Pacecco De Rosa

opera completa

 

di Achille della Ragione

 

INDICE

 

Gli esordi e la fortuna critica

 

Periodo giovanile

 

Rapporti con Filippo Vitale

 

Opere di bottega 

 

Opere perdute

 

Rapporti di contiguità con altri artisti

Iconografia sacra                             

 

Santi e sante                                       

 

Gli anni d'oro della maturità:1640-55         

 

Bibliografia                                        

 

 

Gli esordi e la fortuna critica

 

Molto deve la nobile arte della pittura a Pacecco De Rosa.

Con questo giudizio lusinghiero il De Dominici, celebre biografo settecentesco, al quale siamo debitori della quasi totalità delle informazioni sui nostri pittori seicenteschi, cominciava il suo capitolo sull'artista. Oggi a distanza di secoli attendiamo ancora una monografia completa sul pittore, nonostante la sua veste di caposcuola di una corrente, per quanto minore: il purismo, la sua presenza massiccia sul mercato antiquariale e la notevole e qualificata bibliografia sull'argomento. Fig. 1

Francesco De Rosa, detto Pacecco, nasce a Napoli il 17 (o il 27) dicembre 1607 da Tommaso e Caterina De Mauro ed attraverso una ragnatela molto complessa, scoperta grazie alle diligenti ricerche del Prota Giurleo, ha rapporti di parentela con molti pittori attivi in città nella prima metà del XVII secolo (fig. 1). E' fratello della famosa Annella, della quale pubblichiamo un rarissimo ritratto

(fig. 2), moglie di Agostino Beltrano e secondo le malelingue "amica" di Massimo Stanzione, mentre un'altra sorella è moglie di Juan Do.  La madre, diventata vedova, sposa in seconde nozze Filippo Vitale, presso la cui bottega il Nostro apprese i primi rudimenti del mestiere. Il padre Tommaso, anch'egli pittore, ancora tutto da scoprire, del quale ci è noto solo un Martirio di S. Erasmo del 1601, conservato nella chiesa dello Spirito Santo, era in rapporto con Venceslao Coebergher e ciò potrebbe giustificare a livello inconscio certe nostalgie puriste di timbro manieristico che si riscontrano lungo tutta l'opera di Pacecco.

Non conosciamo, a differenza della sorella Annella, ritratti sicuri di Pacecco, il quale non aveva il vezzo di rappresentarsi nei suoi dipinti. Se  fosse sua, come sostiene Bologna, l'eccezionale tela di Giuseppe fanciullo che interpreta i sogni del faraone (fig. 3-4), documentata nel 1707 in Palazzo Orsini a Gravina e passata nell'asta Porro nel 2003, oggi assegnata però dalla critica a Francesco Guarino, potremmo facilmente riconoscere il nostro pittore nel beffardo signore, dai baffi prominenti, in primo piano alla destra del faraone; come pure potremmo identificarlo nel signore a sinistra della composizione nel Martirio di San Biagio (fig. 5), forse replica di bottega. Probabilmente era di belle sembianze, a voler dar credito al De Dominici, che descriveva le sue sorelle, Diana, Maria Grazia e Lucrezia, di una bellezza fuori del comune, da meritarsi il soprannome  " Le Tre grazie", titolo ereditato dalle tre figliole di una di loro. Spesso le modelle sfolgoranti riprese "nature" nelle composizioni degli anni Quaranta, i più felici per la produzione profana dell'artista, erano le sue sorelle e secondo alcuni le sue nipoti.

Le fonti antiche e tra queste lo stesso De Dominici, suggestionate dalla convergenza di stile tra i due pittori, ritenevano il De Rosa allievo di Massimo Stanzione, ma oggi la critica ritiene che, più che un vero e proprio discepolato, il "divino Guido" per Pacecco abbia costituito un modello ispirativo. Ben più importante fu l'alunnato presso il patrigno, la cui influenza è molto marcata in alcune opere come la giovanile Deposizione (fig. 6), conservata al museo di San Martino e derivata dal noto dipinto del Vitale sito nella chiesa di S. Maria Regina Coeli (fig. 7). Lo stesso  soggetto iconografico è stato trattato  altre due volte dal De Rosa, in una tela più antica (fig. 8) conservata nella quadreria del Gesù Nuovo ed in una (fig. 9 e 9 bis), firmata e datata 1646, posta sulla parete laterale sinistra della cappella del Crocifisso (prima cappella destra) nella chiesa della Nunziatella, dipinto lontanissimo dallo stile del Nostro, a tal punto che il Galante lo  attribuì a Ludovico Mazzante, mentre il De Dominici, che l'assegnava correttamente, lo descriveva come dipinto" ad imitazione dell'incomparabile Annibal Carracci".

Periodo giovanile

 

 

Periodo giovanile

 

L'attività giovnile di Pacecco è difficile da classificare per la mancanza di documenti di pagamento fino al 1636, data di esecuzione del San Nicola di Bari ed il garzone Basilio (fig. 10) conservato nella sacrestia piccola della Certosa di San Martino, un'opera già matura in cui l'influsso del Domenichino, a Napoli dal 1631, e dello Stanzione sono evidenti. La veste del Santo e dello stesso garzone sono definite con grande accuratezza nei colori e nei giochi di luce, segno indefettibile che la lezione della Gentileschi, in città dal 1627, è stata pienamente recepita dal De Rosa. Da notare che il fanciullino che fa da modello nel quadro è lo stesso che compare nel S. Matteo del Museo di Capodimonte (fig. 12), che offre un cesto di frutta ad una santa Dorotea giovinetta (fig. 13) in una inedita tela ad ubicazione sconosciuta, sostiene il battezzando nel quadro con San Biagio (fig. 14) dell'antiquario Lumina di Bergamo e solleva una cesta di piccioni nell'Adorazione dei pastori di Montecitorio (fig. 15). A questa tela va collegato, di poco successivo, il dipinto omonimo conservato a Milano nella chiesa di San Nicolao (fig. 11), a lungo attribuito a Stanzione dalle fonti e dalla critica ed assegnato convincentemente al De Rosa dal Willette.

Sempre a San Martino, e collocabile intorno al 1635, è conservata nel Quarto del Priore una Madonna col Bambino (fig. 16) assegnata a Pacecco dal Fittipaldi, in contrasto con il parere di Spinosa più propenso a vedere il pennello di Filippo Vitale. Di eguale iconografia vi è la splendida tela conservata nella chiesa di Santa Marta (fig. 17), dominata da un violento gioco di ombre in superficie, attribuita a Pacecco dal Causa, poi collocata nel catalogo del Guarino dal Bologna ed infine di nuovo data a De Rosa da Spinosa. Vicina a questi dipinti è la tela della Galleria nazionale di Praga (fig. 18) Sant'Antonio con Bambino.

Sicuramente antica è anche la Madonna della Purità, (fig. 19) conservata nella chiesa del Divino amore, intrisa da un elemento arcaizzante nel fondo dorato affollato di cherubini, motivo ancora caro agli ultimi cinquecentisti napoletani; la tela costituisce un  prototipo a cui seguiranno negli anni successivi numerose repliche autografe con varianti, come quelle presenti nella chiesa dei Cappuccini a Solofra (fig. 20),  o nella sacrestia di San Potito (fig. 21) od altre meno note, nella chiesa delle Trentatrè  (fig. 22), nella chiesa di Cosma e Damiano a Conversano, nella 1° cappella sinistra della Annunziata, nel museo Lazaro Galdiano di Madrid (fig. 23), nel succorpo della Cattedrale di Salerno (fig. 24) ed il tondo di S. Maria la Nova.

Bisogna essere molto attenti nell'attribuzione, perchè la stessa iconografia è stata trattata anche da altri artisti in maniera sovrapponibile, basta osservare questa Madonna della Purità (fig. 25) firmata da Giacinto De Populo della chiesa della Sapienza per convincersene.

Sicuramente di bottega è la Madonna con Bambino di collezione d'Avalos (fig. 26), espressione di un classicismo bonario ed artificioso, mentre ai limiti dell'autografia possiamo collocare la Madonna del latte (fig. 27) di privata raccolta napoletana e la tela dell'Istituto Denza di Napoli.

 

 

Rapporti con Filippo Vitale

 

Tutti i quadri della fase giovanile pongono il problema, ancora insoluto, di distinguere il pennello di Francesco da quello del patrigno, in un periodo, certamente durato molti anni, in cui i due probabilmente collaboravano a quattro mani. A dimostrazione di questo sodalizio pochi ma significativi documenti di pagamento, tra i quali uno del 1645 in cui Pacecco gira al patrigno del denaro ricevuto per una sua commissione, mentre alcuni anni prima aveva trasferito a Carlo, figlio del Vitale, i trenta ducati di una polizza. Tale sodalizio durò fino alla morte di Filippo, nel 1650, ma a partire dagli anni Quaranta, gli anni d'oro nella produzione di Pacecco, fu lui ad influenzare il più anziano pittore, a tal punto da dover ricostruire un periodo pacecchiano per Vitale. La conferma della consistenza della problematica si è avuta nel momento in cui è comparsa sul mercato una coppia di dipinti di notevole qualità: Una fuga di Loth da Sodoma (fig. 28) ed un Incontro di Rachele e Giacobbe (fig. 29), probabilmente il quadro descritto dal De Dominici (Vol. III, pag. 102) nella collezione del duca di Maddaloni, entrambi assegnati al De Rosa, fino a quando il restauro della prima tela, dai caratteri pacecchiani inconfondibili, non ha messo in luce la firma e la data di esecuzione: "Philippus V./F. 1650". Dello stesso periodo, e sempre del pennello del Vitale, il Loth e le figlie (fig. 30) di collezione privata napoletana.

Altri dipinti che sono stati restituiti al Vitale, appartenenti a questa fase finale della sua attività sono: una Pietà con angeli piangenti, già sul mercato antiquariale di Reggio Emilia, un Martirio di S. Orsola in una privata raccolta londinese ed un Loth e le figlie, di collezione privata napoletana, presentata alla mostra dell'antiquariato del 1989 e vicina ai modi della Pietà conservata nella chiesa di  Santa Maria Regina Coeli.

In attesa di documenti di pagamento, al momento molto scarsi per entrambi e di opere firmate e datate, vogliamo proporre una serie di dipinti, spesso trattanti lo stesso tema, a dimostrare il filo sottile che divide i due artisti, che in qualche opera hanno sicuramente lavorato in coppia.

Cominciamo con due quadri di ampia collaborazione, il primo, assegnato dalle fonti al De Rosa, reclama a gran voce la mano del Vitale, ci riferiamo alla Madonna e San Carlo Borromeo della chiesa di San Domenico (fig. 31), nel quale ci troviamo di fronte, come sottolineato dal Pacelli,  ad una iconografia del tutto inedita e stravolgente, al di fuori dei severi dettami della chiesa, che relega san Domenico a figura secondaria ed investe san Carlo Borromeo di un ruolo di primo piano. In questa opera, come ha evidenziato il Lattuada, il De Rosa tenta di "modernizzare l'arcaica staticità tipica di Vitale mediante l'addolcimento dei contorni del volto della Vergine e la più fluida resa volumetrica dei suoi panneggi rispetto a quelli delle altre figure".  Il secondo, una Gloria di S. Antonio  (fig. 32), conservato nella eponima Arciconfraternita in San Lorenzo è dominato da una cascata di angioletti, che si ripropongono sovrapponibili a quelli del celebre Angelo custode della Pietà dei turchini o dell'inedito "collega" (fig. 33) sito, lontano dagli occhi del visitatore, nella seconda sala antistante al presepe nella chiesa del Gesù vecchio.

A questo momento di stretta collaborazione tra i due artisti, che cominciano ad operare una feconda sintesi tra gli antichi retaggi tardo manieristi, e le nuove mode del caravaggismo e dello stanzionismo, appartengono una serie di tele ruotanti attorno al martirio di S. Barbara. La prima, già proprietà Longhi ed identificata dal Bologna, di cui esiste una replica con varianti in  una raccolta napoletana ed una terza, pubblicata dal De Vito come soggetto non identificato (fig. 34) in collezione privata.

Vediamo ora, in rapida successione, sul  tema del martirio di S. Barbara, seguendo il parere del Bologna, tre dipinti: il primo (fig. 35) di Filippo Vitale, in collezione Brindisi a Napoli, il secondo (fig. 36) copia da Vitale, in collezione privata napoletana ed il terzo (fig. 37) di Pacecco, già in una raccolta romana.

Sull'iconografia della Maddalena penitente, sempre secondo Bologna, (anzi per essere più precisi della S. Maria Egiziaca), mettiamo ora a confronto tre tele: la prima (fig. 38) di Vitale, conservata nei depositi di Capodimonte, la seconda (fig. 39) del De Rosa di collezione privata napoletana e la terza (fig. 40), di collezione Lettieri, con caratteri border line. Sul tema della Maddalena segnaliamo una tela inedita (fig. 41), conservata nella Badia di Cava, in cui sono presenti, anche se larvatamente, caratteri vaccariani.

Le differenze di stile e di tavolozza balzano agli occhi con evidenza e servono da bussola per percorrere un arduo sentiero attributivo avvolto ancora, più da ombre che da luce.

Sul tema del Riposo nella fuga in Egitto esistono numerose repliche con varianti che permettono di differenziare la predominanza dello stile del Vitale, come nel caso della tela di collezione D'Errico (fig. 42) o di Pacecco. Nella tela materana, attribuita a lungo al De Rosa, alcuni dettagli significativi, sottolineati dal Lattuada, impongono di assegnarla al più anziano pittore: dal gusto per le forme solide e larghe al più pungente realismo che permea alcuni particolari, come il Bambinello attaccato al capezzolo o la sfumata e scarna definizione del volto di Giuseppe. A questa tela va avvicinata, per lo stile e per l'impianto, il Riposo nella fuga in Egitto (fig. 43) dello Snite museum of art di Notre Dame negli Stati Uniti, attribuita ad Onofrio Palumbo da Stefano Causa e più probabilmente attribuibile al Vitale.

Caratteristiche dello stile di Pacecco sono le seguenti altre redazioni: la prima (fig. 44) in collezione privata romana, della quale esistono repliche e copie di bottega, in cui "le straordinarie fisionomie della Vergine, di Giuseppe e dell'angelo, che offre frutti a Gesù Bambino, spiccano nell'impaginazione a mezza figura, stagliate nell'oscurità del bosco e immerse nella luce del tramonto, accesa dai vivi contrappunti degli abiti" (Lattuada). Seguono l'inedita tela conservata presso la Corte d'Appello di Napoli (fig. 45), la più pacata redazione del museo di Cosenza (fig. 46) o l'ultima, di collezione privata napoletana, (fig. 47), in cui spiccano maggiormente le differenze di stile tra i due artisti., se confrontata con la gemella (fig. 48) in maniera lampante del patrigno, autore anche della Madonna del latte (fig. 49) presente sul mercato antiquariale napoletano, mentre di Pacecco è senza dubbio la Sacra famiglia con Vergine allattante presentata alla mostra antiquaria di Castel Sant'Elmo del 1989.

 

 

Opere di bottega

 

La sua bottega sicuramente poteva contare su allievi di un certo livello, per cui un'ulteriore difficoltà è costituita dal discernere gli autografi dalle repliche dei collaboratori. Soprattutto nella produzione provinciale la critica, in alternativa all'ipotesi di una marcata involuzione stilistica, ha creato figure di convenzione, come il Maestro di Bovino, al quale è stato a lungo attribuito il Martirio di San Pietro (fig. 50), conservato nella omonima cittadina pugliese.

Tra gli ancora sconosciuti alla critica allievi della bottega proponiamo il nome di Philippus Zellus, che firma e data, 1654, una Vergine tra i Santi Nicola e Gaetano (fig. 51), dai caratteri spiccatamente pacecchiani, conservata nella Basilica di Santa Maria del Lauro a Meta di Sorrento. E' il suo primo allievo plausibile, perchè Filippo Donzelli, indicato come tale dal Causa, è da noi conosciuto unicamente per un San Michele, firmato, nella chiesa di San Vincenzo alla Sanità, dai chiari caratteri falconiani e per risultare iscritto alla Corporazione dei pittori napoletani nel 1665.

Opere sicuramente di bottega sono la S. Agata (fig. 52) presentata alla mostra dei Tre secoli della pittura napoletana tenutasi a Napoli nel 1938, dalle dita affusolate e l'altra, più tarda, (fig. 53) dei depositi della Galleria Borghese, il S. Massimo (fig. 54) della chiesa di Santa Sofia a Giugliano, la replica della Madonna con S. Luigi di Tolosa e Luigi, re di Francia (fig. 55), conservata nel Seminario vescovile di Conversano, il Martirio di S. Biagio (fig. 56) del museo provinciale di Lecce e Bacco ed Arianna incoronati da Venere (fig. 57), passato come autografo in asta da Semenzato nel luglio del 1988. Anche S. Stefano (fig. 58) e S. Lorenzo (fig. 59), presenti sul mercato (Firenze Pitti 1989), nonostante la notevole qualità sono prodotti di bottega, ben lontani dalla forza espressiva dei colleghi ... di Capodimonte (fig. 60) e (fig. 61), già nella Farmacia degli Incurabili. Ancora di bottega segnaliamo un piccolo olio su rame in collezione privata napoletana, un Diana ed Endimione (fig. 62 ) ed una copia da un originale perduto (fig. 63), eseguito a quattro mani e due pennelli, passato in asta a Roma all'Antonina.

Da espungere dal catalogo dell'artista: il Noli me tangere (fig. 64) del mercato antiquario di New York, che appartiene in maniera lampante ad Andrea Vaccaro, il Mosè che trae l'acqua dalla rupe (fig. 65) del museo di Budapest, assegnato al De Rosa dal Pigler e confermatogli dall'Ortolani, che oggi la critica unanimemente attribuisce al De Bellis, e le due Scene carnascialesche, già nella collezione del barone Lazzaroni di Roma, che furono presentate alla grande mostra sulla pittura italiana di Firenze a Palazzo Pitti nel 1922 e che l'Ortolani giudicava tipiche espressioni di napoletana gaiezza, assegnate all'artista forse per similitudine iconografica con il Sileno ignudo in un corteo bacchico, descritto dal De Dominici presso il duca di Maddaloni. Ed a proposito di questa tela, descritta con pedante precisione dal celebre biografo, bisogna valutare attentamente  l'ipotesi formulata dal Pugliese che il Sileno possa essere quello eseguito da Francesco Fracanzano ed esposto a Capodimonte di fronte all'interpretazione datane dal Ribera.

 

 

Opere perdute

 

Tra le opere citate dal De Dominici ed a noi non pervenute rammentiamo  due tele nel soffitto di San Diego all'Ospedaletto, raffiguranti martirii di santi francescani, probabilmente  distrutte, assieme a tre di Stanzione, da un incendio che divampò nella chiesa nel 1784. E perduti, nel corso di una ristrutturazione ottocentesca, sono pure i quadri rappresentanti "varie azioni della B. Vergine", realizzati in collaborazione col Marullo, per il soffitto della chiesa della Concezione degli Spagnoli.

 

 

Rapporti di contiguità con altri artisti

 

Pacecco, come abbiamo visto, è imparentato con numerosi pittori, per cui l'abitudine tutta napoletana di prendere ispirazione dal lavoro dei colleghi è in lui più accentuata. Diventa così arduo distinguere il suo pennello da quello di artisti border line, non solo della cerchia stanzionesca, come Onofrio Palumbo o Giacinto De Populo, ma anche apparentemente lontani dal suo stile e dalla sua poetica, che divennero facilmente riconoscibili solo negli anni Quaranta. Confusioni attributive possono esserci anche per un occhio esperto verso Finoglia,  Do, Guarino, Beltrano, Ragolia, De Bellis, Stanzione e la stessa Gentileschi.                                  

L'influsso di Paolo Finoglia è particolarmente evidente fino al 1635, prima della lezione stanzionesca e del bagno di colore che impreziosì da quell'anno la tavolozza di tutta la pittura napoletana.

Il dipinto paradigmatico di questa dipendenza culturale è costituito dalla spettacolare Immacolata di S. Domenico Maggiore (fig. 66), prelievo letterale dall'omonimo dipinto del museo municipale di Brest (fig. 67). Su questa iconografia presentiamo, per un utile raffronto, una tela (fig. 68) da decenni preclusa allo sguardo di appassionati e studiosi, già nella chiesa di San Giovanni Battista delle monache, che riteniamo molto vicina ai modi pacecchiani. Ed inoltre stimmate finogliesche sono molto evidenti nella  S. Dorotea della Narodni Galerie di Praga e nella Lotta di Giacobbe con l'angelo (fig. 69), di collezione privata bresciana, pubblicata da De Vito. Due dipinti pugliesi ricalcano soluzioni luministiche  parafiglionesche, essi sono: l' Annunciazione della chiesa matrice di Palo del Colle (fig. 70) e la Madonna col Bambino (fig. 71) del museo Pomarici Santomasi di Gravina, tele gemellate dalla medesima atmosfera di calda intimità e dalla stessa modella che presta il suo volto di innocente freschezza alla Vergine, reso con magistrale trattamento chiaroscurale, che richiama a viva voce la tecnica del Finoglia.

Poco studiato dalla critica il rapporto di dare ed avere con il cognato Giovanni Do sotto il cui influsso nasce probabilmente il Martirio di San Lorenzo (fig. 72)  della parrocchiale di Lizzanello in provincia di Lecce, dominato da un netto taglio luministico e da un intenso contrasto chiaroscurale, che mettono in evidenza il riverbero, anche in  aree culturali potenzialmente lontane, della forza espressiva del messaggio emanato dal "tremendo impasto". Alcuni volti ritorneranno in altre opere dell'artista, come il sacerdote che invita ad adorare l'idolo, il quale assumerà le sembianze del San Matteo di Capodimonte.  Essa precede di qualche anno la spettacolare replica con varianti (fig. 73) conservata a Greenville negli Stati Uniti, presso la Bob Jones University, realizzata in prossimità degli anni Quaranta, in consentaneità cronologica con Il Massacro degli innocenti del museo di Filadelfia (fig. 74) e l'Andata al Calvario (fig. 75), già al museo del Sannio, con i quali condivide identiche fisionomie dei protagonisti e la medesima modalità di inquadramento delle figure in uno spazio ristretto. La replica statunitense, speculare, con il corpo del martire ribaltato restando fissa la fonte luminosa, presenta poche varianti e tra queste domina la presenza, sulla sinistra, del ridanciano scugnizzo con la dalmatica ammappuciata sulle spalle, somigliante in maniera impressionante al Cam dell'Ebbrezza di Noè, già in collezione Calabrese, uno dei raggiungimenti più alti del  nostro secolo d'oro, attribuito ad Annella dal Longhi ed oggi, secondo Bologna, nel catalogo di Filippo Vitale.

A questa temperie culturale appartiene la Visione di S. Antonio da Padova della Gemaldegalerie di Vienna (fig. 76) e le due splendide Adorazioni dei pastori, di Montecitorio (fig. 77) e di collezione privata fiorentina (fig. 78), entrambe segnate da un delicato equilibrio tra naturalismo e classicismo, assieme alle quali  presentiamo l'inedita Adorazione (fig. 79) dell'antiquario Gabrius, di cronologia più antica ed una chicca rarissima, la tela  (fig. 80), di collezione privata fiorentina, descritta dal Longhi negli anni Cinquanta e mai più sottoposta all'attenzione della critica. Il San Giuseppe col Bambino (fig. 81) del museo dell'Abbazia di Montevergine, viceversa, è più vicino allo stile di Giovanni Do, come sostenuto dal Fiorillo.

Rimanendo in area riberiana possiamo considerare alcuni dipinti contrassegnati da un cospicuo trattamento chiaroscurale, quali la Maddalena penitente dei depositi di Capodimonte, attribuita dal Bologna ed intrisa forse di eccessiva cultura caravaggesca, il Cristo deriso (fig. 82) conservato ad Albano Laziale nel Collegio del Preziosissimo Sangue, sicuramente opera giovanile appartenente ad una inedita fase di caravaggismo classicizzato ed il Martirio di San Bartolomeo (fig. 83), aggiudicato da Finarte nel 1979, che replica moduli compositivi e fisionomie del Ribera, tradite da una eccessiva morbidezza dell'incarnato e dei panneggi patognomonici di Pacecco.

Riberiano, e non solo nell'iconografia, lo spettacolare Apollo e Marsia ( fig. 84) del Castello di Opocno in Boemia, una poco conosciuta opera giovanile del Nostro di altissima qualità, nella quale apprezziamo ombre taglienti, che scompariranno completamente dal repertorio dell'artista nel  decennio d'oro della sua maturità.

Sul tema iconografico basato sull'incontro di Rachele e Giacobbe, immortalato dal De Rosa in celebri composizioni, segnaliamo un inedito di altissima qualità (fig. 85), in collezione privata ad Utrecht, incorniciato da un panorama boscoso degno del pennello dei migliori specialisti napoletani e con i personaggi, dalle classiche fisionomie pacecchiane, che intrecciano languidamente tra loro una conversazione senza parole, fatta di teneri sguardi e maliziosi ammiccamenti.

Tra i dipinti famosi, il Rachele e Giacobbe (fig. 86) della Pinacoteca di Capodimonte, derivato da una più antica redazione in collezione privata napoletana,  ed il Riposo dalla fuga in Egitto della collezione Laliccia.

Nel Rachele e Giacobbe facciamo la conoscenza del cane di Pacecco De Rosa, che si affaccia in basso a sinistra della composizione e che rincontreremo in seguito più volte, costituendo una sorta di firma nascosta dell'autore; basterebbe questo dettaglio per escludere categoricamente l' ipotesi, avanzata in passato dalla critica, di assegnare la tela al Marullo, il quale, per quanto rivalutato di recente dagli studi (consulta sul web la prima monografia sul pittore del Pinto e l'opera omnia pubblicata dal sottoscritto), non raggiunge mai la qualità molto alta di questo quadro, tra gli esiti maggiori del nostro artista. Essa fu giudicata  dall'Ortolani un Pastor Fido, o meglio, per quei salaci villani ridenti, una scena prelevata da una commedia rusticana del Ruzzante, impregnata da una materia cromatica stoffosa dalla consistenza di un  marmo granoso; una favola paesana raccontata con garbo forbito e fare lezioso in toni spontaneamente naturalistici e dialettali. Da notare inoltre che, nella Fuga in Egitto (fig. 87), il  modello che ha posato per l'angelo posto a destra nella composizione, ripropone lo stesso atteggiamento speculare, nella mano che raccoglie il panneggio e nell'altra che porta al petto, assunto dalla Rachele protagonista del quadro preso in esame precedentemente ed è lo stesso che presta il suo corpo per raffigurare il principe troiano nel Giudizio di Paride (fig. 88) del  Kunsthistorisches Museum di Vienna, un altro dipinto dove ricompare il muso del cane del nostro artista, che per inciso incontriamo di nuovo nel Venere ed Adone (fig. 89), già Sotheby's, quadro gemello, di poco successivo del  Venere che cerca di trattenere Adone (fig. 90) del Museè des Beaux Arts di Besancon, dove stranamente compaiono ben tre cani, ma nessuno di Pacecco....

Vicinissimo cronologicamente al quadro del museo francese lo splendido Ratto d'Europa di collezione privata napoletana, del quale una replica autografa è stata battuta presso Christie's nel 1978.

La possibilità di scambiare un'opera di Giacinto De Populo con i dipinti del nostro artista è dovuta alla conoscenza frammentaria che ha la critica del pittore casertano. Un esempio è costituito da questa tela raffigurante le tre sante salernitane Tecla, Archelaa e Susanna (fig. 91) conservata nella chiesa di San Giorgio a Salerno, che si aggiunge alla Madonna della Purità (fig. 92) citata in precedenza.

Molto difficile delineare i confini verso Onofrio Palumbo, un artista ancora non ben conosciuto dalla critica ed al quale probabilmente appartiene  la scena mitologica (fig. 93) di recente passata sul mercato antiquariale con un'attribuzione al De Rosa. Abbiamo già accennato all'Immacolata Concezione di San Domenico Maggiore (fig. 94), attribuita negli anni prima al Guarino, poi al Finoglia ed infine al Palumbo. Segnaliamo una Pietà  (fig. 95) passata in un'asta Semenzato a Venezia nel 1991, con una non sostenibile attribuzione a Guarino, nella quale, viceversa, sono facilmente leggibili caratteri distintivi di quell'area culturale equidistante tra Stanzione e Ribera, in cui  spesso si esprimono il De Rosa, il De Bellis e lo stesso Palumbo.

Anche il cognato Beltrano, con il quale si può anche ipotizzare sporadicamente una forma di collaborazione, può essere confuso con Pacecco, come nel caso del San Giuseppe con Gesù Bambino (fig. 96), di collezione privata praghese, presentata come autografo alla mostra " La pittura napoletana tra l'eruzione e la peste", che tradisce, particolarmente nell'ampio scorcio di paesaggio, il pennello del Beltrano.

La confusione attributiva verso Guarino è notevole e crediamo siano venuto il momento di valutare l'opportunità di far ritornare nel catalogo dell'artista solofrano l'Abramo e i tre angeli (fig. 97) del museo civico di Castel Nuovo, per il vigoroso trattamento naturalista della testa di Abramo, nonostante i colori levigati, la riduzione delle ombre e gli incarnati vicini all'effetto porcellana dei tre angeli, caratteristiche che contrassegneranno lo stile del De Rosa a partire dalla metà degli anni Quaranta.

Sembrerebbe a prima vista del Guarino il Sacrificio d'Isacco (fig. 98), già in collezione Auzola a Madrid, assegnato invece dal Lattuada al De Rosa, per " i toni da porcellana nel pigmento degli incarnati  di Isacco e nelle stoffe traslucide", mentre nel San Giovanni Evangelista (fig. 99), esitato da Christie's nel 1989,  Pacecco interpreta in chiave classicistica la nota iconografia, arricchendola con un'impeccabile scelta di colori dall'effetto brillante. Anche il S. Antonio da Padova con  Gesù Bambino (fig. 100) è passato in asta da Christie's a Roma nel 1990 come Guarino, ma più probabilmente è assegnabile al nostro artista in un felice momento di attenzione e convergenza verso la lezione di Massimo Stanzione. Infine la S. Orsola (fig. 101) di collezione privata napoletana, schedata dalla Soprintendenza genericamente come Santa martire ed assegnata al Guarino, è ritenuta dal Lattuada più vicina allo stile del De Rosa, in consonanza con i modi stanzioneschi.

Michele Ragolia è un pittore ancora poco noto alla critica, nonostante la sua produzione raggiunga a volte livelli molto alti, come nei due trionfi conservati a Schloss Rohrau. Suo è il San Francesco che soccorre gli ammalati (fig. 102), conservato in palazzo D'Ayala Valva a Taranto e proveniente dalla chiesa di San Francesco della cittadina pugliese. Esso è stato attribuito al De Rosa dal Galante, che opera raffronti con la Strage degli innocenti di Filadelfia, mentre alcune fisionomie non lasciano alcuna ombra di dubbio nell'assegnare il dipinto al Ragolia, fisionomie che caratterizzano più di un personaggio nel grandioso soffitto cassettonato della parrocchiale di Polla, capolavoro dell'artista.

Scambi attributivi versus Antonio De Bellis sono ragionevoli, soprattutto da quando, negli ultimi anni, sono comparse sul mercato tele firmate dell'artista simili ai modi cavalliniani per soluzioni cromatiche raffinate e per tipologie fisionomiche dolci e languide. Un Sansone e Dalila (fig. 103), su rame, di collezione privata parigina, attribuito da Spinosa al De Bellis in occasione della mostra su Cavallino, è stato ricondotto al catalogo del De Rosa dal Lattuada, per analogie formali con le lunette di San Paolo Maggiore; lo studioso ha sottolineato quale autonomia espressiva avesse raggiunto Pacecco nel campo del piccolo formato, che esalta le sue doti di colorista affezionato a timbri squillanti e laccati e ne raffina i partiti compositivi mediante l'uso di una luce cristallina.

A partire dagli anni Quaranta l'influsso stanzionesco (e probabilmente una vera e propria collaborazione, come documentato in alcune chiese napoletane) sarà sempre più palpabile nel suo stile, a tal punto che alcune tele sono assegnabili al De Rosa solo per la minore qualità rispetto al maestro, come la S. Caterina (fig. 104) conservata a Bratislava o la S. Orsola (fig. 105) esitata da Sotheby's a Londra nel 1989, nella quale "l'impianto della figura, la struttura semplificata dei panneggi argentei e degli incarnati chiari" (Lattuada) sono i segni tangibili di un felice momento nella  produzione di Pacecco.

Dubbiosa  può essere la paternità della Pittrice che ritrae l'immagine del sudario (fig. 106), proposta come autografo stanzionesco nel 1979 in un'asta Sotheby's di Londra, attribuita poi al Guarino e che potrebbe essere una prova giovanile di Pacecco, per la dolcezza del volto della fanciulla e per il raffinato trattamento cromatico degli abiti e dei panneggi. Infine un Loth e le figlie (fig. 107) di collezione privata tedesca, probabilmente da identificare con un tela descritta nel 1938 dall'Ortolani, come replica con variante del famoso dipinto dello Stanzione conservato a Palazzo Reale.

Una tela, da sempre nel catalogo dello Stanzione, quale il Miracolo di Soriano (fig. 108) della chiesa di San Domenico a Lucera, dopo essere stata in mostra a Pagani nel 1990, fu ritenuta non autografa da molti studiosi, per il modellato piuttosto piatto e per le campiture di colore stese in maniera semplificata, per cui il Willette, nella sua monografia, ipotizza la partecipazione di aiuti. La parte superiore, incentrata sui volti delle sante di una languida dolcezza, a nostro parere, è sicuramente di Pacecco, che collaborerà a iconografie identiche in alcune chiese napoletane.

Un problema complesso è costituito dalla grandiosa pala dell'Assunzione della Vergine (fig. 109), già in collezione Cook, oggi al North Carolina museun of art di Raleigh, assegnata al De Rosa dal Pigler già negli anni Trenta e confermatagli da Spinosa, mentre Lattuada ritiene che Pacecco esegua solo qualche figura, come ad esempio il giovane apostolo inginocchiato a destra ed il dipinto sia stato viceversa  realizzato dallo stesso  Stanzione, al cui pennello si ispira tutta la composizione, che deriva  dal sacrificio di Mosè, firmato e conservato a Capodimonte.

Ancora inestricabili i rapporti con la Gentileschi, a Napoli dal 1627, la quale influenzò tutta la pittura partenopea ed in particolare lo Stanzione, principale fonte ispirativa per Pacecco a partire  dagli anni Trenta. Alla sua lezione cromatica appartiene senza dubbio il poco noto Concertino (fig. 110) della Galleria di Palermo, sgorgante di fantasmagorici contrasti di colore. E' prudente continuare a considerare di Artemisia la Cleopatra (fig. 111) di collezione privata londinese, presentata alla Mostra Civiltà del Seicento come autografo della pittrice toscana dalla Gregori e ritenuta invece dal Lattuada tipica dei modi del De Rosa e molto vicina alla S. Barbara già presso Finarte. Sorprendente il perentorio consiglio dello stesso studioso di attribuire ad Artemisia lo splendido olio su rame rappresentante il Giudizio di Paride (fig. 112) della Gemaldegalerie di Vienna, in passato attribuito al Vouet e dato a Pacecco da Raffaello Causa, nel quale, a differenza di altri dipinti in cui è appena abbozzato, compare un panorama fogliaceo di grande respiro, eseguito con grande probabilità da Micco Spadaro, che sappiamo aver collaborato più volte con la Gentileschi. La composizione pervasa da una pacata armonia nelle figure è inondata da una luce calda che sembra indugiare sui corpi nudi delle dee e fa risaltare l'eleganza delle vesti.

Iconografia sacra

 

 

Iconografia sacra

 

Pacecco raggiunse la sua fama nei dipinti profani, approfittando di quella committenza laico borghese presente in misura cospicua a Napoli affianco a quella religiosa, che richiedeva soggetti biblici e scene mitologiche, sante languide ed eroine vittoriose, purché interpretate da modelle belle e soprattutto discinte. Quella varietà di richiesta che ha reso d'oro il Seicento napoletano e di grande attualità, perchè in consonanza con il gusto moderno, sia del collezionista che del semplice frequentatore del museo. Non solo quadri devozionali dunque, ma anche battaglie, paesaggi, ritratti, natura morta, scene di genere e tante sante, devote, ma gradevoli a vedersi.

Nonostante questa predilezione per il soggetto laico la produzione religiosa è copiosa, interessa un ampio arco temporale ed è sicura, nel senso che i pochissimi dipinti firmati o documentati del De Rosa sono quasi tutti quadri sacri. Non includeremo in questa carrellata i numerosi ritratti di sante, quasi sempre eseguiti con un'aura profana.

Cominceremo dall'Annunciazione (fig. 113) di San Gregorio Armeno, doppiamente firmata (sullo zoccolo del leggio e sulla prima pagina del libro) e datata 1644, un'opera a carattere devozionale, di ostentata eleganza reniana, felice contaminazione di cultura bolognese e modelli stanzioneschi, impregnata da colori di tonalità brillante che impreziosiscono i  pesanti panneggi, il segnale inconfondibile del gusto dell'artista per " l'eleganza facile ed ostentata di sete e rasi sovrabbondanti, del languore teatrale popolarescamente agghindato, della materia inconfondibile per quelle superfici terse, sempre pronte al luccichio, come un ferro smaltato sotto il rivestimento di colori squillanti, dall'effetto fragoroso e stridulo" (sono parole di un poeta: Raffaello Causa).  Le due già citate Immacolate, la prima di Brest e la successiva di San Domenico Maggiore, le varie redazioni della Deposizione, quella di San Martino, ispirata al prototipo del Vitale di Santa Maria Regina Coeli dei tardi anni Quaranta, quella della quadreria del Gesù Nuovo e la versione della Nunziatella, firmata e datata 1646.

Importanti opere a carattere sacro, collocabili intorno alla metà del quinto decennio, sono le due lunette della cappella della Purità in San Paolo Maggiore, precedentemente assegnate allo Stanzione, autore delle tele sottostanti, firmate. Le scene rappresentate sono la Nascita della Vergine (fig. 114) e la Presentazione di Gesù al tempio (fig. 115) e completano il ciclo mariano della cappella.

Nella cappella Cacace in San Domenico Maggiore, ai lati della Madonna del Rosario, capolavoro di Massimo Stanzione, sono presenti i tradizionali misteri: scene della Passione di Cristo e della vita della Vergine, chiaramente eseguiti da due diversi collaboratori del maestro. Diverse sono le opinioni di Spinosa, che identifica i due allievi in Niccolò De Simone ed in Giuseppe Marullo, mentre Schutze vede il pennello di Pacecco e del cognato Beltrano ed in particolare attribuisce al Nostro i seguenti episodi: Annunciazione, Natività, Cristo tra i dottori, Flagellazione, Cristo portacroce e Resurrezione (fig. 116-117-118-119-120-121).

Lo scorrere degli anni nel percorso artistico del De Rosa viene scandito dalla Immacolata con i Santi Francesco d'Assisi ed Antonio da Padova (fig. 122) della chiesa dei Cappuccini di Vibo Valentia, firmata e datata 1651. La tematica, ampiamente diffusa nella pittura spagnola e napoletana dell'epoca, viene resa dall'artista con qualche cedimento accademico, anche se le ombre tendono quasi a scomparire ed il colore diviene sempre più levigato. La fanciulla che fa da modella, dal candore virgineo ed attorniata da una folla di angioletti, indossa una veste di un bianco splendente ed un ampio mantello azzurro.

Particolare curioso, rivelatomi dall'amico Vincenzo Rizzo e che ha permesso alla tela di giungere a noi in ottimo stato di conservazione, è stata l'abitudine, osservata per secoli dai frati, di conservare la pala d'altare preservata da una tenda, aperta a richiesta dei fedeli o dei visitatori in cambio di una piccola offerta o di un semplice grazie. Al 1652 appartiene lo spettacolare quadrone, della chiesa di Santa Maria della Sanità, Angeli che impongono il cingolo della castità a San Tommaso d'Aquino (fig. 123), firmato e datato, accuratamente descritto dal De Dominici:"Un S. Tommaso d'Aquino nella chiesa della Sanità, con alcuni angioli che al detto Santo legano il Cingolo della purità, per conservargli la sua castità; vi è tanta gioia e riso in quei volti angelici che fanno meditare in quelli l'idee celesti del Paradiso, oltre il vedervisi le più belle forme  di mani e piedi e tutte l'altre parti così ben disegnate che non resta che desiderarvisi". Il dipinto ha colori squillanti, che debordano luce, di un'assoluta modernità, come "il blue metallico, elettrico delle stoffe che richiama ed anticipa soluzioni poi di Mondrian e di Kandinskij" (Pacelli), la declinazione è ortodossamente stanzionesca e l'impaginazione dà l'idea di "una festosa aggressione di tre giovani efebici a un monaco spaventato, dove la gloria degli angeli intorno all'eucarestia è un singolare pastiche di citazioni da Reni, Domenichino e Stanzione"(Lattuada). Da notare lo straordinario dettaglio (fig. 124) della cintura di castità, di materiale prezioso portato con grazia e leggiadria dagli angeli, assieme alla corona e ad un serto di fiori.

Sempre di qualità altissima sono altre due pale d'altare documentate al 1654, segno indefettibile di importanti commissioni pubbliche e lampante dimostrazione dell'assurdità dell'idea, avanzata dalla critica meno attenta, di un Pacecco  stanco ripetitore di formule accademiche negli ultimi anni della sua attività. Esse sono il San Pietro che battezza Santa Candida (fig. 125), sito nel coro della chiesa di San Pietro ad Aram, restituito di recente ai luccicanti colori del passato da un attento restauro, firmato e datato "Pacheco De Rosa 1654", nel quale, ad ulteriore dimostrazione dell'autografia delle due lunette della cappella della Purità in San Paolo Maggiore, il San Pietro, dal volto sorridente che battezza la Santa, è un prelievo letterale del San Giuseppe nell'Offerta lustrale del ciclo mariano precedentemente descritto. L'altra importante cona d'altare è la Madonna del suffragio con i Santi Domenico e Gaetano e l'angelo custode (fig. 126),  firmata e datata 1654, della parrocchiale di Sant'Agata di Puglia, nella quale il Pugliese, nel pubblicarla, coglieva lontani echi dell'Angelo custode della Pietà dei Turchini, capolavoro del Vitale ed influenze falconiane nel paesaggio sulla destra, oltre ad un potente richiamo al dipinto della chiesa della Sanità, caratterizzato da angeli poderosi come quelli che impongono dinamicità alla parte centrale della tela in esame. L'angelo custode, capellone ante litteram, incurante della stizza malamente repressa  del diavolo, una caricatura del collega realizzato dal Vitale, costituisce, con il suo sontuoso manto di un giallo dorato, la quinta scenica che dà respiro ad un  ampio panorama, il quale  richiama a viva voce gli esiti migliori di Micco Spadaro.

 

 

Santi e sante

 

Poco meno che interminabile il numero di santi e sante rappresentato da Pacecco, segno della vivacità nella richiesta  di un soggetto che non poteva mancare nelle case delle famiglie ricche napoletane. Sono tutti dipinti da cavalletto, emersi in gran parte negli ultimi anni sul mercato antiquariale e nelle aste, sia in Italia che all'estero, ampliando in tal modo notevolmente il grado di conoscenza degli studi.

Partendo dai soggetti maschili segnaliamo l'unico quadro del genere firmato e datato, 1652,  un San Gaetano conservato nel Duomo di Matera, segnalato dall'Ortolani, ricordiamo inoltre il già citato San Massimo (fig. 127) della chiesa di Santa Sofia di Giugliano, del quale circolano sul mercato numerose repliche di bottega ed il San Biagio (fig. 128) dell'antiquario bergamasco Lumina, nel quale compare, quasi una firma nascosta, lo stesso giovane modello che abbiamo incontrato in altri dipinti certi di Pacecco,  dal San Nicola di Bari (fig. 129) della Certosa di San Martino al San Matteo di Capodimonte (fig. 130),  ispirato alla tela eponima (fig. 131), già nella chiesa napoletana di Sant'Anna di Palazzo.

Di altissima qualità il San Sebastiano (fig. 132) del Kunsthistoriches Museum di Vienna, che fa coppia con il meno noto Cristo alla colonna (fig. 133), segnati entrambi da un incarnato languido e dalle stesse pieghe cutanee nella zona addominale.

Sant'Antonio è raffigurato più volte: in estasi, avvolto in una luce calda proveniente dall'alto (fig. 134) ed attorniato da un nugolo di angioletti, nella tela di Capodimonte, vicina stilisticamente alle  opere degli anni Cinquanta; mentre ha una visione (fig. 135) nel quadro della Gemaldegalerie di Vienna, più antico; è rappresentato inoltre nelle  opere precedentemente citate (fig. 136-137) e, secondo Ortolani, una replica con

varianti del quadro di Capodimonte era conservata presso la chiesetta degli Orefici a Materdei. San Gennaro, del quale è comparsa l'anno scorso presso Finarte  una spettacolare Decollazione (fig. 138) è ritratto più volte: con un fanciullo che gli regge le ampolle (fig. 139), di collezione privata  e mentre offre il segno del suo martirio alla Madonna ed al Bambino (fig. 140), in una tela, presente sul mercato, ricca di squillante cromatismo e del tutto aliena dai modi del Vitale.

Alla lezione stanzionesca appartiene pienamente il San Giovanni Battista (fig. 141) di collezione privata italiana e la replica, ricordata dall'Ortolani, nella chiesa di Santa Maria Assunta a Bagnoli Irpino. Mentre ricordiamo soltanto, perchè già trattati in precedenza: San Nicola (fig. 142), San Carlo (fig. 143), Santo Stefano (fig. 144), San Lorenzo (fig. 145), San Luca (fig. 146), San Matteo (fig. 147), San Giuseppe (fig. 148), San Giovanni Evangelista (fig. 149).

L'elenco delle sante è più breve, forse perchè la parte del mattatore nelle committenze di questo genere di ritratto fu assunta da Andrea Vaccaro, specialista indiscusso nella realizzazione di sante in estasi orgasmiche con seni prorompenti, debordanti da abissali scollature.

Partiamo, assimilando a santa  una Agar (fig. 150) in collezione privata a New York, speculare ad una Sant'Agata in agonia (fig. 151) della Walpole Gallery di Londra. Le due immagini sono accomunate dall'identica positura della mano, dal languido volgere degli occhi verso l'alto, il famoso sott'in su, che, inaugurato dal divino Guido Reni,  tanto successo ebbe nella pittura napoletana negli anni Quaranta Cinquanta e dal seno generosamente e maliziosamente esposto. Le due tele sono collocabili cronologicamente tra il 1650 ed il '55, quando l'artista rendeva gli incarnati femminili simili a luminose porcellane, circostanza evidenziata dall'acuto occhio del De Dominici, che giustamente affermava:"grande imitatore del naturale, del quale però sceglie il più bello e più nobile, come si vede nelle sue opere".

La Sant'Agata appena esaminata, dai conclamati caratteri pacecchiani, ci permette di confermare alla bottega le già esaminate tele con la stessa iconografia (fig. 152) e (fig. 153).

Pienamente stanzionesche sono le già descritte Santa Caterina, conservata a Bratislava (fig. 154) e le due Sant'Orsola (fig. 155) e  (fig. 156). La Santa britannica, sacrificata, nei pressi di Colonia, assieme ad 11.000 sue compagne vergini (a quell'epoca le vergini abbondavano...) è la protagonista di una eccezionale tela (fig. 157), in collezione privata napoletana, dominata da una tavolozza di colori luccicanti, dal panno rosso fulvo che ricopre l'abito damascato della martire, al bianco opaco ed al rosa cenere presenti nell'abbigliamento del carnefice, una delle figure, come sottolineato dal Pacelli, tra le più interessanti della pittura napoletana seicentesca, un giovane, di bellezza "cattiva", preso di profilo con una fascia di seta tra i capelli dalle sfumature iridescenti. Un tocco di realismo caravaggesco pervade la composizione: il sangue che copioso sgorga dalla ferita provocata dalla freccia sul collo e che contrasta, con il suo rosso rutilante, con il tenue incarnato roseo della santa, la quale, eleva gli occhi al cielo ed affronta con serenità il suo martirio, sicura della bontà delle sue decisioni, illuminata dalla fede che tutto trascende, placando e spegnendo tutti i sentimenti e le sensazioni negative quali il dolore, la sofferenza, l'umiliazione, lo sdegno ed esaltando la calma serafica, la serenità dell'animo, la certezza di una scelta adamantina.

Una originale, quanto inedita,  Santa Irene (fig. 158) costituisce, secondo il parere dell'antiquario Giacometti, una riproposta da parte del De Rosa di un polittico, di secoli precedente e del quale mostriamo un altro pannello (fig. 159) raffigurante la Madonna con il Bambino, mentre un'altra scena rappresenta San Sebastiano. Se fosse confermata tale ipotesi ci troveremo per la prima volta davanti ad un'opera del passato riproposta dall'autore con l'imprinting delle sue fisionomie patognomoniche.

Una Maddalena (fig. 160), in collezione De Vito, di splendida fattura, pervasa da una  sensuale malizia vaccariana, con il seno generosamente discinto, a stento ricoperto dalle bionde trecce, è l'ulteriore dimostrazione della consumata abilità dell'artista nel rendere profano un soggetto sacro, qualità richiesta da una parte cospicua della committenza laico borghese intorno alla metà del secolo XVII.

Ad ubicazione sconosciuta è una Santa Agnese (fig. 161) implorante in uno sfolgorio di colori dall'arancione al violetto, con la muta presenza dell'agnello, mentre di Santa Dorotea possiamo proporre tre versioni una, inedita, (fig. 162), in collezione privata a New York, con un piatto di fiori e frutta in primo piano che pone il problema di identificare lo specialista in natura morta che collabora con il De Rosa, una seconda (fig. 163), sempre inedita,  in collezione privata italiana, nella quale compare il noto modello di fanciullo di cui abbiamo già discusso in precedenza e, soprattutto il brano di natura morta, di nitida precisione ottica, sembra partorito dal pennello di Luca Forte  ed una terza (fig. 164 ) di qualità altissima, della Galleria Nazionale di Praga, a lungo attribuita al Vouet, pervasa da un cromatismo freddo e da una pittura liscia, precisa ed asciutta nella figura della Santa, che può ragionevolmente far pensare, seguendo un suggerimento di Daniel, ad un'opera in collaborazione con il patrigno, il quale avrebbe eseguito la Santa, mentre Pacecco avrebbe realizzato l'angioletto e la volta celeste, che richiama prepotentemente quella della celebre Flora (fig. 165) conservata a Vienna.

Appartengono agli ultimi anni della produzione del De Rosa: una Sant'Agnese, di un purismo integrale da Arcadia incorrotta,  già nel palazzo Imperiali a Francavilla Fontana, una fanciulla sorridente e sensuale che ben incarna l'ideale femminile dell'artista  ed una Santa Caterina, densa di preziosi cromatismi, luccicante nella chiarezza delle superfici terse, conservata nel convento di San Luigi a Bisceglie.

La pittura di scene di martirio ebbe grande successo a Napoli nel quarto e quinto decennio del secolo XVII. Gli autori più richiesti dalla committenza in questo particolarissimo genere furono gli allievi della bottega di Aniello Falcone e tra questi un posto di rilievo fu occupato da Micco Spadaro, assieme a Carlo Coppola e Niccolò De Simone. Anche il De Rosa realizza più di una volta scene di martirio, nelle quali però rifugge da qualsiasi compiacimento per i dettagli più cruenti, spesso dipinti da altri artisti con accanimento riberiano.

"Nessun orrore, nessuno strazio carnale, nessuna esaltata estasi visionaria" (Pugliese), ma, costantemente, una pacata espressione nel volto del protagonista e nei suoi stessi carnefici. I personaggi, anche nell'acme del martirio, non manifestano dolore o raccapriccio, bensì esprimono un'emozione gaia e serena, paghi di immolarsi per la propria fede, in quel particolare stato di emozione narcisistica che accompagna sempre quel gesto eroico.

Ricordiamo per un raffronto le già citate tele raffiguranti il martirio di San Gennaro (fig. 166), di San Lorenzo, nella versione di Lizzanello (fig. 167) e di Greenville (fig. 168), di San Pietro (fig. 169), di San Biagio (fig. 170), di San Bartolomeo (fig. 171) e di Sant'Orsola (fig. 172).

Indirettamente collegata al genere dei martirii possiamo considerare la già citata Apollo e Marsia del Castello di Opocno (fig. 173), una tela di notevole qualità e di argomento mitologico, ma non dimentichiamo che dal tema pagano derivò in ambito cattolico il substrato del martirio di san Bartolomeo, anch'egli scorticato vivo. L'opera, solo da poco nota agli studiosi, si serve di un modello, che interpreta Apollo, già visto in numerose altre tele dell'artista: è il principe troiano nel Giudizio di Paride (fig. 174) di Capodimonte, un angelo (fig. 175) nel quadro della Sanità, Adone (fig. 176) nel dipinto conservato a Besancon. L'artista non prende ispirazione dalla celebre elaborazione del Ribera, ripresa magistralmente dal Giordano, in cui è tangibile il compiacimento masochistico del vincitore, bensì interpreta l'episodio come ineluttabile ed imprime nel volto di Apollo più compassione che ira, con una lettura del passo di Ovidio impregnata dal sentimento della pietà.

Lo stessa iconografia, ridotta a semifigure, la ritroviamo in una tela di collezione Adanero a Madrid, segnalata da Perez Sanchez e assegnata al De Rosa dallo studioso spagnolo, mentre Causa riteneva un autore più plausibile in Salvator Rosa.

 

 

Gli anni d'oro della maturità:1640-55

 

E giungiamo così al decennio della produzione di più alto livello, quando, anche nel campo della mai sopita collaborazione con il patrigno, interrotta soltanto con la morte di questi nel 1650, il De Rosa prende il sopravvento, entrando a pieno titolo tra gli stanzionisti, che si distinguono, nel composito panorama artistico napoletano, per una pittura piacevole e discorsiva, ove l'impegno formale cede spesso alla quantità ed alla rapidità, in un momento in cui, dopo la rivoluzione pittoricistica esplosa intorno al 1635 in città, tutte le voci dominanti presenti nell'antica capitale vicereale, da Artemisia al Monreale, dal Lanfranco al Domenichino vengono assorbite e si amalgamano in un milieu culturale nel quale solo l'occhio esperto è in grado di riconoscere le variazioni minime di espressione tra i pittori, che prendono a copiarsi... l'uno con l'altro.

Per tutti gli anni Quaranta costante sarà l'influsso sulla pittura di Pacecco della lezione  del Domenichino con le sue composizioni serene, i suoi personaggi idealizzati ed innocenti, il suo linguaggio poetico etereo, che si trasmetterà sulle tele del Nostro le quali presenteranno un equilibrio armonico della scena, un inconfondibile timbro cromatico ed un ritmo fluido ed incisivo dei contorni dei personaggi, facendo tesoro del paradigmatico dettame dell'artista bolognese:" il disegno dà l'essere e non v'è che abbia forma fuor dei suoi termini precisi...il colore senza disegno non ha sussistenza alcuna".

Pacecco diviene così il fondatore di una corrente, di ispirazione classicistica e di matrice reniana, tendente a stemperare le asperità del naturalismo caravaggesco e ad a creare calde atmosfere di intimità familiare, rese con un estenuato  addolcimento delle fisionomie e l'uso costante di una tavolozza dai colori vivi e rassicuranti. Un movimento, pregno di dignità culturale che, con non  lievi trasformazioni, giungerà fino al XVIII secolo, attraverso la lezione di Francesco De Maria, che ne sarà un teorizzatore convinto, fino a Francesco De Mura, assertore di un movimento accademico ed antibarocco.  Un caposcuola, del purismo, anche se minore, alla ricerca di toni cromatici lucenti, di atteggiamenti, di grazia manierata, leziosa ed a volte stucchevole, con un'attenzione minuziosa alla resa dei particolari preziosi delle vesti, produttore di incarnati alabastrini di bellezza idealizzata dalle vivide tinte simili a maioliche policrome o a smalti cloisonné, con un gusto formale assai prossimo agli esempi del Sassoferrato. Nei suoi dipinti di più alta qualità il purismo  dello stile giunge ad una tale sublimazione che l'evento narrato viene trasposto nei limiti di cadenze musicali di puro impreziosimento cromatico. Con l'occhio vigile e attento sulla produzione, non solo di Stanzione, ma anche di Vouet, Artemisia, Cozza e Mellin. Immanente, come un nume tutelare, su tutta la produzione dell'artista "la grande ombra del Domenichino, dall'alto dei pennacchi del Tesoro di San Gennaro, a Napoli, ma soprattutto da Palazzo Farnese a Roma e dall'Abbazia di Grottaferrata" (Causa). Un tipico dipinto di quegli anni, dai colori luminosi come porcellana, è costituito dalla Sacra Famiglia col Battista fanciullo (fig. 177), già in collezione privata a Solofra.

Divenne all'ora uno degli artisti più ricercati dagli ordini religiosi e dalle famiglie nobili,  sia a Napoli che nel viceregno, come testimoniato ampiamente dal De Dominici: "In case particolari poi ve ne sono infinite, ma i palagi del Duca di Maddaloni, del principe di Tarsia, del principe di Sonnino e di tutti i titolati son pieni di sue opere".

Le sue quotazioni salirono anno dopo anno, come hanno evidenziato gli ancora troppo scarsi documenti di pagamento.

Assunse un ruolo di protagonista, divenendo uno dei dominatori nell'affollato limbo di "provinciali orbitanti", che si contendevano commissioni pubbliche e lavori privati. Egli fu sempre molto richiesto da una clientela laica, innamorata delle sue figure femminili, generosamente nude, di ricercata bellezza interpretata da modelle "dotate di fascino e grazia tipicamente partenopea di colorito bruno nelle carni e di capelli neri", come nel grande, non solo di dimensioni,  quadro raffigurante il Ritrovamento di Mosè (fig. 178), uno dei capolavori dell'artista, proveniente dagli Stati Uniti, museo dell'Università di Santa Barbara in California ed in vendita di recente presso l'antiquario Amodio, un tripudio di" fanciulle elegantemente vestite di stoffe preziose, rasi, sete, damaschi, che indossano oggetti d'oro, collane di perle, orecchini e altri gioielli di valore e monili di corallo rosso, un prodotto tipico della costa vesuviana" (Pacelli).

Un quadro, il Ritrovamento di Mosè, di qualità e dimensioni sovrapponibili al Massacro degli innocenti (fig. 179), capolavoro del De Rosa conservato al museo di Filadelfia, una tela, per quanto costituita da un collage di invenzioni stanzionesche,  eseguita con negli occhi la grande pala del Reni della Pinacoteca di Bologna. La tavolozza è dominata da una tonalità dorata e da un'ombra trasparente. Il dipinto trasmette all'osservatore una tempesta di emozioni. Sembra quasi di sentire il grido lacerante delle madri che vedono strapparsi dal seno le proprie creature innocenti. Folle e crudele è esploso un sadico meccanismo di distruzione che pure si manifesta in una composizione raccolta senza romperne i ritmi, le misure e la simmetria. Donne e sicari sono animati da una cieca energia, mentre a terra cadono già straziati i primi cadaverini. Le bocche spalancate delle madri emettono un suono gelido, marmoreo, che rimbomba all'infinito e sembra raccogliere in sé tutti i dolori del mondo.

La scena è drammatica e commovente, ma una regia ineffabile sembra bloccare i gesti dei protagonisti in una staticità senza luogo e senza tempo, mentre il potente dinamismo dell'episodio è colto in un'ottica che riduce il movimento a fissità, avvolta in una vertigine che tutto risucchia in un orrore infinito, che congela i nostri sensi e le nostre emozioni, ci fa trattenere il respiro, quasi partecipi della tragedia che si compie sotto i nostri occhi.

Della tela esistono più redazioni: una, di altissima qualità, nella chiesa parigina di Santa Margherita (fig. 180), una seconda, con varianti, ella Quadreria della chiesa dell'Incoronata del Buon Consiglio (fig. 181), della quale mostriamo anche due particolari (fig. 182) e (fig. 183) ed una terza, passata in asta da Christie, (fig. 184), nella quale l'iconografia viene esaltata in un dettaglio di estenuata drammaticità.

Contigua cronologicamente alle tele precedenti è l'Andata al Calvario (fig. 185), composizione di grande espressività, che presenta la stessa tavolozza di colori freddi e la stessa modalità di raggruppamento delle figure, come fu giustamente evidenziato dall' acuto occhio dell' Ortolani: "movimentati aggruppamenti barocchi".

Un cielo luminoso domina la scena descritta con profusione di accenti naturalistici, dalla fronte rugosa del Cireneo allo sterno prominente dell'aguzzino, avvolto in un gioco d'ombra e penombra compiutamente caravaggesco. La tela proviene dalla raccolta di Alfonso d'Avalos, il leggendario marchese del Vasto, nobile guerriero, ma soprattutto raffinato intenditore d'arte e di belle donne, che amava, non solo biblicamente, ma anche con gli occhi, per cui voleva anche che fossero degnamente raffigurate nella sua famosissima pinacoteca, esemplare del gusto borghese partenopeo degli anni di metà secolo.

Tra queste vi è il Giudizio di Paride (fig. 186), dove le tre dee, nature, espongono le loro grazie, a dir la verità eccessivamente rinascimentali ed ipercolesterolemiche per un occhio moderno, al giudizio del principe troiano. Da questo quadro derivò probabilmente la leggenda, riferita dal De Dominici e ripresa anche da studiosi moderni, in base alla quale Pacecco si servisse come modelle per i suoi dipinti delle sorelle prima (Diana, Lucrezia e Maria Grazia) e delle nipoti poi (Anna, Speranza e Caterina), tutte, notoriamente, di una bellezza devastante, a tal punto da meritare il soprannome di tre Grazie. Se la cosa è possibile e probabile per le sorelle è pura fantasia per le nipoti, dopo che il Prota Giurleo ha identificato le loro date di nascita, addirittura il 1652 per la più giovane delle tre.

Il tema mitologico che sottende al Giudizio di Paride permette all'artista di meglio esprimere la sua inventiva, ben espressa con eleganza di gesti ed armonia di sentimenti. Uno spadariano cielo azzurro, solcato da nuvole orlate di rosa, ci rammenta con malinconia un nitore atmosferico oramai dimenticato, scalzato da pioggie acide e buchi d'ozono. Le ombre scompaiono completamente, mentre gli incarnati assumono la lucentezza della più preziosa porcellana.Un paragone è d'obbligo con l'altra redazione del Giudizio di Paride (fig. 187), che parte della critica propone di trasferire nel catalogo della Gentileschi e che il Causa, dopo essere stato attribuito ad altri artisti, anche di gran nome come il Vouet, collocò nel catalogo del De Rosa, in un momento culminante del suo periodo classicista, per la chiarezza dei colori, per la delicatezza delle anatomie femminili e per la dolcezza dell'impianto compositivo.

Sempre un tema pagano è alla base del Bagno di Diana (fig. 188), a lungo a Palazzo Reale ed oggi a Capodimonte, noto anche come Diana ed Atteone, un pretesto mitologico per mostrarci dodici irresistibili fanciulle in pose leziose e conturbanti, di una modernità sconcertante, coperte da qualche raro panneggio, unicamente per sfoggio d'abilità di definizione del pittore.

Tra i dipinti più famosi dell'artista, essendo stato in mostra sia nel 1938 che nel 1972, raffigura il noto episodio di Diana e le sue ninfe le quali, mentre si bagnano e si trastullano tranquillamente alla fonte, vengono spiate dal cacciatore Atteone che, scoperto dalla dea, viene da costei trasformato in cervo e dilaniato dai suoi stessi cani.

Il dipinto è la più genuina espressione di un classicismo solare e gaio che, ispirato dal Domenichino, poggia sui colori freddi che definiscono i corpi vellutati delle ninfe attraverso il pennello malizioso dell'artista, che indugia sui nudi femminili per la gioia degli occhi voluttuosi del committente.

Stranamente l'Ortolani non apprezzò a sufficienza il vigoroso messaggio di voluttà emanato dai giovani corpi delle fanciulle e parlò di "tornita fiacchezza dei nudi di maniera", trovando un'eco successiva nella Rocco, che sottolineò nei nudi una chiara impostazione di stampo purista.

A nostro parere la modernità del dipinto lascia stupiti, partendo dalla constatazione che le figure femminili sembrano tutte riprese dal vero con particolare cura; sono ritratti di donne in carne ed ossa, non mere idealizzazioni; in particolare la graziosa fanciulla di schiena in primo piano sulla destra sembra precorrere di secoli le intuizioni di Ingres, per il  neoclassico voluttuoso purismo da cui traspare in modo pungente la moderna emozione dal vivo, nella genuinità della posa e nella freschezza del dettaglio ispirativo. E cosa dire dell'incantevole giovinetta (fig. 189) che ci sfugge con lo sguardo sulla sinistra della composizione, dalla pettinatura che sembra uscita da un accorsato coiffeur e dal seno appena accennato. Una creatura diafana che sembra nata in un epoca in cui imperino le diete dimagranti e non le forme opulente care a Giorgione e Tiziano, una icona dal volto angelicato e dal corpo di una top model. E' certamente la modella della Susanna e i vecchioni (fig. 190) e forse la misteriosa Flora (fig. 191) del museo di Vienna.

Un altro soggetto mitologico, proveniente dalla collezione d'Avalos e descritto come gli altri nell'inventario stilato nel 1862, al momento della donazione della raccolta allo Stato, è Venere e Marte (fig. 192). Dobbiamo ricordare che il nobile marchese in quell'anno volle legare alla pinacoteca di Capodimonte la sua ampia e preziosa collezione, rimasta poi sciaguratamente per oltre un secolo nei depositi. Egli intese con il suo encomiabile gesto congiungere il nome della sua casata, che tanto amore nutriva per le arti figurative, all'eternità rappresentata dal museo, segno distintivo di un mecenatismo e di un'apertura mentale, di cui purtroppo si sono perse le tracce. La tela in esame è giocata su colori chiari e rassicuranti, che ben esprimono il momento culminante del colpo di fulmine tra le due divinità, umanizzate in un ambiente di sano sapore campestre. Gli amorini collaborano attivamente allo sboccio ed al materializzarsi del sentimento, in particolare, come fu sottolineato dalla Rocco, il più birbante che sta sciogliendo i calzari a Marte è un prelievo letterale dalla Toletta di Venere di Annibale Carracci, conservata alla National Gallery di Washington.

Pendant della tela precedente una Venere dormiente scoperta da un satiro (fig. 193) , anche esso nato come elegante sovrapporta.

La modella è una delle ninfe del Bagno di Diana (fig. 194) e la composizione è imperniata sull'uso di colori laccati, traslucidi e fortemente contrastanti, dal rosso cardinalizio dei tendaggi al blu metallico del prezioso panno su cui è adagiata la dea, dall'incarnato bianchissimo che fa risaltare la carnagione del satiro, paonazzo per il desiderio.

Il dipinto è impregnato dalla poetica del Domenichino e prende ispirazione da celebri lavori dei Carracci, conosciuti in area napoletana attraverso stampe ed incisioni, particolari che si apprezzano, come è stato evidenziato da Leone de Castris, nella figura  della dea distesa dolcemente, col braccio rialzato ad esporre meglio la grazia del seno appena accennato e nel particolare posizionamento della parte inferiore del corpo e delle gambe.

I personaggi in primo piano dominano la scena, lasciando al panorama un piccolo luminoso scorcio, il tono è scherzoso: dal sorriso ammiccante del satiro alla stessa Venere, che guarda ad occhi chiusi e sembra accettare volentieri le profferte d'amore e pregustare con compiacimento le gioie dell'amplesso imminente. Nel frattempo i due amorini, complici, dal corpicciuolo delizioso, emanano grazia e gentilezza e ben appagano, in sintonia col corpo nudo della dea e quello muscoloso ed agile del satiro, i gusti di quella particolare committenza desiderosa di un linguaggio profano, esaltato da una sensualità ben esposta.

Sempre proveniente dalla collezione d'Avalos, una Didone abbandonata (fig. 195) ci rammenta la storia dell'eroe troiano Enea, il quale, per volere degli dei, fu costretto ad abbandonare Didone, dopo aver goduto della sua ospitalità e del suo amore e riprendere il mare per lidi lontani, dove alti destini lo attendevano. Tela, dalla marcata impronta classicista, di grandi dimensioni e di soggetto insolito per l'artista, che forse si ispirò ad un celebre ciclo di storie della Gerusalemme liberata commissionato al Finoglio dagli Acquaviva di Conversano. Il dipinto è privo di ombre, una caratteristica costante negli anni della maturità dell'artista ed è venata da una piccola ma significativa nota naturalistica nelle appena accennate lacrime che intristiscono   il volto della sventurata regina.

Oltre al soggetto mitologico Pacecco dedicò una parte del suo lavoro anche al soggetto biblico ed al racconto dei Vangeli. Tra questi un Sacrificio nel tempio (fig. 196), conservato nel Castello di Opocno, incentrato su una serie di semifigure attorno al Bambino, che è lo stesso della tela di Gravina di Puglia (fig. 197), mentre altri personaggi presentano palesi somiglianze con altre tele del De Rosa; raffronti calzanti vanno inoltre fatti verso il Vescovo che battezza un bimbo, esitato in un'asta Christie's del 1980 e con il Battesimo di Santa Candida (fig.  198), al quale il dipinto in esame va accostato anche cronologicamente.

Un altro richiamo alle sacre scritture è costituito dalla Scena biblica (fig. 199) in collezione privata ad Ospedaletti, nella quale sulla destra della composizione si staglia poderoso un personaggio misterioso, probabilmente il committente, rappresentato con la forza e la vivacità di un ritratto.

Un Gesù e l'adultera di collezione privata napoletana (fig. 200), pubblicato dal Pacelli, prima come Stanzione, è un classico esempio del pennello del Pacecco intorno al 1645, quando egli imprime nelle sue tele una iridescenza di colori ed una materia cromatica densa nella definizione dei preziosi  abiti dei personaggi rappresentati. Il lato destro della composizione è il segno tangibile del persistere della lezione naturalistica del patrigno, anche negli anni di massima osservazione al dettato stanzionesco, con la resa quasi caravaggesca delle armature e degli elmi degli armigeri.

In prossimità cronologica con la tela testé descritta si colloca la originale composizione (fig. 201) nella quale il duca di Guisa riceve lo scettro   dalla

Madonna implorata da Ludovico da Tolosa, della quale abbiamo già presentato una modesta copia di bottega (fig. 202). E' l'unico dipinto del Nostro che rievoca con certosina precisione un episodio della storia napoletana. Per l'episodio illustrato l'opera va collocata cronologicamente tra il 15 novembre 1647, data dello sbarco nella nostra città del duca e l'aprile del 1648, quando il nobile francese conclude miseramente il suo sogno di potere. Il quadro, luminosissimo per gli sgargianti colori dei protagonisti, conferma il rango elevato della committenza dell'artista: lo stesso duca o i nobili che lo seguirono nella sua effimera avventura. La tavolozza è dominata dal contrasto tra  colori caldi e luccicanti, dai rossi agli arancioni che definiscono il sontuoso mantello  del titolato, indossato con eleganza sulla sua uniforme verde appesantita da decorazioni di ordini cavallereschi e collari vari, mentre San Ludovico da Tolosa, scambiato da alcuni critici erroneamente con l'onnipresente San Gennaro, è identificabile per il sontuoso manto con i gigli angioini che ricopre il primitivo modesto saio francescano.

Un quadro spettacolare del periodo d'oro è Giuseppe e la moglie di Putifarre (fig. 203), già in collezione Molinari Pradelli, nel quale, oltre ai colori rutilanti delle vesti, leggiamo le emozioni espresse dai volti dei protagonisti: morboso desiderio sessuale nella donna, ostinata ritrosia nel giovane, che non vuole tradire la fiducia del padrone.

Un capolavoro assoluto del nostro Seicento, oggi purtroppo ad ubicazione sconosciuta.

La Susanna e i vecchioni della pinacoteca di Capodimonte (fig. 204) ha come protagonista la modella preferita di Pacecco, forse una delle sue  sorelle, che abbiamo già conosciuto tra le ninfe  nel Bagno di Diana (fig. 205), la quale dà le sue fattezze alla casta Susanna. L'episodio è tra i più noti raccontati dalla Bibbia e costituisce una rivisitazione in chiave di naturalismo classicizzato delle tele dello Stanzione e del Reni dedicate a questa diffusa iconografia. Il dipinto, erroneamente considerato da alcuni studiosi tra i più antichi dell'artista, è viceversa collocabile cronologicamente intorno ai primi anni Quaranta, come ben si evince dalla preziosa veste damascata di uno dei vecchioni, il più eccitato, eseguito sotto l'imprinting di Artemisia Gentileschi, indiscussa autorità nel campo della resa cromatica raffinata. Lo sfondo boschivo richiama, nella definizione del fogliame, il pennello del Gargiulo e collabora a creare un'aria di mistero e di atemporalità alla scena. I personaggi parlano attraverso messaggi espressi perentoriamente con  le mani, con una gestualità tutta partenopea, e, possiamo intuire, anche arricchita da un vernacolo stretto, colorito ed onomatopeico.

In collezioni straniere troviamo altri due capolavori della maturità di Pacecco, una prorompente Lucrezia (fig. 206) che offre impavida il prosperoso seno al pugnale, conservata ab antico nella raccolta della famiglia Rochlitz ed un San Sebastiano curato dalle pie donne (fig. 207), in collezione privata ad Utrecht, attribuito in passato al De Rubeis, che reclama a gran voce la paternità del De Rosa.

Concludiamo la nostra carrellata con la Flora (fig. 208), conservata nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, della quale presentiamo una inedita replica autografa di altissima qualità dell'antiquario Currier di Napoli (fig. 209), che si differenzia dall'originale unicamente per la presenza di un nastrino nella ciocca dei capelli.

Il dipinto, eseguito con la precisione di un ritratto, faceva probabilmente parte di una serie raffigurante le quattro stagioni ed il nostro simboleggiava, con i suoi variopinti fiori, lo sbocciare della primavera.

Tra le fonti ispirative privilegiate della tela la pittura di Vouet, celebre ritrattista romano, esponente di spicco a Roma della corrente dei caravaggisti riformati, presente nella nostra città in chiese e nelle più importanti collezioni.

La fanciulla era una tra le modelle preferite di Pacecco, il suo volto con il caratteristico nasino, leggermente irregolare, è simile a  quello di più di una ninfa del Bagno di Diana.

Il pennello dell'artista ha indugiato a lungo sulla tela alla ricerca di raffinati giochi di colore e di effetti luminosi, senza tralasciare qualche appena accennato ricordo naturalista sulla guancia sinistra della Flora.

Il cestino dei fiori, in equilibrio instabile, presuppone la collaborazione di uno specialista, per la minuziosa indagine descrittiva dei petali e per la resa ottica delle singole specie raffigurate,  eseguita con preciso realismo.

L'avventura terrena di Pacecco con grande probabilità si conclude nel 1656, quando la peste, assieme a circa metà della popolazione napoletana, spazza via una intera generazione di pittori. Pochi si salvarono, o perchè lontani dalla città o perchè, come Micco Spadaro, al sicuro tra le accoglienti e sbarrate mura della Certosa di San Martino. Invano si è cercato e si cercherà il suo documento di morte, in quei terribili giorni i cadaveri venivano ammassati in fretta e seppelliti in gigantesche fosse comuni.

Con la morte la fama dell'artista lentamente cresce e senza mai toccare vette supreme, mantiene costantemente un posto di rilievo nel variegato panorama della pittura napoletana del XVII secolo.

Speriamo che questa monografia, contribuendo a conoscerlo più approfonditamente, contribuisca a collocarlo definitivamente tra i più abili artisti del secolo d'oro.

 

 

Al termine di questo lavoro mi preme ringraziare in maniera particolare gli amici ingegneri Dante Caporali e Ciro Piscopo per il fondamentale aiuto per l'impaginazione del testo e per mettere in orbita... sul web la monografia ed inoltre gli antiquari Chicco Giacometti e Dario Porcini per i preziosi consigli e per il materiale fotografico gentilmente messomi a disposizione.

Achille dellaRagione    a.dellaragione@tin.it

 

 

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