Dal carcere di Rebibbia:

 una raccolta di favole per bambini

autore Achille della Ragione
illustrazioni a cura di Leonardo Carignani di Novoli

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con illustrazioni

 

Dedica

Questo libro di favole è dedicato ai miei nipoti Leonardo, Matteo ed Elettra,
 ma anche a tutti i bambini del mondo e soprattutto agli adulti;
 che possano meditare e capire più in profondità il messaggio
 di speranza e di sofferenza che sottende ai vari capitoli.


1° capitolo
L'assalto alla Città dei Pirati

C'era una volta una città sul mare i cui abitanti vivevano felici e conducevano una vita tranquilla, lavorando e divertendosi. All'improvviso, di notte, si avvicinò alla costa una flotta di pirati, i quali erano abituati a scendere a terra per rubare e uccidere senza pietà.
Un brutto giorno dalle torri di avvistamento le sentinelle si accorsero che una flotta di galeoni, con la caratteristica bandiera nera con il lugubre teschio incrociato con le spade, si stava avvicinando e la battaglia era imminente.
Che cos'e' una battaglia? Una cosa che non dovrebbe esistere, ma purtroppo esiste dalla notte dei tempi, perché molti uomini sono cattivi.
Suonarono le campane di tutte le chiese e tutti gli uomini, anche i vecchi, brandirono le armi per difendere la città.
Nonno Achille fu nominato comandante di un manipolo di audaci, pronti anche a morire per difendere la popolazione.
Con lui vi erano Albertone, un gigante dalla forza mostruosa, Giorgio, esile ma furbo come Ulisse, Luigi e Giuseppe, i più giovani e coraggiosi, Cristiano, il più veterano che aveva sconfitto tanti pirati in precedenti combattimenti, Jacopo, sopranominato "Fast furious", specialista negli attacchi alle spalle, Tonino il calciatore, che sguizzava veloce lì dove gli scontri erano più cruenti, Luciano, uno zingaro, nero di pelle, ma dall'animo candido e Roberto, un tipo mite, ma che quando si trattava di combattere diventava feroce.
Alcuni di questi personaggi li descriveremo in successivi racconti.
Appena i pirati sbarcarono, i cittadini li affrontarono con impeto e coraggio; la battaglia infuriò per ore nelle strade e nelle piazze della città. Il sangue scorreva a fiumi e nonostante il valore dei difensori, alla fine i cattivi ebbero il sopravvento, rubarono nelle case e nelle chiese, uccisero centinaia di abitanti: uomini, donne, e bambini e fecero molti prigionieri, tra i quali nonno Achille e tutti i componenti del suo manipolo. I prigionieri, imbarcati in catene su un vascello, furono condotti in una prigione chiamata REBIBBIA, un vecchio castello dove gli sfortunati dovranno rimanere detenuti per un lungo periodo, in punizione per aver osato sfidare la loro furia devastatrice.


 

2° capitolo
Il trasferimento e la sistemazione dei prigionieri nella fortezza di Rebibbia

Tutti gli uomini catturati durante la battaglia furono stipati in tre vascelli e, dopo una notte di viaggio avventuroso in un mare in tempesta, durante la quale alcune navi rischiarono di affondare, furono condotti nella fortezza di Rebibbia, un vecchio castello, dove vengono sistemati in celle di pochi metri quadrati con letti a castello, degli armadietti dove riporre vestiti e stoviglie, un piccolo tavolo dove consumare pasti frugali ed un minuscolo stanzino da adoperare come cucina e per i bisogni corporali.
Ogni cella è occupata da sei prigionieri, che trascorrono gran parte della giornata come belve in gabbia. La mattina gli sventurati possono trascorrere qualche ora in alcuni cortili all’aperto, dove passeggiare e scambiare una parola con prigionieri di altri reparti. Vi è anche all’esterno un campo di calcio, un campo da tennis, che può pure trasformarsi per giocare a palla a volo, in maniera tale che i più giovani possano sfogare la loro rabbia e scaricare le energie represse. Per i più vecchi vi è soltanto la possibilità di passeggiare. Il pomeriggio si può di nuovo uscire per qualche ora dalle celle, percorrendo però soltanto il corridoio e fare amicizia con altri prigionieri. C’è pure una sala dove giocare a ping pong.
Il cibo che viene servito è di qualità scadente, spesso avariato, a tal punto che viene rifiutato perfino dagli animali, piccioni e gatti che vivono nei prati, ma per sopravvivere bisogna adattarsi e fare buon viso e cattivo gioco.
Ad alcuni prigionieri è permesso di lavorare: coltivare la terra, cucinare, portare il cibo, lavare il pavimento dei corridoi, raccogliere la spazzatura. L’assistenza medica è approssimativa, i farmaci scarseggiano e per chi è vecchio e malato, come nonno Achille, la situazione è drammatica.
Le giornate non passano mai e scorrono tutte uguali. La tristezza, la malinconia, la solitudine dominano incontrastate.
Quando piove non si può uscire dalle celle, fortunatamente spesso vi è il sole, che, oltre a riscaldare i corpi, infonde un certo benessere.
Nel cielo volano dei gabbiani. Come sono felici loro che possono andare dove vogliono!
Quante volte nonno Achille li ha invidiati! Avrebbe volentieri scambiato tutte le sue ricchezze per poter divenire uno di loro e spiccare il volo verso la libertà.
Nella fortezza di Rebibbia sono ammassati prigionieri provenienti da luoghi diversi e si parlano tante lingue, ma la solidarietà regna sovrana: ognuno divide quel poco che possiede con gli altri. Si tratta di una regola non scritta, alla quale nessuno trasgredisce.
Poco alla volta si costituisce una grande famiglia.
Se all’esterno ci fosse la solidarietà che si respira in quel luogo, il mondo sarebbe più buono e più degno di essere vissuto.


 

3° capitolo
Roberto e la gattina Chicca

C’era una volta…
Roberto, uno dei tanti sfortunati che deve trascorrere ancora molti anni in prigione per pagare il suo debito con la società. Passa alcune ore come lavorante, un modo per far trascorrere il tempo, ma soprattutto per rendersi utile nei riguardi dei suoi compagni di sventura. Gode però di un impagabile privilegio, come è consuetudine per i pochi detenuti che svolgono attività lavorativa, può usufruire di una cameretta di pochi metri quadrati, dove dorme da solo, anzi in compagnia, perché con lui vive una graziosa gattina nera: Chicca che di giorno, nelle ore d’aria, porta all’aperto, conducendola con un rudimentale guinzaglio di stoffa colorata. Chicca è stata raccolta nei prati contigui dove si trovano numerosi gatti, che sopravvivono grazie alla generosità di chi getta loro avanzi di cibo. Sui prati attorno alle celle svolazzano centinaia di colombi, ai quali, un anziano detenuto, con spirito francescano e tra gli sberleffi di tutti, getta il pane raffermo, che normalmente viene gettato nella spazzatura. I piccioni accorrono a centinaia e bisogna spezzare il pane in tanti piccoli pezzettini, altrimenti i più forti ed i più prepotenti mangerebbero tutto e molti rimarrebbero digiuni. Anche ai gatti, distribuendo avanzi di carne e di pesce, provvede l’anziano signore, che molti familiarmente chiamano Zio, nonostante sia nonno di tre bellissimi nipotini, mentre tutti gli altri si rivolgono a lui con il titolo di professore, perché è l’unico laureato e mette generosamente la sua cultura a disposizione di chiunque si rivolga a lui, scrivendo lettere, poesie, fornendo consigli legali e compilando i tanti moduli che un’asfissiante burocrazia richiede per ogni necessità. Tenere con se un animale è naturalmente vietato dai regolamenti, ma anche gli agenti penitenziari hanno un cuore e chiudono entrambi gli occhi, fingendo di non vedere Roberto che passeggia tranquillamente con la sua gattina. La sera la fa accucciare ai piedi della sua brandina, dopo averla a lungo accarezzata e si addormenta felice. Roberto non ha parenti che vengono a fargli visita, la sua famiglia lo ha abbandonato e l’unico conforto è la compagnia di Chicca, il solo essere vivente che gli vuole bene. Egli è rassegnato, ma sereno. Come lo invidia quell’anziano signore dalla barba bianca, cosa pagherebbe se potesse anche lui la sera addormentarsi, come ha fatto per tanti anni, con Attila, steso su un piccolo tappetino persiano, il suo fedele rottweiler, il piu’ affettuoso ed il piu’ fedele amico dell’uomo.


 

4° capitolo
Il colloquio dei prigionieri con i parenti

In passato i pirati permettevano ai familiari di riscattare i prigionieri, pagando una notevole somma di denaro ed a testimoniare questa antica consuetudine a Napoli, nel centro storico esiste ancora una chiesa, chiamata del “La redenzione dei captivi”, intendendo naturalmente per captivi non certo i bambini cattivi che rubano la marmellata di nascosto dai genitori, bensì la parola latina che indicava i prigionieri. Oggi invece i pirati condannano tutti coloro che catturano a pene diverse, a secondo dell’impegno con cui hanno partecipato alla battaglia, ma permettono ai loro parenti di incontrarli poche volte al mese per un’ora. I colloqui con i parenti sono un conforto molto importante, perché, anche se per una manciata di minuti, si possono toccare le mani delle persone care, scambiarsi confidenze, piangere assieme.
Purtroppo bisogna affrontare una doppia via crucis: dentro, per i prigionieri, attese interminabili tutti stipati in camere di sicurezza stracolme, mentre all’esterno i parenti fanno file massacranti di ore, sotto il sole e sotto l’acqua, senza un briciolo di pietà per bambini, malati ed anziani.
Fuori al portone alcuni si presentano alle quattro del mattino per essere tra i primi e non perdere interamente una giornata di lavoro.
La fila si snoda senza alcun controllo per cui è facile per i prepotenti scavalcare i più deboli o lo scatenarsi di risse e sono ben pochi quelli che cedono il passo a vecchi che si trascinano con un bastone o a donne con un bambino in braccio.
Ho assistito a scene di una cattiveria indescrivibile, come quando i guardiani hanno sequestrato un rudimentale pupazzetto di pezza ad un prigioniero, il quale dopo aver lavorato una settimana per realizzarlo, lo voleva regalare al suo figlioletto. Mi ha commosso anche vedere una zingarella di 9-10 anni accompagnare da sola i due fratellini per fare visita al padre.


 

5° capitolo
“Salvo per miracolo”

Nei prati intorno ai padiglioni della fortezza di Rebibbia vivono in perfetto accordo alcuni cani randagi e numerosi gatti, che sopravvivono grazie alla generosità dei prigionieri, i quali ogni giorno portano loro avanzi di cibo.
Tra questi vi è Fido, un bastardo, frutto probabilmente di un incrocio tra un cane e una lupa, perché ha degli occhi che incutono timore, ma è mansueto perfino con i gatti.
L’altro giorno vi è stata un’ondata di freddo polare, è caduta tanta neve e Fido non si è fatto vedere all’ora di pranzo. Molti hanno temuto che fosse morto assiderato e alcuni volenterosi si sono messi alla sua ricerca, fino a quando non l’hanno trovato in fin di vita sotto un albero, dove aveva cercato disperatamente un riparo. Il cuore batteva appena.
Si cerca di praticargli un massaggio cardiaco e poi un ragazzo tenta di soccorrerlo con una respirazione bocca a bocca. Una scena commovente, una simbiosi uomo-bestia, un richiamo a quell’amore sviscerato che lega da sempre tutti i viventi, non solo nella mitologia e nelle fiabe. Si percepisce il calore del fiato, che riscalda l’atmosfera ghiacciata, mentre si scruta con trepidazione il muso del cane per cercare qualche indizio di vita.
Lo portano al caldo in una cella, lo adagiano su due sedie vicino al termosifone, lo asciugano con il fono. Lentamente si vede il muso affilato cominciare a muoversi, un orecchio si muove.
Il giorno dopo con un cucchiaino riescono a fargli mangiare un uovo. Il rumore della lingua che lappa è una vera e propria sinfonia.
La bestia è salva. Una favola a lieto fine: bello il cane, belli i detenuti, belli i capelli del ragazzo che con il suo bacio gli ha ridato la vita.
Non è possibile credere che l’uomo sia l’unica meta della creazione e che tutto l’universo sia stato ideato per noi.
Così il Cristianesimo ha spesso dimenticato la natura.
Molti Santi hanno dedicato la loro esistenza al soccorso dei poveri e degli ammalati: compito degnissimo.
Soltanto San Francesco e qualche eremita hanno dedicato la propria vita a salvare una fonte, un albero o a proteggere qualche animale: compito non meno degno.


 

6° capitolo
Albertone il gladiatore, il gigante buono

Albertone, al secolo Alberto Santarelli, non è un criminale spietato, come tanti che affollano le straripanti carceri italiane, bensì un bonaccione dal fisico Erculeo da fare invidia a Maciste, un giovane sfortunato che ha conosciuto la droga da ragazzo e, per procaciarsela, ha commesso reati sempre più gravi, partendo dal furto per arrivare alla rapina.
É uscito ed entrato da galera ed ogni volta che tornava a casa la trovava sempre più vuota : sono infatti morti tragicamente prima il padre, poi il fratello, quindi la madre e le due sorelle. Era rimasto solo e disperato e si illudeva di trovare nella droga un conforto alla sua solitudine. Ha assunto di tutto, ma poi ha avuto la fortuna di trovare l’amore di una ragazza : Alessia, che ha saputo leggere nel suo cuore e lo ha incoraggiato di seguire un lungo e tormentato percorso di disintossicazione ormai completato.
Oggi Albertone ha pagato il suo debito con la giustizia e non vede l’ora di tornare a casa, sopratutto perché Alessia, nel frattempo, gli ha fatto uno straordinario regalo : è nata Gaia, una bambina bellissima.
Ed Albertone ha già un lavoro che lo aspetta : diventerà Spartaco, il prode gladiatore. Farà servizio al Colosseo dalle 9.00 alle 13.00 e dalle 15.00 alle 19.00. Sono certo che ci sarà la fila tra le turiste, giovani ed attempate, per una bella foto ricordo tra le sue braccia possenti e molte, attratte dai suoi muscoli debordanti e dai suoi tatuaggi ubiquitari gli faranno, come le antiche matrone romane, proposte indecenti, offrendogli cifre considerevoli. Ma Albertone le rifiuterà, non tradirà mai Alessia, gli basterà guadagnare quel tanto per vivere onestamente e sarà un esempio per tanti ex-detenuti, che non vedono l’ora di tornare a delinquere, ripercorrendo un diabolico circolo vizioso, che non si spezzerà fino a quando lo Stato non capirà che le galere devono favorire il reinserimento sociale del detenuto e non essere più terrificanti palestre di malavita.


 

7° capitolo
La battaglia per la libertà

Ogni mese nella fortezza di Rebibbia si svolgono delle sfide tra i pirati ed i prigionieri.
Capitan Uncino tra i corsari e’ il cattivo per eccellenza, l’uomo cattivo senza terra ne’ legge che odia i bambini e l’umanità.
La sua storia e’ avventurosa: egli secondo una leggenda e’ un figlio illegittimo del re Giorgio IV, nasce nel castello di Windsor, ma a seguito di un complotto di corte viene spedito con la madre, una popolana, in India.
Egli cresce così inconsapevole del sangue blu, che scorre nelle sue vene e a 13 anni s’imbarca come mozzo su un mercantile, diventando per il suo coraggio il favorito dell’avventuriero James Brooke.
Durante un arrembaggio perde una mano, che sostituisce con un uncino, ma la sua menomazione non gli impedisce di solcare per decenni gli oceani con la sua nave, seminando il terrore e la morte tra le popolazioni rivierasche. E’ difficile trovare qualche prigioniero che abbia il coraggio di sfidare Capitan Uncino, perché sa che quasi sicuramente va incontro alla morte, ma in caso di vittoria il premio e’ la libertà. Ed Albertone il gladiatore, per la sua forza erculea, vuole tentare la sorte, stanco della crudeltà di rimanere per anni recluso, privo di ogni dignità.
Il prigioniero può utilizzare per il combattimento solo un bastone e non gode di grandi possibilità di movimento, perché non gli vengono tolte le manette ai polsi, mentre Capitan Uncino, dotato di sorprendente agilità, possiede una lunga spada ed una mira infallibile.
La tenzone avviene di domenica a mezzogiorno e possono assistere tutti, pirati e prigionieri, i quali tifano entusiasti per il loro rappresentante. La lotta dura a lungo e sembra volgere a favore di Capitan Uncino, il quale per tre volte ferisce l’avversario, che sanguina abbondantemente per le ferite; ma all’improvviso con un colpo di mazza disarma della spada il pirata; gli piomba addosso e potrebbe strangolarlo.
Mosso a pietà, gli risparmia la vita e ritorna dai suoi compagni, tra un uragano di applausi. Le regole vanno rispettate e Capitan Uncino decide di donare la libertà ad Albertone, il quale, salutati i compagni in lacrime per la gioia, viene rilasciato in libertà e può tornare dalla moglie Alessia e dalla figlioletta Gaia.


 

8° capitolo
Rebibbia Uber Alles
 

Il penitenziario del carcere di Rebibbia è da alcuni mesi al centro dell'attenzione dei mass media internazionali.
Prima la visita del Pontefice, il quale, in occasione delle festività natalizie, non si è dimenticato di andare a visitare le sue pecorelle smarrite; ieri il trionfo, dopo oltre venti anni, al prestigioso festival di Berlino del film documentario dei fratelli Taviani, interamente girato nel carcere romano, con i detenuti che mettono in scena il "Giulio Cesare" di Shakespeare.
Una pellicola che non vuole compiacere il gusto del pubblico, ma intende scuotere le nostre certezze morali e civili, puntando l'indice sul disastro del nostro sistema penitenziario, dove la dignità umana viene calpestata ogni giorno, trasformando esseri umani, pur colpevoli di efferati delitti, in automi disarticolati, in pallidi ectoplasmi, a volte in marionette impazzite.
Il pubblico applaude con entusiasmo, ma molti hanno le lacrime agli occhi, al pensiero che i bravissimi attori: Cosimo, Salvatore, Fabio, Giovanni, Antonio, Vincenzo e Gennaro non sono presenti, rinchiusi nella solitudine delle loro celle.
Le scene sono state girate all'interno del reparto di massima sicurezza, nelle celle, nei cortili angusti e claustrofobici che costituiscono l'universo desolante di persone, le quali a contatto con le parole immortali del grande genio, hanno conosciuto una nuova dimensione provocando dirompenti emozioni.
Il film parla di intrighi, tradimenti, morte, uomini d'onore, una terminologia familiare per chi vive nel braccio di massima sicurezza e per chi è condannato per omicidio, mafia, criminalità organizzata. Comincia a colori con il finale del "Giulio Cesare", per proseguire poi con un livido bianco e nero.
L'energia della narrazione vive nello stridente contrasto tra i silenzi delle celle e la forza straripante della rappresentazione teatrale, con la struggente malinconia, alla fine dello spettacolo, del ritorno alla desolante realtà della reclusione.
Si tratta di un riconoscimento che, oltre a gettare di nuovo luce su un tema di scottante attualità, come la drammatica situazione in cui versa il nostro sistema carcerario, costituisce un plauso ai tanti volontari, che tentano con ogni mezzo anche attraverso l'arte ed il teatro, il recupero di tante vite difficili.
Il film è stato già visto in mezzo mondo, dalla Francia all'Inghilterra, dal Brasile all'Australia, fino addirittura alla Norvegia ed all'Iran e siamo certi che sarà accolto con interesse anche dal pubblico italiano.


 

9° capitolo
La festa della mamma nell’area verde

Nella fortezza di Rebibbia si sono create fra i prigionieri varie associazioni, una delle più attive è la Lega Ambiente con presidente Giovanni, la quale, oltre a diffondere l’abitudine della raccolta differenziata, organizza ogni anno due feste all’aperto nell’area verde, uno spazio dedicato agli incontri dei detenuti che hanno bambini piccoli, attrezzato con scivoli, altalene e tanti altri giochi, in maniera tale che si possa trascorrere qualche ora di svago.
Il 7 maggio, in occasione della festa della Mamma, si è svolta una manifestazione veramente grandiosa con la partecipazione di un gruppo musicale, il quale, per oltre 4 ore, ha allietato il pubblico, alternando ritmi moderni ad antiche melodie, mentre degli animatori organizzavano gare di abilità e vivaci tornei tra i figli dei prigionieri.
Si è svolta prima una corsa nei sacchi, nella quale bisogna fare un percorso con le gambe avvolte in un contenitore di tela.
Quindi si è passato alla pallacanestro, con 10 tiri da fermo per ogni concorrente, poi una stimolante caccia al tesoro, per finire in un allegro karaoke al quale hanno partecipato tutte le mamme.
Una giornata particolare, allietata dal sole prima di tornare nel buio delle celle.


 

10° capitolo
I 65 anni di nonno Achille

Il 1 giugno nonno Achille ha compiuto 65 anni nella fortezza di Rebibbia.
Ha ordinato una torta Mimosa da 60 euro per festeggiare con i compagni di reparto il giorno fatidico, con sopra scritto “Buon Compleanno”.
La mattina è venuto a trovarlo Gian Filippo, il figlio prediletto ed assieme hanno spento le candeline di legno, un sei ed un cinque, a simboleggiare l’età, poste su un ciambellone farcito di marmellata ed hanno brindato con dell’aranciata Fanta. Il resto della torta lo hanno offerto alla nipotina di un altro detenuto, una simpatica ed educata bambina, che ha detto: “Grazie signore”.
La sera, dopo una cena prelibata, preparata da Rudy, il cuoco personale di nonno Achille, che conosceremo meglio in una prossima puntata, alla quale hanno partecipato nella piccola cella, oltre ai quattro occupanti, alcuni amici più intimi, tutti si sono trasferiti nella sala del ping pong, dove alla presenza di tutti i prigionieri del braccio, circa 50 persone, si è consumata la grande torta, brindando con aranciata, coca cola e chinotto.
In carcere non si fanno gli auguri, ma molti hanno augurato a nonno Achille di ritornare presto libero, perché sanno che è innocente.
La sera prima di addormentarsi il festeggiato ha pensato alla sua famiglia lontana ed in sogno si è ritrovato con tutti: la diletta Elvira, i tre cari figli, gli amati nipoti, le tre zie vegliarde, il fratello Carlo ed il nipote Mario ed Attila, il fedele rottweiller, che aspetta il suo ritorno a casa.


 

11° capitolo
L’angelo della fortezza: Suor Ancella

I detenuti sono liberi di assistere alle funzioni religiose e molti, attraverso la fede, cercano un conforto per resistere alla perdita della libertà e soprattutto alla forzata lontananza dai propri familiari.
Oltre ai sacerdoti, esistono anche molti volontari, i quali, spinti unicamente dall’amore per il prossimo, si mettono a disposizione di tutti, sottraendo tempo alle loro attività esterne.
Tra queste figure giganteggia una suora dall’età indefinibile, che esercita da quasi trenta anni la sua nobile missione, sempre pronta a dare un consiglio, ma soprattutto a confortare chi si trova in maggiori difficoltà.
Il suo volto richiama a viva voce quello di Madre Teresa di Calcutta e la sua attività non conosce sosta, da domenica a domenica, per 365 giorni l’anno.
E’ sempre disponibile al colloquio, ad una parola d’incoraggiamento, a non cedere mai ed a tenere viva la speranza.
A chi ha bisogno regala: scarpe, giacconi, maglie, calzini, frutto della carità di anonimi donatori esterni.
Il suo nome è significativo: Ancella, cioè a disposizione di un padrone, ma per lei tutti possono disporre della sua bontà.
Un’altra sua qualità è di essere in confidenza con Babbo Natale, per cui, attraverso lui, fa pervenire ai bambini buoni bellissimi regali, come è capitato a Nonno Achille, che ha tre splendidi nipotini: Leonardo, Matteo ed Elettra, ai quali ha fatto recapitare, in occasione del Natale, 5 libri di favole, riccamente illustrati.


 

12° capitolo
Il Papa visita i gironi infernali

A dicembre il Papa si recherà nel carcere di Rebibbia a celebrare la messa e ad ascoltare, reparto per reparto, le esigenze dei detenuti.
Un gesto nobile, a pochi giorni dal Natale, che darà agli ultimi tra gli ultimi la forza di sopportare la sofferenza di trascorrere il giorno più lieto dell’anno nella solitudine e nella tristezza.
Il Papa nelle sue encicliche ha saputo parlare con estrema saggezza non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà e la sua visita non può essere vista solo nel quadro della sua missione di pastore, il quale tiene a cuore le sue pecorelle smarrite, bensì si carica di pregnanti significati simbolici.
Sicuro di interpretare le richieste di tutti i compagni di pena, anche se non sarò io ad avere il privilegio di parlargli, vorrei semplicemente dirgli: “Santità, le sue preghiere sono ben più potenti delle nostre. Faccia che la Giustizia divina, infallibile, illumini quella terrestre, spesso fallace, e la sua invocazione venga ascoltata non solo nell’alto dei cieli, ma anche nelle aule sorde e grigie del Parlamento, il quale, pur impegnato da pressanti problemi di natura economica, trovi il tempo e la volontà di varare un indifferibile provvedimento di clemenza, che permetta di sfollare le carceri e restituire ai detenuti, ridotti al rango di bestie, la dignità di uomini.


 

13° capitolo
Piena integrazione

Il problema dell’integrazione tra Italiani ed il fiume di stranieri che, anno dopo anno, sempre più affluiscono nel nostro paese, in un solo luogo ha trovato piena applicazione : nei penitenziari, soprattutto delle grandi città: Roma, Napoli, Milano, nei quali oramai "gli alieni" (ma sono nostri fratelli) costituiscono la maggioranza.
Nel buio delle celle vigono regole di solidarietà sconosciute nel mondo esterno, cosiddetto civile e tutti si considerano membri di una grande famiglia, chi non conosce la nostra lingua la impara in fretta, acquisendo anche la cadenza dialettale locale.
Un esempio virtuoso di cui tenere conto e da perseguire, perché non si può andare contro il corso della storia, Noi abbiamo bisogno della loro energia e voglia di conquistare il benessere ed è una fortuna non una calamità, che molti scelgono l’Italia, antica terra di emigrazione, divenuta oggi per tanti la Terra promessa.


 

14° capitolo
Il presepe a Rebibbia

Il presepe con il suo messaggio di pace e di buona novella rappresenta il momento culminante dell'amore di Giuseppe e Maria verso il loro fragile figlioletto destinato in breve tempo a cambiare il mondo e la tradizione di fabbricarlo risale alla fine del '400 per raggiungere il suo fulgore nel '700 a Napoli, quando alla sua creazione concorsero veri e propri artisti, impegnati a forgiare la figurine che ne animano lo scenario.
E' triste constatare come abbiamo trasformato il Natale da momento magico di letizia in un rito di massa, con grandi mangiate e smodate libagioni, acquisti sfrenati ed un'idolatrica prostrazione al Dio Denaro.
Bisogna approfittare di questi giorni in cui studio e lavoro presentano una pausa per riunire le famiglie, sempre più spesso separate, per santificare la festa.
Ogni anno i detenuti di Rebibbia preparano con impegni un grande presepe siamo certi che senza dubbio Ninno, vedendolo, alla domanda "Te piace 'o presepe", avrebbe risposto a Lucariello "me piace assai".
Il Natale dei detenuti di Rebibbia naturalmente è ben diverso da quello che si respira vicino ai propri familiari, ma la fede e la visita del Papa daranno loro la forza di trasformarsi, tutti uniti, nella più grande famiglia del mondo, superando così, in un giorno di letizia la tristezza, la malinconia, la solitudine.


 

15° capitolo
Il carcere come casa

Nella fortezza di Rebibbia non sono rinchiusi solo i prigionieri dei pirati ma anche delinquenti comuni, i quali si sono macchiati di gravi delitti: rapinatori, assassini, spacciatori di droga.
Tra questi mi ha particolarmente colpito una figura, Alì un marocchino che a vederlo sembra la persona più pacifica del mondo: educato, servizievole, sempre sorridente. Ogni qual volta lo incontro mi stringe la mano, mi chiede: ”Come sta dottore?” e mi prepara il caffè.
Un cameriere perfetto, lavoro che ha svolto impeccabilmente a lungo presso una celebre nobildonna famosa in tutto il mondo.
Egli mi ha confidato che in Italia si sentiva straniero, ma quando tornava sporadicamente in patria, anche lì si sentiva un estraneo. Ma la cosa che più mi ha sbalordito è quando ha affermato che ora in carcere ha finalmente trovato la sua casa e nei suoi compagni di sventura la sua famiglia. Ora potrà vivere sereno, studiando, lavorando, crescendo spiritualmente ed essendo utile agli altri.
Una forma di tolleranza al duro regime carcerario, che gli ho invidiato e che non, ho mai trovato nelle centinaia di storie di altri reclusi, disperati ed incattiviti, in preda allo sconforto, alla malinconia, alla solitudine.
Un esempio virtuoso sul quale meditare e che non finisce di meravigliarmi.


 

16° capitolo
Panuino, poliziotto severo dal cuore buono

Nella fortezza di Rebibbia, oltre ai prigionieri dei pirati, sono reclusi anche detenuti comuni, per cui, per tenere sotto controllo tante persone, lavorano anche uomini e donne della polizia penitenziaria. Tra questi vi è Panuino, molto temuto perché applica rigorosamente il regolamento e questa sua solerzia è scambiata per severità, ma egli con la stessa solerzia, se si avvede che un diritto di un detenuto non è rispettato, fa di tutto per rimettere le cose in ordine.
Io ho avuto un incontro ravvicinato col personaggio in questione, quando mi venne ritirato l'orologio, che mi era stato regalato dal cappellano ed io mi trovai e mi trovo in grave difficoltà, perché dovendo assumere ogni giorno 15 farmaci ad un orario preciso, commettevo e commetto gravi errori nell'assunzione. All'inizio ero inferocito, poi ho consultato il regolamento (che necessita con urgenza di un'ampia rivisitazione ed ho scoperto che il mio orologio non era regolare, per cui ero io in torto.
Mi sono affrettato ad ordinarne uno consentito, ma da 8 mesi sono in attesa che me lo consegnino.
Rimasi meravigliato quando qualche giorno dopo l'accaduto Panuino, sapendo che sono un appassionato di scacchi, mi mise a disposizione un splendida scacchiera.
Da allora vi è un rispetto reciproco.


 

17° capitolo
Un fiore nel deserto

La fortezza di Rebibbia non è soltanto sovraffollamento e solitudine, ma vi sono anche delle oasi di pace e di tranquillità, una delle quali è costituita dal gruppo universitario fatto nascere dal nulla negli anni da Sergio e frequentata da una ventina di detenuti che studiano Giurisprudenza, sotto la guida di illustri luminari e giovani dottorande con un rapporto docente-discente da fare invidia a celebri università come Oxford e Cambridge.
Fianco a fianco senza problemi siedono famosi politici e medici plurilaureati con efferati assassini e trafficanti di droga.
E' d'obbligo l'uso del tu anche fra professori e studenti. Ed assieme si trascorrono molte ore del giorno in ambienti estremamente accoglienti: una grande sala luminosa, dotata di aria condizionata ed una biblioteca fornitissima.
Studiare vuol dire libertà ed il gruppo universitario della fortezza di Rebibbia costituisce il tempio del sapere.


 

18° capitolo
Rudy il capocella di Nonno Achille

Nonno Achille è stato fortunato, perché è capitato in una cella di Napoletani, che gli vogliono bene e lo rispettano. Sono tutti molto giovani, intorno ai trenta anni!!
Vi è Alicella un ragazzo sfortunato, che ha perso da bambino la mamma e non riesce che raramente a vedere il padre, mentre nessuno gli scrive. Deve scontare una lunga pena, non riesce a lavorare e cerca di sfogare la sua rabbia giocando a pallone dove è un abile attaccante.
Vi è Pasquale, napoletano acquisito, in questi giorni molto depresso perché la fidanzata, per la quale aveva addirittura scritto un libro da pubblicare a giorni "Cronistoria di un amore folle" dopo anni di promesse e di colloqui, di punto in bianco con un telegramma, è stato lasciato dalla fidanzata, che gli ha preferito un altro.
Ma la figura di spicco, il capocella per anzianità di detenzione è Rudy, soprannominato il colosso, il quale per il nonno svolge varie funzioni, da guardia del corpo, a cuoco (preparandogli i piatti che preferisce),a cameriere personale. Gli fa il letto ogni mattina e lo consola nei momenti di sconforto, abbracciandolo e trasmettendogli così la sua energia.
Ha un bel bambino ed una moglie affettuosa che ogni settimana lo conduce da lui e solo così riesce a non pensare ai tanti anni di carcere che deve ancora scontare
E' un bonaccione anche quando strilla e vuole sembrare rude, non per niente si chiama Rudy.


 

19° capitolo
“L’OMBROSO”, UNA BAND DA SCHIANTO

Il reparto G8 di Rebibbia costituisce il fiore all’occhiello del penitenziario per le numerose attività che vi si svolgono: da un corso di giornalismo ad un gruppo universitario, che frequenta la facoltà di Giurisprudenza, ad una sezione molto attiva di Lega Ambiente, fino ad una compagnia di attori che allestisce spettacoli teatrali.
Ma l’attività più “rumorosa” è senza dubbio quella di un gruppo musicale alla quale spesso partecipa in prima persona anche uno degli educatori: il dottor Del Curatolo, persona umanissima ed appassionata, che vuole condividere con i suoi assistiti le note e l’atmosfera di sana allegria.
Ai detenuti bastano delle botti di legno percosse veementemente con nodosi bastoni per far sentire subito il rumore cupo e fragoroso, che devasta il cuore delle foreste africane, sono sufficienti pochi strumenti a corda per percepire le emozioni di Siviglia o di Barcellona, poche note dolenti di sax per aprire squarci poderosi sulla musica di oltre oceano dell’ultimo secolo.
Essa sa esprimere in egual misura l’amore e le passioni, ma anche l’indignazione e la rabbia attraverso una fontana di suoni, ora sussurrati ora gridati, in un immenso quanto sconvolgente geyser di emozioni canore.
Nel tempo varie band si sono alternate, perché fortunatamente qualche componente torna libero, ma viene subito sostituito, perché sono in tanti coloro che vogliono associarsi alla combriccola, che viene guidata da Andrea (foto), un musicista professionista, che funge da volontario e coordina le varie iniziative in campo musicale.
I partecipanti sono Giovanni ed Emiliano alla batteria; Salvatore, che si alterna tra basso e chitarra, oltre a cantare in maniera mirabile; Francesco alle percussioni; il dottor Del Curatolo, abile chitarrista, e Paolo, cantante e valido alle tastiere in egual maniera.
Il gruppo si è esibito più volte nella Festa della Musica, una manifestazione organizzata da Lega Ambiente nell’area verde, ma il sogno è di potersi esibire nel teatro del penitenziario davanti a tutti i compagni di sventura degli altri reparti; un sogno che, grazie alla sensibilità della direzione, sono certo diverrà presto realtà.
Tra le mura di Rebibbia di recente i fratelli Taviani hanno girato un film vincitore al Festival di Berlino, nel quale vi era uno spazio anche per la musica.


 

20° capitolo
La lavanda dei piedi

Durante le festività pasquali si susseguono le celebrazioni nella chiesa grande della fortezza per i prigionieri credenti e si percorrono le varie fasi della passione di Cristo, culminanti il venerdì nella sua morte sulla croce e la domenica nella sua resurrezione.
Il giovedì, nel momento culminante della Messa, si rammenta la cerimonia della lavanda dei piedi. Si scelgono tra le centinaia di presenti 12 prigionieri ed il cappellano capo, una delle maggiori autorità della fortezza, lava loro il piede destro, lo asciuga delicatamente e come atto di sottomissione lo bacia.
Quando venne il turno di nonno Achille, uno dei prescelti, il cappellano si avvide di una serie di escoriazioni sanguinanti lungo la gamba segno di una malattia emorragica di cui egli soffre ed esclamò solennemente: "Nel baciare il tuo piede ho l'impressione che si tratti del corpo piagato del Salvatore, sono emozionato". Potete immaginare la mia commozione nell'essere paragonato a Dio in persona.
Le Messe nella chiesa madre avvengono una volta al mese e ad esse partecipano festosamente in tanti, perché è una delle rare occasioni in cui si possono incontrare con detenuti di altre sezioni e prima della comunione, quando ci si scambia un segno di pace, si possono abbracciare e baciare vecchi compagni con i quali non ci si vede da mesi.
Il percorso della fede è anche uno dei mezzi per meglio tollerare le asprezze della detenzione e molti trovano Dio nel buio delle loro celle, il quale li guida paternamente nel difficile percorso dal profondo delle tenebre verso la luce.


 

21° capitolo
Achille della Ragione vincitore incontrastato

Un torneo autogestito si è svolto nel carcere di Rebibbia con la partecipazione dei una quindicina di detenuti. Vincitore a punteggio pieno è risultato il maestro napoletano Achille della Ragione davanti al maestro internazionale albanese Kusturica. Il giorno successivo in una grande simultanea il vincitore ha sfidato tutti i partecipanti, battendoli di nuovo tutti. Per l’autunno si prevede l’organizzazione di un corso di scacchi, per permettere a tutti di conoscere ed apprezzare questa nobile attività agonistica, che, oltre a tenere in esercizio l’intelligenza e la memoria, insegna la correttezza, per cui è stata giustamente denominata “Il gioco dei re ed il re dei giochi”.


 

22° capitolo
Michele il topolino curioso

Michele è l’unico topolino superstite di una cucciolata finita sotto le grinfie di una coppia di gatti famelici, che avevano divorato la mamma ed i suoi fratelli e sorelline.
Egli era riuscito a scappare, perché era molto veloce e per giorni e giorni aveva vagabondato per la città, mangiando nei bidoni della spazzatura tante cose appetitose abbandonate dai cittadini.
Aveva imparato ad attraversare sulle strisce pedonali ed osservava incuriosito il comportamento dei passanti, che gli sembravano animati da una furia frenetica, mentre a lui piaceva camminare piano piano e spesso riposarsi sull’erba, godendosi i raggi tiepidi della primavera.
Aveva notato che tutti camminavano con le mani libere, a volte adoperate per portare dei pacchi o spingere una carrozzina con un bambino; rimase perciò meravigliato, quando davanti ad una fortezza, arrivavano spesso dei camion blindati, dai quali discendevano degli uomini con i polsi serrati dalle manette, che venivano condotti all’interno.
Incuriosito girò lungo il muro di cinta fino a quando non trovò un buco sufficiente al suo passaggio, un piccolo percorso al buio ed eccolo a studiare da vicino questa umanità bizzarra che secondo lui agiva contro le regole della natura.
Passerà molti giorni all’interno e ci racconterà le sue mirabolanti avventure.


 

23° capitolo
Michelino nella fortezza

Camminò a lungo attraverso il foro ed all'improvviso si trovò accecato da un bagliore di luce tra enormi prati, sui quali affacciavano numerosi padiglioni, tutti stranamente muniti di sbarre alle pareti. Notò anche che vi erano numerosi gatti, ma si trattava di felini pacifici, che si nutrivano di spazzatura, anzi fece amicizia con Lucia, una gatta fortunata, perché ogni giorno nonno Achille gli portava dei bocconcini di pesce e di carne, oltre a tenere sempre piena la ciotola del latte e dell'acqua. Michelino divenne inseparabile con Lucia, la quale conosceva un luogo sicuro dove trascorrevano la notte.
Di giorno il topolino andava in giro per rendersi conto dei luoghi e per prodigio una fatina di passaggio gli permise di intendere il linguaggio degli uomini, per cui si accorse dai loro discorsi che non tutti erano cattivi, anzi molti erano buoni e docili.
Nel complesso vi era una grande chiesa, che il sabato e la domenica era affollata da molti detenuti, che si recavano ad ascoltare la messa. Alcuni si avvicinavano a degli armadi di legno ove si trovava un prete al quale confessavano i loro peccati.
Michelino rimase inorridito dalle cose che sentì e decise di lasciare subito quel luogo di sofferenza e di perdizione.


 

24° capitolo
Michelino nelle cucine

Uscì dalla chiesa di corsa e si avviò alla ricerca del buco da dove era entrato, ma durante il percorso fu attirato da un odore di cibo, che proveniva dalle cucine. Prima di andare via volle visitarle per constatare cosa mangiassero i prigionieri dei pirati. Percorse un corridoio ed in un momento in cui si aprì una porta si intrufolò all'interno e vide tanti pentoloni che bollivano e padelle che friggevano.
Il suo occhi esperto identificò sul pavimento il passaggio di suoi colleghi di stazza più corpulenta, dette zoccole o per essere più precisi topi delle chiaviche, che avevano lasciato degli eloquenti escrementi. Ciò che vide gli fece aumentare la voglia di scappare, ma sul percorso finale gli passarono davanti agli occhi immagini liete. Attraversò l'area verde dove possono accedere i bambini dei detenuti, un luogo ameno dove è possibile giocare a pallone usare l'altalena o lo scivolo e sanamente divertirsi anche se il poco tempo passa in un attimo.
Ritrovato il buco Michelino di corsa andò verso la libertà e appena uscito tirò un sospiro di sollievo di aver abbandonato quella triste e cupa fortezza.


 

25° capitolo
La gatta Lucia

Abbiamo già conosciuto in una favola precedente una gattina: Chicca, il cui padrone aveva anche il privilegio, tenendo una camera singola, di portarla la sera a dormire ai suoi piedi.
Nonno Achille anche lui ha una gatta che lo ha preso in simpatia, si chiama Lucia e vive da tanto tempo a Rebibbia, sopravvivendo, razzolando tra i rifiuti.
Ma da un anno a questa parte, nonno Achille si è preso cura di lei, la mattina divide con lei la sua porzione di latte e ad ora di pranzo, se vi è carne o pollo, rinuncia volentieri per darlo a Lucia, come pure sta sempre attento che non gli manchi l’acqua. Per tenere lontani i colombi, sparge lontano pasta e pane, affinché non la infastidiscano.
Lucia appena la mattina intravede nonno Achille, gli si avvicina, perché sa che non rimarrà delusa. Poi dopo mangiato si mette tra le sua gambe ed ama essere accarezzata a lungo.
E’ una gatta pacifica, abbiamo visto che ha fatto amicizia con Michele il topo e ,quando lui ha scelto la libertà, è rimasta molto dispiaciuta.
Chi sceglierà alla fine il primo finale vedrà nonno Achille ottenere dalla direzione di portarla con sé e vivrà nel giardino della villa di Posillipo, dove farà addirittura amicizia con Attila, il rottweiler più buono che esista.


 

26° capitolo
Da professionista a barbone

Non vi diremo chi è il personaggio di cui parleremo, ma vi sarà facile identificarlo.
Fuori era sempre elegante nelle manifestazioni ufficiali: completo Rubinacci e cravatta di Marinella, che il suo cameriere personale gli sceglieva. intonandole a seconda del colore del vestito e della camicia, e addirittura, se fuori era nuvoloso o se splendeva il sole.
Ogni giorno amava confrontarsi con intellettuali di ogni genere: scrittori, storici, registi, docenti universitari. Frequentava i più importanti ed esclusivi circoli cittadini, dove spesso teneva conferenze sui temi più vari.
Aveva uno studio affermato, al quale affluivano moltitudini di pazienti da tutta Italia.
La sera amava andare a teatro, soprattutto al San Carlo, dove non perdeva una prima con al fianco la sua adorata moglie Elvira, sempre elegantissima, ammirata ed invidiata da tutte le altre signore.
Poi all'improvviso a seguito di una sentenza ingiusta, che grida vendetta davanti a Dio, la sua vita è cambiata radicalmente: i suoi interlocutori, salvo rarissimi casi, sono drogati, rapinatori, truffatori, assassini, con i quali è impossibile abbozzare qualunque discussione e con i quali trascorrere ore inutili tra scope, briscole e rubamazzetto.
Abituato alla sua vasca idromassaggio con spruzzi di acqua calda, ora deve arrangiarsi a brevi docce tra il tiepido e il gelato.
Abituato a pasti succulenti ed a cenare nei migliori ristoranti, ora deve cibarsi di pasti, che farebbero rabbrividire, il più delle volte, il meno schizzinoso dei maiali.
La sera bisogna contentarsi di film d'annata, che i compagni di cella scelgono tra i più truculenti del genere poliziesco. Il suo vestiario farebbe inorridire il più lercio dei barboni.
La notte si sistema nel suo giaciglio tra coperte bucate e lenzuola lercie, e dopo aver assunto dosi massicce di sonniferi si addormenta abbracciato a tre rudimentali cuscini, imbottiti di panni vecchi e puzzolenti.
Fortunatamente sogna di essere libero e trascorrere ore liete con i suoi familiari e con i suoi tanti amici, che vengono a fargli compagnia, molti anche morti da molti anni.


 

27° capitolo
Beati loro

Da sempre amo leggere la divina commedia e ne conosco a memoria i versi più famosi. L'altro giorno, mentre recitavo i passi immortali della storia di Paolo e Francesca ad altri compagni, ho provato invidia per i due amanti, condannati a vagare per l'eternità tra le fiamme dell'inferno, ma teneramente abbracciati; mentre io e mia moglie Elvira, senza aver commesso alcun peccato, siamo costretti a vivere la stessa pena, ma separati.
Lei a fare la nonna a tre vispi nipotini a Bruxelles, mentre io nel buio della mia cella, e possiamo stare abbracciati poche volte al mese, e solo per pochi minuti


 

28° capitolo
Il campionato di pallone tra prigionieri e pirati

Ogni domenica si svolge tra otto squadre, 4 di prigionieri e 4 di pirati un animato campionato di pallone, che vede nelle tribune un tifo scatenato con bande di ultras, che non hanno nulla da invidiare a quelle del Napoli o della Roma.
Le prime due squadre classificate svolgono poi una finale alla quale è permesso di assistere ai familiari dei detenuti.
I tre migliori giocatori della squadra che partecipa alla finale, a giudizio insindacabile di Capitan Uncino ottengono la libertà tra il tripudio dei parenti.
Il calcio non è l'unica attività sportiva che si può frequentare, a Rebibbia: vi sono anche attrezzate palestre e campi da tennis. La tenuta del fisico è tenuta in gran conto dai pirati, perché non sono pochi i prigionieri che chiedono ed ottengono di diventare corsari e, se forti ed audaci, dopo un breve corso vengono arruolati.


EPILOGO

Un anno è ormai trascorso il 3 ottobre

Il racconto di favole dalla fortezza di Rebibbia deve concludersi, ma non conosciamo ancora il finale della storia, per cui ne ipotizziamo tre diverse, avvertendo il lettore che, se fino ad ora abbiamo scritto prevalentemente per i bambini, mentre lasciavamo ad un pubblico adulto la sottigliezza di cogliere l’allegoria nascosta, i prossimi capitoli si rivolgono esclusivamente ad un pubblico maturo.

Primo finale
Nonno Achille, essendo innocente, ha tentato da tempo di riavere la revisione del suo processo, cercando di dimostrare che lui non ha ucciso alcun pirata, ma si è limitato, come ogni maschio adulto, a scendere in piazza a difendere la sua città.
Nel processo precedente vi erano stati ricatti, estorsioni, intimidazioni e prove false, che si discuteranno oggi nel Gran Consiglio dei Pirati davanti ad una giuria presieduta da Capitan Uncino.
Il pensiero di un esito negativo mi paralizza, sono certo che la prossima crisi di angina mi sarà fatale, anzi quasi lo spero, perché quando succederà sarà una vera liberazione.
Mi aggrappo con tutte le forze ad un intervento divino, che possa influenzare la giustizia terrena. Da settimane le mie zie ultranovantenni, donne di chiesa con il Paradiso assicurato, hanno recitato Rosari per me, alternandosi giorno e notte; alcuni compagni, testimoni di Geova, hanno pregato il loro dio d’intercedere in mio favore, addirittura Alì ed Omar mi hanno riferito di avere pregato cinque volte al giorno Allah di farmi liberare.
All’improvviso verso le 20, una guardia carceraria, Salvatore, mai nome fu più adatto, mi avverte che sono libero e posso tornare a casa.
L’incubo è finito, ma non riesco a convincermi, sbatto ripetutamente la testa contro il muro per essere certo che non si tratti nuovamente di un sogno. Saluto piangendo i tanti compagni di pena, raccolgo in un grosso sacco della spazzatura i miei vestiti ed esco dalla cella. Mi accompagnano all’ufficio matricola per le formalità burocratiche, che saranno lunghe, laboriose ed estenuanti.
All’uscita scorgo un taxi che fermo al volo e chiedo di potere telefonare a casa per informare i miei cari del mio ritorno.
Al cancello mi attende impaziente mio figlio Gian Filippo con Attila al guinzaglio, prego il tassista di attendere, fra poco arriverà il denaro per la corsa.
A casa mia moglie e mia figlia Marina mi aspettano con le lacrime agli occhi, mi stringono a loro, vogliono che mi pesi: 79 chili, 18 mesi fa ne pesavo 113.
L’indomani abbraccerò anche l’altra mia figlia Tiziana, in arrivo da Bruxelles dove lavora, che in un anno non ha mancato una visita pur di potermi vedere per pochi minuti.
In passato mi ero lambiccato il cervello alla ricerca di cose rappresentassero per l’uomo il dolore e la felicità.
Anni fa organizzai un importante convegno all’Istituto italiano per gli Studi Filosofici: “Perché il dolore? Una risposta fra scienza fede e filosofia”. Invitai teologi, psicanalisti, letterati, filosofi, specialisti in terapia del dolore. Nessuno mi convinse con le sue argomentazioni.
Fra i miei ultimi scritti vi è un piccolo saggio sulle “Basi biologiche della felicità”.
Ho sprecato inutilmente il mio tempo.
In pochi minuti, come una folgorazione, avevo avuto chiaramente la visione del problema: uscendo dal carcere, avevo impresso per sempre nella mente e nell’anima cosa fosse la sofferenza, mettendo piede a casa avevo percepito cosa fosse la felicità.
Questo primo finale è giunto al termine: l’ultima scena sulla quale si chiude il sipario è l’abbraccio interminabile sul divano del mio salotto con Attila, il mio fedele rottweiler, una stretta affettuosa 20, 30, forse 40 minuti, fino a quando gli occhi gelosi dei miei familiari mi fanno intendere che mi debbo dedicare a loro.

Secondo finale
I giorni passano tutti uguali, trascorrono i mesi e il tempo sembra fermarsi in un eterno presente. Non bisogna pensare al passato glorioso, per evitare inutili rimpianti, né si può ipotizzare un futuro, incerto e nebuloso, soprattutto per nonno Achille che è vecchio e malato.
Lentamente gli amici tendono a dimenticarti, le lettere diventano sempre di meno, addirittura gli stessi parenti, presi dal lavoro e impediti dalla distanza cominciano a diradare le visite.
Ti senti sempre più solo, perché a farti compagnia costantemente sono soltanto la nostalgia, la malinconia, la solitudine, la sofferenza.
Cominci a perdere ogni stimolo per la lettura di libri e giornali, che hanno costituito l’interesse di una vita, hai difficoltà a scrivere; ogni lettera devi rileggerla più volte perché piena di errori di ortografia e di grammatica ed un tempo eri giornalista e scrittore.
La mattina, all’ora d’aria, cominci ad ascoltare delle voci che ti chiamano, prima indistintamente, poi lentamente cominci a riconoscerle: sono i tuoi vecchi amici scomparsi, sono i tuoi genitori, alcuni sono sconosciuti.
La notte per tanti mesi aveva costituito una sorte di liberazione, infatti alle 21 ero già fra le braccia di Morfeo, sognavo di essere fuori da questa squallida fortezza e potevo trascorrere ore liete da uomo libero in compagnia dei miei cari e dei miei tanti amici, anche quelli scomparsi da tempo. Ciò fino alle 8 del mattino, quando il risveglio dei compagni di cella mi costringeva a tornare alla dura realtà.
Ora anche il sonno era popolato da incubi e da lunghi periodi di veglia di 3 o 4 ore. Spesso e volentieri, mi veniva a trovare Lucifero e mi invitava a far del male ai miei compagni: “ammazzali” - mi urlava – “sono cattivi, devi ammazzarli”.
Gridavo come un ossesso, ma nessuno mi sentiva, provavo ad inginocchiarmi e a pregare e solo allora, qualche volta, scompariva.
Nei corridoi non riconoscevo chi mi salutava, dopo aver perduto oltre trenta chili, ero ormai diventato un pallido ectoplasma, un automa disarticolato, una marionetta impazzita. Percepivo l’inutilità di una vita trascorsa in quelle condizioni, ma ero assolutamente impotente.
Poi giunse un giorno in cui il frastuono della televisione accesa dai miei compagni non mi svegliò, cominciarono a preoccuparsi solo dopo un’ora, quando, arrivata la colazione e pronto il caffè, continuavo a giacere a letto con la testa coperta dal lenzuolo come ero solito dormire.
Prima mi chiamarono più volte, poi visto che non rispondevo, si avvicinarono e mi strattonarono più volte, ma niente da fare, la morte mi aveva ghermito (probabilmente un infarto) durante il sonno.
Il corpo fu avvolto in una coperta, giunse il prete per una benedizione e poi il lungo viaggio verso Napoli, che il destino non mi ha concesso di rivedere da vivo, ma che accoglierà le mie spoglie.
Una commovente cerimonia funebre nella cappella di Villanova ed ora abito nella nicchia di famiglia, in compagnia di mio padre, di mia madre e della piccola Tiziana, la mia prima tenera figlioletta morta durante il parto.

Terzo finale
Quale dei tre finali che stiamo proponendo al lettore sarà quello che realmente si verificherà? Ognuno potrà scegliere quello che più gli piace, ma uno e uno soltanto: il caso, la divina provvidenza o qualche forza sconosciuta sarà a determinarlo, anche se un piccolo spazio è riservato al libero arbitrio, come in questa terza conclusione, la più truculenta, che ci sentiamo di vietare ai minori di 14 anni.
Nonno Achille ormai è stanco di vegetare, perché oltre alla libertà, gli è stata sottratta la dignità di uomo e soprattutto la speranza. Decide che l’unico metodo per uscire dalla fortezza è quello di suicidarsi.
Essendo un medico, avrebbe mille modi per mettere in pratica la sua decisione: mettere da parte per due settimane i 15 medicinali che gli vengono somministrati ogni giorno ed assumerli tutti insieme, oppure con una lametta recidere la femorale o la giugulare, ma viceversa, esibizionista come sempre, sceglie il più spettacolare, che avendo un inevitabile risalto mediatico, possa creare clamore ed attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e del governo sulla drammatica situazione in cui versano i penitenziari italiani.
Nella fortezza esiste la chiesa centrale, una splendida struttura in grado di ospitare centinaia di detenuti e dove è venuto in visita anche il papa a tenere un nobile discorso, che però non ha sortito alcun risultato, a cui fece eco il ministro della giustizia, anche lei con belle parole e lodevoli proposte, che non hanno cambiato di una virgola sovraffollamento ed invivibilità delle carceri.
Al centro della chiesa giganteggia un Crocifisso di oltre cinque metri, una scultura moderna che richiama a viva voce lo stile di Sassu e che incute a tutti i presenti un sacro timore reverenziale.
Un pomeriggio, al termine della funzione, riuscii a nascondermi in uno sgabuzzino, dal quale, scavalcando un muro interno, si accedeva ad un corridoi cieco dove attesi la mezzanotte.
Nel frattempo non avendomi visto rientrare in reparto, scattò l’allarme generale e cominciarono a cercarmi senza esito in ogni angolo del carcere, concludendo, alla fine, che probabilmente mi ero abilmente mischiato al gruppo dei visitatori ed ero uscito dalla porta principale beffando gli agenti addetti al controllo.
Fu lanciato l’allarme all’esterno e tutte le pattuglie di polizia e carabinieri si misero alla ricerca del pericolo evaso.
A mezzanotte, nel silenzio più assoluto, mi inginocchiai ai piedi del Crocifisso, chiesi a Dio perdono per quello che mi apprestavo a fare e nello stesso tempo di fornirmi il coraggio di farlo.
Il pensiero andò ai miei familiari, a mia moglie ed ai miei figli e chiesi perdono anche a loro perché li privavo della mia guida.
Quindi salii con difficoltà alla sommità della croce, fissai il robusto laccio alla testa del Cristo e l’estremità al mio collo. L’ultimo pensiero ai miei genitori: mamma, papà fra poco ci rincontriamo. Un profondo respiro e poi giù nel vuoto.
Mi trovarono l’indomani con gli occhi strabuzzati, la lingua da fuori ed i pantaloni bagnati per la classica perdita delle urine.
In un battibaleno giunsero giornalisti e televisioni e l’episodio occupò le prime pagine di tutti i giornali. Il governo non rimase insensibile ed invitò l’esercito a liberare tutti i prigionieri dei pirati, mentre per i detenuti comuni furono emanati un’amnistia ed un indulto.
Non fu perciò una morte inutile, perché mi liberò da tante sofferenze e produsse grandi benefici ai miei compagni di sventura.


AUTORE

Il dott. Achille della Ragione è nato nel 1947 a Napoli, sposato con Elvira Brunetti, tre figli: Tiziana, Gian Filippo e Marina; tre nipotini: Matteo, Leonardo ed Elettra ed un affettuoso rottweiler: Attila.
Laureato in Medicina, con specializzazione in Ginecologia ed in Chirurgia generale, nonché in Lettere moderne.
Lasciata per problemi cardiaci la medicina, coltiva con impegno alcuni interessi: gli scacchi e la storia dell'arte. E’ uno dei massimi esperti della pittura del Seicento napoletano, sulla quale ha pubblicato 35 volumi.
In campo scacchistico è dal 1994 "Maestro", massimo titolo conferito dalla Federazione scacchistica italiana; ha ricoperto per molti anni la carica di Presidente della Lega campana scacchi. Nel 1998 ha sfidato in una simultanea, l'ex campione del mondo, il sovietico Boris Spassky, partita nella quale fu l’unico a batterlo.
Collabora da anni con numerose riviste e testate online e cartacee.
Da quando il 28 aprile del 1978 comparve in prima pagina su "La Stampa" una provocatoria intervista sull’aborto, è al centro di furibonde polemiche.
Uomo di multiforme cultura partecipò nel 1972 a Rischiatutto e conserva gelosamente i gettoni d’oro vinti nell’occasione.
Attualmente è recluso a Rebibbia dove sconta una condanna per violazione della legge 194/78 sulla interruzione volontaria della gravidanza.

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