uscita di una persona dalla stanza, da far tremare le stanche mura, ed una seconda di legno, del tutto inutile se non a togliere il respiro agli sventurati lì rinchiusi e ad aumentare a dismisura caldo ed umidità dell’aria, sbattuta con pari violenza e malcelata rabbia.
Il primo, un peruviano dagli occhi a mandorla, fu in mia presenza artefice di un episodio esilarante. L’agente di custodia chiamò un nome apparentemente cinese, tipo Sing Tia Ping e scrutando tra i volti patibolari degli astanti chiaramente di ascendenza spagnola o saracena, stabilì che fosse lui l’interessato e lo condusse dal giudice, il quale cominciò l’interrogatorio e solo dopo un quarto d’ora si accorse dello scambio di persona e fece ritornare il malcapitato in cella, dove fu costretto a sorbirsi i rimbrotti di chi aveva commesso il madornale errore.
In un’altra occasione nello stesso luogo fatale ebbi modo di parlare con uno slavo che mi confessò di essere imputato per rapina a mano armata per il solo fatto di essersi trovato nei pressi dell’accaduto. Mi raccontò tutto eccitato di essere stato sottoposto all’identificazione su foto segnaletica senza essere riconosciuto, ma nel confronto all’americana, uno dei presenti alla rapina lo aveva indicato agli agenti, mentre, a suo dire, gli altri due avevano indicato persone diverse. Era naturalmente difeso da un legale d’ufficio, che si era dimenticato persino di presentare istanza al Riesame.
Gli ultimi stranieri saranno i cinque cingalesi, vittime di uno scambio di persona che mi accompagneranno mestamente al momento delle mie dimissioni… avvenute come vedremo dopo la mezzanotte e mentre io avevo una casa ed una famiglia pronti ad accogliermi, loro discutevano sul luogo dove avrebbero trascorso la notte ,naturalmente all’addiaccio.
Alcuni politici propongono sbrigativamente, per diminuire la pressione nelle carceri di inviare gli stranieri condannati a scontare la pena nei paesi di origine. Mi sembra una idea balzana non degna di uno Stato desideroso di onorare la sua sovranità, ma altre soluzioni vanno cercate con impegno per il sovraffollamento cronico non permette alcun piano di vivibilità ed a pagare sono sempre e soltanto i detenuti.
Poggioreale oltre ad essere tra i più degradati penitenziari europei è da tempo crocevia di razze e culture diverse; tra le sue impietose mura si ascoltano e si alternano calorosi idiomi e dialetti diversi, europei ed orientali, un flebile e caricaturale ricordo di una Napoli per secoli indiscussa capitale delle arti e della convivenza, declassata da tempo a malinconica capitale della spazzatura materiale ed umana.

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13° Capitolo - I secondini

Il corpo di polizia penitenziaria rappresenta l’interfaccia tra lo Stato ed i detenuti, tra il rigore e la severità nel rispetto delle leggi e la fragilità e la precarietà di una condizione umana di grande disagio e di restrizione.
Ricordo il primo giorno, alla prima ora d’aria, l’addetto alla sorveglianza giustificarsi di alcuni divieti senza senso, nel richiamarsi solennemente allo Stato e alle sue regole, del quale egli si sentiva evidentemente un umile, quanto efficace, servitore.
”Non lo voglio io, lo vuole lo Stato e voi tutti dovete obbedire”.
La libertà e la salute sono i beni supremi dell’uomo e quando sono compromessi l’individuo si sente smarrito.
Negli ospedali, dove a vacillare è la salute, gli infermieri rappresentano l’equivalente dei secondini, ma i primi si configurano agli occhi del malato come un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi fiduciosi e sono pervasi da una volontà di aiuto e di donazione sconosciuti ai secondi, i quali interpretano il loro impegno in maniera diametralmente opposta, applicando pedissequamente un regolamento in alcuni passi di ottusa severità e penosamente coercitivo, dando così luogo ad un pessimo rapporto di tipo autoritario con i sottoposti e soffocando l’atmosfera boccheggiante che si respira nei nostri penitenziari, nei quali per migliorare la vivibilità bisogna agire più sull’uomo che sulle strutture.
Le mie conclusioni sono state formulate dopo pochi giorni di esperienza, per cui dovrebbero avere un valore probatorio trascurabile, ma sono suffragate dall’esperienza dei tanti detenuti che mi hanno confidato i loro lunghi anni trascorsi in svariati luoghi di pena della penisola, dove il rapporto di presunta sudditanza è costantemente vissuto con malinconica rassegnazione.
Spesso anche negli ospedali, prevalentemente al sud, vi è la consuetudine, segno di pessima educazione, da parte del personale medico e paramedico di dare del tu al paziente, ma a volte in questo eccesso di confidenza vi è anche lo scopo di familiarizzare con il malato e di accollarsi parte delle sue sofferenze; a Poggioreale, viceversa, il tu sistematico ed è lo specchio di una subordinazione assoluta che il Potere… vuole infliggere al detenuto. Non credo che la legge o i regolamenti carcerari diano precise istruzioni in materia. Sono o dovrebbero essere lontani i tempi del Fascismo, quando s’imponeva ai cittadini l’uso del voi, mentre il lei, come magistralmente ci ricordava Totò, era stato abolito.
Sembra una questione secondaria che forse ha toccato solo la mia sensibilità, ma vi assicuro, essere chiamati sprezzantemente col tu da un figuro forse in possesso della licenza media, quando si hanno alcune lauree, provoca una mortificazione ed un senso di perdurante impotenza che non facilita l’instaurarsi di un rapporto con il personale di custodia, il quale dovrebbe essere sereno e di fattiva collaborazione.
Sentivo i miei compagni di cella, nei rari casi di necessità, chiamare le guardie pomposamente “assistente” e sorridevo sardonico, perché mi sembrava un titolo inutilmente adulatorio, ma quando è capitato a me di dovermi rivolgere loro non ne ho trovato uno più appropriato.
L’impressione negativa che ho maturato sul comportamento del personale di custodia ha come sempre le sue eccezioni, tra le quali rammento volentieri “Baschillo”, un agente soprannominato in tal guisa per l’insolita abitudine di tenere il basco d’ordinanza nei galloni della spalla sinistra; un personaggio di grande umanità e simpatia da me incontrato spesso nella zona dedicata ai colloqui con l’avvocato. Più di una volta è capitato, se eravamo da soli, che m’invitasse a camminare più lentamente, affinché potessimo scambiarci qualche confidenza e potesse chiedermi qualche consiglio medico o di vita.
Rammento la luce che comparve gioiosa nei suoi occhi quando gli dissi che lo avrei ricordato nelle pagine del mio libro.
Personalmente, per una patologia al tallone, avevo un permesso medico, segnato sulla cartella clinica, di poter circolare con dei sandali aperti al posto delle scarpe. Almeno cento volte sono stato richiamato e ho dovuto spiegare la situazione, trenta o quaranta volte sono stato ripreso perché mettevo la mano in tasca, una cosa ritenuta molto grave, indice inequivocabile di comportamento strafottente e bisognava umilmente giustificarsi con la necessità di prendere il fazzoletto per una rinite allergica, la quale non mi ha lasciato in pace un minuto; credevo inoltre che le mani dovessero tenersi dietro la schiena nel camminare o al passaggio delle guardie, mi sbagliavo ed anche per questo sono stato ammonito, alla fine non sapevo dove metterle.
A me francamente tutti questi richiami, ossessivi e ripetitivi, sono sempre sembrati delle inutili stronzate, forse previste dal regolamento, ma allora bisogna impegnarsi a cambiarle quanto prima queste norme ottuse ed inutilmente persecutorie.
Un infermiere, per ritornare al paragone iniziale non si permetterebbe mai di redarguire un paziente ed in queste apparenti inezie vi è la sostanziale differenza tra assistenza (ma non li chiamiamo così, assistenti? E pare sia di loro gradimento) e la petulante imposizione di astratti comportamenti.
Nell’immaginario comune i carcerati sono configurati con un più o meno elegante abito a strisce, una sorta di pigiama fin de siecle, viceversa è concesso vestirsi con una certa libertà, non certo in calzoncini e canottiera, ma abbastanza casual, gli agenti, non parliamo poi dei graduati, hanno invece l’obbligo di vestire in maniera molto severa e coprente, con baschi e cravatte, per cui anche loro sono costretti a soffrire il caldo e più di uno, in gran segreto, mi ha pregato di segnalarlo.
Probabilmente si riuscirebbe ad ottenere una migliore e più gradita vivibilità cambiando qualche passo del regolamento penitenziario, più che avventurandosi in faraonici e dispendiosi programmi di ristrutturazione dei bagni penali.
I direttori possono di loro iniziativa prendere qualche provvedimento, anche se le norme sono farraginose e la possibilità di variarle da parte dei funzionari è modesta; Come appare lontana la pur vicina geograficamente Svizzera, dove, in particolare nel Canton Ticino, grazie ad una politica federale che privilegia l’autonomia e quindi anche il decentramento nel settore dell’esecuzione delle condanne, si è riusciti a trovare una soluzione a molti problemi, incluso quello fondamentale dell’affettività in carcere, privilegiando il contatto diretto con le persone care. E questo a partire quasi subito dopo l’inizio dell’esecuzione delle sentenze.
Sembra fantascienza ma è realtà, ritorneremo sull’argomento nell’appendice quando parleremo di Amore al tempo della galera.

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14° Capitolo - Storie incredibili di matta bestialità

Tommaso è un uomo mite, timorato e divorato dall’uso prolungato di sostanze psicotrope, un ragioniere accusato semplicemente di furto, non un boss spietato o un guappo riottoso ad ogni regola. Egli mi raccontava di essere stato più volte chiuso nelle celle di rigore in isolamento per 5 giorni a pane ed acqua ed una volta (pur senza dimenticarci che Tommaso parla ogni pochi giorni con il diavolo) è rimasto senza il conforto né di cibo né di liquidi al punto da dovere, disperato, bere dal cesso turco, rubando con rapidità felina l’acqua sgorgante per pochi secondi dallo sciacquone.
Un episodio fuori da ogni perversa fantasia che, né Dante poteva immaginare come pena crudele a cui sottoporre il più pervicace dei rei, né Dario Argento poteva collocare come scena madre in un suo film dell’orrore.
Salvatore mi mostrò, nell’attesa della quotidiana misurazione della pressione, le tracce indelebili delle frustate dei falchi, i quali lo avevano catturato assieme al padre sessantenne per il possesso di una partita di droga nascosta nella loro villetta di Mondragone. Unica concessione il poter addossarsi anche la quota di violenza spettante al padre, da poco reduce da un intervento chirurgico. Sono percosse esterne alla struttura penitenziaria, ma stranamente simili, nei lividi penetranti, a quelle che più di un detenuto mi ha mostrato alzando furtivamente la maglia e dichiarando di averle prese in carcere.
Una sorpresa per me è stata l’assenza di episodi di sodomia nei racconti dei reclusi, al contrario da quanto narrato in ogni film che si rispetti sull’argomento, da Sing sing a San Vittore, nei quali, immancabile, vi è la scena sotto le docce con gli anziani che battezzano la matricola sverginandola. Viceversa in oltre cento testimonianze da me raccolte non vi è alcuna traccia di questi episodi di malcostume, forse per l’opportuna rigorosa separazione vigente per pedofili, violentatori, omosessuali e transessuali (pare siano 17) ed anche, probabilmente per la presenza nelle singole celle di docce rudimentali.
L’onanismo impera trionfante, ma non cerca inutili sfoghi negli altrui orifizi; almeno una stella al merito, forse l’unica, in questo inferno dei vivi.
Il racconto più agghiacciante che mi è stato ripetuto, identico, da più voci provenienti da diversi padiglioni, prevede una sequenza sempre eguale, al di là dei limiti dell’incubo: all’improvviso nella cella, preferibilmente nelle ore notturne, giungono un nugolo di incappucciati alla Ku klux klan, i quali prelevano un detenuto bisognevole, a loro parere, di una punizione esemplare e lo trasportano nei piani sotterranei, dove lo sottopongono ad un sonoro paliatone con inaudita violenza, per lasciarlo poi per più giorni a dieta pannelliana ultrarigida, in assoluto isolamento.
Naturalmente il volto coperto è di obbligo quando si tratta di punire capi clan o uomini d’onore, in caso contrario quanto tempo vivrebbero mogli e figli dei prepotenti figuri autori di queste bravate?
Ho sempre fatto attenzione alla circostanza che questi episodi ferini sono collocabili in un tempo relativamente lontano, ma sono voci inquietanti che urgentemente devono dar luogo ad una scrupolosa inchiesta da arte della direzione di Poggioreale, da poco rinnovata ed animata dalle migliori intenzioni. Un questionario anonimo distribuito in maniera capillare contribuirebbe a sfatare questi racconti orrifici o, nel malaugurato caso siano veritieri, a stroncare l’abuso e colpire severamente i colpevoli.
Potrei continuare a lungo, ma non voglio diffondere notizie non controllate, spetta a chi di dovere fare piena luce su questi allucinanti episodi e ristabilire la verità e la tranquillità tra le antiche mura.

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15° Capitolo - Strani personaggi

Di personaggi strani ed originali ne ho incontrato più di uno, ma alcuni hanno colpito la mia curiosità più di altri, perché è tangibile lo stato confusionale provocato dalla lunga segregazione e tra questi emblematico è il caso di Tommaso, un antico figlio dei fiori, indefesso consumatore di sostanze psicotrope ed uso a dialogare frequentemente con il diavolo, il quale viene a trovarlo nella sua cella e gli racconta, su richiesta, il comportamento della moglie con una tale accuratezza nella cronaca degli spostamenti, da permettere al nostro amico, con l’aiuto dei fratelli, di coglierla in fallo anzi col fallo…altrui.
Egli mi descriveva Satana come un insospettabile dirigente di un’azienda di Los Angeles, il quale, in occasioni particolari, cambiava personaggio ed assumeva le vesti di Belzebù. Tommaso lo aveva conosciuto in America ed entrato nelle sue confidenze era stato reso partecipe della sua oscura potenza. Peccato che non ho potuto sapere, per il cambio di padiglione, quando il Vesuvio erutterà la prossima volta.
Una variegata miscellanea di personaggi è costituita dal gruppo di vigili urbani di Giugliano incarcerata per peculato e gravitante in gran parte nel padiglione Avellino con qualche appendice, i più vecchi e malandati, nel San Paolo.
Lo scandalo provocato dalla retata, oltre a decapitare l’intero corpo, dal comandante all’ultimo ausiliario, aveva suscitato enorme clamore sulla stampa ed aveva scoperchiato un mondo di corruzione e concussione che oramai alligna vigoroso in tutta la Campania.
Alla vicenda non mancava, come necessario per conquistare le prime pagine, un pizzico di erotismo, con una richiesta di mazzetta pagata in natura da una procace signora vessata dalle continue richieste di denaro per chiudere un occhio…
Tra gli inquisiti pochi avevano beneficiato dei domiciliari, il grosso, alcune decine, albergava ancora a Poggioreale. Tra questi vi era il podista poderoso, il quale, dovendo contrastare un tasso di trigliceridi esorbitante, correva come un dannato fino allo sfinimento. Vi era il graduato dalla chioma fluente, emulo di Sgarbi, perennemente impegnato ad aggiustarsi il ciuffo ribelle, il vecchierello incredulo di quanto gli era capitato, illuso di stare nel cortile di casa, i pochi giorni di cella lo avevano già reso folle. Mentre nel padiglione San Paolo avevo conosciuto i due più anziani del gruppo, affetti dalle più svariate patologie, uno dei quali era accusato di aver goduto delle grazie della signora. Ad essi spiegai la maniera più sicura per essere assolti, calarsi i pantaloni e dimostrare la carenza di attributi idonei a commettere il reato.
Gli appartenenti al terzo sesso sono separati dagli altri e possono contare solo sulla compagnia di pedofili, violentatori e transessuali. Di conseguenza non mi è stato possibile fare incontri interessanti.
Michele è un esperto di casseforti e sistemi di allarme, una brutta copia del Dante Cruciani, alias Totò, dei Soliti ignoti. Mi spiegava di essere dentro per colpa delle intercettazioni e dell’esistenza in Campania di sei bande specializzate nei furti col buco…a banche attraverso percorsi fognari o tramite l’abbattimento di mura di appartamenti contigui. Si vantava che nessun impianto d’allarme avesse mai resistito alle sue attenzioni, mentre neutralizzare quelli di appartamenti privati o di ville per lui era una passeggiata.
Era parimenti abile nelle bonifiche dalle microspie oramai ubiquitarie, identificate non solo con l’ausilio di sofisticati apparecchi, ma grazie anche al suo fiuto, un sesto senso che alla cieca lo guidava nella ricerca.
Totonno o falsario era invece specializzato nella riproduzione di documenti. Per poche migliaia di euro era in grado di fornire, non solo carte d’identità clonate, ma anche passaporti di repubbliche sud americane. I suoi clienti, oltre a latitanti più o meno illustri, sono i truffatori che acquistano merce a nome altrui. Negli ultimi tempi si stava industriando ad allargare la sua attività alla duplicazione di carte di credito e bancomat con proficui risultati.
E’ materialmente impossibile incontrare detenuti sottoposti al regime del 41bis (vedi appendice documentaria), con uno soltanto credo di aver parlato da lontano nel padiglione San Paolo. Non ricordo il suo nome, egli mi disse di essere un boss del giuglianese e che se avevo qualche necessità potevo rivolgermi a lui. Sarebbe stato interessante parlargli, poteva essere un personaggio, spero solo non fosse un invasato millantatore, nella struttura sanitaria non mancano folli e dementi.

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16° Capitolo – Droga, drogati e spacciatori

La droga e’ l’artefice della permanenza a Poggioreale di circa un quarto degli ospiti. Sono dati ufficiali, anche se la mia impressione e’ stata di una percentuale più ampia. La malavita campana, non più tardi di venti anni fa, al tempo in cui regnava Raffaele Cutolo (vedi appendice documentaria) aborriva il commercio e l’uso della polvere bianca, oggi in alcune piazze, come quella di Secondigliano, rese tristemente note anche all’estero dal libro e dal film Gomorra, sono una fabbrica incessante di malavita e di morte con fatturati che, assommati agli introiti di altre attività criminali, si confrontano alla pari con quegli dello Stato, danno al Sistema un potere smisurato contro il quale e’ arduo combattere.
Tra i reclusi drogati molti hanno cominciato come consumatori per divenire poi spacciatori. Un Sert (centro per la cura dei tossici) si occupa del loro recupero ma e’ una esasperante fatica di Sisifo. Alcuni cominciano come muschilli o come vedette, ma i trafficanti li pagano anche con qualche dose per irretirli e legarli indissolubilmente all’organizzazione.
I tossicodipendenti sono relegati in celle apposite e non sono in contatto con altri detenuti, per cui e’ improbabile essere coinvolti in fenomeni d’intemperanza dovuti all’astinenza.
Il problema della droga (vedi appendice documentaria) e’ complesso ed impegna quasi metà delle forze dell’ordine e della magistratura.
Nel mio breve percorso ho incontrato la vedetta alle prime armi ed il trafficante internazionale, sia l’uno che l’altro vittima ed artefice di un complesso meccanismo in grado di stritolare tutto e tutti.

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17° Capitolo – La gogna mediatica

Per i vip (politici, professionisti, gente dello spettacolo) l’entrata in carcere è accompagnata da una stritolante gogna mediatica, che diffonde ed amplia notizie false e tendenziose in grado di distruggere per sempre la reputazione di una persona fino a quel momento stimata universalmente.
Nel mio caso la persecuzione si e’ puntualmente verificata dalle radio alle televisioni, dai giornali al web. Sono nati decine di blog appositi, anche all’estero con migliaia di partecipanti e l’eco della vicenda e’ pervenuta, non solo in Spagna, Portogallo e nei paesi dell’est, ma perfino al cuore dell’Africa nera, dall’Angola al Mozambico, in nazioni notoriamente afflitte da problemi ben più seri a cui dedicarsi.
Non parleremo delle gravi imprecisioni e delle infamie raccontate dai giornali che costituiranno oggetto di querele e di specifiche azioni risarcitorie, essendo argomento di scarso interesse per il lettore, al quale vorrei però sottoporre, per un giudizio sereno ed equilibrato, un aspetto collaterale della mia avventura riguardante un mio collega implicato nella vicenda.
Un ginecologo napoletano, tale Luigi , passerà al fresco (40° all’ombra) questa estate a Poggioreale e rischia da 5 a 10 anni di galera, per via di una signorina che lo accusa di averla coercita psicologicamente e, in cambio di uno sconto sulla parcella, invitata a consumare frettolosamente un’unione carnale di tipo vaginale (parole dell’ordinanza di custodia cautelare) prima di cominciare una procedura chirurgica.
Voglio dare per scontato che la coniuctio sia avvenuta, ovviamente con la donna consenziente per quanto coercita, nonostante numerose circostanze, che saranno vagliate dai giudici, inducono a pensarla diversamente: assenza di denuncia e ritorno dallo stesso medico, dopo anni, per una nuova prestazione, speriamo solo sanitaria.
Decine di amici commercianti, soprattutto di abiti, borse ed affini, mi hanno sempre raccontato che ogni giorno nei loro negozi si presentano signore e signorine, le quali dopo aver provato il capo d’abbigliamento, chiedono candidamente uno sconto intorno all’80-90% del prezzo, in poche parole lo vorrebbero quasi gratis.
Sono richieste indecenti, ma se il negoziante lo ritiene opportuno e la signora è piacente e disinibita, si risolvono con una breve sosta nel retro bottega, qualche repentino movimento di anca o meglio ancora un accurato titillare sincrono di lingua e bocca e voilà, affare fatto.
Nessuno credo avrà niente da replicare, salvo forse la moglie del commerciante, la cliente è contenta del cospicuo sconto ed il proprietario della merce per lo sfizio di pochi minuti, anche se pagato 100 o 200 euro, avrebbe certamente pagato di meno una puttana, ma si tratta di una signora per bene… e vi è un inevitabile sovraprezzo.
Ritorniamo al caso precedente del dottor Luigi: la sua particolare veste di sanitario gli impone categoricamente un comportamento austero ed eventuali trasgressioni saranno e dovranno essere severamente sanzionate dall’ordine dei medici, severo custode del codice deontologico, anche con la radiazione dall’albo, ma che centra il codice penale?
Viceversa l’articolo 609 comma bis, pare sia un reato esecrabile ed ancora più grave dell’omicidio ed altre quisquiglie del genere, infatti il recente provvedimento di indulto, che coprirebbe in gran parte la pena per il fattaccio, avvenuto alcuni anni fa, non include tele reato tra quelli previsti.
Omicida si
Coercitore psicologico no
Potrebbero sembrare discorsi da misogino ed anti femminista, ma provengono da un pulpito che ha molte frecce al suo arco per essere assolto, con formula piena, da tale accusa. Potrei chiamare a testimoniare le decine di migliaia di pazienti, che in tanti anni di professione mi hanno dato la loro fiducia incondizionata o le altrettanto numerose lettrici dei miei libri, in particolare quelli che esaltano il fascino muliebre.
Non tengo naturalmente conto di tutte quelle che mi hanno offerto, in tempi e luoghi diversi, il favore delle loro grazie, per non arrecare un immeritato sgarbo a mia moglie, la migliore tra le donne, eppure ha scelto me per condividere gioie e dolori.
Un’ulteriore dimostrazione dell’attrazione fatale che esercito sul gentil sesso è fornita dalle continue richieste di interviste, non solo da parte di giornaliste vip del Corriere o della Repubblica, ma da anche da redattrici di riviste e televisioni locali.
Sempre profumate ed eleganti scelgono per immortalare le nostre conversazioni luoghi ameni come una sala da the o il bar di una libreria a la page.
Di recente anche le gentili signore della Procura volevano un’intervista, anzi più volgarmente un interrogatorio, tenutosi questa volta in un luogo molto squallido e per essere certe che fossi puntale, hanno ritenuto di farmi prelevare, alle prime luci dell’alba, da una dozzina di baldi giovanotti della Benemerita, distogliendoli, è solo il mio sommesso parere, da compiti più utili per la collettività e più in linea con i loro compiti istituzionali.
La mia vicenda è trascurabile, a differenza di quella del mio collega, trovatosi nelle maglie di una Giustizia, che sembra concepita ed amministrata da donne, mentre ancora, forse per poco, nelle nostre austere aule giudiziarie troneggia la scritta:”La legge è uguale per tutti”.

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Capitolo 18° - Vita quotidiana in cella

La giornata in cella è interminabile: dura 22 ore, interrotta da pochi momenti di sonno. Una condanna di uno o due anni dà l’impressione di una pena doppia, perché il tempo, in assenza di qualsivoglia progetto di recupero, non trascorre mai.
Il conforto della televisione è nello stesso tempo un tormento per chi non vuole essere bombardato costantemente da suoni ed immagini.
Le regole da rispettare sono chiare e ad esse si attengono tutti per il bene comune.
La doccia, anche se rudimentale, più volte al giorno è un dovere, perché con il caldo soffocante si puzza come caproni.
Nella spesa settimanale chi ha più disponibilità economiche viene incontro alle esigenze degli altri. La prima merce da ordinare sono le sigarette. Io avevo scelto una cella di non fumatori, mi accorsi subito che per non fumatore s’intendeva un soggetto che consumava solo 7-8 sigarette al giorno.
In genere il pasto viene preparato dal più esperto in culinaria, mentre per lavare a terra e fare la cucina tutti devono alternarsi.
Anche io tentai timidamente di rendermi utile, non certo in cucina, dove per inveterata tradizione maschilista, sono servito e riverito e non so neanche accendere un fornello, ma con la ramazza. Non potevo permettere che dopo ogni mia doccia, il lago d’acqua che provocavo, inondando la stanza, venisse asciugato dai miei compagni più giovani, per cui, dopo ripetute insistenze, mi fu concesso di fare qualcosa; ma appena mi videro all’opera ignorando che la pezza per lavare a terra andasse strizzata, mi fu imposto perentoriamente di stare tranquillo e di far lavorare gli altri.
Ogni mattino il primo che si svegliava si offriva di prepararmi il caffè ed io accettando, alcune volte rammentavo che quella funzione a casa mia era espletata da Tania, una efficiente quanto graziosa colf ucraina, della quale tanto sentivo la mancanza.
I miei compagni tutti giovanissimi ed assatanati mi chiedevano di descrivere particolari anatomici della suddetta ed alla fine mi consigliavano, anzi mi imploravano: visto che in carcere hanno capito chi siete, chiedete di essere servito in cella dalla vostra cameriera, come spetta ad un vero signore, in maniera che anche noi possiamo approfittarne…
A volte capitava, in coincidenza con la scarcerazione di un personaggio malavitoso importante o anche soltanto in coincidenza con l’onomastico di un boss, di ascoltare l’assordante schioppettare di batterie di razzi luminosi, la cui scia si intravedeva in cielo ed in contemporanea in alcune celle si faceva eco percuotendo con le pentole le sbarre, ignare di tanto tripudio.
Appena entrato in cella ebbi l’impressione di una salumeria ben fornita, infatti gli armadietti dei miei futuri compagni troneggiavano di ogni ben di dio, dai pelati alla pasta di ogni tipo, biscotti e nutella, scatolette di tonno e insaccati sottovuoto, oltre ad un angolo ove erano conservati bagno schiuma e talco in quantità, deodoranti e profumi, pennelli da barba e spazzole per i capelli e per le scarpe. Tutto naturalmente acquistato a loro spese e tutto a mia disposizione per quella genuina solidarietà che non mi stancherò mai di lodare e rendere nota al pubblico esterno, schiavo dell’egoismo e della prepotenza.
Due frasi gergali venivano ripetute ogni giorno, non solo nella cella, ma anche in momenti diversi come l’ora d’aria o le attese per i colloqui
“Adda fa o sfogo e legge”, nel senso bisogna pazientemente attendere il periodo di carcerazione preventiva commisurato al reato di cui si è imputato.
“Fatt a galera”, una frase fatta propria dai detenuti e ripetuta per celia o per scaramanzia continuamente, credo derivata dalla compassione…delle guardie carcerarie; infatti consultando internet alla voce Poggioreale mi sono imbattuto in un commento di un ignoto recluso, il quale, ristretto da alcune ore, raccontava di aver chiesto un’aspirina per un mal di testa atroce all’agente di custodia e di aver ricevuto la sorprendente risposta di cui abbiamo accennato.

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19° Capitolo - Aniello compagno di cella
 e lo scambio con il collega

Dopo appena sette giorni di attesa vengo sottoposto alla visita del cardiologo richiesta con urgenza dal medico che mi aveva visitato al mio ingresso, allarmato dalla mia coronarografia nella quale risultavano completamente occluse tutte e tre le coronarie.
Allo specialista basta uno sguardo ai miei accertamenti per giudicarmi in imminente pericolo di vita e disporre, a mia insaputa, il trasferimento presso il padiglione ospedaliero San Paolo.
Torno dai miei compagni e dopo mezz’ora mi viene comunicato che debbo cambiare cella, una notizia ferale per il dover lasciare un luogo ove, bene o male, mi ero sistemato decentemente ed in compagnia di ragazzi ai quali volevo bene ed anche loro ricambiavano con slancio il mio affetto.
Sono colto da una crisi di disperazione, abbraccio piangendo Salvatore, Emanuele ed Antonio, raccolgo i miei indumenti in un sacco della spazzatura ed accompagnato da un secondino mi avvio presso la mia nuova residenza.
Per me si tratta di un salto nel buio e quando, dopo un lungo percorso a piedi, trascinando il peso della mia robba senza aiuto alcuno, giunto alla reception... sono tentato dal rifiutare il ricovero, ma l’illusione di una migliore assistenza mi induce a desistere.
Il medico che mi accoglie mi riconosce, ricorda di aver letto alcuni miei libri di medicina e mi da del lei, mentre l’agente che assiste alla visita mi apostrofa categoricamente con il tu.
Contemporaneamente al mio arrivo giunge da un altro padiglione Aniello, il mio compagno di cella per i prossimi 7 giorni.
Non so per quale motivo tutto il personale di custodia mi aveva scambiato per il collega accusato di una violenza sessuale, un reato che, alla pari della pedofilia e delle sevizie sui minori, in galera subisce un allucinante contrappasso per antitesi, che non pratica sconti a nessuno.
Aniello era stato altre volte in carcere ed era abbastanza navigato, per cui quando il secondino gli chiede se se la sente di dividere la stanza con un violentatore, non si scompone, anzi baldanzoso si dichiara pronto, alla prima mossa falsa da parte mia, a rompermi la testa con uno sgabello. Basteranno pochi minuti di confidenza per renderci entrambi conto che non potevamo avere compagno migliore.
Gli mostrai la foto di mia figlia Marina, che tanto successo aveva riscosso tra i giovani reclusi, ai quali l’avevo mostrato orgoglioso, l’unica della mia famiglia che mi era arrivata per posta e suppliva al piccolo album sequestratomi all’ingresso nel penitenziario.
Gli parlai dei miei cari e scoppiai in lacrime disperate, al che, anche lui non seppe trattenersi e piangemmo assieme abbracciati come due fratellini smarriti. I miei nervi erano a pezzi, lui mi confessò che avrebbe provato vergogna a piangere davanti a chiunque, che non gli era mai successo di cedere allo sconforto e se gli capitava di non poterne fare a meno correva a chiudersi nel bagno, ma con me gli era sembrato diverso e dopo lo sfogo entrambi ci sentimmo meglio.
Aniello era in carcere per un errore fatale. A Giugliano, dove abita, egli è un noto imprenditore nel settore delle maioliche e 2-3 volte all’anno, con altri commercianti e professionisti organizza una serata diversa dalle altre, al posto di televisione e pantofole con la moglie in bigodini, una cenetta a base di ostriche e champagne, la compagnia di qualche prostituta d’alto bordo ed una sniffatina, giusto per provocare la giusta euforia. Per procacciarsi la cocaina era stato incaricato Aniello, il quale, recatosi a Secondigliano, comprò 20 dosi ed appena si allontanò lo spacciatore fu fermato dalla polizia, che lo arrestò in flagranza di reato per vendita di sostanze stupefacenti.
In seguito per quella leggerezza prese una condanna di 5 anni e 4 mesi, che sta scontando con grande dignità e sofferenza, come capita a tutti gli innocenti per i quali le pene si moltiplicano.
La stanza del padiglione San Paolo era il doppio della precedente ed aveva un vero bagno con una doccia efficiente, una vera panacea. Era prevista per tre persone, ma fortunatamente siamo rimasti in due, adoperando il terzo letto per poggiare le cose più svariate dagli indumenti ai giornali.
Il mio compagno aveva vari problemi di salute, da un’ipertensione essenziale ad una patologia renale, credo di rilievo, sottovalutata dai medici ed affrontata con la prescrizione di sedativi, rinviando sine die i necessari ed impellenti accertamenti.
Una situazione riscontrabile anche per i normali cittadini che si rivolgono ad una struttura pubblica, ma per chi e’ privo della libertà ancora più difficile da tollerare.
Aniello era una brava persona, educata e rispettosa, non era attirato dalla televisione che accendeva solo in serata per seguire un film, addormentandosi immancabilmente prima della fine. Da tempo si era avvicinato ai testimoni di Geova e dalla lettura della Bibbia. La sera pregava con convinzione e per mia fortuna implorava la protezione celeste anche su di me.
Il suo processo era ancora in corso e lui sperava di ottenere giustizia in appello e tornare a casa, dove l’aspettavano, oltre alla moglie, i due figli, il primo, diciotto anni, odontoiatra e la seconda, sedici anni, disegnatrice di moda.
Egli aveva 45 anni e mi ripeteva continuamente che io sarei potuto essere suo padre che ne aveva solo due o tre più di me, la considerazione mi lasciava un po’ sconcertato, perché mi aveva dato sin dal primo momento l’impressione di somigliare come una goccia d’acqua a Mario, il mio giardiniere di Ischia, il quale ha una decina di anni più di me. Una triste conferma che pochi anni al fresco incidono sull’aspetto fisico in maniera devastante trasformando quarantenni in vegliardi.

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20° capitolo - Il padiglione San Paolo

Passa per essere uno dei centri clinici penitenziari migliori d’Italia, ma somiglia tanto ad uno degli sgangherati ospedali napoletani. Ad eccezione delle camere più ampie, per il resto la vita carceraria si svolge in maniera analoga: stessi orari, stesse abitudini, tra cui quella orrenda della chiusura serale del portellone blindato. Due ore d’aria in un cortile assolato e posto in contiguità del punto di raccolta e compattamento della spazzatura di tutti i padiglioni, da cui un tanfo vomitevole che impedisce di respirare. Pochi usufruiscono della piccola passeggiata, perché la maggioranza degli ospiti versa in precarie condizioni di salute; inoltre la possibilità di fare incontri imbarazzati è un rischio tangibile, essendo raggruppati detenuti con pene definitive da brivido, inclusi gli omicidi; persone incattivite dalla lunga detenzione con i nervi a fior di pelle, capaci di qualsiasi reazione inconsulta. Una situazione che consiglia a molti di rimanere nelle loro camere.
Per la verità la quasi totalità del personale di custodia, salvo poche eccezioni, si rivolge ai reclusi con una gentilezza ed un senso di umanità sconosciuti negli altri padiglioni, una situazione che la direzione dovrebbe far adottare in tutti i reparti di Poggioreale, ne risulterebbe una vivibilità attualmente sconosciuta.
La visita medica, frettolosa e spesso basata unicamente sulla misurazione della pressione, avviene nelle ore mattutine, spesso in coincidenza con l’ora d’aria, per cui può capitare, come nel mio caso, di non incontrare per giorni e giorni il sanitario di turno.
Numerose e qualificate le consulenze specialistiche eseguite da professionisti capaci e motivati. Personalmente in pochi giorni sono stato visitato dal dermatologo, che mi ha segnalato, nemmeno me ne ero accorto, una irritazione diffusa della pelle dovuta alla scarsezza di igiene ed alla promiscuità, dall’ecografista che mi ha diagnosticato una steatosi epatica della quale non sapevo nulla, dall’ortopedico che mi ha illuminato sulla tallonite che da anni mi affligge e non mi consente l’uso delle scarpe, dall’oculista, il quale per fortuna non mi ha riscontrato danni al fondo oculare, a volte compromesso severamente nei diabetici. Mancava la consulenza più importante nella mia situazione, quella con il cardiochirurgo, per la quale era stata prevista ed autorizzata dal giudice una trasferta all’ospedale Monaldi, ma mi avevano fatto intendere che sarebbe passato molto tempo, forse mesi. Al risultato di questa consulenza era attribuito un valore decisivo dal magistrato, prima di decidere sulla concessione degli arresti domiciliari per motivi di salute. Naturalmente la constatazione dell’imminente pericolo di vita, accentuato a dismisura dalla situazione di stress continuo a cui ero sottoposto ed un appuntamento fissato in quei giorni per un urgentissimo intervento di by-pass a Milano non rivestiva alcuna importanza ai fini della decisione da adottare.
Per gli accertamenti diagnostici strumentali bisognava talune volte fare i conti con guasti agli apparecchi e con gli interminabili tempi tecnici occorrenti per le riparazioni. Per la gastroscopia richiesta ad Aniello era stato necessario predisporre, a data da destinarsi, uno spostamento nel centro penitenziario allestito presso il Cardarelli e lo stesso per una scintigrafia epatica prescritta ad uno dei vigili coinvolto nello scandalo delle bustarelle a Giugliano, prenotata per il 22 settembre.
Il caldo soffocante era in parte mitigato dalle finestre più ampie, prive di vetri ed imposte, per cui immagino che d’inverno le temperature siano ancora più severe dei mesi estivi.
I detenuti ricoverati sono, come abbiamo accennato, in gran parte gravemente ammalati e, non potendo o non riuscendo ad ottenere misure alternative, sono destinati a risiedere per anni nella struttura, che perde la fisionomia di un ospedale per divenire uno squallido cronicario. Parleremo di loro più diffusamente nel prossimo capitolo.

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21° Capitolo - 480 chilogrammi in due

Nella cella di fronte alla mia vi erano quattro detenuti, tra i quali un giovane, che, pur dovendo espiare una pena lieve, aveva per molti giorni praticato lo sciopero della fame ed era stato mantenuto in vita praticando l’alimentazione forzata, fino a quando, convinto che valeva la pena vivere, ha ripreso a mangiare; un giorno prima di me la sua condanna si è esaurita ed è ritornato libero.
Come dirimpettai avevo poi due reclusi particolari Osvaldo ed Armando due pesi super massimi, entrambi di 240 chili, nonostante la giovane età, diabete altissimo, piaghe agli arti inferiori ed una cardiopatia ingravescente. Imputati per reati lievi giacevano da tempo in deposito, tra perizie e contro perizie, senza una decisione in merito a misure di custodia alternativa.
Non potevano usufruire dei colloqui con i familiari per la impossibilità di spostamento assoluta; in reparto non vi era né una sedia rotelle per le loro misure debordanti, né una barella per uno spostamento d’emergenza. Naturalmente non potevano godere nemmeno dell’ora d’aria e soffrivano più degli altri per la loro devastante menomazione. Ho preso a cuore la loro situazione ed ho inviato lettere ai quotidiani, fino ad ora senza esito, ho cercato in particolare di destare l’attenzione di Giuliano Ferrara, per la sua stazza fisica pari alle sue capacità intellettive, sperando di stimolare la sua formidabile penna in grado di perorare una causa che non può attendere rinvii.
Sono persone sensibili ed hanno bambini a casa che chiedono ogni giorno insistentemente del loro papà.
Propongo qualche passo delle loro lettere inviate a mia moglie con la genuinità delle persone semplici: “Ho trovato la forza della sopportazione nel nostro Signore, leggo molto la Bibbia credetemi come lo cerco il Signore nostro Dio e’ lui a sostenermi e a darmi la forza di sopportazione. Questo centro clinico e’ un lager e per noi sfortunati hanno capito che piano piano vi e’ una sola uscita:la morte. Vi prego di intercedere presso il dottore vostro marito, il quale mi scriva una lettera sull’indifferenza dell’autorità giudiziaria al mio caso, un articolo che solo un uomo colto e nobile come lui potrà stilare, che faccia capire cosa può capitare ad avere a che fare con la giustizia italiana Prego il buon Dio che ci dia tanta forza per resistere, siamo detenuti, ma soprattutto esseri umani”.
Ma cosa vi e’ da aggiungere a questo duplice grido di dolore che nessuno vuole ascoltare?
Gran parte dei ricoverati e’ affetto dall’epatite C, ho sentito di malati di Aids, ma non posso confermare la loro presenza: sarebbe una circostanza molto grave. Vi sono poi numerosi trapiantati di fegato ed alcuni di loro mi hanno segnalato la mancata somministrazione per vari giorni della ciclosporina, un farmaco indispensabile alla loro sopravvivenza.
Molti vivono sulla sedia a rotelle e sono aiutati da un piantone per i movimenti nei corridoi. E poi ancora asmatici con periodiche crisi di apnea, portatori di peace maker, cardiopatici più o meno gravi, nefritici cronici e diabetici all’ultimo stadio.
Un campionario di patologie che richiederebbero un ampio utilizzo di misure custodiali alternative, perché la salute e’ un bene da rispettare senza inutili accanimenti, un altro girone infernale ancora più triste degli altri, dove alla ferocia degli uomini si affianca il miserabile degrado della vita umana.

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22° Capitolo - Il mancato incontro col cardinale

Per il giorno 11 luglio la comunità di Sant’Egidio aveva organizzato una festicciola e aveva previsto un ospite d’onore: il cardinale Sepe, abituale frequentatore di luoghi di sofferenza, dove porta generosamente la forza della fede e il coraggio della sopportazione.
Da più parti, appena si era sparsa la voce della venuta del presule mi era stato chiesto di parlare a nome di tutti i detenuti. In pochi giorni le mie lettere pubblicate dalla stampa nazionale sulle difficili condizioni di vita di Poggioreale, più che sulla mia vicenda personale ed il mio intervento alla conferenza sui Rom avevano amplificato la mia fama di affascinante oratore.
Si trattava di un impegno di grande onore e responsabilità, ma mi sentivo pronto a sostenerlo.
Avevo pensato a cosa domandare al cardinale, se fosse realmente intervenuto. Mi sarei presentato non come un delinquente, non credo di esserlo, bensì, ne sono certo, un peccatore, e gli avrei chiesto d’intercedere con la sua autorità morale non solo sulla direzione per ottenere un segno tangibile di benevolenza, come un’ora in più al giorno di aria o un colloquio ulteriore al mese, ma soprattutto lo avrei invitato, e lui ben conosce la strada, a giungere al cuore delle guardie carcerarie per ottenere un sorriso quotidiano verso i reclusi.
Avevo recuperato con la memoria le parole di una toccante poesia di anonimo sulla forza dirompente di un sorriso che avevo trovato affissa all’ingresso della mia camera all’ospedale San Raffaele di Milano, quando mi recai per la prima volta per sottopormi ad un complesso intervento di angioplastica alle coronarie.
La lettura di quella semplice lirica mi diede grande forza e coraggio.
Fu per me un segno favorevole del destino ritrovarmi dopo qualche mese per un nuovo intervento nella stessa camera.
“Un sorriso non costa niente e da’ gioia e serenità a chi lo elargisce e a chi lo riceve”
Era lo spirito della breve poesia che lo stesso Don Verzè, fondatore dell’istituto universitario, non seppe dirmi da chi fosse stata composta.
Uno, dieci, cento sorrisi e la vivibilità di Poggioreale ne acquisterebbe a dismisura.
Tre giorni prima dell’incontro lasciai il carcere e non ho avuto più l’occasione di parlare a nome di tutti i reclusi, non so neppure se egli sia intervenuto, ma voglio adoperare le pagine di questo diario per arrivare fino a lui, affinché provveda a fare in modo che questo modesto auspicio abbia a realizzarsi; solo così un alito d’amore giungerà prepotente dove sembrano regnare incontrastati rancore ed indifferenza.

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23° Capitolo - Il sogno dei domiciliari

Tutti i detenuti sognano di poter usufruire degli arresti domiciliari e tutti quelli in attesa di giudizio dovrebbero poterne usufruire.
Essi costituiscono un concezione moderna di intendere la pena, in grado di conciliare le esigenze di sicurezza generale per individui considerati pericolosi e il diritto inalienabile, sancito dalla Costituzione, per qualsiasi imputato di qualsiasi reato di essere considerati innocenti fino a sentenza andata in giudicato.
Un soggetto tossicodipendente oppure “senza fissa dimora” può chiedere che tale misura venga ad applicarsi presso una comunità dove intenda intraprendere un percorso di cura e riabilitazione, mentre alcuni individui hanno diritto a tale condizione prevista specificamente dalla legge.
Essi sono
1. Donna incinta o madre di prole di età inferiore ai tre anni con lei convivente oppure il padre, qualora la madre sia deceduta oppure assolutamente impossibilitata ad assistere la prole.
2. Persona affetta da AIDS od altra patologia di cui se ne certifichi l’impossibilità ad essere curata presso la struttura carceraria
Inoltre va aggiunto che il soggetto potrà chiedere, nel corso dell’applicazione della misura, l’autorizzazione a recarsi al lavoro, nonché per l’adempimento di altre attività necessarie alla sua persona.
Anche per i condannati a pene definitive andrebbe studiata la possibilità di estendere al massimo questa opzione, la quale, è attuabile con costi assolutamente irrisori solo che ci si accorga delle scoperte scientifiche, neppure recenti, quali il braccialetto elettronico, un dispositivo in grado di controllare, attraverso un sistema computerizzato, la posizione ed i movimenti di migliaia di soggetti sorvegliati in tempo reale.
Attualmente il ricorso agli arresti domiciliari non può essere esteso eccessivamente per l’impegno notevole delle forze dell’ordine delegate ai controlli. L’utilizzo del braccialetto elettronico, da posizionare alla caviglia ed adoperato in tutto il mondo, permetterebbe di estendere la forma meno restrittiva ad un numero maggiore di persone e di restituire ai compiti di istituto le forze dell’ordine impegnate nei defatiganti controlli. Nello stesso tempo ne guadagnerebbe la sicurezza dei cittadini, perché eventuali allontanamenti dal domicilio verrebbero segnalati immediatamente alla centrale operativa e gli stessi soggetti controllati, che a volte fanno un uso maldestro della misura loro imposta, saprebbero di dover rigare dritto, pena la perdita del beneficio ed un’ulteriore condanna. Verrebbero meno anche degli equivoci imbarazzanti, raccontatimi da più di un recluso, ritenuto assente erroneamente da casa per un guasto al citofono e ricondotto in carcere.

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Capitolo 24° - L’incontro con il direttore del carcere

Lunedì 7 luglio ore 17, penultimo giorno della mia permanenza nel “Gran Hotel Poggioreale”, ma per me era solo il 14° di un tempo infinito, che avrebbe potuto non avere mai termine. Per le accuse che mi venivano avanzate la carcerazione preventiva prevedeva un anno, ma, tra proroghe e riapertura dei termini, poteva proseguire ancora per molto. A parte la mia età e le mie disastrate condizioni di salute, già due episodi di angina acuta, mi avevano chiaramente fatto intendere che il mio tempo stava per scadere definitivamente. All’indomani il Tribunale del Riesame si sarebbe interessato della mia vicenda, ma la mia fiducia (anche se dovevo ricredermi) nella giustizia umana era ai minimi termini.
Stavo sul letto, parlando con il mio compagno di cella Aniello, quando il secondino mi viene ad avvertire tutto concitato di darmi una ripulita, eventualmente anche un colpo di pettine e di vestirmi decentemente(ero in mutande e canottiera), perché erano venuti a trovarmi il direttore e la vicedirettrice di Poggioreale.
Mi preparai in un attimo, calzini di seta, pantalone blu, dono di Tonino o scannatore, camicia a maniche lunghe, addirittura una sciacquata di denti, usufruendo dello spazzolino e del dentifricio di ordinanza ancora vergini.
Mi avvio lentamente lungo il corridoio, sono tranquillo ma, lo confesso, provo anche un pizzico di emozione ed una punta di orgoglio.
Il direttore, dottor Giordano, mi accoglie stringendomi calorosamente la mano e mi presenta la vice direttrice della quale non ricordo il nome. Egli era elegantemente vestito con un completo grigio, un vero gentiluomo ed era sudatissimo, il caldo non risparmia neanche i più alti funzionari ed accendeva continuamente una sigaretta dopo l’altra, nonostante la vicedirettrice lo invitasse alla moderazione.
Fu di una cordialità squisita, mi disse che era giunto alla direzione di Poggioreale da solo due mesi, al culmine di una carriera trentennale, che lo aveva portato a girovagare tra i tanti luoghi di pena presenti In Italia.
Aveva già sentito parlare di me, ma in particolare era rimasto colpito da un mio intervento (tra l’altro ridotto forse…per motivi di spazio) sulle pagine di Repubblica, nel quale”senza astio particolare e prescindendo dalla mia vicenda processuale, avevo fotografato con obiettività la penosa situazione del carcere napoletano”. Era suo proposito partire da quelle proposte per migliorare in breve tempo la vivibilità dei detenuti.
Mi lodò non tanto per il mio spessore culturale, ironicamente enfatizzato anche nelle ordinanze processuali dai miei inquisitori, quanto per il mio coraggio civile.
Mi disse che era stato informato del mio intervento alla presentazione del libro sui Rom organizzato dalla comunità di Sant’Egidio, il quale aveva fatto scalpore in eguale misura tra i detenuti e le guardie carcerarie.
Incoraggiai la discussione sul problema dei colloqui con i parenti, invitando a trovare lo spazio per poter usufruire di un incontro in più al mese o di attese minori e più decorose per i parenti, come segno di buona volontà da parte dell’amministrazione.
La funzionaria presente mi spiegò le difficoltà quasi insormontabili di dover lavorare in una struttura costruita da oltre cento anni con criteri completamente superati e di doversi confrontare con un numero di ospiti superiore del doppio a quello previsto:2500 – 2600 invece di 1200.
L’incontro durò circa mezz’ora e diede una sferzata vigorosa al mio morale, permettendomi di affrontare con una grinta paurosa il ”mio giorno più lungo”quello del Tribunale del Riesame.
All’uscita vi erano quasi tutte le guardie carcerarie del padiglione, che mi accolsero come un trionfatore, con sorrisi, strette di mano ed esclamazioni:”Sei un grande”, “Nel vostro libro esponete anche i nostri problemi che non sono meno impellenti”.

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25° Capitolo

Il Tribunale del Riesame: il giorno più lungo

Molti detenuti rinunciano a presenziare alla seduta del Tribunale del Riesame, sia perché consigliati in tal senso dai loro avvocati, che temono dichiarazioni fuori luogo, sia perché bisogna sottoporsi ad ore ed ore di attesa in topaie sotterranee collocate sotto lo svettante grattacielo del Palazzo di Giustizia sito nel centro direzionale.
L’attesa comincia all’alba, perché in genere tutte le discussioni vengono fissate alle 9, anche se poi si dilungheranno per tutto il giorno e dai padiglioni si viene prelevati con grande anticipo.
Personalmente dormivo non più di 3 ore per notte, rispetto alle 9 abituali; quel giorno alle quattro ero già sveglio per la doccia ed una parvenza di colazione a base di pane e latte del giorno precedente.
Provenendo dal Padiglione ospedaliero ed essendo stato giudicato in gravi condizioni mi accompagna un’ambulanza con due infermieri pluritatuati, oltre alla scorta costituita da due agenti, i quali, appena disteso, mi applicano le manette, nonostante una flebite ai vasi del polso, provocata da un maldestro prelievo di alcuni giorni prima.
I ferri mi terranno compagnia fino a quando dopo circa trenta minuti vengo messo al sicuro in una topaia priva di acqua, luce ed aria, ma con la compagnia di un cesso turco puzzolente e lercio, certamente mai lavato ab antico.
Al detenuto in attesa viene consegnata una bottiglia d’acqua, una pagnotta con mortadella di scarto e, raffinatezza, una minuscola confezione di succo di frutta. Le mura dell’orrida gattabuia sono costellate di scritte in ogni lingua inneggianti alla libertà negata, al sesso umiliato, agli affetti perduti. Sono scalfite adoperando cerini spenti o le unghie, perché è vietato portare con sé la penna.
La sosta forzata, prima e dopo l’udienza, può coprire l’intero arco della giornata. Lo squallore del luogo orribile genera angoscia profonda in chi vi è rinchiuso fino a perdere completamente la propria dignità umana e sentirsi relegato ad un ruolo inferiore ad una bestia.
In Italia esiste, come in tutti i paesi civili, una normativa che condanna chi maltratta un animale.
Chiedo che vengano severamente puniti i responsabili di questo ignobile trattamento riservato a queste bestie, ex-uomini.
Invoco che la magistratura, la quale frequenta i piani alti di codesto grattacielo, voglia indagare su cosa avviene sotto i loro piedi, sottoterra.
Auspico che qualche deputato o senatore coraggioso voglia interrogare il governo su questo ignobile trattamento.
Spero che qualche europarlamentare si adoperi a che la flebile voce di questi internati giunga fino alle Corti di giustizia europee per far cessare questa ignominia, che umilia non solo chi vi è sottoposto, ma anche e soprattutto chi permette che ciò accada.
Trascorro la prima ora di sosta con un povero diavolo sulla sedia a rotelle, un rottame umano di 50 anni, 10 anni di detenzione per un cumulo di condanne per furto, 6 figli che –mi racconta- fanno a gara per partecipare ai colloqui, 18 nipoti. La sua udienza non si è svolta per l’assenza di un giudice a latere, ma ugualmente è stato tradotto nei sotterranei e non vi è fretta di ritrasferirlo dal buio al fresco.
Intorno alle 12 vengo accompagnato in aula, di nuovo con i ferri serrati ai polsi, che mi vengono tolti solo quando mi trasferiscono nella gabbia.
Si sta svolgendo una udienza del processo al clan dei Casalesi, ascolto 2-3 accalorate arringhe. Sono presenti alcuni tra i più celebri principi del foro napoletano, assoldati da una delle più spietate associazioni a delinquere della terra, resa famosa dalla coraggiosa denuncia di Roberto Saviano nel suo libro “Gomorra”. Si discute di sequestri di centinaia di milioni di euro non di quisquiglie o pinzellacchere.
Tra il pubblico presente al dibattimento vi sono mio figlio Gian Filippo, avvocato e mia moglie Elvira. Li avevo pregati di venire anche se immaginavo che ci saremmo potuti scambiare solo uno sguardo furtivo, mentre mi conducevano in manette in aula. Per fortuite coincidenze possiamo guardarci per alcune ore. Il volto di mia moglie è stirato e pallido come una statua di cera. Questi giorni di tormento hanno scavato implacabilmente il suo viso, che tradisce i segni della sofferenza ed hanno imperversato senza pietà sulla sua bellezza. Ma niente hanno potuto sui suoi occhi profondi, dei quali sono perdutamente innamorato da quando, 40 anni fa, i nostri sguardi si sono fatalmente incrociati. Anche mio figlio è nervosissimo, in queste due settimane ha perso quasi completamente i suoi residui capelli.
Quando comincia la mia udienza uno degli avvocati ironicamente commenta: “Stamane sono di scena i clan, dopo i Casalesi ecco la famigerata banda della Ragione-Langella”. I tre avvocati si dilungano in focose argomentazioni processuali, alternando inconsistenza delle prove a citazioni giurisprudenziali. Cito solo due passaggi del difensore del Langella, avvocato Campana, che mi hanno particolarmente colpito per acutezza e perspicacia.
Voglio premettere che da ragazzo ho sempre apprezzato le arringhe. A 18 anni, al bivio del mio futuro, avevo valutato anche l’idea di divenire un penalista, prevalse poi la decisione verso la medicina e negli anni dell’università verso la ginecologia e la chirurgia generale, le due branche nelle quali sono specialista.
Andavo pazzo per le perorazioni di Cicerone, che ho ripetutamente letto in latino per non perdere la spontaneità della lingua.
Anche in anni precedenti mi sono appassionato ad approfondire, su rari libri di antiquariato, le escursioni dialettiche di Carnelutti e di De Marsico. Da ragazzo ho ascoltato le fasi più salienti di memorabili processi in Corte d’Assise, tra i quali, quello di Pupetta Maresca, che si svolgevano nella vecchia sede di vico San Sebastiano, nello antico refettorio del monastero domenicano dove aveva pontificato il sommo San Tommaso, una stradina divenuta oggi squallido tappeto di siringhe di eroinomani, negletto e dimenticato.
“La prova dell’innocenza, ai fini dell’ipotesi dell’associazione a delinquere, sta fortunatamente nelle vostre intercettazioni telefoniche, oltre mille, per un arco temporale di molti mesi, in nessuna delle quali vi è traccia di un contatto tra il della Ragione e Grillo (l’anestesista), segno evidente che non si conoscevano affatto, per cui difficilmente potevano essere cofondatori di un’associazione criminale.
Lo stesso dicasi per i rapporti intercorsi tra della Ragione e la Pollio (segretaria del dottor Langella). Leggo anche nell’ordinanza di conferma della misura cautelare le lodi alla personalità intellettuale del medico, notoriamente in possesso di quattro lauree, mentre la donna ha solo la licenza elementare, eppure partecipava alla pari come mente all’organizzazione”(avvocato Saverio Campana).
Completate le arringhe la parola passa alla Pm, la quale aggiunge anche nuova documentazione frutto del prosieguo delle indagini, riguardante il solo Langella.
Subito dopo in genere il Collegio si riunisce per decidere, ma il mio avvocato avverte la Corte che il suo cliente ha qualcosa da aggiungere.
Mi viene data la parola e come prima cosa segnalo al Presidente che la scorta, arbitrariamente, mi ha sequestrato la documentazione riguardante la decisione del Gip, sulla quale avevo preso degli appunti, ma, nelle ore di attesa nella topaia, utilizzando alcuni cerini spenti ed il retro della carta che avvolgeva l’acqua, avevo annotato una scaletta per un mio breve intervento. Chiedo il permesso di prenderlo dalla tasca e nel frattempo pensavo che eventualmente quel che avevo da dichiarare era ben impresso nella mia mente, una proprietà che nessuno poteva sequestrarmi.
Ottenuto il permesso mi si chiede se voglio metterlo agli atti, ma ribadisco trattarsi di una carta che solo io posso interpretare.
Le mie dichiarazioni al Collegio poco interessano i lettori, perché la mia vicenda processuale esula dagli scopi di questo libro, ma voglio accennare solo ad alcune mie affermazioni, che il Presidente ascoltò con grande attenzione, riassumendole e facendole annotare diligentemente dal cancelliere:
“Riguardo al paventato pericolo di fuga(che costituisce assieme alla possibilità di inquinamento delle prove ed al rischio di reiterazione del reato, una delle tre motivazioni in grado di imporre un provvedimento restrittivo della libertà) feci presente che il mio passaporto è scaduto da anni e la mia carta d’identità completava la sua validità a giorni.
In riferimento al mio comportamento criminale asserii candidamente di essere convinto di conoscere molto bene la Costituzione, la quale solennemente sancisce la presunzione di innocenza per qualsiasi imputato fino al passaggio in giudicato di una sentenza, ma sentendomi definire criminale evidentemente mi sbagliavo…
Ribadii che le foto sequestrate nel mio studio, nelle quali era ripresa una donna sottoposta ad una seduta di terapia con il vaginometro, non riprendevano una scena di interruzione di gravidanza, bensì un’applicazione di un apparecchio, da me inventato e brevettato, noto con il mio nome nella letteratura internazionale e la cui foto e descrizione era contenuta nella copertina e nelle pagine di un mio libro edito nel 1992 (La frigidità e la verginità della donna) acquisito dal mio avvocato agli atti. Circostanza che avevo ampiamente delucidato nel corso dell’interrogatorio, ma che mi accorgevo non fosse stata accettata.
Ed infine cercai di colmare un madornale errore interpretativo di una intercettazione telefonica, nella quale un certo signor F. mi chiede delle informazioni per una sua conoscente interessata ad una interruzione di gravidanza da eseguirsi in Spagna ed io, dopo aver consigliato di assumere notizie tramite internet, senza sortire esito positivo, dissi di cercare il numero del Partito radicale di Roma e chiedere il numero telefonico dell’onorevole Mirella Parachini, ginecologa e presidentessa di un’associazione di soccorso per donne in difficoltà. Ero certo che presentandosi a mio nome avrebbe saputo ciò di cui aveva bisogno, perché la dottoressa aveva partecipato nel 2004 ad un convegno da me organizzato sulla Fecondazione assistita. In effetti la telefonata ebbe l’esito desiderato ed il signor F. mi telefonò nuovamente per ringraziarmi, darmi i saluti della Parachini e per chiedermi se volevo annotare gli indirizzi delle cliniche spagnole. Io mi trovavo al cellulare in giardino mentre giocavo con Attila, il mio rottweiler. Mi parve tuttavia scortese dire di no, per cui finsi di annotare un indirizzo, naturalmente senza penna, né carta l’informazione svanì nel nulla senza lasciare traccia.
Viceversa nell’ordinanza di convalida dell’arresto io figuro come il grande organizzatore di viaggi verso la Spagna di legioni di donne ansiose di usufruire di una legge più permissiva.
Terminate le dichiarazioni mi rimettono le manette e mi riportano in gattabuia, ove, nonostante ambulanza e infermieri mi attendessero, rimango un tempo infinito.
Finalmente mi prelevano; incomincia quindi il viaggio verso il padiglione ospedaliero. Vi è prima un percorso sotterraneo e poi uno attraverso le strade interne che costeggiano i caseggiati del penitenziario. A metà strada l’ambulanza ha un guasto e si ferma per quasi 30 minuti, si aprono i portelloni posteriori, perché la temperatura comincia a divenire asfissiante. Dopo poco mi vengono tolte le manette e posso così soccorrere uno dei due barellieri che stava svenendo per l’afa intollerabile.
Per miracolo la vettura dopo poco riparte e finalmente vengo ricondotto in cella intorno alle 17.

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26° Capitolo - Il ritorno a casa

Il mio compagno Aniello mi attendeva trepidante e mi bombarda di domande: come è andata? Hai visto i tuoi familiari? Cosa ha detto il tuo avvocato? Gli rispondo che ho la sensazione che sia andata bene, poco importa cosa pensi il mio legale, conta solo e soltanto cosa decideranno i giudici. Il presidente mi è sembrato saggio ed equilibrato, i giudici a latere, due donne, non ostili, ma sono solo sensazioni, impressioni, speranze che possono risultare fallaci.
Le ore passano, non riesco a stare seduto, cammino nervosamente nella cella come una bestia in gabbia, non riesco nemmeno a piangere, è il primo giorno che non sia scoppiato in lacrime disperate da quando sono rinchiuso.
Il pensiero di un esito negativo mi paralizza, non riesco nemmeno a immaginare di trascorrere altri 5 o 6 mesi in attesa di un eventuale ricorso in Cassazione.
Sono certo che la prossima crisi di angina mi sarà fatale, anzi lo spero, quando succederà sarà una vera liberazione.
Mi aggrappo con tutte le forze ad un intervento divino, che possa influenzare la giustizia terrena. Da due settimane le mie zie ultranovantenni, donne di chiesa con il Paradiso assicurato, hanno recitato rosari per me, alternandosi giorno e notte; anche Aniello, il mio compagno di cella, testimone di Geova, ha pregato il suo dio di intercedere in mio favore, addirittura anche Alì, un lavorante marocchino, per il quale nei giorni precedenti, avevo consegnato una lettera per il console del suo paese, mio amico di vecchia data, mi aveva riferito di aver pregato cinque volte al giorno Allah di farmi uscire.
All’improvviso verso le 20, una guardia carceraria, Salvatore, mai nome fu più adatto, mi avverte che sono libero e posso tornare a casa.
L’incubo è finito, ma non riesco a convincermi, sbatto ripetutamente la testa contro le mura per essere certo non si tratti di nuovo di un sogno. Saluto con un abbraccio Aniello, raccolgo in un grosso sacco della spazzatura i miei vestiti ed esco dalla cella. Mi accompagnano all’ufficio matricola per le formalità burocratiche, che saranno lunghe, laboriose ed estenuanti.
Appena scesi a pianoterra mi rinchiudono nella stessa cella che mi aveva accolto al momento del mio ingresso, con la differenza che ora sono solo ed alle mie rimostranze:” Perché non mi liberate ora che sono libero?” replicano “Ci vuole ancora molto tempo”.
Continuo a sbattere la testa contro il muro per vedere se non si tratti di un sogno pronto a svanire all’improvviso, sembra sia realtà.
Dopo un’ora firmo alcuni fogli, mi viene restituita la carta d’identità e la borsa (finalmente vedo il blocco di carta e la penna, il libro d’arte, gli accertamenti medici, alcuni medicinali); poi quando chiedo del mio denaro depositato mi viene replicato di ritornare di mattina per ritirarlo e mi riportano in cella.
A brevi intervalli vengono congedati dei detenuti, anche a loro forse il Riesame ha restituito la libertà, altri invece hanno scontato completamente la pena e pagato il loro debito verso lo Stato. Rimaniamo in pochi, tutti in celle diverse e distanti, per alcuni deve scoccare la mezzanotte.
Attorno alle 22 chiude l’ufficio matricola, si spengono gran parte delle luci ed un secondino mi dice che nel mio caso si deve attendere ancora un’autorizzazione. Vengo preso dal panico, sbatto ancora ripetutamente la testa contro le sbarre, temo possa trattarsi di una beffa.
Per ore mi chiamo a distanza con gli altri “liberandi prigionieri”; è un modo per farci compagnia ed ingannare il tempo. Quando avevo perso ogni speranza, sento la chiave girare nella toppa, mi conducono verso l’uscita assieme ad un gruppetto di cingalesi e due rapinatori.
Chiedo se fuori troverò un taxi, ma mi viene consigliato di raggiungere, trascinando il sacco degli indumenti, piazza Garibaldi. “I tassisti hanno paura e poi tante volte le famiglie dei detenuti non hanno il denaro per pagare la corsa”.
All’uscita cerco di essere il primo e scorgo un taxi che fermo al volo. Alle mie spalle si accorgono della mia fortuna i due rapinatori e mi chiedono di poter salire anche loro.”Certamente, ma devo tornare a casa per primo”.
Appena salito a bordo chiedo al conducente di poter usare il suo cellulare e chiamo a casa, scopro che mi aspettano da ore avvertiti dall’avvocato, anche se la lunga attesa aveva insinuato il dubbio e fatto scemare la speranza.
Lungo il percorso i miei due compagni di corsa, abitanti l’uno a Calvizzano, l’altro a Cardito, chiedono candidamente di poter saldare il loro debito il giorno dopo.”Vi assicuro domani vi pagherò, datemi il tempo di fare una rapina!”.
Il clima feroce di Poggioreale evidentemente li ha redenti…o quanto meno li ha avviati ad un lavoro.
Mi offro di pagare per loro, rifiutano sdegnosi.”Allora accettate un prestito”. Acconsentono.
Al cancello di casa mi attende impaziente mio figlio Gian Filippo con Attila al guinzaglio; prego il tassista di attendere, fra poco arriveranno cento euro.
A casa mia moglie e mia figlia Marina mi aspettano con le lacrime agli occhi, mi stringono a loro, vogliono che mi pesi: 96 chili, ne ho persi otto in quindici giorni, meno male non scendevo sotto i cento da oltre trenta anni. L’indomani abbraccerò anche l’altra mia figliola Tiziana in arrivo da Barcellona dove vive, ogni settimana a Napoli per potermi vedere, anche se per pochi minuti, nel colloquio. Avremo l’imprevisto piacere di colloquiare sui divani del nostro salotto.
Rimarrò ancora sveglio fino alle sei del mattino a sfogliare sommariamente centinaia di quotidiani, che si sono maldestramente interessati alla mia vicenda, dando luogo ad una vergognosa gogna mediatica ed a consultare la mia posta elettronica: attendevano risposta 1773 mail.
Il giorno più lungo della mia vita era ancora lontano dal completarsi.
In passato mi ero lambiccato il cervello alla ricerca di cosa rappresentassero per l’uomo il dolore e la felicità.
Anni fa organizzai un importante convegno all’Istituto italiano per gli studi filosofici “Perché il dolore? Una risposta tra scienza, fede e filosofia”. Invitai teologi, psicanalisti, letterati, filosofi, specialisti in terapia del dolore, nessuno mi convinse con le sue argomentazioni.
Tra i miei ultimi scritti vi è un piccolo saggio sulle “Basi biologiche della felicità”. Ho sprecato inutilmente il mio tempo.
In pochi minuti, come una folgorazione, avevo avuto chiaramente la visione del problema: uscendo dal carcere di Poggioreale, avevo impresso per sempre nella mente e nell’anima cosa fosse la sofferenza, mettendo piede a casa, avevo percepito cosa fosse la felicità.
Questo libro è giunto alla fine: l’ultima scena sulla quale si chiude il sipario è l’abbraccio interminabile sul divano del mio salotto con Attila, il mio fedele rottweiler, una stretta affettuosa che dura 20, 30, forse 40 minuti, fino a quando gli occhi gelosi dei miei familiari mi fanno intendere che mi devo dedicare a loro.

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Comunicato stampa

A mezzanotte del giorno 8 luglio 2008 il dottor Achille della Ragione è tornato libero a casa dopo aver lasciato il carcere di Poggioreale nel quale è stato recluso dal giorno 24 giugno a seguito di un blitz dei carabinieri della caserma Pastrengo coordinati dal pm Arlomede con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla violazione della legge 194. Il Tribunale del Riesame sez 10 B, presidente Quatrano ha annullato l’ordinanza di custodia formulata nei suoi confronti dal gip Suma.
L’imputato, difeso dall’avvocato Ivan Montone, in aula nel prendere personalmente la parola ha sottolineato le contraddizioni più stridenti dell’ordinanza di custodia cautelare, che sono state attentamente annotate dal collegio giudicante.
Achille della Ragione vuole rendere nota la sua terribile esperienza nel penitenziario napoletano ed in tempi brevissimi, conta di pubblicare un libro”Le tribolazioni di un innocente”, scritto in cella, per il quale sta concludendo gli accordi con un importante casa editrice.
Dopo una settimana trascorsa in cella nel padiglione Avellino riservato ai neofiti, il dottore, per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute (plurinfartuato con tutte le coronarie chiuse al 100% ed altre patologie associate) era stato trasferito nell’ospedale del penitenziario ed era dal primo giorno in attesa di una risposta ad un’istanza di detenzione domiciliare per assoluta incompatibilità col sistema carcerario, risposta che non è mai arrivata e che è stata preceduta dalla decisione del Tribunale del Riesame che ha disposto l’ immediata liberazione.
Il giorno precedente il medico ha ricevuto la visita del direttore del carcere dottor Giordano e della vicedirettrice, che si sono voluti complimentare per un suo intervento comparso sulle pagine di Repubblica, che fotografava la difficile realtà ed i problemi di vivibilità di Poggioreale e ne hanno apprezzato lo spessore culturale ed il coraggio civile.
Il medico solo ora sta prendendo visione dell’enorme materiale cartaceo e televisivo che è stato dedicato alla sua vicenda, pieno di imprecisioni diffamatorie per le quali si riserva di richiedere l’opportuna correzione ai sensi della legge sulla stampa.
Per i giornalisti che volessero prendere contatti per interviste tel. 335 217327 oppure a.dellaragione@tin.it
Achille della Ragione

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Lettere ai direttori di quotidiani

Un grido di dolore dall’inferno

Gentile direttore,
mi perdoni se questa volta le parlo di un argomento poco gradito alla maggioranza dei lettori, preoccupati dal dilagare della criminalità, ma purtroppo scrivo dall’inferno del carcere di Poggioreale, che sto attraversando, mio malgrado, nei suoi gironi che neanche la fertile fantasia di Dante avrebbe potuto immaginare.
Anni fa organizzai un convegno sulla penosa situazione penitenziaria, raccogliendo le voci che emergevano da quei luoghi di sofferenza, ma non potevo nemmeno ipotizzare l’abisso nel quale si può precipitare.
Appena ricevuto, in base ad un regolamento severo oltre misura, mi sono stati sequestrati, a parte il pettine e numerosi oggetti personali, alcuni libri e giornali con i quali speravo di trascorrere qualche ora di distrazione, le foto di mia moglie, dei miei figli e dei miei nipoti, che mi avrebbero dato una ragione per sopravvivere, addirittura anche un quaderno bianco e la penna, perché non bisogna pensare, non bisogna scrivere, bisogna diventare un automa e non più una persona.
Più permissivo, il pur durissimo carcere dello Spielberg dove a Silvio Pellico fu concesso di scrivere “Le mie prigioni”. Sembra una strategia studiata per annientare l’individuo, una pratica molto efficace: nel mio caso ha quasi completato la sua opera in pochi giorni! Sono ospite del padiglione Avellino, quello più accogliente che riceve i neofiti del carcere. Pare che rispetto agli altri sia rose e fiori: un’ora di aria 2 volte al giorno in un cortile di 200-300 mq circoscritto da mura infinite, per un enorme numero di utenti. Le celle di 15-20 mq ospitano, con letti a castello, fino a 10 detenuti; esse in questi giorni hanno temperature intollerabili e sono meta di nugoli di zanzare. La latrina è contigua alla cucina dove, la quasi totalità dei carcerati, si prepara i pasti acquistati con sacrificio allo spaccio. Anche rimanere un buon cristiano è difficile, perché si può seguire la messa solo ogni 15 giorni.
E’ impossibile resistere a questo meccanismo perverso e assolutamente ingiustificato. Infatti se può essere lecito, anche se doloroso, togliere ad un detenuto la sua libertà è assolutamente esecrabile privarlo della sua dignità di uomo. E’ un peccato che grida vendetta davanti a Dio e che la legge deve mitigare e regolare.
I colloqui settimanali sono un conforto molto importante perché, anche se per una manciata di minuti, si possono toccare le mani delle persone care. Nonostante si debba affrontare una via crucis: dentro, con un’attesa interminabile tutti stipati in camere di sicurezza stracolme, mentre all’esterno i parenti fanno file massacranti di ore sotto l’acqua e sotto il sole senza un briciolo di pietà per bambini malati ed anziani.
Il sovraffollamento nelle celle è un fattore gravissimo che porta all’esasperazione, anche se spesso si crea un modus vivendi per istinto di sopravvivenza. Pochi sono stati fortunati come me, di trovare in cella tre giovani tranquilli: Emanuele A. rapinatore, Antonio P. estorsore e Sasà R. aspirante killer. Dei ragazzi che sono stati spinti al crimine dalla mancanza del lavoro, ma che sono pronti a redimersi. Essi si sono messi a mia disposizione come figli rispettosi, cucinandomi, confortandomi e soccorrendomi di notte quando mi sentivo male. Dimenticavo sono plurinfartuato ed in attesa di by-pass.

Achille della Ragione

Il Roma 4 luglio 2008 – La Repubblica 4 luglio 2008

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Diciamo la verità su Achille della Ragione

Gentile direttore,
sono Elvira Brunetti, moglie di Achille della Ragione, detenuto da 3 giorni nel carcere di Poggioreale con l’accusa di associazione a delinquere, finalizzata alla violazione della Legge 194.
Il motivo della mia dichiarazione scaturisce dalla numerose imprecisioni riportate dai giornali in questi ultimi giorni che hanno infangato il nome di una persona, a causa della divulgazione di notizie imprecise ed incomplete.
Vorrei soffermarmi sui seguenti aspetti direttamente legati all’inchiesta per poi fare qualche osservazione di carattere personale.
• Sulla base di un’intercettazione telefonica, mio marito è accusato di essere il “procacciatore” di pazienti per il ginecologo dr. Luigi Langella. Tengo a precisare che mio marito era convinto che il dottor Langella, direttore del centro I.v.g. (interruzione volontaria di gravidanza) dell’ospedale San Paolo di Napoli, lavorasse in regime “intramoenia” e che quindi era legittimato ad effettuare tali interventi nell’assoluto rispetto della normativa vigente.
• Relativamente al contenuto dell’unica intercettazione agli atti, non è emersa “la sostanza” e cioè che la paziente, presuntamente indirizzata da mio marito a Langella, non ha effettuato l’aborto.
• Lo strumento innovativo realizzato da Achille della Ragione chiamato vaginometro, non è un dispositivo legato all’aborto, come è stato ipotizzato, ma ha lo scopo di aumentare l’esercizio della mobilità pelvica femminile.
• Le foto sequestrate durante questa inchiesta erano già state sequestrate nel lontano 1996 ed erano poi state restituite poiché ritenute di esclusivo valore scientifico.
• Relativamente all’affermazione di un pericolo di fuga attuale e concreto vorrei sottolineare che mio marito non possiede un passaporto valido per l’espatrio. Non si è mai preoccupato di rinnovarlo perché non aveva e non ha nessun intenzione di lasciare Napoli, sua città natale che ama più di ogni altra cosa e che ha deciso di sostenere in ogni sua battaglia.
• I suoi spostamenti a Barcellona sono dettati solo ed esclusivamente dalla presenza della nostra primogenita che lavora e vive lì con la sua famiglia. Abbiamo due nipoti a cui siamo molto legati. Invito chiunque a trovare riscontri su una possibile relazione lavorativa tra mio marito e un qualsiasi centro medico spagnolo che pratica I.v.g.
Vorrei inoltre far notare che mio marito riceveva molte telefonate a scopo consultivo senza nessuna retribuzione non solo nel settore ginecologico ma anche e soprattutto in molti altri settori come pittura, storia dell’arte, letteratura e scacchi. Era stato addirittura contattato da alcuni studenti universitari per l’elaborazione della loro tesi di laurea.
Vi invito a consultare il web per dare un riscontro alle mie dichiarazioni e per conoscere meglio Achille della Ragione, un uomo che è da anni uno scrittore (lo dimostrano i suoi numerosi scritti nei settori più disparati) e un giornalista (più di 400 articoli negli ultimi due anni) e non più un ginecologo, professione che ha ormai abbandonato da 14 anni.
Finisco con il sottolineare che il fermo a cui è sottoposto mio marito aggrava le sue condizioni di salute. Tengo a precisare che si tratta di un plurinfartuato con numerose angioplastiche ed in attesa di un intervento di bypass al cuore, programmato proprio in questi giorni e posticipato perché al momento trattenuto nella casa circondariale napoletana dove gli è stato tolto tutto, dalle foto dei figli e dei nipoti finanche ad un innocente quaderno con penna, che io all’ultimo momento avevo timidamente aggiunto al suo bagaglio. Mi sembra che nemmeno a Silvio Pellico fu vietata la carta e la penna, nonostante i tempi peggiori!
Per fortuna la sua cella ospita gente tranquilla, tutti giovani, mio marito è il più anziano e gli hanno dato il posto di sotto nei letti a castello.
Mi domando se il suo cuore reggerà, perché oggi l’ho visto piangere.
Ci siamo promessi che ogni sera alle otto ci penseremo!
Concludo sottolineando l’ennesima violazione del segreto istruttorio dovuta alla fuga di notizie che, dopo appena 120 minuti dall’arresto, vedeva giornalisti e telecamere di tutt’Italia impiantati davanti alla Caserma “Pastrengo”pronti a dare in pasto ai MEDIA notizie avventate ed incomplete.
Elvira Brunetti
Corriere del Mezzogiorno 28 giugno 2008 - La Repubblica 29 giugno 2008 – Il Roma 1 luglio 2008 – Il Mattino (ignora la lettera e ne pubblica solo poche frasi nel contesto di un articolo)
Mi sia concesso di ringraziare pubblicamente mia moglie Elvira, non solo per questa sua splendida lettera, ma per la sua costante presenza al mio fianco da quasi quaranta anni, nella buona come nella cattiva sorte, alle prime del San Carlo ed alle presentazioni dei miei libri anche a Montecitorio, ma pure nel reparto di rianimazione dell’ospedale Loreto Mare o nella squallida sala colloqui della casa circondariale napoletana.
A testimoniare il mio interesse alla problematica trattata in questo libro, voglio segnalare, tra le mie tante iniziative partorite in epoca non sospetta, alcune lettere da me inviate negli anni scorsi ai direttori dei principali quotidiani italiani, che nel primo caso sortirono l’effetto della liberazione di un mio fedele cameriere e la relazione che fece da introduzione ad un importante convegno che organizzai sulla situazione delle carceri in Italia (Napoli 10 ottobre 2003, Goethe Institut) il quale vide la partecipazione tra i relatori di qualificati esponenti del mondo politico, come l’onorevole Capezzone, all’epoca segretario nazionale del partito radicale e direttori di penitenziari come il dottor Napoletano.

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Poggioreale il regime carcerario

Gentile dottor Mieli,
La situazione nelle carceri è, a dir poco, esplosiva con penitenziari, come quello napoletano di Poggioreale, che contengono un numero di detenuti doppio rispetto a quello previsto e condizioni di vita assolutamente sub umane. Ed a pagare ed a soffrire di più sono sempre i più poveri ed i più deboli.
Voglio raccontare brevemente a Lei ed ai Suoi lettori una vicenda esemplare a conferma di quanto detto. Un mio ex cameriere, Alcindo Do Carmo, ma il suo cognome non conta, anzi lì dentro esso è sostituito da un numero, si trova, a seguito di una aggressione alla moglie, ospite… da circa due mesi dello Stato. Il difensore d’ufficio non ha presentato in tempo utile richiesta di scarcerazione al Riesame, ma, la cosa più grave, nessuno si è accorto, forse per difficoltà linguistiche, che il malcapitato è affetto da una grave forma tumorale, assolutamente incompatibile con il regime carcerario. L’indilazionabile chemioterapia, interrotta da oltre sessanta giorni, è stata sostituita da una serie di selvagge percosse giornaliere da parte dei compagni di cella.
Ogni giorno ed ogni minuto nelle nostre prigioni viene calpestato l’articolo 27 della Costituzione, che sancisce solennemente: ”Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.
Che cosa si aspetta a portare lo Stato italiano davanti alle Corti di giustizia europee ?

Corriere della Sera 25 giugno 2003 - Il Mattino 3 luglio 2003

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Bracciale elettronico e carceri sovraffollate

Gentile direttore,
estate tempo di vacanze: quando la temperatura sale, tutti cercano refrigerio al mare o ai monti ed ogni anno tutti, politici e cittadini benpensanti, con la benedizione dei mass media, dimenticano l’esplosiva situazione delle carceri, sovraffollate oltre qualsiasi perversa immaginazione, con detenuti stipati come bestie in camerate ove il termometro è costantemente oltre i 40° e le ore di aria sono 2 su 24. Un inferno che neanche la fertile fantasia di Dante avrebbe potuto immaginare, causato dal gran numero di detenuti. Un record europeo del quale vergognarsi. Non peroreremo amnistie o indulti, al momento improponibili, perché la situazione politica non è matura, ma vorremmo proporre l’adozione del braccialetto elettronico che permetterebbe un maggior utilizzo degli arresti domiciliari

La Stampa 24 agosto 2004 - Roma 29 agosto 2004

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Liberalizziamo la droga

Gentile direttore,
A Napoli e provincia una quota cospicua della popolazione è occupata a spacciare droga, ad indurre donne alla prostituzione o, nei casi veniali, a vendere cd e griffe false nel più assoluto anonimato fiscale, ma la cosa più grave è che la restante popolazione acquista droga, fa la fila per accoppiarsi a prostitute minorenni, compra merce falsa di ogni genere e si vanta di vedere soltanto film di contrabbando.
Da questo coacervo inestricabile tra delinquenti ed onesti… difficilmente verremo fuori.
In questi giorni la malavita impazza, sovrapponendosi ad una micro delinquenza, che oramai assedia il cittadino ad ogni ora del giorno e della notte.
In Italia, non solo a Napoli, alla base di oltre il 50% dei reati vi è l’ombra della droga, oltre la metà dei carcerati è ospite… dello Stato per reati connessi agli stupefacenti, la metà delle forze dell’ordine e della magistratura è occupata da problemi legati a spaccio e consumo di droga.
Vogliamo provare a dibattere sulla possibilità di liberalizzarla, una vecchia proposta radicale che non è stata mai discussa seriamente dai mass media, forse perché influenzati dall’antistato, che ha oramai guadagni tali da poter corrompere chiunque.

Il Giornale di Napoli 30 marzo 2004 – Il Tempo 1 aprile 2004 – Il Messaggero 4 aprile 2004

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Una battaglia di civiltà

Relazione di Achille della Ragione, organizzatore del convegno”La situazione delle carceri in Italia” Napoli 10 ottobre 2003, Goethe Institut, consultabile integralmente in audio video sul sito di Radio radicale

Attorno al “Pianeta carcere “ da sempre vige un silenzio assordante dei mass media e delle istituzioni. Inoltre, ed è l’aspetto più triste della vicenda, da parte dell’opinione pubblica vi è non solo disinteresse, ma la volontà pervicace di non interessarsi, di non sporcarsi le mani ed il cervello al contatto di problematiche che riguardano chi ha sbagliato ed ha contratto un debito verso la società. In tal modo si commette il grave errore di dimenticare una drammatica verità, costituita dal fatto che i 2/3 dei detenuti sono in attesa di giudizio - per cui, secondo la nostra Costituzione, innocenti - e, di questi, oltre il 60% sarà assolto alla fine del giudizio, naturalmente dopo essere stati annientati e con loro, i loro familiari.
Ho toccato con mano questa invincibile riluttanza, ricevendo da parte di numerosi amici e conoscenti un rifiuto perentorio all’invito a partecipare, anche se solo come ascoltatori, a questo convegno.
La vita dei carcerati è una realtà scottante, ma alla pari dell’eutanasia, dell’omosessualità, della follia, della droga, dell’aborto non interessa, in maniera trasversale, l’intera classe politica, perché non solo non procura voti, bensì fa perdere consensi non appena si accenna all’argomento.
Il livello di civiltà e di democrazia di un Paese si valuta a seconda del modo in cui vengono trattati i più deboli e non esiste categoria più abbandonata e negletta della popolazione carceraria, privata non solo del bene più prezioso per un individuo: la libertà, ma costretta, per il disumano sovraffollamento delle nostre infernali “caienne”, a subire una infinità di pene accessorie più varie, dalle violenze sessuali alla sporcizia obbligatoria, stipati come bestie in gabbia, fino a limiti allucinanti di 16 persone in una cella di 4 metri per 4, più una squallida ed angusta latrina per i bisogni corporali, per lavarsi e per lavare le stoviglie dopo i pasti.
Napoli, come sempre, quando si tratta di record negativi è in testa alla classifica con il sovraffollamento da quarto mondo dei suoi penitenziari, al cui confronto i gironi infernali danteschi impallidiscono miseramente.
Il carcere di Poggioreale, come riferito ufficialmente all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 , può contenere al massimo 1276 detenuti, ma ne ha avuti in media 2199. Nel 2003, pur rimanendo invariata la capienza, abbiamo appreso che si è raggiunto il record di 2386 detenuti. Eureka!!
In queste disperate condizioni,prive di qualsiasi dignità, naturalmente qualsiasi tentativo di recupero è mera utopia:diritto allo studio, al lavoro, ad un minimo spazio vitale rappresentano chimere irraggiungibili.
E così ogni giorno si calpesta e si ignora sfacciatamente il terzo comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione, il quale recita solennemente:
”… le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Inoltre, alle disperate condizioni di vita nei penitenziari si associano ulteriori disfunzioni, quali la esasperante lentezza con cui i giudici di sorveglianza esaminano le posizioni dei detenuti, che avrebbero diritto ad uscire dal carcere ed usufruire del regime di semilibertà.
Anche tutti gli altri istituti di pena campani soffrono di condizioni di sovraffollamento più o meno gravi e di condizioni di vivibilità ai limiti dell’incubo.
Un discorso a parte merita il famigerato “41bis”, un regime di ulteriore grave restrizione delle libertà personali in aggiunta a tutte le limitazioni della carcerazione. Una normativa ignota negli altri Stati europei, che, applicata con severità, può sconfinare in un trattamento che nel diritto internazionale ha un nome ben preciso : tortura, anche se solo psicologica.
Alla fine di questo angoscioso tunnel non si riesce ad intravedere che una luce fioca, la cui esiguità sembrerebbe togliere ogni speranza ai detenuti ed ogni desiderio di proseguire la lotta ai pochi uomini di buona volontà, che da tempo combattono, ad armi impari, contro inique ingiustizie.
Una sola proposta che possa suonare da minaccia: cosa aspettiamo a portare lo Stato italiano davanti alle Corti di giustizia internazionali!?
 

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L’amnistia ed il pifferaio magico

Si riparla di amnistia e questa volta pare che possa essere la volta buona. Marco Pannella con il suo invito suadente, con il suo sciopero della fame, più simbolico che reale, sembra aver compattato le forze parlamentari sia di destra che di sinistra, riuscendo lì dove fallì il grande Giovanni Paolo II, che aveva chiesto al Parlamento un gesto, anche minimo, di clemenza. L’emergenza criminale spaventa i cittadini, ma la vita dei carcerati è una realtà scottante ed il livello di civiltà e di democrazia di un Paese si valuta a seconda del modo in cui vengono trattati i più deboli e non esiste categoria più abbandonata e negletta della popolazione carceraria, privata non solo del bene più prezioso per un individuo: la libertà, ma costretta, per il disumano sovraffollamento delle nostre diaboliche “caienne”, a subire una infinità di pene accessorie più varie, dalle violenze sessuali alla sporcizia obbligatoria, stipati come bestie in gabbia, fino a limiti allucinanti di 16 persone in una cella di 4 metri per 4, più una squallida ed angusta latrina per i bisogni corporali, per lavarsi e per lavare le stoviglie dopo i pasti.
Napoli, come sempre, quando si tratta di record negativi è in testa alla classifica con il sovraffollamento da quarto mondo dei suoi penitenziari, al cui confronto i gironi infernali danteschi impallidiscono miseramente. In queste disperate condizioni, prive di qualsiasi dignità, naturalmente qualsiasi tentativo di recupero è mera utopia: diritto allo studio, al lavoro, ad un minimo spazio vitale rappresentano chimere irraggiungibili.
E così ogni giorno si calpesta e si ignora sfacciatamente il terzo comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione, il quale recita solennemente: ”… le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Inoltre, alle disperate condizioni di vita nei penitenziari si associano ulteriori disfunzioni, quali la esasperante lentezza con cui i giudici di sorveglianza esaminano le posizioni dei detenuti, che avrebbero diritto ad uscire dal carcere ed usufruire del regime di semilibertà.
Se Napoli è da record, anche gran parte degli altri istituti di pena italiani soffrono di condizioni di sovraffollamento più o meno gravi e di condizioni di vivibilità ai limiti dell’incubo. Un inferno che neanche la fertile fantasia di Dante avrebbe potuto immaginare, causato dal gran numero di detenuti. Un record europeo del quale vergognarsi, che potrebbe in parte attenuarsi attraverso una diffusa adozione del braccialetto elettronico, che permetterebbe un maggior utilizzo degli arresti domiciliari, soprattutto per i detenuti in attesa di giudizio, i quali per i 2/3 verrà assolto al termine del giudizio. Ma soprattutto un gesto di clemenza, anche ridotto, per dimostrare che lo Stato non dimentica nessun cittadino.
Quaderni Radicali gennaio 2005 - Vivi Telese 18 gennaio 2005 - www.ildue.it (sito del carcere di San Vittore) 19 gennaio 2005
 

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Il regime del 41 bis

L'art. 41 bis dell'ordinamento penitenziario è stato introdotto con la legge 10/10/86 n. 663 (cosiddetta Legge Gozzini) e riguardava inizialmente soltanto le situazioni di rivolta o altre gravi situazioni di emergenza. A seguito della strage di Capaci del 1992 fu introdotto (decreto legge 8/6/92 n. 306, convertito con legge 7/8/92 n. 356) un secondo comma che rendeva possibile l'applicazione del regime speciale ai detenuti per reati di criminalità organizzata; tale disposizione era valida per tre anni, ma successivi interventi legislativi (a partire dalla legge 16/2/95 n. 36) ne hanno prorogato di anno in anno la validità.
Correva quindi l’anno 1992 quando nel nostro bel paese si consumava la famosa strage di Capaci. La mafia uccideva Giovanni Falcone. Lo stato democratico, allora rappresentato da Andreotti come capo del governo e Martelli ministro della giustizia, sentendosi ferito ed umiliato, decide di far nascere un carcere del tutto speciale, un carcere più “vero” rispetto a quello che fino ad allora era…, nasce così il cosiddetto “carcere duro” comunemente chiamato “41 bis”.
Ecco dove sono le radici della regolamentazione carceraria di questo regime, che oggi torna a far parlare di sé. Esso nasce come arma contro l’organizzazione mafiosa.
Si tratta ovviamente di una pena carceraria particolare per cui, dalla sua istituzione, sono state create aree specifiche.
In Italia, oggi, le strutture carcerarie che sono fornite di specifici bracci per il 41 bis sono un ventina, sparse da Novara fino a Napoli. Generalmente si tratta di una palazzina staccata dal resto del carcere ed in alcune strutture sono presenti ambienti speciali per i detenuti particolari come Totò Riina o Bagarella. Al momento di detenuti eccellenti se ne contano alcune decine. In pratica è un carcere speciale per detenuti speciali!
I “fortunati” prigionieri che devono scontare la pena sotto il regime del 41 bis stanno, infatti, in celle singole ma con delle finestre del tutto particolari perché dispongono di ben tre tipi di sbarramenti: il primo fatto con sbarre vere e proprie, il secondo da una rete abbastanza fitta ed il terzo è in pratica una tapparella dalla quale passano pochissima aria e pochissima luce. Quest’ultima barriera con l’esterno è tra i prigionieri chiamata simpaticamente gelosia.
In queste confortevoli celle i detenuti ovviamente non possono tenere nessun oggetto, o meglio… possono tenere con sé al massimo un libro, ma oltre quello nulla di nulla, niente fotografie e niente giornali, niente musica. La posta è tutta controllata e possono ricevere al massimo 2 pacchi postali al mese. I colloqui per i detenuti del 41 bis sono quasi impossibili, limitati al numero di uno al mese ed il contatto fisico con i parenti è completamente annullato da un vetro spesso e alto fino al soffitto; per parlare con i familiari bisogna dunque usare un citofono. Nei casi specifici dei carceri di Viterbo e L’Aquila i colloqui avvengono in stanze piccole quanto due cabine telefoniche grandi un metro per un metro. I detenuti sottoposti al 41 bis hanno diritto ad abbracciare solamente i figli sotto i 12 anni, in incontri non superiori ai 10 minuti, in altre stanze senza vetro divisorio e durante tali incontri sono ovviamente sottoposti a videoregistrazione. L’ora d’aria esiste ma spesso è solo un modo di dire o un’ora come un’altra, dato che gli spazi del passeggio sono nella gran parte di queste prigioni ridottissimi.
C’è da immaginare che tali reclusi sperino solo nelle date dei processi per poter vedere altri esseri umani e per spezzare la monotonia, ma a questi detenuti è stato tolto persino il diritto ad essere presenti in aula durante le udienze. I processi per questi prigionieri, infatti, devono essere svolti in video conferenza dall’interno della galera.
Questo tipo di carcere era all’inizio solo una sorta di “eccezione”, un trattamento speciale per i mafiosi, che doveva essere riconfermato da chi di dovere ogni sei mesi. Dal 23 Dicembre 2002, però, le cose sono cambiate e questo sistema carcerario è entrato ufficialmente a far parte integrante del nostro sistema carcerario. Lo ha voluto all’ unanimità la commissione Giustizia del Senato della Repubblica a garantire la giustizia ed a scoraggiare l’ingiustizia.
inoltre la Commissione di Giustizia del Senato ha ritenuto di estendere il regime di 41 bis anche a terroristi, narco trafficanti e schiavisti (con i tempi che corrono… meglio abbondare!).
Già perché è certo che il carcere duro serve si ad ostacolare ogni contatto tra i detenuti e l’esterno, ma è anche vero che un secondo fine per nulla celato c’è, ed è proprio quello di servire da monito per chiunque osi anche solo pensare di sfidare le sacre fondamenta della democrazia.
E poi diciamoci la verità… dopo l’11 Settembre per lo Stato italiano avere un’aria da “duro” è proprio importante.
Sono in molti a credere che tale regime carcerario è un continuo oltraggio ai diritti dell’uomo. OK, le persone che hanno a che fare col 41 bis non sono proprio delle personcine a modo, ma che potere ha lo Stato per togliere addirittura anche il diritto alla socialità ad un essere umano? È verissimo, tale regolamentazione è nata per ostacolare i rapporti e quindi le comunicazioni dei detenuti con l’esterno e con gli altri detenuti, ma è anche vero che spesso la durezza di tale carcere è servita a ben poco. Lo dimostrano le parole del pentito Luigi Giuliano che ha spiegato bene a tutti come i severi controlli alla fine vengano elusi regolarmente. Ecco allora che il 41bis, spogliato della sua intenzione primaria, restava solamente un inutile strumento di tortura nei confronti di esseri umani che, seppur non allineati con il volere dello Stato, restano pur sempre esseri umani. Certo… probabilmente il caso di Giuliano è solo un caso a sé, un’eccezione che forse non fa la regola, ma di sicuro nessuno lo saprà mai, nessuno può infatti veramente dire se esso serve nei fatti a ostacolare le comunicazioni oppure è solo uno sciocco strumento di tortura. Eppure dal 23 dicembre il 41 bis è “regola”. Lo ha voluto lo Stato che si dichiara democratico ma, come abbiamo visto, di democratico c’è veramente poco.
Dal regime di 41 bis si può uscire, è vero, basta rinnegarsi, pentirsi, chinarsi al volere dello Stato. Altro palese motivo per cui esso continua ad esistere e anzi a rafforzarsi nella nostra democrazia, è proprio quello di rendere la vita del carcerato talmente impossibile, talmente aspra e brutta da annientarlo dentro, per farlo pentire in maniera coatta. Ci chiediamo a cosa possa servire il pentimento coatto di un mafioso o di un terrorista ad uno Stato e ci chiediamo pure se stiamo ancora parlando di un tipo di carcere di un paese democratico o se abbiamo fatto confusione con le carceri iraniane o turche. No, non abbiamo fatto alcuna confusione, stiamo ancora parlando di qualcosa appartenente alla nostra bella Italia “patria di civiltà” e alla nostra amata e sbandierata democrazia… purtroppo.


Ho creduto di riportare questi miei contributi risalenti agli anni Novanta per testimoniare una mia attenzione di vecchia data verso figure carismatiche, come Raffaele Cutolo e Pupetta Maresca, le quali hanno inciso profondamente nell’immaginario popolare e che nelle carceri sono considerati dei veri idoli.
Sono articoli pubblicati prima su riviste letterarie e nelle pagine culturali di quotidiani campani, per essere poi inglobati in alcuni miei volumi: “Le ragioni di della Ragione” e “ Cento napoletani da ricordare”.
Per non aumentare eccessivamente la mole di questo libro segnalo soltanto e rinvio chi volesse consultarla a reperirla sul web “Una storia della camorra”, da me redatta nel 2005 e pubblicata a puntate su www.napoli.com

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Un folle ordinatore

Articolo pubblicato su Scena Illustrata di marzo 1994

La camorra rappresenta, da tempo immemorabile, una realtà tangibile della vita sociale napoletana, da cui non si può prescindere in nessuna analisi sociologica.
In molti quartieri rappresenta l’antistato, poiché amministra in alcuni casi perfino la giustizia, per via della cronica latitanza dei poteri istituzionali; in assoluto manovra una quantità di denaro talmente cospicua da rappresentare l’industria principale dell’area napoletana. Alcuni modelli culturali sono talmente assimilati dalla mentalità popolare da costituire un qualcosa di imprescindibile nel giudicare e nell’orientare il comportamento dei singoli.
Tutto ciò potrà anche costituire un modello nefasto di società, in ogni caso per molti anni ancora ci saranno profonde resistenze culturali al cambiamento, per questo corre l’obbligo di raccontare la storia di un personaggio simbolo dell’antistato.
Parleremo di Raffaele Cutolo, che, riteniamo appartenere alla categoria dei folli ordinatori, cioè quei personaggi che, sotto l’effetto di una pazzia lucida, costituiscono un sistema di potere, che in certa misura, stabilisce una forma di ordine nella società, creando per un periodo di tempo abbastanza lungo una sorta di «pax camorristica», durante la quale si possono osservare dei fenomeni positivi, come l’abolizione di alcuni tipi di reato di maggiore allarme sociale, quali i sequestri di persona e gli atti terroristici.
Non si può, poi, prescindere dall’aspetto principale del potere camorristico cioè quello economico, che manovra migliaia di miliardi e che si è particolarmente sviluppato negli anni successivi al terremoto che, nel 1980 ha colpito la Campania.
In un particolare momento storico in cui una diabolica alleanza tra politica e camorra ha fatto affluire un fiume di 50-60.000 miliardi nella nostra regione, creando dal nulla ricchezze colossali, ma distribuendosi in ogni caso in innumerevoli rivoli, dando così respiro ad una economia che, mortificando le naturali inclinazioni delle nostre popolazioni, portate verso l’agricoltura, l’artigianato, ed il turismo, ha cercato di imporre l’industrializzazione forzata, che si è dimostrata un fallimento e che ha prodotto effetti devastanti sull’ambiente e sulle abitudini dei cittadini.
Raffaele Cutolo nasce nell’ottobre del 1941 ad Ottaviano, una cittadina dedita ufficialmente all’agricoltura e posta alle pendici del Vesuvio, dove il 15% della popolazione gira con in tasca la pistola, che viene regalata ai ragazzi al momento della cresima e dove esiste anche il più alto indice di motorizzazione individuale. Il padre è un contadino, buona persona detto dai compaesani «o monaco» perché molto religioso; la mamma è una tranquilla casalinga.
Raffaele frequenta con scarso profitto la scuola conseguendo la licenza elementare. Da bambino con la sua faccia da prete sognava di diventare papa. Quindi dopo aver bighellonato per alcuni anni senza arte né parte, come tanti giovani del suo paese, debutta a 22 anni con il suo primo omicidio, uccidendo in una rissa scoppiata per futili motivi un compaesano Mario Viscido, che aveva osato prendere le difese di una ragazza, redarguita da Cutolo perché aveva osato ridere al suo passaggio.
Subito arrestato trascorre a Poggioreale, che sarà il suo feudo personale, gli anni della carcerazione preventiva che scadono nel maggio del 1970. Don Raffaele ottenuta la libertà provvisoria comincia a gettare le basi della Nuova Camorra Organizzata (NCO), principalmente aiutando economicamente le famiglie dei carcerati, a cui fornisce anche i migliori avvocati.
A marzo del 1971 il processo Viscido si conclude con la condanna di Cutolo all’ergastolo. I carabinieri lo rintracciano a San Gennaro Vesuviano, un paesino alle falde del Vesuvio, ove il futuro «professore» ritiene di essere intoccabile. Nel tentativo di arresto Cutolo ferisce due carabinieri, ma il giorno dopo viene catturato e, dichiarato infermo di mente, viene condotto nel manicomio di Sant’Eframo a Napoli. Dopo alcuni mesi viene trasferito nel manicomio giudiziario di Aversa, dal quale il 7 febbraio 1979 fuggirà in maniera rocambolesca, entrando nella fantasia popolare con lo stesso carisma di Superman.
L’evasione avviene di domenica, intorno alle 15, mentre tutti i ricoverati, gli infermieri ed il personale di custodia è intento a seguire la partita di calcio alla radio. Un commando di fedelissimi, capitanato dal luogotenente Antonino Cuomo, opera una breccia nel muro di cinta del manicomio con la dinamite. Don Raffaele, che nel frattempo stava tentando di estorcere ai medici fiscali la semi-infermità mentale, può evadere indisturbato, ed appagare la sua sete di libertà, affermare la vittoria del suo io, e la capacità di poter beffare, quando vuole, le istituzioni che gli si contrappongono.
Saranno arrestate due guardie carcerarie per favoreggiamento, ma si scatenerà l’ira dei duecento colleghi dei due agenti incriminati, che metteranno in risalto, attraverso una manifestazione di protesta, l’impotenza dello Stato, il quale si illude che con del personale disarmato ci si possa opporre efficacemente ad un attacco eseguito da delinquenti, decisi a tutto, ed armati con tritolo e fucili mitragliatori.
Una volta liberato Cutolo si dedica anima e corpo alla creazione di una aggregazione di fedelissimi, il cui scopo però non sarebbe quello di commettere delitti, bensì la lotta contro le ingiustizie. La Nuova Camorra Organizzata per il «professore» dovrebbe essere formata soltanto da uomini veri, che combattono per togliere ai ricchi e dare ai poveri.
Tutti i gregari sono dominati psicologicamente dal suo grande carisma, che, come tutti i veri capi egli impone ai malavitosi con il suo sinistro fascino, che riesce ogni giorno a fare nuovi proseliti. Molti delinquenti si sentono onorati di andare in galera per don Raffaele, perché lo ritengono un amico, un padre e non un delinquente.
Molti altri, sperano, diventando suoi vassalli, di passare da «pezzenti» a «signori». La camorra pur con gli opportuni collegamenti, non deve subire alcun rapporto di sudditanza con la mafia e con la ’ndrangheta. Organizzata in modo autonomo deve permettere a Napoli di «giocare» in serie A nel panorama delle grandi famiglie criminali mondiali, perché il ruolo subalterno non si addice ai napoletani.
Il «professore» promette «libera impresa in libera criminalità» e si proclama tutore di questa libertà, che, ovvio, ha un prezzo da versare puntualmente ai suoi esattori.
Le più importanti famiglie napoletane dai Giuliano di Forcella ai Bardellino di Caserta dovevano versare tangenti di centinaia di milioni a Cutolo nel suo periodo di massimo splendore.
Don Raffaele durante il periodo della sua latitanza si vanta di avere carteggi con Sottosegretari agli Interni e Ministri della Difesa ed inoltre lancia spesso clamorosi proclami, come quello in cui intima ai rapitori di un ragazzo, Gaetano Casillo, di liberare immediatamente l’ostaggio. I sequestratori obbediscono al dictat e dopo poco scompare misteriosamente un commerciante di San Gennaro Vesuviano, che forse era implicato nel rapimento. Cutolo si dimostra tenero verso la ragazza povera che gli chiede aiuto perché non ha i soldi per il corredo o per il giovane latitante disperato, ma non ci pensa due volte a far uccidere in carcere il suo luogotenente e la sua vedova depositaria di pericolosi segreti.
Nel maggio del 1979 termina la latitanza di Cutolo. Cento carabinieri circondano la villetta di tale Giuseppe Lettieri ad Albanella vicino Paestum, ove aveva trovato rifugio il boss. Il «professore» per quanto armato fino ai denti, prudentemente si arrende senza opporre resistenza ed al colonnello Bario, comandante dei carabinieri di stanza a Napoli, esclama: «è giusto che per arrestare un capo si muove un altro capo»: inoltre senza ironia elogia i militari per l’efficacia della loro impresa.
Dal carcere Cutolo continua a comandare i suoi «guaglioni» di Napoli ed il suo potere invece di diminuire tende ad aumentare, a tal punto che sarà lo stesso Stato a rivolgersi a lui nel carcere di Ascoli Piceno, attraverso i servizi segreti, per facilitare la liberazione di Cirillo, rapito dalle brigate rosse. Tale interessamento, su richiesta della DC, è stato confermato il 15.7.1993 dalla Corte di Appello di Napoli.
Un carcere di massima sicurezza diviene per alcuni mesi un porto di mare per terroristi, camorristi latitanti, ufficiali dei servizi segreti, i quali entrano ed escono falsificando i registri e mettendosi in coda per essere ricevuti dal boss onnipotente.
Cutolo fa pubblicare dal quotidiano «Il Mattino» un minaccioso proclama con cui ordina alle brigate rosse di liberare immediatamente l’assessore Cirillo e di lasciare subito il territorio della Campania, che rappresenta un suo feudo personale. Avverte che in caso di diniego migliaia di amici onorati uccideranno subito i brigatisti rinchiusi nelle carceri ed i loro parenti che si trovano in libertà.
L’«invito» viene accolto subito e l’anziano politico con i suoi ingombranti segreti viene rilasciato.
Il professore si ritiene, senza presunzione, felice di avere salvato le istituzioni, come Vito Genovese che fu chiamato in aiuto dallo Stato o Lucki Luciano, che favorì lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia.
L’Italia in quei mesi raggiunge il livello di guardia come credibilità istituzionale.
Napoli nel frattempo si trasforma in un immenso campo di battaglia con 160 assassini in 10 mesi, un morto ogni 36 ore; 500 morti in tre anni.
Cutolo per disposizioni di Pertini, viene trasferito nel supercarcere dell’Asinara, ove per anni ed anni viene sottoposto ad un regime di totale isolamento in una cella-stalla.
Nel frattempo le sorti della NCO tendono verso il peggio, i suoi nemici coalizzati acquistano sempre più fette di potere e Napoli ed il suo circondario cadono in preda ad un caos ancora più profondo senza un capo riconosciuto e con una continua, ferocissima lotta di bande per una nuova supremazia delinquenziale.
Cutolo sottoposto ad un regime carcerario durissimo, che non ha eguali in Italia, lentamente perde la sua grinta ed a suo dire si pente del suo passato, un pentimento profondamente sentito, non di quelli che ora vanno tanto di moda. Un pentimento da uomo d’onore, quale egli è, che ritiene giusto di dover scontare la pena dell’ergastolo, ma il quale pensa che se la sua vita debba finire in carcere, debba però essere vissuta con dignità. Un pentimento che lo spinge a ritenere per lui sciolta la NCO, la quale per colpa dei suoi gregari, lasciati senza capo, ha tradito gli ideali per cui era stata fondata.
Egli lancia un accorato appello ai giovani che si preservino dal flagello della droga, attraverso una semplice e genuina poesia «La polvere bianca» che incisa su cassetta gira per tutti i vicoli ed i bassi napoletani. «Polvere bianca ti odio! Sei dolce e sei amara ... come una donna ... sei luce e sei buio. Giovani! Odiatela! La polvere bianca si! vi fa volare per poi farvi ritornare nel buio più cupo. Vola per l’aria lembi di un’anima fatta a pezzi. Si tocca il fondo, i prati diventano voragini buie ed i fiori hanno i petali neri. Poi di colpo i dolori si placano. È il cielo. È un’esplosione di luce. Poi più nulla. L’indomani solo un trafiletto sul giornale. Ennesimo giovane “morto per droga”. Polvere bianca ti odio. Cutolo. Belluno 27.7.88».
In Sardegna Cutolo trascorre sei anni durissimi in una ex stalla per maiali, senza luce, senza giornali, senza acqua corrente, in compagnia di guardie mute sempre con il mitra spianato ed il colpo in canna; costretto a dialogare con degli amici di fortuna come una mosca o delle formiche attirate nella cella con lo zucchero. Senza poter usare un fornellino con il quale scaldare l’acqua allo scopo di alleviare i suoi problemi di artrosi, sciatica e gengivite. Senza il conforto di poter assistere neanche alla santa messa, tanto da spingere il Santo Padre, a cui Cutolo si rivolge, a disporre che ne venisse celebrata ogni giorno una apposta per lui.
Numerose perizie psichiatriche a cui Cutolo è stato sottoposto, hanno stabilito che egli è pazzo, soprattutto quando hanno giudicato alcune affermazioni del «professore» come quella in cui egli asserisce che ciò che fece Cristo ai suoi tempi non può reggere al paragone con ciò che ha fatto lui ai nostri giorni, perché Cristo ebbe grande aiuto da parte degli apostoli che magnificarono all’esterno le sua gesta, mentre lui ha sempre avuto una stampa avversa, che ha messo in risalto soltanto i lati negativi della sua personalità.
Noi lo riteniamo un folle ordinatore, un appartenente cioè a quella categoria di uomini, che tenta di stabilire un suo ordine «particolare» nella società in cui vive e che viene giudicato pazzo dagli uomini del suo tempo.
Riteniamo inoltre che abbia diritto ad un più umano trattamento carcerario da parte di uno Stato, che ha avuto in passato da lui dei servigi e che negli ultimi anni ha messo in libertà tanti terroristi e tanti delinquenti comuni. Nessun detenuto in Italia ha trascorso tanti anni in prigione quanto Cutolo e nessuno è sottoposto ad un regime carcerario più duro.
Tutto questo ci sembra discriminatorio ed ingiustificato.

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Una tragedia sofoclea

Articolo pubblicato su Scena Illustrata di maggio 1994

Come mai Pupetta Maresca trova un posto e di rilievo, in un Pantheon ideale di napoletani da ricordare, al fianco di giureconsulti e di principi del bisturi, attori, registi e scrittori di fama?
Una donna che ha ucciso e che ha trascorso oltre 10 anni in carcere è lo stesso degna di essere ricordata, perché, come ha dimostrato in maniera inappellabile la giustizia con una sua sentenza, ella ha agito esclusivamente per amore e per desiderio di giustizia, spinta a farsi vendetta da sola a causa dell'incerto andamento e per le lungaggini delle prime indagini.
La vicenda che la riguardò avvenne negli anni '50, all'epoca vi fu un grande risalto sulla stampa dell'episodio e tutti gli italiani furono straordinariamente impressionati, non solo per la personalità di Pupetta, ma anche per le modalità del delitto, che presentò tutti gli aspetti della tragedia sofoclea, inscindibilmente connessi sia alla modalità dell'assassinio, sia alla reazione istintiva dell'opinione pubblica, la quale ebbe grande comprensione e compassione, nel senso greco del termine, verso la protagonista.
A Napoli le donne sono state da sempre delle grandi protagoniste della storia e spesso la gioia, i dolori ed i furori della città hanno trovato espressione in personaggi femminili, dalla forza impulsiva, dalla irruenza generosa, dallo slancio materno.
Tutto ciò avviene da tempo immemorabile fino ai nostri giorni, come cantano le parole della canzone di Baccini "Le donne di Napoli": sono tutte delle mamme; le donne di Napoli si gettano tra le fiamme.
Napoli ha espresso nei secoli degli archetipi ideali della città femmina, dal ventre materno.
La Napoli generosa e tenace è stata rappresentata da Filumena Marturano, quella terribile e materna dalla Medea di Porta Medina, l'eroica da Marianna De Crescenzo, detta la "Sangiovannara", la quale combatté a fianco dei garibaldini durante il crepuscolo borbonico, fino a giungere ai giorni nostri con le Madri coraggio dei quartieri spagnoli, emule di Don Chisciotte, che combattono la loro difficile battaglia contro la droga e le signore della camorra, che riproducono una sorta di primato simbolico della donna nella cultura napoletana.
Tutte queste figure di donne sono tra loro molto diverse, alcune parto della fantasia di qualche scrittore, ispiratosi a personaggi realmente vissuti, altre sono donne in carne ed ossa, sangue e muscoli, personalità vulcanica e furia indomabile.
In questa galleria ideale di soggetti femminili Pupetta Maresca occupa una postazione particolare, come una sorta di spartiacque tra ruoli, valori e comportamenti femminili tradizionali e gli stessi ruoli visti in un'ottica più moderna, illuminati da un femminismo antifemminista. Pupetta è bella, giovane, coraggiosa e fedele alle tradizioni che nella cultura meridionale vogliono la donna depositaria della vendetta, una implacabile vestale custode della famiglia, di cui tiene perennemente acceso il fuoco, anche, se necessario col fuoco delle armi.
Pupetta interpreta però in senso moderno il codice della vendetta; non affida infatti il compito di santificarla agli uomini della famiglia, ma si fa giustizia da sola, affrontando in pieno giorno ed a viso scoperto il colpevole della morte del marito con la furia di una leonessa.
Negli anni Pupetta ha intrapreso attività commerciali, diventando una donna imprenditrice ed assumendo così un'immagine complessa agli occhi dell'opinione pubblica; da un lato una donna passionale dalle connotazioni familiari, domestiche e rassicuranti, dall'altro una donna leader in grado di farsi largo nel commercio, nonostante l'agguerrita concorrenza; coniugando in tal modo delle qualità che di solito sono ritenute le une escludenti le altre ed affermando una femminilità vittoriosa, senza negare i caratteri più tradizionalmente femminili.
Pupetta nasce nel 1935 a Castellammare di Stabia e la sua famiglia, i Maresca, costituisce un clan molto temuto, che domina sul mercato della frutta. I suoi familiari sono soprannominati i "Lampetielli" per la fulminea velocità con cui sono in grado di estrarre un coltello dalla tasca. Da ragazza, Pupetta ha una fresca bellezza popolare, con una lieve tendenza ad ingrassare. Ha capelli ed occhi neri di una rara bellezza. La madre ha un nome arcaico, Dolorinda, che anagrammato risuona "da in dolor". La sua bellezza prorompente le permette giovanissima, ad appena 16, anni di vincere un concorso di bellezza a Pomigliano d'Arco e di mettersi così in evidenza.
Con la sua avvenenza riesce a far cadere ai suoi piedi, innamorato pazzo, un colosso, Pascalone 'e Nola, un boss dei mercati generali di Napoli, che viveva ossequioso di antiche liturgie di una mala oramai superata. Pascalone 'e Nola è un personaggio mitico per la sua statura fisica e per la sua personalità sostanzialmente generosa. Egli è più volte coinvolto in reati annonari e di contrabbando ed opera sul mercato ortofrutticolo di Napoli con la funzione piuttosto misteriosa di presidente dei prezzi, cioè di persona al di sopra delle parti, rispettato da tutti ed incaricato di fissare un prezzo valido e vincolante per tutti, i produttori da una parte ed i grossisti e gli esportatori dall'altra.
Egli è uno degli ultimi esponenti di una camorra arcaica, in estinzione, legata al prestigio individuale ed al rispetto di ferree regole di comportamento, a codici segreti, a speciali catechismi. È una camorra che vive nel mito del grande capo, che in solitudine amministra la giustizia come un triste eroe da puritanesimo suburbano, da mercato della frutta, da colpo di rasoio sulla guancia, da sfregio permanente. Una camorra che non aveva subito ancora il fascino tenebroso della mafia con i suoi business internazionali, con lo spaccio della droga e la collusione col potere politico.
Una foto del matrimonio ci mostra Pupetta tutta vestita di bianco raggiante di felicità, al braccio del suo sposo, un uomo alto e possente, una vera montagna. Egli dà il braccio alla sposa e poggia la mano destra sull'addome, con le tozze dita di contadino strettamente unite ad eccezione del pollice, che involontariamente tiene diritto verso l'alto, quale inconscio emblema fallico, in attesa della prima notte di nozze.
Si tratta di un classico matrimonio d'amore, che però permette a Pascalone di compiere un salto di qualità, da piccolo boss a camorrista di rango, grazie alla parentela acquisita con la famiglia di Pupetta, i temuti "Lampetielli".
Dal matrimonio e dagli eventi successivi si ispirò il regista Francesco Rosi nel suo famoso film "La sfida" interpretato dalla bellissima Rosanna Schiaffino e da Juan Suarez, nel ruolo di un grossista di ortaggi che si ribella alle spietate leggi della camorra.
Dopo solo tre mesi di matrimonio, il 16 luglio, Pascalone viene ucciso, apparentemente per futili motivi, in corso Novara.
Pupetta denuncia un ex socio di Pascalone, Antonio Esposito, quale mandante dell'omicidio, ma le indagini della polizia vanno avanti lentamente con alterne vicende. La vedova, in attesa di un figlio, ribadisce più volte le sue accuse e rifiuta sdegnosamente, sola contro tutti, le profferte amichevoli per chiudere la vicenda. Quindi Pupetta, stanca e delusa del prolungarsi delle indagini si reca nel negozio di Antonio Esposito e lo invita a venir fuori in strada per discutere. Il gangster ignaro di ciò che sta per accadere acconsente ed accarezza il viso di Pupetta con gesto da boss clemente e protettivo e le sorride con ironia, ma la ragazza fulmineamente estrae la pistola e lo colpisce a morte, fuggendo poi sui monti Lattari, ove verrà arrestata dopo qualche giorno.
La bella vedova vendicatrice diviene un'eroina nella fantasia popolare.
La Corte di Assise che doveva giudicarla deve trasferirsi nei giorni del processo da Castel Capuano nell'ex convento di San Domenico Maggiore, ove esisteva un'aula per udienze grandissima, che però risultò insufficiente a contenere tutto il pubblico che avrebbe voluto assistere al dibattimento.
In primo grado vennero inflitti 18 anni di carcere, che furono ridotti di 5 anni dalla corte di Assise d'appello, che nel 1960 riconobbe la vedova colpevole di omicidio premeditato con l'attenuante della provocazione.
Nel carcere di Poggioreale, nascerà Pascalino, il figlio del marito ucciso. Scontata la pena, ulteriormente ridotta di 3 anni, Pupetta fu liberata il giorno di Pasqua del 1965 e ritornò nella sua città, Castellammare, con le campane che suonavano a festa, in maniera trionfale, rispettata da tutti, grazie anche al prestigio della propria famiglia che vanta antiche e potenti amicizie.
Grazie alla notorietà conquistata, ma soprattutto in virtù della sua fiera bellezza mediterranea, prese parte a due film che ebbero un certo successo di pubblico. Ha interpretato "Delitto a Posillipo" una sorta di racconto autobiografico ambientato sulla celebre collina napoletana e quindi "Londra chiama Napoli".
Continuò ad allevare con l'aiuto dei genitori, il figliolo avuto da Pascalone e per riempire il vuoto sentimentale si innamorò di un giovane boss emergente Umberto Ammaturo, che in seguito divenne uno dei maggiori trafficanti di droga del mondo.
Dall'unione, contrastata dalla stessa famiglia di Pupetta, nascono due figli Roberto ed Antonella.
L'amore è passionale, ma i periodi di tempo da trascorrere insieme sono molto ridotti, è un continuo rincorrersi per incontrarsi, mentre uno usciva di galera l'altro ci entrava, mentre lei tornava in libertà lui evadeva o si dava alla latitanza.
La vita di Pupetta che nel frattempo si è dedicata al commercio, aprendo una boutique a via Bisignano, nella zona in di Napoli è molto movimentata sotto il profilo giudiziario. Viene infatti accusata di aver organizzato il delitto Galli, il massacro del criminologo Semerari, di aver tentato estorsioni ad una banca, di commercio di droga, di associazione camorristica. Da tutte queste accuse viene sempre assolta, a volte in istruttoria, a volte con sentenza.
Durante un'infuocata conferenza stampa tenuta nel circolo dei giornalisti prende posizione contro Cutolo, minacciandolo apertamente di feroci rappresaglie, se qualcuno della nuova camorra organizzata avesse toccato qualche suo familiare.
Poi una sciagura si abbatte su Pupetta: la scomparsa nel nulla del figlio Pascalino, che lei aveva partorito nel carcere di Poggioreale e che non aveva mai conosciuto il padre, pur portando il suo nome.
Egli aveva la faccia paffuta come la mamma e come lei gli occhi neri e penetranti che ti guardano fissi e provocatori, ma nelle vene scorreva il sangue del padre, del quale voleva seguire la leggenda. Da tempo aveva messo su un piccolo clan, ma all'improvviso sparisce, forse per aver affrontato gli stessi boss di quel clan che 18 anni prima avevano ucciso il padre.
Un giudice, in seguito radiato dalla magistratura per altre faccende, emette undici mandati di cattura per il rapimento di Pascalino. Vengono arrestati tra gli altri Spavone, il famigerato "malommo", Gaetano Orlando, l'uccisore di Pascalone 'e Nola, che da poco era uscito dal carcere e lo stesso Umberto Ammaturo, che pare fosse stato gravemente offeso dal ragazzo.
Durante un lungo periodo di latitanza, Ammaturo viene arrestato in Brasile, ove tesseva le fila del commercio internazionale della droga. In sua compagnia viene arrestata la sua fidanzata Yohanna Valdez, una bellissima peruviana, che aveva dato al boss due bambini.
Pupetta è annientata da questa scoperta, ma conserva la sua antica dignità di donna, dichiarando: "Per me Umberto non esiste più, è morto; resta solo il padre dei miei figli che gli vogliono bene e lo rispettano come è loro dovere".
In seguito Pupetta dovrà chiudere un suo negozio di via Leopardi per i continui furti e le devastazioni di cui era fatto oggetto e si ritira a Castellammare, ove apre un nuovo esercizio commerciale, in un ambiente più tranquillo, cercando un po' di serenità nell'amore e nella vicinanza dei suoi due figli, uno dei quali, la ragazza, è gravemente malata di cuore.
Gli ultimi episodi in cui Pupetta assurge all'onore delle cronache sono storie dei nostri giorni. Una nuova accusa questa volta di usura, giusto per cambiare, e la telenovela ancora in corso sullo sceneggiato televisivo, che nel 1982 la RAI aveva preparato sulle sue vicende, interpretato da una giovanissima Alessandra Mussolini, alla sua prima ed unica esperienza di protagonista.
Il filmato fu bloccato dal pretore di Roma nel marzo 1983, su istanza dei legali di Pupetta, che ritenevano lo sceneggiato lesivo dell'onorabilità della loro cliente.
Dopo due anni, grazie alla solerzia della magistratura, che si è pronunciata rapidamente, sulla vicenda, la RAI, sbloccato lo sceneggiato, ne prepara la messa in onda per il 30 giugno 1994. Grande attesa da parte dei telespettatori, soprattutto per poter ammirare una ancora acerba Alessandra Mussolini, nipote del Duce ed ora deputato, nella parte di Pupetta, ma all'ultimo momento l'annunciatrice con un sorriso avverte che di nuovo la magistratura su istanza degli avvocati di parte ha sequestrato lo sceneggiato per ulteriori accertamenti. Perciò arrivederci verso il 2010 alle ore 22,45 su RAI 3.

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L’amore al tempo della galera

Avrei voluto intitolare questo capitolo Il sesso nelle carceri poi sono stato attirato da questo titolo di derivazione cinematografica e ho deciso di adottarlo per discutere di quello che, a parere dei detenuti, quasi tutti molto giovani, è la privazione più grave: l’impossibilità di continuare a praticare una dignitosa affettività con le persone care, anche loro condannate, senza alcuna colpa, alla stessa pena e non vogliamo parlare solo di sesso negato, ma anche dell’impossibilità di continuare ad intrattenere un decente, anche se discontinuo rapporto, con i propri figli in tenera età, che sono sottratti per lunghi periodi da qualsiasi contatto col genitore.
Si tratta di un tema scottante, tale da suscitare imbarazzo e perplessità anche solo a parlarne, ma alcune nazioni, Svizzera, Spagna, Svezia lo hanno affrontato con coraggio ed hanno trovato delle soluzioni dalle quali prendere esempio.
L’argomento è talmente audace che si è voluto creare un termine ambiguo: affettività per aggirare la terminologia più esplicita di sesso, che potrebbe mettere subito in fuga moralisti e benpensanti.
Tutti riconosciamo che l’essere umano ha bisogno di affetto, tanto più quando viene a trovarsi in situazioni di disagio e senza dubbio la restrizione della libertà è una delle condizioni più penose da sopportare.
Nella repressione degli affetti si verificano gravi deviazioni, comprese quelle sessuali. A questo proposito lapidario è il pensiero di Friedrich Nietzsche: "È noto che la fantasia sessuale viene moderata, anzi quasi repressa, dalla regolarità dei rapporti sessuali, e che al contrario diventa sfrenata e dissoluta per la continenza e il disordine dei rapporti." (Umano, troppo umano, I, n. 141).
Allora la soluzione va cercata in una politica illuminata che, nell’esecuzione della pena, privilegi sin dall’inizio, se non è possibile l’uscita dal carcere, almeno l’incontro periodico coi propri cari e non il distacco netto e la drastica separazione, causa di infiniti problemi esistenziali, di relazione e interpersonali.
Nell’interno del carcere è opportuno creare degli ambienti, che pur rispondendo a tutti i requisiti di sicurezza, offrano al recluso ed ai suoi familiari dei momenti di intimità. Se un detenuto riesce a mantenere una rete solida di rapporti affettivi, oltre a tollerare di buon grado la pena da scontare, corre molti meno rischi di tornare a commettere reati, inoltre conserva un comportamento corretto, quando queste occasioni di incontri ravvicinati… sono subordinati ad un condotta assolutamente irreprensibile.
Prima di considerare gli incontri intimi bisogna valutare tutta una gamma di possibilità intermedie, che vanno dai colloqui gastronomici, la possibilità di consumare un pasto con parenti ed amici, alla facoltà per i familiari di partecipare a giornate particolari come il Natale o la Pasqua ed infine, molto importanti, gli incontri con i propri figli in tenera età, in ambienti opportuni e, se richiesta, con l’assistenza di psicologi ed operatori sociali.
Le sorprendenti scoperte di Reich hanno dimostrato in maniera inequivocabile quanto la repressione sessuale generi violenza e come le istituzioni tendano a canalizzare l’esplosione di queste pulsioni primitive per utilizzarle nei conflitti bellici.
La violenza che si produce nelle carceri, impedendo anche solo la parvenza di un’attività sessuale, non giova a nessuno, certamente non alla società che si trova a ricevere individui incattiviti, nei quali cova l’odio e la vendetta, invece che la volontà di reinserimento.
La storia del carcere è lunga quanto quella dell’uomo, ma le segregazioni nell’antichità (Roma docet) e nel medio evo ripugnano la sensibilità moderna per le atrocità ed il costante utilizzo della tortura, per cui un’analisi storica sulla nascita dei sistemi penitenziari bisogna farla risalire alla nascita della società industriale ed all’accentuazione dell’esercizio del potere dello Stato, in momenti dominati dalla cultura religiosa, che ha sempre dato al sesso una valenza particolare di demonizzazione.
Pensiamo alle Lettere di San Paolo ai Padri della chiesa, ad Origene, a San Girolamo, a Sant’Agostino, fino ad Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino. Di conseguenza una soluzione al problema "affettività", intesa in particolare nella sua dimensione sessuale, deve cominciare necessariamente attraverso una critica storico culturale puntuale e puntigliosa. Dobbiamo ripercorrere e rivisitare tutta la nostra tradizione culturale sull’argomento, ereditata in duemila anni di storia dell’Occidente, che ha accompagnato ed influito sul concetto del sesso e del piacere in generale, vissuto costantemente come peccato, male necessario solo per la procreazione ed a salvaguardia della specie.
La cattolicissima Spagna o la democratica Svizzera da tempo consentono i "colloqui intimi" ed hanno ottenuto ottimi risultati.
In Italia per evitare che qualcuno confonda le "stanze dell’affettività" con le "celle a luci rosse" è necessaria un rivoluzione culturale. La pena è privazione della libertà, ma non deve significare anche distruzione degli affetti ed annullamento completo di una normale vita sessuale.
Naturalmente non bisogna considerare unicamente le esigenze di affettività degli uomini sposati o conviventi, trascurando i bisogni, impellenti ed improcrastinabili dei più giovani, che non hanno legami fissi, ma in compenso hanno ormoni in ebollizione e desideri difficile da placare. La masturbazione o l’omosessualità, i rimedi ai quali sono obbligati non sono certo la soluzione del problema.
Anche per loro bisogna predisporre un programma che tenga conto delle loro esigenze.
In Italia il meretricio è legale e sarebbe eccessivamente licenzioso pensare ad una cooperativa di prostitute che si convenzioni con le istituzioni carcerarie?
Vi sarebbe spazio anche per volontarie, moderne suffragette pronte ad immolarsi per una giusta causa, eventualmente anche per fanciulle poco attraenti, in virtù del fatto che molti detenuti a seguito della lunga astinenza sarebbero pronti a tutto…
Naturalmente agli ammogliati sarebbe vietato di accedere a questo servizio.
Naturalmente la prestazione sarebbe a spese del recluso.
Naturalmente sarebbe un evento sporadico molto dilazionato nel tempo.
Naturalmente potrebbero usufruirne solo quelli che osservano una condotta corretta.
Naturalmente tutti, politici ed opinione pubblica devono impegnarsi per risolvere lo spinoso problema.

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