il seno nell'arte

dall'antichità al settecento

  Capitolo 1

Il seno nell’arte antica

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Il capitolo della rappresentazione del seno nell’arte è poco meno che sterminato, perchè già nelle epoche più remote ignoti artisti hanno glorificato questo prezioso attributo della femminilità.


fig.01

La più antica testimonianza può essere considerata la Venere di Willendorf (01) del Kunsthistoriches museum di Vienna, risalente al Paleolitico. Raffigura una Grande madre o una Madre originaria. E’ un simbolo universale del femminino, una dea dell’amore e della fertilità ed è caratterizzata da una marcata evidenziazione dei genitali esterni e da un seno spazioso e prominente. L’evidenziazione di caratteri che richiamano un chiaro principio di fertilità identificano questa figura femminile come dea madre, garante di un rinnovamento regolare della vita. Questa immagine gioca un ruolo particolarmente significativo in una società fondata sulla produzione di risorse naturali. In questa Venere ottentotta le forme femminili sono esasperate oltre misura in una deificazione della fertilità senza nulla concedere al bello come concetto estetico, categoria che comincerà ad affermarsi soltanto a partire dal classicismo ellenico.


figg.02 e 03

Intorno a 6000 anni prima della nascita di Cristo risale il modello d’argilla policroma (02) della cultura di Halaf, conservato al Louvre, raffigurante una figura femminile dalle forme accentuate e caratteristiche. La scultura è completamente nuda, accovacciata, con le braccia ripiegate sotto i seni molto marcati, in un’originale posizione evocatrice del parto.
La cultura di Halaf segue quelle di Hassuna e di Samara e nasce nella regione della Siria e della Mesopotamia settentrionale. Essa è portatrice di tradizioni architettoniche caratterizzate da abitati di forma circolare. I piccoli villaggi vivono grazie ad un’agricoltura cerealicola specializzata. La principale caratteristica di questa civiltà risiede nella produzione di una ceramica dipinta di notevole qualità sia per la varietà delle forme spesso audaci, che per la ricchezza delle decorazioni policrome, di foggia geometrica o naturalista.
La scultura del Louvre è una figura di donna caratteristica della cultura Halaf, alcune linee di pittura bruna segnano il corpo, mentre la testa è appena accennata e le mani ed i piedi sono assenti. Gli attributi della femminilità che sono le anche ed i seni, appaiono in evidenza, fortemente marcati.
Queste Veneri preistoriche riflettevano un ordinamento sociale in cui le donne ricoprivano un ruolo di primo piano, in un periodo storico in cui mancano immagini di combattimenti, mentre nella maggior parte delle religioni l’immagine della mammella viene collegata ad un primordiale principio di fecondazione e nutrimento.
E tale situazione di predominio femminile prosegue nella Creta minoica dove le donne, come capi clan o regine o sacerdotesse, assumevano spesso un ruolo dominante, che ben si esprime nella figura della dea dei serpenti, della quale possiamo farci un’idea ben precisa attraverso una statuetta di terracotta policroma (03) del museo Archeologico di Candia, che la rappresenta come una donna molto truccata e con il seno prominente e nudo. Anche le Cretesi di alto lignaggio indossavano come la dea o le sacerdotesse della sua casta questi indumenti, che stringevano la figura per alzare ed accentuare i loro seni nudi ed enfatizzare i fianchi, facendo apparire i loro corpi più slanciati e voluttuosi. La civiltà minoica rappresentò la prima cultura estetizzante, nella quale la cura nel vestire si configurò come una vera e propria arte, a tal punto che l’abbigliamento cretese deve essere considerato il più antico precursore della moda del XX secolo.
Anche le donne egiziane di alto rango, come le cretesi, circolavano abitualmente col seno scoperto, con la sola differenza che questo non era sostenuto dalla pressione di un corsetto.


fig.04

Tra le antiche civiltà, presso gli Egizi, la figura di Iside raggiunge la maggiore estensione cronologica e geografica, dall’area del Mediterraneo alle remote regioni transrenane e transdanubiane. In seguito, con l’affermazione del Cristianesimo, la sua immagine mentre allatta Horus rivive nella Madonna del latte, iconografia di grande diffusione della quale mostriamo un esempio (04), di collezione privata napoletana, dovuto al pennello di un ignoto stanzionesco, attivo intorno al 1640.


fig.05

Nella mitologia greca il mito della Grande madre si trasferisce nella dea Giunone, la quale, una volta accolta nel pantheon romano, diventa la protettrice delle donne ed un archetipo di bellezza che giungerà immutato fino al Rinascimento. La divinità era portatrice anche di una simbologia materna, che trova la sua poetica affermazione nel mito della Nascita della via Lattea, originatasi da un abbondante fiotto di latte schizzato dai suoi seni prorompenti mentre allattava il piccolo Ercole (05), come magistralmente narrato dal Tintoretto nella sua tela oggi a Londra alla National Gallery.


Fig.06

Le Mater Matuta, significative testimonianze dell’arte popolare delle antiche genti campane, sono statue in tufo raffiguranti Madri (06) con sulle braccia neonati in fasce in atto di offerta alla dea Matuta, tutrice della maternità e della fecondità. Esse sono conservate in numerosi esemplari al museo Campano di Capua e coprono un lungo periodo dal VI al I secolo a.C. Le sculture votive di madri ultra prolifiche esaltano con acuto realismo la vigoria di una popolazione che riponeva nella fecondità l’unico mezzo efficace per espandersi, occupando nuovi territori.
La dea chiamata Mater Matuta era una antica divinità italica dell’aurora e della nascita e le Madri rappresentavano una sorta di ex voto, un’offerta propiziatoria e l’espressione di un ringraziamento per la concessione del sommo bene della fecondità. A differenza delle Veneri paleolitiche, nelle quali mammelle ed organi genitali erano di cospicue dimensioni, nelle Madri il seno, per quanto opimo, cede la scena ai numerosissimi pargoletti, che in una scultura sono addirittura ben undici. Esse formano un complesso unico ed un raro documento di scultura pre imperiale, caratterizzata da realismo spiccato ed una tendenza ad esprimere il carattere anche per tratti sommari, senza preoccuparsi eccessivamente della forma.


fig.07

Sempre in tema di fecondità e di nutrimento attraverso il latte una silloge perfetta può essere considerata l’Artemide Eresia (07) conservata nel museo Archeologico di Napoli, una replica romana in alabastro della statua del santuario di Efeso, simbolo di fertilità e di forza vitale, ben espresse dalle numerose file di mammelle pendule, alle quali fanno da contraltare i poderosi scroti dei tori sacrificati. La dea dai molti seni ha un grande ascendente sugli uomini e sugli dei, infatti sia gli uni che gli altri la cercano e la desiderano e lei può ottenere tutto ciò che vuole. Le donne la guardano viceversa con stupore ed invidia per l’autorità ed il potere che possiede. Al suo cospetto le mani vogliose dell’uomo rimangono incerte su quale seno afferrare e finisce per stringerli tutti assieme appassionatamente, rischiando di soffocarne qualcuno.


fig.08

E sempre nel museo napoletano, nella sezione del Gabinetto erotico, degna di nota una statuetta fittile (08), proveniente da Pompei, che illustra la leggenda di Perona che allatta Micone, il vecchio padre prigioniero e condannato a morire di fame. Del celebre mito, trattato anche in pittura, parleremo più diffusamente quando di esso si occuperà Caravaggio in un episodio delle Sette opere di Misericordia.
Pompei era la città dove vi era la più alta concentrazione di bordelli di tutti i tempi, un vero Guinness dei primati; per una popolazione di circa 10.000 abitanti vi erano 300 bordelli, lo stesso numero dei forni. Sesso come il pane, di consumo quotidiano e frequentemente all’esterno dei lupanari, precorrendo la moderna pubblicità, erano rese di dominio pubblico le prestazioni erotiche nelle quali le prestatrici d’opera della casa erano particolarmente esperte, senza lasciare alcun spazio alla fantasia. Anche nelle case dei ricchi vi erano affreschi e mosaici che inneggiavano alle gioie della coniuxio. I Romani consideravano la pratica del sesso un evento del tutto naturale, i fulmini sessuofobici della cattolicità erano di là da venire, e spesso, soprattutto nelle classi più agiate si praticava un sesso a 360°, senza fare distinzione se il partner fosse maschio o femmina.


fig.09

Nella villa del celebre banchiere pompeiano Cecilio Giocondo vi erano numerosi pannelli con scene dionisiache, posti all’altezza delle finestre, interpretate da Satiri e Menadi e realizzate da artisti specializzati nel genere. Intrise di un nitore classicistico, che ne attenua l’aspetto a volte violento della scena, fanno altresì risaltare il contenuto erotico e l’ars amandi, nella quale i Romani erano grandi conoscitori, non solo a livello teorico. Nel pannello (09) conservato nel Gabinetto erotico napoletano, una raccolta unica nel suo genere e visitata con interesse da turisti di tutto il mondo, abbiamo un satiro che pare conosca molto bene la tecnica dei preliminari e passi senza indugi alla stimolazione del seno della donna, non insensibile alle sue esplicite intenzioni. Il seno della donna è sodo e ben dritto, come andava all’epoca di moda, infatti quando erano flosci erano intollerabili per i romani, che considerandosi la punta più avanzata della civiltà, disprezzavano i seni delle donne barbare, penduli e ballonzolanti, sudati e puteolenti.
Un interessante mito è quello delle Amazzoni, che rappresenta un preciso ed indelebile ricordo delle società matriarcali presenti per secoli in una vasta area geografica dell’Asia Minore. Di esse ci parlano numerosi autori dell’antichità, tra cui Omero, Tolomeo, Virgilio ed Erodoto.
Le Amazzoni erano un popolo di sole donne governate da una regina e gli uomini erano rigorosamente esclusi dal loro territorio, per cui, per perpetuare la stirpe, esse si recavano ogni anno in primavera presso tribù vicine e consumavano fugaci rapporti sessuali al solo scopo riproduttivo.
Secondo la leggenda le Amazzoni si amputavano un seno per poter più agevolmente adoperare l’arco, da cui l’etimologia del nome (amazon, senza un seno).
Tra gli episodi più famosi legati a questa stirpe di donne guerriere ricordiamo Achille che uccide Pentesilea e le Amazzoni contro Eracle e contro Bellerofonte.
Le più antiche rappresentazioni artistiche del mito le abbiamo in Grecia nel VI secolo a.C., sia su vasi a figure nere che nella plastica decorativa.
In seguito, nel IV secolo a.C., le incontriamo ad adornare il frontale dei sarcofagi, perchè erano considerate apportatrici di morte agli uomini.


fig.10

Splendidi esempi sono il Sarcofago delle Amazzoni del Kunsthistoriches di Vienna e quello conservato nel museo Egizio Etrusco di Roma (010).
Anche nel Seicento il mito ebbe numerose espressioni artistiche, tra le quali la più spumeggiante, per intreccio dinamico e tripudio cromatico, è la Battaglia delle Amazzoni, eseguita nel 1618 dal Rubens e conservata nella Alte Pinakothek di Monaco (011).


fig.11

Prima di esaminare dettagliatamente il lungo percorso della cultura figurativa occidentale nella rappresentazione del seno, volgiamo un breve sguardo alle arti primitive, dove non mancano esempi di attenzione all’esaltazione delle mammelle come organo legato al nutrimento ed alla fecondità della terra ed al lontano Oriente, Cina ed India, patria di civiltà millenarie e di un’arte raffinata.

 
figg.12 e 13

Tra gli esempi di arte primitiva africana segnaliamo una statuetta femminile in legno (012) del museo de l’Homme di Parigi, un prodotto dei Senufi, un popolo che abita la savana a nord della Costa d’Avorio. La scultura realizzata a stacchi netti e con un profilo estremamente angoloso, presenta un seno pendulo ed estremamente appuntito, che concorre ad evidenziare la protuberanza acuminata del ventre. Mammelle afflosciate ed addomi batraciani sono da millenni il segno distintivo delle popolazioni centro africane, caratteristiche prodotte, la prima da una congenita lassità dei muscoli pettorali, la seconda da una ipovitaminosi latente e diffusa.
La Guanyin, raffigurata in una statuetta lignea policroma del museo di Pechino (013), è una forma particolare di divinità buddista ed è considerata, sia in Cina che Giappone, espressione di misericordia e compassione. Spesso intesa come protettrice dei parti e custode dei figli trova nel seno allattante il fulcro centrale della composizione. Venerata a partire dal X secolo rappresenta una tardiva elaborazione della pietà buddista popolare, che soppiantò gradualmente divinità shinto (in Giappone) e taoiste (in Cina) preesistenti.
La Yashoda che allatta il dio Krishna, ben espressa in una scultura in arenaria con pittura monocroma della collezione Meddens di Amsterdam (014), rappresenta il porto sicuro dove trova ricovero e nutrimento la divinità più amata della religione indù. Yashoda nel pantheon induista è la divinità preposta a proteggere il parto ed i fanciulli, ma soprattutto presiede all’allattamento, fonte primigenia di vita e nutrimento, per cui il centro dinamico della sua azione benefica è collegato alle mammelle, forti e generose.

  
figg.14 e 15

Una pittura rupestre risalente al II secolo d.C. nell’isola di Ceylon (l’attuale Sri Lanka) raffigurante una ragazza col fiore (015), munita di un bel seno rigoglioso, ci permette di conoscere quale fosse la sua forma ideale indicata nel sacro testo Samudrika Lakshanas: i seni perfetti sono pieni e pesanti come brocche piene d’acqua, duri e sodi come i frutti della palma o delicati e lisci come i frutti del mango. Altri testi sacri propongono una chiave di lettura del carattere della donna attraverso l’osservazione delle sue forme anatomiche, una fisiognomica ante litteram applicata al torace… I seni dell’eroina devono essere simmetrici, pesanti e sensuali, toccarsi tra loro di modo che lo stelo di un fiore di loto non vi possa passare in mezzo. I capezzoli devono essere puntati in avanti come il becco di un pappagallo. I seni ben separati con i capezzoli in avanti indicano una donna di facili costumi, i capezzoli orientati in direzione diverse indicano che la donna è incostante.
Sempre in riferimento alla civiltà indiana segnaliamo, nel museo Archeologico di Napoli, una statuetta in avorio raffigurante Laksmi (016), sposa di Visnù e dea della bellezza e della fecondità, qualità ben espresse dal prosperoso seno nudo, ornato da un ingombrante medaglione. La piccola scultura, realizzata nel caratteristico stile indiano dell’epoca, fu ritrovata a Pompei in una casa sulla via dell’Abbondanza e testimonia, assieme ai documenti puteolani dei culti nabatei, di quelle intricate vie commerciali che attraverso Alessandria, il deserto nubiano, il mar Rosso e l’Oceano Indiano permettevano ai mercanti romani di giungere fino alle favolose terre del più lontano Oriente.

   
figg.16 e 17

Capolavoro della letteratura erotica di tutti i tempi il Kamasutra, famoso codice indiano delle posizioni dell’amore scritto in sanscrito tra il IV ed il VII secolo, è stato arricchito di immagini esplicative da artisti di ogni latitudine, ma per documentarlo, anche se brevemente, abbiamo scelto due antiche raffigurazioni coeve eseguite da artisti indigeni, che meglio di chiunque altro potevano trasfondere nelle didascaliche illustrazioni lo spirito che sottende alla mera esecuzione dell’atto sessuale. Nel Kamasutra si dedica particolare attenzione ai seni che portano i segni dei graffi di un amante in estasi. Un grosso graffio vicino al capezzolo veniva definito il salto della lepre e le donne erano orgogliose di mostrare alle altre donne questi trofei d’amore come prova inoppugnabile del successo con i propri amanti.
La prima scena (017) fa perno sulla seduzione ed è incentrata nella fase dei preliminari, un momento in cui il seno ben esposto attira l’attenzione del maschio ed eccita la sua libidine. Nello stesso tempo l’uomo non dimentica di apprezzare con competenza le grazie della compagna, memore dei precetti delle sacre scritture, che impongono alla donna unghie curate e seni più che belli.
Anche nella seconda posizione (018), funambolica più che acrobatica, l’uomo, pur distratto dall’attiva attività della fanciulla e per quanto abbia a disposizione la genuina origine della vita”, non si stanca di dedicare la necessaria cura ed attenzione al seno della donna, per procurarsi e procurare piacere.

    
figg.18 e 19

La più straordinaria trasposizione artistica dei concetti espressi nel Kamasutra possiamo apprezzarla nel tempio dell’amore a Khajuraho (019) nell’India centrale, un intero santuario sulle cui pareti una sconfinata fantasia scenografica ha collocato un vero e proprio diluvio di statue, raffiguranti una moltitudine di coppie avvinghiate in tutte le posizioni del Kamasutra, in una felliniana orgia di massa. Questa gigantesca copula è stata variamente interpretata dagli studiosi, che hanno pensato al trionfo del climax dell’anima umana che si ricongiunge al divino attraverso il sesso praticato fino alla sublimazione. Altri hanno ipotizzato una celebrazione alla grande del principio femminile, che eccita e domina l’universo. Infine alcuni, con minore fantasia e maggiore malizia, hanno supposto che questi raffinati riti orgiastici avvenissero realmente all’interno del tempio in particolari occasioni. Certamente in passato esistevano molti altri edifici sacri così intensamente evocativi del sesso, al quale nessuna civiltà ha dato maggior risalto più di quella indiana, con quella selva di seni tutti eguali e nello stesso tempo tutti diversi, ma solo quello di Khajuraho è giunto fino a noi; tutti gli altri sono stati distrutti dalla furia iconoclasta del bigotto moralismo mussulmano, nemico delle immagini e parsimonioso consumatore dei piaceri della carne.

 

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