Pacecco
De Rosa
opera
completa
di Achille della Ragione
INDICE
Gli
esordi e la fortuna critica
Periodo
giovanile
Rapporti
con Filippo Vitale
Opere
di bottega
Opere
perdute
Rapporti
di contiguità con altri artisti
Iconografia
sacra
Santi e
sante
Gli
anni d'oro della maturità:1640-55
Bibliografia
Gli esordi e la fortuna critica
Molto
deve la nobile arte della pittura a Pacecco De Rosa.
Con questo
giudizio lusinghiero il De Dominici, celebre biografo settecentesco, al quale
siamo debitori della quasi totalità delle informazioni sui nostri pittori
seicenteschi, cominciava il suo capitolo sull'artista. Oggi a distanza di
secoli attendiamo ancora una monografia completa sul pittore, nonostante la sua
veste di caposcuola di una corrente, per quanto minore: il purismo, la sua
presenza massiccia sul mercato antiquariale e la notevole e qualificata
bibliografia sull'argomento. Fig. 1
Francesco
De Rosa, detto Pacecco, nasce a Napoli il 17 (o il 27) dicembre 1607 da Tommaso
e Caterina De Mauro ed attraverso una ragnatela molto complessa, scoperta
grazie alle diligenti ricerche del Prota Giurleo, ha rapporti di parentela con
molti pittori attivi in città nella prima metà del XVII secolo (fig. 1). E'
fratello della famosa Annella, della quale pubblichiamo un rarissimo ritratto
(fig.
2), moglie di Agostino Beltrano e secondo le malelingue "amica" di
Massimo Stanzione, mentre un'altra sorella è moglie di Juan Do. La madre, diventata vedova, sposa in seconde
nozze Filippo Vitale, presso la cui bottega il Nostro apprese i primi rudimenti
del mestiere. Il padre Tommaso, anch'egli pittore, ancora tutto da scoprire,
del quale ci è noto solo un Martirio di S. Erasmo del 1601, conservato nella
chiesa dello Spirito Santo, era in rapporto con Venceslao Coebergher e ciò
potrebbe giustificare a livello inconscio certe nostalgie puriste di timbro
manieristico che si riscontrano lungo tutta l'opera di Pacecco.
Non
conosciamo, a differenza della sorella Annella, ritratti sicuri di Pacecco, il
quale non aveva il vezzo di rappresentarsi nei suoi dipinti. Se fosse sua, come sostiene Bologna,
l'eccezionale tela di Giuseppe fanciullo che interpreta i sogni del faraone (fig.
3-4), documentata nel 1707 in Palazzo Orsini a Gravina e passata nell'asta
Porro nel 2003, oggi assegnata però dalla critica a Francesco Guarino, potremmo
facilmente riconoscere il nostro pittore nel beffardo signore, dai baffi
prominenti, in primo piano alla destra del faraone; come pure potremmo
identificarlo nel signore a sinistra della composizione nel Martirio di San
Biagio (fig. 5), forse replica di bottega. Probabilmente era di belle
sembianze, a voler dar credito al De Dominici, che descriveva le sue sorelle,
Diana, Maria Grazia e Lucrezia, di una bellezza fuori del comune, da meritarsi
il soprannome " Le Tre
grazie", titolo ereditato dalle tre figliole di una di loro. Spesso le
modelle sfolgoranti riprese "nature" nelle composizioni degli anni
Quaranta, i più felici per la produzione profana dell'artista, erano le sue
sorelle e secondo alcuni le sue nipoti.
Le
fonti antiche e tra queste lo stesso De Dominici, suggestionate dalla
convergenza di stile tra i due pittori, ritenevano il De Rosa allievo di Massimo
Stanzione, ma oggi la critica ritiene che, più che un vero e proprio
discepolato, il "divino Guido" per Pacecco abbia costituito un
modello ispirativo. Ben più importante fu l'alunnato presso il patrigno, la cui
influenza è molto marcata in alcune opere come la giovanile Deposizione (fig.
6), conservata al museo di San Martino e derivata dal noto dipinto del Vitale
sito nella chiesa di S. Maria Regina Coeli (fig. 7). Lo stesso soggetto iconografico è stato trattato altre due volte dal De Rosa, in una tela più
antica (fig. 8) conservata nella quadreria del Gesù Nuovo ed in una (fig. 9 e 9
bis), firmata e datata 1646, posta sulla parete laterale sinistra della
cappella del Crocifisso (prima cappella destra) nella chiesa della Nunziatella,
dipinto lontanissimo dallo stile del Nostro, a tal punto che il Galante lo attribuì a Ludovico Mazzante, mentre il De
Dominici, che l'assegnava correttamente, lo descriveva come dipinto" ad
imitazione dell'incomparabile Annibal Carracci".
Periodo
giovanile
Periodo giovanile
L'attività
giovnile di Pacecco è difficile da classificare per la mancanza di documenti di
pagamento fino al 1636, data di esecuzione del San Nicola di Bari ed il garzone
Basilio (fig. 10) conservato nella sacrestia piccola della Certosa di San Martino,
un'opera già matura in cui l'influsso del Domenichino, a Napoli dal 1631, e
dello Stanzione sono evidenti. La veste del Santo e dello stesso garzone sono
definite con grande accuratezza nei colori e nei giochi di luce, segno
indefettibile che la lezione della Gentileschi, in città dal 1627, è stata
pienamente recepita dal De Rosa. Da notare che il fanciullino che fa da modello
nel quadro è lo stesso che compare nel S. Matteo del Museo di Capodimonte (fig.
12), che offre un cesto di frutta ad una santa Dorotea giovinetta (fig. 13) in
una inedita tela ad ubicazione sconosciuta, sostiene il battezzando nel quadro
con San Biagio (fig. 14) dell'antiquario Lumina di Bergamo e solleva una cesta
di piccioni nell'Adorazione dei pastori di Montecitorio (fig. 15). A questa
tela va collegato, di poco successivo, il dipinto omonimo conservato a Milano
nella chiesa di San Nicolao (fig. 11), a lungo attribuito a Stanzione dalle
fonti e dalla critica ed assegnato convincentemente al De Rosa dal Willette.
Sempre
a San Martino, e collocabile intorno al 1635, è conservata nel Quarto del
Priore una Madonna col Bambino (fig. 16) assegnata a Pacecco dal Fittipaldi, in
contrasto con il parere di Spinosa più propenso a vedere il pennello di Filippo
Vitale. Di eguale iconografia vi è la splendida tela conservata nella chiesa di
Santa Marta (fig. 17), dominata da un violento gioco di ombre in superficie,
attribuita a Pacecco dal Causa, poi collocata nel catalogo del Guarino dal
Bologna ed infine di nuovo data a De Rosa da Spinosa. Vicina a questi dipinti è
la tela della Galleria nazionale di Praga (fig. 18) Sant'Antonio con Bambino.
Sicuramente
antica è anche la Madonna della Purità, (fig. 19) conservata nella chiesa del
Divino amore, intrisa da un elemento arcaizzante nel fondo dorato affollato di
cherubini, motivo ancora caro agli ultimi cinquecentisti napoletani; la tela
costituisce un prototipo a cui
seguiranno negli anni successivi numerose repliche autografe con varianti, come
quelle presenti nella chiesa dei Cappuccini a Solofra (fig. 20), o nella sacrestia di San Potito (fig. 21) od
altre meno note, nella chiesa delle Trentatrè
(fig. 22), nella chiesa di Cosma e Damiano a Conversano, nella 1°
cappella sinistra della Annunziata, nel museo Lazaro Galdiano di Madrid (fig. 23),
nel succorpo della Cattedrale di Salerno (fig. 24) ed il tondo di S. Maria la
Nova.
Bisogna
essere molto attenti nell'attribuzione, perchè la stessa iconografia è stata
trattata anche da altri artisti in maniera sovrapponibile, basta osservare
questa Madonna della Purità (fig. 25) firmata da Giacinto De Populo della
chiesa della Sapienza per convincersene.
Sicuramente
di bottega è la Madonna con Bambino di collezione d'Avalos (fig. 26),
espressione di un classicismo bonario ed artificioso, mentre ai limiti
dell'autografia possiamo collocare la Madonna del latte (fig. 27) di privata
raccolta napoletana e la tela dell'Istituto Denza di Napoli.
Rapporti con Filippo Vitale
Tutti i
quadri della fase giovanile pongono il problema, ancora insoluto, di distinguere
il pennello di Francesco da quello del patrigno, in un periodo, certamente
durato molti anni, in cui i due probabilmente collaboravano a quattro mani. A
dimostrazione di questo sodalizio pochi ma significativi documenti di
pagamento, tra i quali uno del 1645 in cui Pacecco gira al patrigno del denaro
ricevuto per una sua commissione, mentre alcuni anni prima aveva trasferito a
Carlo, figlio del Vitale, i trenta ducati di una polizza. Tale sodalizio durò
fino alla morte di Filippo, nel 1650, ma a partire dagli anni Quaranta, gli
anni d'oro nella produzione di Pacecco, fu lui ad influenzare il più anziano
pittore, a tal punto da dover ricostruire un periodo pacecchiano per Vitale. La
conferma della consistenza della problematica si è avuta nel momento in cui è
comparsa sul mercato una coppia di dipinti di notevole qualità: Una fuga di
Loth da Sodoma (fig. 28) ed un Incontro di Rachele e Giacobbe (fig. 29),
probabilmente il quadro descritto dal De Dominici (Vol. III, pag. 102) nella
collezione del duca di Maddaloni, entrambi assegnati al De Rosa, fino a quando
il restauro della prima tela, dai caratteri pacecchiani inconfondibili, non ha
messo in luce la firma e la data di esecuzione: "Philippus V./F.
1650". Dello stesso periodo, e sempre del pennello del Vitale, il Loth e
le figlie (fig. 30) di collezione privata napoletana.
Altri
dipinti che sono stati restituiti al Vitale, appartenenti a questa fase finale
della sua attività sono: una Pietà con angeli piangenti, già sul mercato
antiquariale di Reggio Emilia, un Martirio di S. Orsola in una privata raccolta
londinese ed un Loth e le figlie, di collezione privata napoletana, presentata
alla mostra dell'antiquariato del 1989 e vicina ai modi della Pietà conservata
nella chiesa di Santa Maria Regina
Coeli.
In
attesa di documenti di pagamento, al momento molto scarsi per entrambi e di
opere firmate e datate, vogliamo proporre una serie di dipinti, spesso
trattanti lo stesso tema, a dimostrare il filo sottile che divide i due
artisti, che in qualche opera hanno sicuramente lavorato in coppia.
Cominciamo
con due quadri di ampia collaborazione, il primo, assegnato dalle fonti al De
Rosa, reclama a gran voce la mano del Vitale, ci riferiamo alla Madonna e San
Carlo Borromeo della chiesa di San Domenico (fig. 31), nel quale ci troviamo di
fronte, come sottolineato dal Pacelli,
ad una iconografia del tutto inedita e stravolgente, al di fuori dei
severi dettami della chiesa, che relega san Domenico a figura secondaria ed
investe san Carlo Borromeo di un ruolo di primo piano. In questa opera, come ha
evidenziato il Lattuada, il De Rosa tenta di "modernizzare l'arcaica
staticità tipica di Vitale mediante l'addolcimento dei contorni del volto della
Vergine e la più fluida resa volumetrica dei suoi panneggi rispetto a quelli
delle altre figure". Il secondo,
una Gloria di S. Antonio (fig. 32),
conservato nella eponima Arciconfraternita in San Lorenzo è dominato da una
cascata di angioletti, che si ripropongono sovrapponibili a quelli del celebre
Angelo custode della Pietà dei turchini o dell'inedito "collega"
(fig. 33) sito, lontano dagli occhi del visitatore, nella seconda sala
antistante al presepe nella chiesa del Gesù vecchio.
A
questo momento di stretta collaborazione tra i due artisti, che cominciano ad
operare una feconda sintesi tra gli antichi retaggi tardo manieristi, e le
nuove mode del caravaggismo e dello stanzionismo, appartengono una serie di
tele ruotanti attorno al martirio di S. Barbara. La prima, già proprietà Longhi
ed identificata dal Bologna, di cui esiste una replica con varianti in una raccolta napoletana ed una terza,
pubblicata dal De Vito come soggetto non identificato (fig. 34) in collezione
privata.
Vediamo
ora, in rapida successione, sul tema
del martirio di S. Barbara, seguendo il parere del Bologna, tre dipinti: il
primo (fig. 35) di Filippo Vitale, in collezione Brindisi a Napoli, il secondo
(fig. 36) copia da Vitale, in collezione privata napoletana ed il terzo (fig.
37) di Pacecco, già in una raccolta romana.
Sull'iconografia
della Maddalena penitente, sempre secondo Bologna, (anzi per essere più precisi
della S. Maria Egiziaca), mettiamo ora a confronto tre tele: la prima (fig. 38)
di Vitale, conservata nei depositi di Capodimonte, la seconda (fig. 39) del De
Rosa di collezione privata napoletana e la terza (fig. 40), di collezione
Lettieri, con caratteri border line. Sul tema della Maddalena segnaliamo una
tela inedita (fig. 41), conservata nella Badia di Cava, in cui sono presenti,
anche se larvatamente, caratteri vaccariani.
Le
differenze di stile e di tavolozza balzano agli occhi con evidenza e servono da
bussola per percorrere un arduo sentiero attributivo avvolto ancora, più da
ombre che da luce.
Sul
tema del Riposo nella fuga in Egitto esistono numerose repliche con varianti
che permettono di differenziare la predominanza dello stile del Vitale, come
nel caso della tela di collezione D'Errico (fig. 42) o di Pacecco. Nella tela
materana, attribuita a lungo al De Rosa, alcuni dettagli significativi,
sottolineati dal Lattuada, impongono di assegnarla al più anziano pittore: dal
gusto per le forme solide e larghe al più pungente realismo che permea alcuni
particolari, come il Bambinello attaccato al capezzolo o la sfumata e scarna
definizione del volto di Giuseppe. A questa tela va avvicinata, per lo stile e
per l'impianto, il Riposo nella fuga in Egitto (fig. 43) dello Snite museum of
art di Notre Dame negli Stati Uniti, attribuita ad Onofrio Palumbo da Stefano
Causa e più probabilmente attribuibile al Vitale.
Caratteristiche
dello stile di Pacecco sono le seguenti altre redazioni: la prima (fig. 44) in
collezione privata romana, della quale esistono repliche e copie di bottega, in
cui "le straordinarie fisionomie della Vergine, di Giuseppe e dell'angelo,
che offre frutti a Gesù Bambino, spiccano nell'impaginazione a mezza figura,
stagliate nell'oscurità del bosco e immerse nella luce del tramonto, accesa dai
vivi contrappunti degli abiti" (Lattuada). Seguono l'inedita tela
conservata presso la Corte d'Appello di Napoli (fig. 45), la più pacata
redazione del museo di Cosenza (fig. 46) o l'ultima, di collezione privata
napoletana, (fig. 47), in cui spiccano maggiormente le differenze di stile tra
i due artisti., se confrontata con la gemella (fig. 48) in maniera lampante del
patrigno, autore anche della Madonna del latte (fig. 49) presente sul mercato
antiquariale napoletano, mentre di Pacecco è senza dubbio la Sacra famiglia con
Vergine allattante presentata alla mostra antiquaria di Castel Sant'Elmo del
1989.
Opere di bottega
La sua
bottega sicuramente poteva contare su allievi di un certo livello, per cui
un'ulteriore difficoltà è costituita dal discernere gli autografi dalle
repliche dei collaboratori. Soprattutto nella produzione provinciale la
critica, in alternativa all'ipotesi di una marcata involuzione stilistica, ha
creato figure di convenzione, come il Maestro di Bovino, al quale è stato a
lungo attribuito il Martirio di San Pietro (fig. 50), conservato nella omonima
cittadina pugliese.
Tra gli
ancora sconosciuti alla critica allievi della bottega proponiamo il nome di
Philippus Zellus, che firma e data, 1654, una Vergine tra i Santi Nicola e
Gaetano (fig. 51), dai caratteri spiccatamente pacecchiani, conservata nella
Basilica di Santa Maria del Lauro a Meta di Sorrento. E' il suo primo allievo
plausibile, perchè Filippo Donzelli, indicato come tale dal Causa, è da noi
conosciuto unicamente per un San Michele, firmato, nella chiesa di San Vincenzo
alla Sanità, dai chiari caratteri falconiani e per risultare iscritto alla Corporazione
dei pittori napoletani nel 1665.
Opere
sicuramente di bottega sono la S. Agata (fig. 52) presentata alla mostra dei
Tre secoli della pittura napoletana tenutasi a Napoli nel 1938, dalle dita
affusolate e l'altra, più tarda, (fig. 53) dei depositi della Galleria
Borghese, il S. Massimo (fig. 54) della chiesa di Santa Sofia a Giugliano, la
replica della Madonna con S. Luigi di Tolosa e Luigi, re di Francia (fig. 55),
conservata nel Seminario vescovile di Conversano, il Martirio di S. Biagio (fig.
56) del museo provinciale di Lecce e Bacco ed Arianna incoronati da Venere
(fig. 57), passato come autografo in asta da Semenzato nel luglio del 1988.
Anche S. Stefano (fig. 58) e S. Lorenzo (fig. 59), presenti sul mercato
(Firenze Pitti 1989), nonostante la notevole qualità sono prodotti di bottega,
ben lontani dalla forza espressiva dei colleghi ... di Capodimonte (fig. 60) e
(fig. 61), già nella Farmacia degli Incurabili. Ancora di bottega segnaliamo un
piccolo olio su rame in collezione privata napoletana, un Diana ed Endimione
(fig. 62 ) ed una copia da un originale perduto (fig. 63), eseguito a quattro
mani e due pennelli, passato in asta a Roma all'Antonina.
Da
espungere dal catalogo dell'artista: il Noli me tangere (fig. 64) del mercato
antiquario di New York, che appartiene in maniera lampante ad Andrea Vaccaro,
il Mosè che trae l'acqua dalla rupe (fig. 65) del museo di Budapest, assegnato
al De Rosa dal Pigler e confermatogli dall'Ortolani, che oggi la critica
unanimemente attribuisce al De Bellis, e le due Scene carnascialesche, già
nella collezione del barone Lazzaroni di Roma, che furono presentate alla
grande mostra sulla pittura italiana di Firenze a Palazzo Pitti nel 1922 e che
l'Ortolani giudicava tipiche espressioni di napoletana gaiezza, assegnate
all'artista forse per similitudine iconografica con il Sileno ignudo in un
corteo bacchico, descritto dal De Dominici presso il duca di Maddaloni. Ed a
proposito di questa tela, descritta con pedante precisione dal celebre
biografo, bisogna valutare attentamente
l'ipotesi formulata dal Pugliese che il Sileno possa essere quello
eseguito da Francesco Fracanzano ed esposto a Capodimonte di fronte
all'interpretazione datane dal Ribera.
Opere perdute
Tra le
opere citate dal De Dominici ed a noi non pervenute rammentiamo due tele nel soffitto di San Diego
all'Ospedaletto, raffiguranti martirii di santi francescani, probabilmente distrutte, assieme a tre di Stanzione, da un
incendio che divampò nella chiesa nel 1784. E perduti, nel corso di una ristrutturazione
ottocentesca, sono pure i quadri rappresentanti "varie azioni della B.
Vergine", realizzati in collaborazione col Marullo, per il soffitto della
chiesa della Concezione degli Spagnoli.
Rapporti di contiguità con altri
artisti
Pacecco,
come abbiamo visto, è imparentato con numerosi pittori, per cui l'abitudine
tutta napoletana di prendere ispirazione dal lavoro dei colleghi è in lui più
accentuata. Diventa così arduo distinguere il suo pennello da quello di artisti
border line, non solo della cerchia stanzionesca, come Onofrio Palumbo o
Giacinto De Populo, ma anche apparentemente lontani dal suo stile e dalla sua
poetica, che divennero facilmente riconoscibili solo negli anni Quaranta.
Confusioni attributive possono esserci anche per un occhio esperto verso
Finoglia, Do, Guarino, Beltrano,
Ragolia, De Bellis, Stanzione e la stessa Gentileschi.
L'influsso
di Paolo Finoglia è particolarmente evidente fino al 1635, prima della lezione
stanzionesca e del bagno di colore che impreziosì da quell'anno la tavolozza di
tutta la pittura napoletana.
Il
dipinto paradigmatico di questa dipendenza culturale è costituito dalla
spettacolare Immacolata di S. Domenico Maggiore (fig. 66), prelievo letterale
dall'omonimo dipinto del museo municipale di Brest (fig. 67). Su questa
iconografia presentiamo, per un utile raffronto, una tela (fig. 68) da decenni
preclusa allo sguardo di appassionati e studiosi, già nella chiesa di San
Giovanni Battista delle monache, che riteniamo molto vicina ai modi
pacecchiani. Ed inoltre stimmate finogliesche sono molto evidenti nella S. Dorotea della Narodni Galerie di Praga e
nella Lotta di Giacobbe con l'angelo (fig. 69), di collezione privata
bresciana, pubblicata da De Vito. Due dipinti pugliesi ricalcano soluzioni
luministiche parafiglionesche, essi
sono: l' Annunciazione della chiesa matrice di Palo del Colle (fig. 70) e la
Madonna col Bambino (fig. 71) del museo Pomarici Santomasi di Gravina, tele
gemellate dalla medesima atmosfera di calda intimità e dalla stessa modella che
presta il suo volto di innocente freschezza alla Vergine, reso con magistrale
trattamento chiaroscurale, che richiama a viva voce la tecnica del Finoglia.
Poco
studiato dalla critica il rapporto di dare ed avere con il cognato Giovanni Do
sotto il cui influsso nasce probabilmente il Martirio di San Lorenzo (fig.
72) della parrocchiale di Lizzanello in
provincia di Lecce, dominato da un netto taglio luministico e da un intenso
contrasto chiaroscurale, che mettono in evidenza il riverbero, anche in aree culturali potenzialmente lontane, della
forza espressiva del messaggio emanato dal "tremendo impasto". Alcuni
volti ritorneranno in altre opere dell'artista, come il sacerdote che invita ad
adorare l'idolo, il quale assumerà le sembianze del San Matteo di
Capodimonte. Essa precede di qualche
anno la spettacolare replica con varianti (fig. 73) conservata a Greenville
negli Stati Uniti, presso la Bob Jones University, realizzata in prossimità
degli anni Quaranta, in consentaneità cronologica con Il Massacro degli
innocenti del museo di Filadelfia (fig. 74) e l'Andata al Calvario (fig. 75),
già al museo del Sannio, con i quali condivide identiche fisionomie dei
protagonisti e la medesima modalità di inquadramento delle figure in uno spazio
ristretto. La replica statunitense, speculare, con il corpo del martire
ribaltato restando fissa la fonte luminosa, presenta poche varianti e tra
queste domina la presenza, sulla sinistra, del ridanciano scugnizzo con la
dalmatica ammappuciata sulle spalle, somigliante in maniera impressionante al
Cam dell'Ebbrezza di Noè, già in collezione Calabrese, uno dei raggiungimenti
più alti del nostro secolo d'oro,
attribuito ad Annella dal Longhi ed oggi, secondo Bologna, nel catalogo di
Filippo Vitale.
A
questa temperie culturale appartiene la Visione di S. Antonio da Padova della
Gemaldegalerie di Vienna (fig. 76) e le due splendide Adorazioni dei pastori,
di Montecitorio (fig. 77) e di collezione privata fiorentina (fig. 78),
entrambe segnate da un delicato equilibrio tra naturalismo e classicismo,
assieme alle quali presentiamo
l'inedita Adorazione (fig. 79) dell'antiquario Gabrius, di cronologia più
antica ed una chicca rarissima, la tela
(fig. 80), di collezione privata fiorentina, descritta dal Longhi negli
anni Cinquanta e mai più sottoposta all'attenzione della critica. Il San
Giuseppe col Bambino (fig. 81) del museo dell'Abbazia di Montevergine,
viceversa, è più vicino allo stile di Giovanni Do, come sostenuto dal Fiorillo.
Rimanendo
in area riberiana possiamo considerare alcuni dipinti contrassegnati da un
cospicuo trattamento chiaroscurale, quali la Maddalena penitente dei depositi
di Capodimonte, attribuita dal Bologna ed intrisa forse di eccessiva cultura
caravaggesca, il Cristo deriso (fig. 82) conservato ad Albano Laziale nel
Collegio del Preziosissimo Sangue, sicuramente opera giovanile appartenente ad
una inedita fase di caravaggismo classicizzato ed il Martirio di San Bartolomeo
(fig. 83), aggiudicato da Finarte nel 1979, che replica moduli compositivi e
fisionomie del Ribera, tradite da una eccessiva morbidezza dell'incarnato e dei
panneggi patognomonici di Pacecco.
Riberiano,
e non solo nell'iconografia, lo spettacolare Apollo e Marsia ( fig. 84) del
Castello di Opocno in Boemia, una poco conosciuta opera giovanile del Nostro di
altissima qualità, nella quale apprezziamo ombre taglienti, che scompariranno
completamente dal repertorio dell'artista nel
decennio d'oro della sua maturità.
Sul tema
iconografico basato sull'incontro di Rachele e Giacobbe, immortalato dal De
Rosa in celebri composizioni, segnaliamo un inedito di altissima qualità (fig.
85), in collezione privata ad Utrecht, incorniciato da un panorama boscoso
degno del pennello dei migliori specialisti napoletani e con i personaggi,
dalle classiche fisionomie pacecchiane, che intrecciano languidamente tra loro
una conversazione senza parole, fatta di teneri sguardi e maliziosi
ammiccamenti.
Tra i
dipinti famosi, il Rachele e Giacobbe (fig. 86) della Pinacoteca di
Capodimonte, derivato da una più antica redazione in collezione privata
napoletana, ed il Riposo dalla fuga in
Egitto della collezione Laliccia.
Nel
Rachele e Giacobbe facciamo la conoscenza del cane di Pacecco De Rosa, che si
affaccia in basso a sinistra della composizione e che rincontreremo in seguito
più volte, costituendo una sorta di firma nascosta dell'autore; basterebbe
questo dettaglio per escludere categoricamente l' ipotesi, avanzata in passato
dalla critica, di assegnare la tela al Marullo, il quale, per quanto rivalutato
di recente dagli studi (consulta sul web la prima monografia sul pittore del
Pinto e l'opera omnia pubblicata dal sottoscritto), non raggiunge mai la
qualità molto alta di questo quadro, tra gli esiti maggiori del nostro artista.
Essa fu giudicata dall'Ortolani un
Pastor Fido, o meglio, per quei salaci villani ridenti, una scena prelevata da
una commedia rusticana del Ruzzante, impregnata da una materia cromatica
stoffosa dalla consistenza di un marmo
granoso; una favola paesana raccontata con garbo forbito e fare lezioso in toni
spontaneamente naturalistici e dialettali. Da notare inoltre che, nella Fuga in
Egitto (fig. 87), il modello che ha
posato per l'angelo posto a destra nella composizione, ripropone lo stesso
atteggiamento speculare, nella mano che raccoglie il panneggio e nell'altra che
porta al petto, assunto dalla Rachele protagonista del quadro preso in esame
precedentemente ed è lo stesso che presta il suo corpo per raffigurare il principe
troiano nel Giudizio di Paride (fig. 88) del
Kunsthistorisches Museum di Vienna, un altro dipinto dove ricompare il
muso del cane del nostro artista, che per inciso incontriamo di nuovo nel
Venere ed Adone (fig. 89), già Sotheby's, quadro gemello, di poco successivo
del Venere che cerca di trattenere
Adone (fig. 90) del Museè des Beaux Arts di Besancon, dove stranamente
compaiono ben tre cani, ma nessuno di Pacecco....
Vicinissimo
cronologicamente al quadro del museo francese lo splendido Ratto d'Europa di
collezione privata napoletana, del quale una replica autografa è stata battuta
presso Christie's nel 1978.
La
possibilità di scambiare un'opera di Giacinto De Populo con i dipinti del
nostro artista è dovuta alla conoscenza frammentaria che ha la critica del
pittore casertano. Un esempio è costituito da questa tela raffigurante le tre
sante salernitane Tecla, Archelaa e Susanna (fig. 91) conservata nella chiesa
di San Giorgio a Salerno, che si aggiunge alla Madonna della Purità (fig. 92)
citata in precedenza.
Molto
difficile delineare i confini verso Onofrio Palumbo, un artista ancora non ben
conosciuto dalla critica ed al quale probabilmente appartiene la scena mitologica (fig. 93) di recente
passata sul mercato antiquariale con un'attribuzione al De Rosa. Abbiamo già
accennato all'Immacolata Concezione di San Domenico Maggiore (fig. 94),
attribuita negli anni prima al Guarino, poi al Finoglia ed infine al Palumbo.
Segnaliamo una Pietà (fig. 95) passata
in un'asta Semenzato a Venezia nel 1991, con una non sostenibile attribuzione a
Guarino, nella quale, viceversa, sono facilmente leggibili caratteri distintivi
di quell'area culturale equidistante tra Stanzione e Ribera, in cui spesso si esprimono il De Rosa, il De Bellis
e lo stesso Palumbo.
Anche
il cognato Beltrano, con il quale si può anche ipotizzare sporadicamente una
forma di collaborazione, può essere confuso con Pacecco, come nel caso del San
Giuseppe con Gesù Bambino (fig. 96), di collezione privata praghese, presentata
come autografo alla mostra " La pittura napoletana tra l'eruzione e la
peste", che tradisce, particolarmente nell'ampio scorcio di paesaggio, il
pennello del Beltrano.
La
confusione attributiva verso Guarino è notevole e crediamo siano venuto il
momento di valutare l'opportunità di far ritornare nel catalogo dell'artista
solofrano l'Abramo e i tre angeli (fig. 97) del museo civico di Castel Nuovo,
per il vigoroso trattamento naturalista della testa di Abramo, nonostante i
colori levigati, la riduzione delle ombre e gli incarnati vicini all'effetto
porcellana dei tre angeli, caratteristiche che contrassegneranno lo stile del
De Rosa a partire dalla metà degli anni Quaranta.
Sembrerebbe
a prima vista del Guarino il Sacrificio d'Isacco (fig. 98), già in collezione
Auzola a Madrid, assegnato invece dal Lattuada al De Rosa, per " i toni da
porcellana nel pigmento degli incarnati
di Isacco e nelle stoffe traslucide", mentre nel San Giovanni
Evangelista (fig. 99), esitato da Christie's nel 1989, Pacecco interpreta in chiave classicistica
la nota iconografia, arricchendola con un'impeccabile scelta di colori
dall'effetto brillante. Anche il S. Antonio da Padova con Gesù Bambino (fig. 100) è passato in asta da
Christie's a Roma nel 1990 come Guarino, ma più probabilmente è assegnabile al
nostro artista in un felice momento di attenzione e convergenza verso la
lezione di Massimo Stanzione. Infine la S. Orsola (fig. 101) di collezione
privata napoletana, schedata dalla Soprintendenza genericamente come Santa
martire ed assegnata al Guarino, è ritenuta dal Lattuada più vicina allo stile
del De Rosa, in consonanza con i modi stanzioneschi.
Michele
Ragolia è un pittore ancora poco noto alla critica, nonostante la sua
produzione raggiunga a volte livelli molto alti, come nei due trionfi conservati
a Schloss Rohrau. Suo è il San Francesco che soccorre gli ammalati (fig. 102),
conservato in palazzo D'Ayala Valva a Taranto e proveniente dalla chiesa di San
Francesco della cittadina pugliese. Esso è stato attribuito al De Rosa dal
Galante, che opera raffronti con la Strage degli innocenti di Filadelfia,
mentre alcune fisionomie non lasciano alcuna ombra di dubbio nell'assegnare il
dipinto al Ragolia, fisionomie che caratterizzano più di un personaggio nel
grandioso soffitto cassettonato della parrocchiale di Polla, capolavoro
dell'artista.
Scambi
attributivi versus Antonio De Bellis sono ragionevoli, soprattutto da quando,
negli ultimi anni, sono comparse sul mercato tele firmate dell'artista simili
ai modi cavalliniani per soluzioni cromatiche raffinate e per tipologie
fisionomiche dolci e languide. Un Sansone e Dalila (fig. 103), su rame, di
collezione privata parigina, attribuito da Spinosa al De Bellis in occasione
della mostra su Cavallino, è stato ricondotto al catalogo del De Rosa dal Lattuada,
per analogie formali con le lunette di San Paolo Maggiore; lo studioso ha
sottolineato quale autonomia espressiva avesse raggiunto Pacecco nel campo del
piccolo formato, che esalta le sue doti di colorista affezionato a timbri
squillanti e laccati e ne raffina i partiti compositivi mediante l'uso di una
luce cristallina.
A
partire dagli anni Quaranta l'influsso stanzionesco (e probabilmente una vera e
propria collaborazione, come documentato in alcune chiese napoletane) sarà
sempre più palpabile nel suo stile, a tal punto che alcune tele sono
assegnabili al De Rosa solo per la minore qualità rispetto al maestro, come la
S. Caterina (fig. 104) conservata a Bratislava o la S. Orsola (fig. 105)
esitata da Sotheby's a Londra nel 1989, nella quale "l'impianto della
figura, la struttura semplificata dei panneggi argentei e degli incarnati
chiari" (Lattuada) sono i segni tangibili di un felice momento nella produzione di Pacecco.
Dubbiosa può essere la paternità della Pittrice che
ritrae l'immagine del sudario (fig. 106), proposta come autografo stanzionesco
nel 1979 in un'asta Sotheby's di Londra, attribuita poi al Guarino e che
potrebbe essere una prova giovanile di Pacecco, per la dolcezza del volto della
fanciulla e per il raffinato trattamento cromatico degli abiti e dei panneggi.
Infine un Loth e le figlie (fig. 107) di collezione privata tedesca,
probabilmente da identificare con un tela descritta nel 1938 dall'Ortolani,
come replica con variante del famoso dipinto dello Stanzione conservato a
Palazzo Reale.
Una
tela, da sempre nel catalogo dello Stanzione, quale il Miracolo di Soriano
(fig. 108) della chiesa di San Domenico a Lucera, dopo essere stata in mostra a
Pagani nel 1990, fu ritenuta non autografa da molti studiosi, per il modellato
piuttosto piatto e per le campiture di colore stese in maniera semplificata,
per cui il Willette, nella sua monografia, ipotizza la partecipazione di aiuti.
La parte superiore, incentrata sui volti delle sante di una languida dolcezza,
a nostro parere, è sicuramente di Pacecco, che collaborerà a iconografie
identiche in alcune chiese napoletane.
Un
problema complesso è costituito dalla grandiosa pala dell'Assunzione della
Vergine (fig. 109), già in collezione Cook, oggi al North Carolina museun of
art di Raleigh, assegnata al De Rosa dal Pigler già negli anni Trenta e
confermatagli da Spinosa, mentre Lattuada ritiene che Pacecco esegua solo
qualche figura, come ad esempio il giovane apostolo inginocchiato a destra ed
il dipinto sia stato viceversa
realizzato dallo stesso
Stanzione, al cui pennello si ispira tutta la composizione, che
deriva dal sacrificio di Mosè, firmato
e conservato a Capodimonte.
Ancora
inestricabili i rapporti con la Gentileschi, a Napoli dal 1627, la quale
influenzò tutta la pittura partenopea ed in particolare lo Stanzione,
principale fonte ispirativa per Pacecco a partire dagli anni Trenta. Alla sua lezione cromatica appartiene senza
dubbio il poco noto Concertino (fig. 110) della Galleria di Palermo, sgorgante
di fantasmagorici contrasti di colore. E' prudente continuare a considerare di
Artemisia la Cleopatra (fig. 111) di collezione privata londinese, presentata
alla Mostra Civiltà del Seicento come autografo della pittrice toscana dalla
Gregori e ritenuta invece dal Lattuada tipica dei modi del De Rosa e molto
vicina alla S. Barbara già presso Finarte. Sorprendente il perentorio consiglio
dello stesso studioso di attribuire ad Artemisia lo splendido olio su rame
rappresentante il Giudizio di Paride (fig. 112) della Gemaldegalerie di Vienna,
in passato attribuito al Vouet e dato a Pacecco da Raffaello Causa, nel quale,
a differenza di altri dipinti in cui è appena abbozzato, compare un panorama
fogliaceo di grande respiro, eseguito con grande probabilità da Micco Spadaro,
che sappiamo aver collaborato più volte con la Gentileschi. La composizione
pervasa da una pacata armonia nelle figure è inondata da una luce calda che
sembra indugiare sui corpi nudi delle dee e fa risaltare l'eleganza delle
vesti.
Iconografia
sacra
Iconografia sacra
Pacecco
raggiunse la sua fama nei dipinti profani, approfittando di quella committenza
laico borghese presente in misura cospicua a Napoli affianco a quella
religiosa, che richiedeva soggetti biblici e scene mitologiche, sante languide
ed eroine vittoriose, purché interpretate da modelle belle e soprattutto
discinte. Quella varietà di richiesta che ha reso d'oro il Seicento napoletano
e di grande attualità, perchè in consonanza con il gusto moderno, sia del
collezionista che del semplice frequentatore del museo. Non solo quadri
devozionali dunque, ma anche battaglie, paesaggi, ritratti, natura morta, scene
di genere e tante sante, devote, ma gradevoli a vedersi.
Nonostante
questa predilezione per il soggetto laico la produzione religiosa è copiosa,
interessa un ampio arco temporale ed è sicura, nel senso che i pochissimi
dipinti firmati o documentati del De Rosa sono quasi tutti quadri sacri. Non
includeremo in questa carrellata i numerosi ritratti di sante, quasi sempre
eseguiti con un'aura profana.
Cominceremo
dall'Annunciazione (fig. 113) di San Gregorio Armeno, doppiamente firmata
(sullo zoccolo del leggio e sulla prima pagina del libro) e datata 1644,
un'opera a carattere devozionale, di ostentata eleganza reniana, felice
contaminazione di cultura bolognese e modelli stanzioneschi, impregnata da
colori di tonalità brillante che impreziosiscono i pesanti panneggi, il segnale inconfondibile del gusto
dell'artista per " l'eleganza facile ed ostentata di sete e rasi sovrabbondanti,
del languore teatrale popolarescamente agghindato, della materia inconfondibile
per quelle superfici terse, sempre pronte al luccichio, come un ferro smaltato
sotto il rivestimento di colori squillanti, dall'effetto fragoroso e
stridulo" (sono parole di un poeta: Raffaello Causa). Le due già citate Immacolate, la prima di
Brest e la successiva di San Domenico Maggiore, le varie redazioni della
Deposizione, quella di San Martino, ispirata al prototipo del Vitale di Santa
Maria Regina Coeli dei tardi anni Quaranta, quella della quadreria del Gesù
Nuovo e la versione della Nunziatella, firmata e datata 1646.
Importanti
opere a carattere sacro, collocabili intorno alla metà del quinto decennio,
sono le due lunette della cappella della Purità in San Paolo Maggiore,
precedentemente assegnate allo Stanzione, autore delle tele sottostanti,
firmate. Le scene rappresentate sono la Nascita della Vergine (fig. 114) e la
Presentazione di Gesù al tempio (fig. 115) e completano il ciclo mariano della
cappella.
Nella
cappella Cacace in San Domenico Maggiore, ai lati della Madonna del Rosario,
capolavoro di Massimo Stanzione, sono presenti i tradizionali misteri: scene
della Passione di Cristo e della vita della Vergine, chiaramente eseguiti da
due diversi collaboratori del maestro. Diverse sono le opinioni di Spinosa, che
identifica i due allievi in Niccolò De Simone ed in Giuseppe Marullo, mentre
Schutze vede il pennello di Pacecco e del cognato Beltrano ed in particolare
attribuisce al Nostro i seguenti episodi: Annunciazione, Natività, Cristo tra i
dottori, Flagellazione, Cristo portacroce e Resurrezione (fig.
116-117-118-119-120-121).
Lo
scorrere degli anni nel percorso artistico del De Rosa viene scandito dalla
Immacolata con i Santi Francesco d'Assisi ed Antonio da Padova (fig. 122) della
chiesa dei Cappuccini di Vibo Valentia, firmata e datata 1651. La tematica,
ampiamente diffusa nella pittura spagnola e napoletana dell'epoca, viene resa
dall'artista con qualche cedimento accademico, anche se le ombre tendono quasi
a scomparire ed il colore diviene sempre più levigato. La fanciulla che fa da
modella, dal candore virgineo ed attorniata da una folla di angioletti, indossa
una veste di un bianco splendente ed un ampio mantello azzurro.
Particolare
curioso, rivelatomi dall'amico Vincenzo Rizzo e che ha permesso alla tela di
giungere a noi in ottimo stato di conservazione, è stata l'abitudine, osservata
per secoli dai frati, di conservare la pala d'altare preservata da una tenda,
aperta a richiesta dei fedeli o dei visitatori in cambio di una piccola offerta
o di un semplice grazie. Al 1652 appartiene lo spettacolare quadrone, della
chiesa di Santa Maria della Sanità, Angeli che impongono il cingolo della
castità a San Tommaso d'Aquino (fig. 123), firmato e datato, accuratamente
descritto dal De Dominici:"Un S. Tommaso d'Aquino nella chiesa della
Sanità, con alcuni angioli che al detto Santo legano il Cingolo della purità,
per conservargli la sua castità; vi è tanta gioia e riso in quei volti angelici
che fanno meditare in quelli l'idee celesti del Paradiso, oltre il vedervisi le
più belle forme di mani e piedi e tutte
l'altre parti così ben disegnate che non resta che desiderarvisi". Il
dipinto ha colori squillanti, che debordano luce, di un'assoluta modernità,
come "il blue metallico, elettrico delle stoffe che richiama ed anticipa
soluzioni poi di Mondrian e di Kandinskij" (Pacelli), la declinazione è
ortodossamente stanzionesca e l'impaginazione dà l'idea di "una festosa
aggressione di tre giovani efebici a un monaco spaventato, dove la gloria degli
angeli intorno all'eucarestia è un singolare pastiche di citazioni da Reni,
Domenichino e Stanzione"(Lattuada). Da notare lo straordinario dettaglio
(fig. 124) della cintura di castità, di materiale prezioso portato con grazia e
leggiadria dagli angeli, assieme alla corona e ad un serto di fiori.
Sempre
di qualità altissima sono altre due pale d'altare documentate al 1654, segno
indefettibile di importanti commissioni pubbliche e lampante dimostrazione dell'assurdità
dell'idea, avanzata dalla critica meno attenta, di un Pacecco stanco ripetitore di formule accademiche
negli ultimi anni della sua attività. Esse sono il San Pietro che battezza
Santa Candida (fig. 125), sito nel coro della chiesa di San Pietro ad Aram,
restituito di recente ai luccicanti colori del passato da un attento restauro,
firmato e datato "Pacheco De Rosa 1654", nel quale, ad ulteriore
dimostrazione dell'autografia delle due lunette della cappella della Purità in
San Paolo Maggiore, il San Pietro, dal volto sorridente che battezza la Santa,
è un prelievo letterale del San Giuseppe nell'Offerta lustrale del ciclo
mariano precedentemente descritto. L'altra importante cona d'altare è la
Madonna del suffragio con i Santi Domenico e Gaetano e l'angelo custode (fig.
126), firmata e datata 1654, della
parrocchiale di Sant'Agata di Puglia, nella quale il Pugliese, nel pubblicarla,
coglieva lontani echi dell'Angelo custode della Pietà dei Turchini, capolavoro
del Vitale ed influenze falconiane nel paesaggio sulla destra, oltre ad un
potente richiamo al dipinto della chiesa della Sanità, caratterizzato da angeli
poderosi come quelli che impongono dinamicità alla parte centrale della tela in
esame. L'angelo custode, capellone ante litteram, incurante della stizza
malamente repressa del diavolo, una
caricatura del collega realizzato dal Vitale, costituisce, con il suo sontuoso
manto di un giallo dorato, la quinta scenica che dà respiro ad un ampio panorama, il quale richiama a viva voce gli esiti migliori di
Micco Spadaro.
Santi e sante
Poco
meno che interminabile il numero di santi e sante rappresentato da Pacecco,
segno della vivacità nella richiesta di
un soggetto che non poteva mancare nelle case delle famiglie ricche napoletane.
Sono tutti dipinti da cavalletto, emersi in gran parte negli ultimi anni sul
mercato antiquariale e nelle aste, sia in Italia che all'estero, ampliando in
tal modo notevolmente il grado di conoscenza degli studi.
Partendo
dai soggetti maschili segnaliamo l'unico quadro del genere firmato e datato,
1652, un San Gaetano conservato nel
Duomo di Matera, segnalato dall'Ortolani, ricordiamo inoltre il già citato San
Massimo (fig. 127) della chiesa di Santa Sofia di Giugliano, del quale
circolano sul mercato numerose repliche di bottega ed il San Biagio (fig. 128)
dell'antiquario bergamasco Lumina, nel quale compare, quasi una firma nascosta,
lo stesso giovane modello che abbiamo incontrato in altri dipinti certi di
Pacecco, dal San Nicola di Bari (fig.
129) della Certosa di San Martino al San Matteo di Capodimonte (fig. 130), ispirato alla tela eponima (fig. 131), già
nella chiesa napoletana di Sant'Anna di Palazzo.
Di
altissima qualità il San Sebastiano (fig. 132) del Kunsthistoriches Museum di
Vienna, che fa coppia con il meno noto Cristo alla colonna (fig. 133), segnati
entrambi da un incarnato languido e dalle stesse pieghe cutanee nella zona
addominale.
Sant'Antonio
è raffigurato più volte: in estasi, avvolto in una luce calda proveniente
dall'alto (fig. 134) ed attorniato da un nugolo di angioletti, nella tela di
Capodimonte, vicina stilisticamente alle
opere degli anni Cinquanta; mentre ha una visione (fig. 135) nel quadro
della Gemaldegalerie di Vienna, più antico; è rappresentato inoltre nelle opere precedentemente citate (fig. 136-137)
e, secondo Ortolani, una replica con
varianti
del quadro di Capodimonte era conservata presso la chiesetta degli Orefici a
Materdei. San Gennaro, del quale è comparsa l'anno scorso presso Finarte una spettacolare Decollazione (fig. 138) è
ritratto più volte: con un fanciullo che gli regge le ampolle (fig. 139), di
collezione privata e mentre offre il
segno del suo martirio alla Madonna ed al Bambino (fig. 140), in una tela,
presente sul mercato, ricca di squillante cromatismo e del tutto aliena dai
modi del Vitale.
Alla
lezione stanzionesca appartiene pienamente il San Giovanni Battista (fig. 141)
di collezione privata italiana e la replica, ricordata dall'Ortolani, nella
chiesa di Santa Maria Assunta a Bagnoli Irpino. Mentre ricordiamo soltanto,
perchè già trattati in precedenza: San Nicola (fig. 142), San Carlo (fig. 143),
Santo Stefano (fig. 144), San Lorenzo (fig. 145), San Luca (fig. 146), San
Matteo (fig. 147), San Giuseppe (fig. 148), San Giovanni Evangelista (fig. 149).
L'elenco
delle sante è più breve, forse perchè la parte del mattatore nelle committenze
di questo genere di ritratto fu assunta da Andrea Vaccaro, specialista
indiscusso nella realizzazione di sante in estasi orgasmiche con seni
prorompenti, debordanti da abissali scollature.
Partiamo,
assimilando a santa una Agar (fig. 150)
in collezione privata a New York, speculare ad una Sant'Agata in agonia (fig.
151) della Walpole Gallery di Londra. Le due immagini sono accomunate
dall'identica positura della mano, dal languido volgere degli occhi verso
l'alto, il famoso sott'in su, che, inaugurato dal divino Guido Reni, tanto successo ebbe nella pittura napoletana
negli anni Quaranta Cinquanta e dal seno generosamente e maliziosamente
esposto. Le due tele sono collocabili cronologicamente tra il 1650 ed il '55,
quando l'artista rendeva gli incarnati femminili simili a luminose porcellane,
circostanza evidenziata dall'acuto occhio del De Dominici, che giustamente
affermava:"grande imitatore del naturale, del quale però sceglie il più
bello e più nobile, come si vede nelle sue opere".
La
Sant'Agata appena esaminata, dai conclamati caratteri pacecchiani, ci permette
di confermare alla bottega le già esaminate tele con la stessa iconografia
(fig. 152) e (fig. 153).
Pienamente
stanzionesche sono le già descritte Santa Caterina, conservata a Bratislava
(fig. 154) e le due Sant'Orsola (fig. 155) e
(fig. 156). La Santa britannica, sacrificata, nei pressi di Colonia,
assieme ad 11.000 sue compagne vergini (a quell'epoca le vergini
abbondavano...) è la protagonista di una eccezionale tela (fig. 157), in
collezione privata napoletana, dominata da una tavolozza di colori luccicanti,
dal panno rosso fulvo che ricopre l'abito damascato della martire, al bianco
opaco ed al rosa cenere presenti nell'abbigliamento del carnefice, una delle
figure, come sottolineato dal Pacelli, tra le più interessanti della pittura
napoletana seicentesca, un giovane, di bellezza "cattiva", preso di
profilo con una fascia di seta tra i capelli dalle sfumature iridescenti. Un
tocco di realismo caravaggesco pervade la composizione: il sangue che copioso
sgorga dalla ferita provocata dalla freccia sul collo e che contrasta, con il
suo rosso rutilante, con il tenue incarnato roseo della santa, la quale, eleva gli
occhi al cielo ed affronta con serenità il suo martirio, sicura della bontà
delle sue decisioni, illuminata dalla fede che tutto trascende, placando e
spegnendo tutti i sentimenti e le sensazioni negative quali il dolore, la
sofferenza, l'umiliazione, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la
serenità dell'animo, la certezza di una scelta adamantina.
Una
originale, quanto inedita, Santa Irene
(fig. 158) costituisce, secondo il parere dell'antiquario Giacometti, una
riproposta da parte del De Rosa di un polittico, di secoli precedente e del
quale mostriamo un altro pannello (fig. 159) raffigurante la Madonna con il
Bambino, mentre un'altra scena rappresenta San Sebastiano. Se fosse confermata
tale ipotesi ci troveremo per la prima volta davanti ad un'opera del passato
riproposta dall'autore con l'imprinting delle sue fisionomie patognomoniche.
Una
Maddalena (fig. 160), in collezione De Vito, di splendida fattura, pervasa da
una sensuale malizia vaccariana, con il
seno generosamente discinto, a stento ricoperto dalle bionde trecce, è
l'ulteriore dimostrazione della consumata abilità dell'artista nel rendere
profano un soggetto sacro, qualità richiesta da una parte cospicua della
committenza laico borghese intorno alla metà del secolo XVII.
Ad
ubicazione sconosciuta è una Santa Agnese (fig. 161) implorante in uno
sfolgorio di colori dall'arancione al violetto, con la muta presenza
dell'agnello, mentre di Santa Dorotea possiamo proporre tre versioni una,
inedita, (fig. 162), in collezione privata a New York, con un piatto di fiori e
frutta in primo piano che pone il problema di identificare lo specialista in
natura morta che collabora con il De Rosa, una seconda (fig. 163), sempre
inedita, in collezione privata italiana,
nella quale compare il noto modello di fanciullo di cui abbiamo già discusso in
precedenza e, soprattutto il brano di natura morta, di nitida precisione
ottica, sembra partorito dal pennello di Luca Forte ed una terza (fig. 164 ) di qualità altissima, della Galleria
Nazionale di Praga, a lungo attribuita al Vouet, pervasa da un cromatismo
freddo e da una pittura liscia, precisa ed asciutta nella figura della Santa,
che può ragionevolmente far pensare, seguendo un suggerimento di Daniel, ad
un'opera in collaborazione con il patrigno, il quale avrebbe eseguito la Santa,
mentre Pacecco avrebbe realizzato l'angioletto e la volta celeste, che richiama
prepotentemente quella della celebre Flora (fig. 165) conservata a Vienna.
Appartengono
agli ultimi anni della produzione del De Rosa: una Sant'Agnese, di un purismo
integrale da Arcadia incorrotta, già
nel palazzo Imperiali a Francavilla Fontana, una fanciulla sorridente e
sensuale che ben incarna l'ideale femminile dell'artista ed una Santa Caterina, densa di preziosi
cromatismi, luccicante nella chiarezza delle superfici terse, conservata nel
convento di San Luigi a Bisceglie.
La
pittura di scene di martirio ebbe grande successo a Napoli nel quarto e quinto
decennio del secolo XVII. Gli autori più richiesti dalla committenza in questo
particolarissimo genere furono gli allievi della bottega di Aniello Falcone e
tra questi un posto di rilievo fu occupato da Micco Spadaro, assieme a Carlo
Coppola e Niccolò De Simone. Anche il De Rosa realizza più di una volta scene
di martirio, nelle quali però rifugge da qualsiasi compiacimento per i dettagli
più cruenti, spesso dipinti da altri artisti con accanimento riberiano.
"Nessun
orrore, nessuno strazio carnale, nessuna esaltata estasi visionaria"
(Pugliese), ma, costantemente, una pacata espressione nel volto del
protagonista e nei suoi stessi carnefici. I personaggi, anche nell'acme del
martirio, non manifestano dolore o raccapriccio, bensì esprimono un'emozione
gaia e serena, paghi di immolarsi per la propria fede, in quel particolare
stato di emozione narcisistica che accompagna sempre quel gesto eroico.
Ricordiamo
per un raffronto le già citate tele raffiguranti il martirio di San Gennaro
(fig. 166), di San Lorenzo, nella versione di Lizzanello (fig. 167) e di
Greenville (fig. 168), di San Pietro (fig. 169), di San Biagio (fig. 170), di
San Bartolomeo (fig. 171) e di Sant'Orsola (fig. 172).
Indirettamente
collegata al genere dei martirii possiamo considerare la già citata Apollo e
Marsia del Castello di Opocno (fig. 173), una tela di notevole qualità e di
argomento mitologico, ma non dimentichiamo che dal tema pagano derivò in ambito
cattolico il substrato del martirio di san Bartolomeo, anch'egli scorticato
vivo. L'opera, solo da poco nota agli studiosi, si serve di un modello, che
interpreta Apollo, già visto in numerose altre tele dell'artista: è il principe
troiano nel Giudizio di Paride (fig. 174) di Capodimonte, un angelo (fig. 175)
nel quadro della Sanità, Adone (fig. 176) nel dipinto conservato a Besancon.
L'artista non prende ispirazione dalla celebre elaborazione del Ribera, ripresa
magistralmente dal Giordano, in cui è tangibile il compiacimento masochistico
del vincitore, bensì interpreta l'episodio come ineluttabile ed imprime nel
volto di Apollo più compassione che ira, con una lettura del passo di Ovidio
impregnata dal sentimento della pietà.
Lo
stessa iconografia, ridotta a semifigure, la ritroviamo in una tela di
collezione Adanero a Madrid, segnalata da Perez Sanchez e assegnata al De Rosa
dallo studioso spagnolo, mentre Causa riteneva un autore più plausibile in
Salvator Rosa.
Gli anni d'oro della
maturità:1640-55
E
giungiamo così al decennio della produzione di più alto livello, quando, anche
nel campo della mai sopita collaborazione con il patrigno, interrotta soltanto con
la morte di questi nel 1650, il De Rosa prende il sopravvento, entrando a pieno
titolo tra gli stanzionisti, che si distinguono, nel composito panorama
artistico napoletano, per una pittura piacevole e discorsiva, ove l'impegno
formale cede spesso alla quantità ed alla rapidità, in un momento in cui, dopo
la rivoluzione pittoricistica esplosa intorno al 1635 in città, tutte le voci
dominanti presenti nell'antica capitale vicereale, da Artemisia al Monreale,
dal Lanfranco al Domenichino vengono assorbite e si amalgamano in un milieu
culturale nel quale solo l'occhio esperto è in grado di riconoscere le
variazioni minime di espressione tra i pittori, che prendono a copiarsi...
l'uno con l'altro.
Per
tutti gli anni Quaranta costante sarà l'influsso sulla pittura di Pacecco della
lezione del Domenichino con le sue
composizioni serene, i suoi personaggi idealizzati ed innocenti, il suo
linguaggio poetico etereo, che si trasmetterà sulle tele del Nostro le quali
presenteranno un equilibrio armonico della scena, un inconfondibile timbro
cromatico ed un ritmo fluido ed incisivo dei contorni dei personaggi, facendo
tesoro del paradigmatico dettame dell'artista bolognese:" il disegno dà
l'essere e non v'è che abbia forma fuor dei suoi termini precisi...il colore senza
disegno non ha sussistenza alcuna".
Pacecco
diviene così il fondatore di una corrente, di ispirazione classicistica e di
matrice reniana, tendente a stemperare le asperità del naturalismo caravaggesco
e ad a creare calde atmosfere di intimità familiare, rese con un estenuato addolcimento delle fisionomie e l'uso
costante di una tavolozza dai colori vivi e rassicuranti. Un movimento, pregno
di dignità culturale che, con non lievi
trasformazioni, giungerà fino al XVIII secolo, attraverso la lezione di Francesco
De Maria, che ne sarà un teorizzatore convinto, fino a Francesco De Mura,
assertore di un movimento accademico ed antibarocco. Un caposcuola, del purismo, anche se minore, alla ricerca di toni
cromatici lucenti, di atteggiamenti, di grazia manierata, leziosa ed a volte
stucchevole, con un'attenzione minuziosa alla resa dei particolari preziosi
delle vesti, produttore di incarnati alabastrini di bellezza idealizzata dalle
vivide tinte simili a maioliche policrome o a smalti cloisonné, con un gusto formale
assai prossimo agli esempi del Sassoferrato. Nei suoi dipinti di più alta
qualità il purismo dello stile giunge
ad una tale sublimazione che l'evento narrato viene trasposto nei limiti di
cadenze musicali di puro impreziosimento cromatico. Con l'occhio vigile e
attento sulla produzione, non solo di Stanzione, ma anche di Vouet, Artemisia,
Cozza e Mellin. Immanente, come un nume tutelare, su tutta la produzione
dell'artista "la grande ombra del Domenichino, dall'alto dei pennacchi del
Tesoro di San Gennaro, a Napoli, ma soprattutto da Palazzo Farnese a Roma e
dall'Abbazia di Grottaferrata" (Causa). Un tipico dipinto di quegli anni,
dai colori luminosi come porcellana, è costituito dalla Sacra Famiglia col
Battista fanciullo (fig. 177), già in collezione privata a Solofra.
Divenne
all'ora uno degli artisti più ricercati dagli ordini religiosi e dalle famiglie
nobili, sia a Napoli che nel viceregno,
come testimoniato ampiamente dal De Dominici: "In case particolari poi ve
ne sono infinite, ma i palagi del Duca di Maddaloni, del principe di Tarsia,
del principe di Sonnino e di tutti i titolati son pieni di sue opere".
Le sue
quotazioni salirono anno dopo anno, come hanno evidenziato gli ancora troppo
scarsi documenti di pagamento.
Assunse
un ruolo di protagonista, divenendo uno dei dominatori nell'affollato limbo di
"provinciali orbitanti", che si contendevano commissioni pubbliche e
lavori privati. Egli fu sempre molto richiesto da una clientela laica,
innamorata delle sue figure femminili, generosamente nude, di ricercata
bellezza interpretata da modelle "dotate di fascino e grazia tipicamente
partenopea di colorito bruno nelle carni e di capelli neri", come nel
grande, non solo di dimensioni, quadro
raffigurante il Ritrovamento di Mosè (fig. 178), uno dei capolavori
dell'artista, proveniente dagli Stati Uniti, museo dell'Università di Santa
Barbara in California ed in vendita di recente presso l'antiquario Amodio, un
tripudio di" fanciulle elegantemente vestite di stoffe preziose, rasi,
sete, damaschi, che indossano oggetti d'oro, collane di perle, orecchini e
altri gioielli di valore e monili di corallo rosso, un prodotto tipico della
costa vesuviana" (Pacelli).
Un
quadro, il Ritrovamento di Mosè, di qualità e dimensioni sovrapponibili al
Massacro degli innocenti (fig. 179), capolavoro del De Rosa conservato al museo
di Filadelfia, una tela, per quanto costituita da un collage di invenzioni
stanzionesche, eseguita con negli occhi
la grande pala del Reni della Pinacoteca di Bologna. La tavolozza è dominata da
una tonalità dorata e da un'ombra trasparente. Il dipinto trasmette
all'osservatore una tempesta di emozioni. Sembra quasi di sentire il grido
lacerante delle madri che vedono strapparsi dal seno le proprie creature
innocenti. Folle e crudele è esploso un sadico meccanismo di distruzione che
pure si manifesta in una composizione raccolta senza romperne i ritmi, le
misure e la simmetria. Donne e sicari sono animati da una cieca energia, mentre
a terra cadono già straziati i primi cadaverini. Le bocche spalancate delle
madri emettono un suono gelido, marmoreo, che rimbomba all'infinito e sembra
raccogliere in sé tutti i dolori del mondo.
La
scena è drammatica e commovente, ma una regia ineffabile sembra bloccare i
gesti dei protagonisti in una staticità senza luogo e senza tempo, mentre il
potente dinamismo dell'episodio è colto in un'ottica che riduce il movimento a
fissità, avvolta in una vertigine che tutto risucchia in un orrore infinito,
che congela i nostri sensi e le nostre emozioni, ci fa trattenere il respiro,
quasi partecipi della tragedia che si compie sotto i nostri occhi.
Della
tela esistono più redazioni: una, di altissima qualità, nella chiesa parigina
di Santa Margherita (fig. 180), una seconda, con varianti, ella Quadreria della
chiesa dell'Incoronata del Buon Consiglio (fig. 181), della quale mostriamo
anche due particolari (fig. 182) e (fig. 183) ed una terza, passata in asta da
Christie, (fig. 184), nella quale l'iconografia viene esaltata in un dettaglio
di estenuata drammaticità.
Contigua
cronologicamente alle tele precedenti è l'Andata al Calvario (fig. 185),
composizione di grande espressività, che presenta la stessa tavolozza di colori
freddi e la stessa modalità di raggruppamento delle figure, come fu giustamente
evidenziato dall' acuto occhio dell' Ortolani: "movimentati aggruppamenti
barocchi".
Un
cielo luminoso domina la scena descritta con profusione di accenti
naturalistici, dalla fronte rugosa del Cireneo allo sterno prominente
dell'aguzzino, avvolto in un gioco d'ombra e penombra compiutamente
caravaggesco. La tela proviene dalla raccolta di Alfonso d'Avalos, il
leggendario marchese del Vasto, nobile guerriero, ma soprattutto raffinato
intenditore d'arte e di belle donne, che amava, non solo biblicamente, ma anche
con gli occhi, per cui voleva anche che fossero degnamente raffigurate nella
sua famosissima pinacoteca, esemplare del gusto borghese partenopeo degli anni
di metà secolo.
Tra
queste vi è il Giudizio di Paride (fig. 186), dove le tre dee, nature,
espongono le loro grazie, a dir la verità eccessivamente rinascimentali ed
ipercolesterolemiche per un occhio moderno, al giudizio del principe troiano.
Da questo quadro derivò probabilmente la leggenda, riferita dal De Dominici e
ripresa anche da studiosi moderni, in base alla quale Pacecco si servisse come
modelle per i suoi dipinti delle sorelle prima (Diana, Lucrezia e Maria Grazia)
e delle nipoti poi (Anna, Speranza e Caterina), tutte, notoriamente, di una
bellezza devastante, a tal punto da meritare il soprannome di tre Grazie. Se la
cosa è possibile e probabile per le sorelle è pura fantasia per le nipoti, dopo
che il Prota Giurleo ha identificato le loro date di nascita, addirittura il
1652 per la più giovane delle tre.
Il tema
mitologico che sottende al Giudizio di Paride permette all'artista di meglio
esprimere la sua inventiva, ben espressa con eleganza di gesti ed armonia di
sentimenti. Uno spadariano cielo azzurro, solcato da nuvole orlate di rosa, ci
rammenta con malinconia un nitore atmosferico oramai dimenticato, scalzato da
pioggie acide e buchi d'ozono. Le ombre scompaiono completamente, mentre gli
incarnati assumono la lucentezza della più preziosa porcellana.Un paragone è
d'obbligo con l'altra redazione del Giudizio di Paride (fig. 187), che parte
della critica propone di trasferire nel catalogo della Gentileschi e che il
Causa, dopo essere stato attribuito ad altri artisti, anche di gran nome come
il Vouet, collocò nel catalogo del De Rosa, in un momento culminante del suo
periodo classicista, per la chiarezza dei colori, per la delicatezza delle
anatomie femminili e per la dolcezza dell'impianto compositivo.
Sempre
un tema pagano è alla base del Bagno di Diana (fig. 188), a lungo a Palazzo
Reale ed oggi a Capodimonte, noto anche come Diana ed Atteone, un pretesto
mitologico per mostrarci dodici irresistibili fanciulle in pose leziose e
conturbanti, di una modernità sconcertante, coperte da qualche raro panneggio,
unicamente per sfoggio d'abilità di definizione del pittore.
Tra i
dipinti più famosi dell'artista, essendo stato in mostra sia nel 1938 che nel
1972, raffigura il noto episodio di Diana e le sue ninfe le quali, mentre si
bagnano e si trastullano tranquillamente alla fonte, vengono spiate dal
cacciatore Atteone che, scoperto dalla dea, viene da costei trasformato in
cervo e dilaniato dai suoi stessi cani.
Il
dipinto è la più genuina espressione di un classicismo solare e gaio che,
ispirato dal Domenichino, poggia sui colori freddi che definiscono i corpi
vellutati delle ninfe attraverso il pennello malizioso dell'artista, che
indugia sui nudi femminili per la gioia degli occhi voluttuosi del committente.
Stranamente
l'Ortolani non apprezzò a sufficienza il vigoroso messaggio di voluttà emanato
dai giovani corpi delle fanciulle e parlò di "tornita fiacchezza dei nudi
di maniera", trovando un'eco successiva nella Rocco, che sottolineò nei
nudi una chiara impostazione di stampo purista.
A
nostro parere la modernità del dipinto lascia stupiti, partendo dalla
constatazione che le figure femminili sembrano tutte riprese dal vero con
particolare cura; sono ritratti di donne in carne ed ossa, non mere
idealizzazioni; in particolare la graziosa fanciulla di schiena in primo piano
sulla destra sembra precorrere di secoli le intuizioni di Ingres, per il neoclassico voluttuoso purismo da cui
traspare in modo pungente la moderna emozione dal vivo, nella genuinità della
posa e nella freschezza del dettaglio ispirativo. E cosa dire dell'incantevole
giovinetta (fig. 189) che ci sfugge con lo sguardo sulla sinistra della composizione,
dalla pettinatura che sembra uscita da un accorsato coiffeur e dal seno appena
accennato. Una creatura diafana che sembra nata in un epoca in cui imperino le
diete dimagranti e non le forme opulente care a Giorgione e Tiziano, una icona
dal volto angelicato e dal corpo di una top model. E' certamente la modella
della Susanna e i vecchioni (fig. 190) e forse la misteriosa Flora (fig. 191)
del museo di Vienna.
Un
altro soggetto mitologico, proveniente dalla collezione d'Avalos e descritto
come gli altri nell'inventario stilato nel 1862, al momento della donazione
della raccolta allo Stato, è Venere e Marte (fig. 192). Dobbiamo ricordare che
il nobile marchese in quell'anno volle legare alla pinacoteca di Capodimonte la
sua ampia e preziosa collezione, rimasta poi sciaguratamente per oltre un
secolo nei depositi. Egli intese con il suo encomiabile gesto congiungere il
nome della sua casata, che tanto amore nutriva per le arti figurative,
all'eternità rappresentata dal museo, segno distintivo di un mecenatismo e di
un'apertura mentale, di cui purtroppo si sono perse le tracce. La tela in esame
è giocata su colori chiari e rassicuranti, che ben esprimono il momento
culminante del colpo di fulmine tra le due divinità, umanizzate in un ambiente
di sano sapore campestre. Gli amorini collaborano attivamente allo sboccio ed
al materializzarsi del sentimento, in particolare, come fu sottolineato dalla
Rocco, il più birbante che sta sciogliendo i calzari a Marte è un prelievo
letterale dalla Toletta di Venere di Annibale Carracci, conservata alla
National Gallery di Washington.
Pendant
della tela precedente una Venere dormiente scoperta da un satiro (fig. 193) ,
anche esso nato come elegante sovrapporta.
La
modella è una delle ninfe del Bagno di Diana (fig. 194) e la composizione è
imperniata sull'uso di colori laccati, traslucidi e fortemente contrastanti,
dal rosso cardinalizio dei tendaggi al blu metallico del prezioso panno su cui
è adagiata la dea, dall'incarnato bianchissimo che fa risaltare la carnagione del
satiro, paonazzo per il desiderio.
Il
dipinto è impregnato dalla poetica del Domenichino e prende ispirazione da
celebri lavori dei Carracci, conosciuti in area napoletana attraverso stampe ed
incisioni, particolari che si apprezzano, come è stato evidenziato da Leone de
Castris, nella figura della dea distesa
dolcemente, col braccio rialzato ad esporre meglio la grazia del seno appena
accennato e nel particolare posizionamento della parte inferiore del corpo e delle
gambe.
I
personaggi in primo piano dominano la scena, lasciando al panorama un piccolo
luminoso scorcio, il tono è scherzoso: dal sorriso ammiccante del satiro alla
stessa Venere, che guarda ad occhi chiusi e sembra accettare volentieri le
profferte d'amore e pregustare con compiacimento le gioie dell'amplesso
imminente. Nel frattempo i due amorini, complici, dal corpicciuolo delizioso,
emanano grazia e gentilezza e ben appagano, in sintonia col corpo nudo della
dea e quello muscoloso ed agile del satiro, i gusti di quella particolare
committenza desiderosa di un linguaggio profano, esaltato da una sensualità ben
esposta.
Sempre
proveniente dalla collezione d'Avalos, una Didone abbandonata (fig. 195) ci
rammenta la storia dell'eroe troiano Enea, il quale, per volere degli dei, fu
costretto ad abbandonare Didone, dopo aver goduto della sua ospitalità e del
suo amore e riprendere il mare per lidi lontani, dove alti destini lo
attendevano. Tela, dalla marcata impronta classicista, di grandi dimensioni e
di soggetto insolito per l'artista, che forse si ispirò ad un celebre ciclo di
storie della Gerusalemme liberata commissionato al Finoglio dagli Acquaviva di
Conversano. Il dipinto è privo di ombre, una caratteristica costante negli anni
della maturità dell'artista ed è venata da una piccola ma significativa nota
naturalistica nelle appena accennate lacrime che intristiscono il volto della sventurata regina.
Oltre
al soggetto mitologico Pacecco dedicò una parte del suo lavoro anche al
soggetto biblico ed al racconto dei Vangeli. Tra questi un Sacrificio nel
tempio (fig. 196), conservato nel Castello di Opocno, incentrato su una serie
di semifigure attorno al Bambino, che è lo stesso della tela di Gravina di
Puglia (fig. 197), mentre altri personaggi presentano palesi somiglianze con
altre tele del De Rosa; raffronti calzanti vanno inoltre fatti verso il Vescovo
che battezza un bimbo, esitato in un'asta Christie's del 1980 e con il
Battesimo di Santa Candida (fig. 198),
al quale il dipinto in esame va accostato anche cronologicamente.
Un
altro richiamo alle sacre scritture è costituito dalla Scena biblica (fig. 199)
in collezione privata ad Ospedaletti, nella quale sulla destra della
composizione si staglia poderoso un personaggio misterioso, probabilmente il
committente, rappresentato con la forza e la vivacità di un ritratto.
Un Gesù
e l'adultera di collezione privata napoletana (fig. 200), pubblicato dal
Pacelli, prima come Stanzione, è un classico esempio del pennello del Pacecco
intorno al 1645, quando egli imprime nelle sue tele una iridescenza di colori
ed una materia cromatica densa nella definizione dei preziosi abiti dei personaggi rappresentati. Il lato
destro della composizione è il segno tangibile del persistere della lezione
naturalistica del patrigno, anche negli anni di massima osservazione al dettato
stanzionesco, con la resa quasi caravaggesca delle armature e degli elmi degli
armigeri.
In
prossimità cronologica con la tela testé descritta si colloca la originale
composizione (fig. 201) nella quale il duca di Guisa riceve lo scettro dalla
Madonna
implorata da Ludovico da Tolosa, della quale abbiamo già presentato una modesta
copia di bottega (fig. 202). E' l'unico dipinto del Nostro che rievoca con
certosina precisione un episodio della storia napoletana. Per l'episodio
illustrato l'opera va collocata cronologicamente tra il 15 novembre 1647, data
dello sbarco nella nostra città del duca e l'aprile del 1648, quando il nobile
francese conclude miseramente il suo sogno di potere. Il quadro, luminosissimo
per gli sgargianti colori dei protagonisti, conferma il rango elevato della
committenza dell'artista: lo stesso duca o i nobili che lo seguirono nella sua
effimera avventura. La tavolozza è dominata dal contrasto tra colori caldi e luccicanti, dai rossi agli
arancioni che definiscono il sontuoso mantello
del titolato, indossato con eleganza sulla sua uniforme verde
appesantita da decorazioni di ordini cavallereschi e collari vari, mentre San
Ludovico da Tolosa, scambiato da alcuni critici erroneamente con l'onnipresente
San Gennaro, è identificabile per il sontuoso manto con i gigli angioini che
ricopre il primitivo modesto saio francescano.
Un
quadro spettacolare del periodo d'oro è Giuseppe e la moglie di Putifarre (fig.
203), già in collezione Molinari Pradelli, nel quale, oltre ai colori rutilanti
delle vesti, leggiamo le emozioni espresse dai volti dei protagonisti: morboso
desiderio sessuale nella donna, ostinata ritrosia nel giovane, che non vuole
tradire la fiducia del padrone.
Un
capolavoro assoluto del nostro Seicento, oggi purtroppo ad ubicazione
sconosciuta.
La
Susanna e i vecchioni della pinacoteca di Capodimonte (fig. 204) ha come
protagonista la modella preferita di Pacecco, forse una delle sue sorelle, che abbiamo già conosciuto tra le
ninfe nel Bagno di Diana (fig. 205), la
quale dà le sue fattezze alla casta Susanna. L'episodio è tra i più noti
raccontati dalla Bibbia e costituisce una rivisitazione in chiave di naturalismo
classicizzato delle tele dello Stanzione e del Reni dedicate a questa diffusa
iconografia. Il dipinto, erroneamente considerato da alcuni studiosi tra i più
antichi dell'artista, è viceversa collocabile cronologicamente intorno ai primi
anni Quaranta, come ben si evince dalla preziosa veste damascata di uno dei
vecchioni, il più eccitato, eseguito sotto l'imprinting di Artemisia
Gentileschi, indiscussa autorità nel campo della resa cromatica raffinata. Lo
sfondo boschivo richiama, nella definizione del fogliame, il pennello del
Gargiulo e collabora a creare un'aria di mistero e di atemporalità alla scena.
I personaggi parlano attraverso messaggi espressi perentoriamente con le mani, con una gestualità tutta
partenopea, e, possiamo intuire, anche arricchita da un vernacolo stretto,
colorito ed onomatopeico.
In
collezioni straniere troviamo altri due capolavori della maturità di Pacecco,
una prorompente Lucrezia (fig. 206) che offre impavida il prosperoso seno al
pugnale, conservata ab antico nella raccolta della famiglia Rochlitz ed un San
Sebastiano curato dalle pie donne (fig. 207), in collezione privata ad Utrecht,
attribuito in passato al De Rubeis, che reclama a gran voce la paternità del De
Rosa.
Concludiamo
la nostra carrellata con la Flora (fig. 208), conservata nel Kunsthistorisches Museum
di Vienna, della quale presentiamo una inedita replica autografa di altissima
qualità dell'antiquario Currier di Napoli (fig. 209), che si differenzia
dall'originale unicamente per la presenza di un nastrino nella ciocca dei
capelli.
Il
dipinto, eseguito con la precisione di un ritratto, faceva probabilmente parte
di una serie raffigurante le quattro stagioni ed il nostro simboleggiava, con i
suoi variopinti fiori, lo sbocciare della primavera.
Tra le
fonti ispirative privilegiate della tela la pittura di Vouet, celebre
ritrattista romano, esponente di spicco a Roma della corrente dei caravaggisti
riformati, presente nella nostra città in chiese e nelle più importanti
collezioni.
La
fanciulla era una tra le modelle preferite di Pacecco, il suo volto con il
caratteristico nasino, leggermente irregolare, è simile a quello di più di una ninfa del Bagno di
Diana.
Il
pennello dell'artista ha indugiato a lungo sulla tela alla ricerca di raffinati
giochi di colore e di effetti luminosi, senza tralasciare qualche appena
accennato ricordo naturalista sulla guancia sinistra della Flora.
Il
cestino dei fiori, in equilibrio instabile, presuppone la collaborazione di uno
specialista, per la minuziosa indagine descrittiva dei petali e per la resa
ottica delle singole specie raffigurate,
eseguita con preciso realismo.
L'avventura
terrena di Pacecco con grande probabilità si conclude nel 1656, quando la
peste, assieme a circa metà della popolazione napoletana, spazza via una intera
generazione di pittori. Pochi si salvarono, o perchè lontani dalla città o
perchè, come Micco Spadaro, al sicuro tra le accoglienti e sbarrate mura della
Certosa di San Martino. Invano si è cercato e si cercherà il suo documento di
morte, in quei terribili giorni i cadaveri venivano ammassati in fretta e
seppelliti in gigantesche fosse comuni.
Con la
morte la fama dell'artista lentamente cresce e senza mai toccare vette supreme,
mantiene costantemente un posto di rilievo nel variegato panorama della pittura
napoletana del XVII secolo.
Speriamo
che questa monografia, contribuendo a conoscerlo più approfonditamente,
contribuisca a collocarlo definitivamente tra i più abili artisti del secolo
d'oro.
Al
termine di questo lavoro mi preme ringraziare in maniera particolare gli amici
ingegneri Dante Caporali e Ciro Piscopo per il fondamentale aiuto per
l'impaginazione del testo e per mettere in orbita... sul web la monografia ed
inoltre gli antiquari Chicco Giacometti e Dario Porcini per i preziosi consigli
e per il materiale fotografico gentilmente messomi a disposizione.
Achille dellaRagione a.dellaragione@tin.it
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