il seno nell'arte

dall'antichità al settecento

  Capitolo 2

Trecento e Quattrocento

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Giotto, padre della pittura italiana, ci offre, in uno stupendo dettaglio (020) della Cappella degli Scrovegni, nel 1304, una potente rappresentazione dell’ira, uno dei peccati capitali e nello stesso tempo della follia, con una donna che esprime una scomposta violenza, squarciandosi la veste ed esponendo al pubblico ludibrio il petto, liscio e sdrucciolevole senza protuberanze, ma soltanto con due bottoni bianchi per indicarne il posto, due bottoni simili a due verruche esangui e prive di vita.


fig.20

A lungo nel Medioevo il seno era considerato il luogo della follia, perchè si intuiva che dietro quelle due sfere dolci, mobili ed impenetrabili potesse vibrare un’emozione così squassante da condurre alla follia, da cui una cura drastica quanto inconcludente: strizzare le mammelle delle donne che ne erano affette. I seni delle pazze sono vuoti e senza sostanza, ma svegliano ugualmente lubrici appetiti, ciondolano ritmicamente in sintonia con gli occhi, che strabuzzano attoniti. Sono sprovvisti di quel fardello ingombrante ed a volte petulante che è la mente e possono così offrirsi senza remore e senza indugi alla contemplazione ed al consumo. La donna ritratta da Giotto ha un petto piallato, ma in preda al furore si scolla con tale impeto e civetteria, da far pensare che i suoi seni, che non esistono, siano i più appetibili.
In epoca moderna, a partire dal XV secolo, gli artisti, dopo i secoli di buio oscurantismo medioevale, non hanno mai cessato di interessarsi al seno femminile nelle sue svariate sfaccettature: scoperto o maliziosamente velato, innocente o peccaminoso, pubblico e privato, disponibile e proibito, senza tener conto delle forme e dei gusti anatomici, che nel tempo hanno subito sostanziali variazioni.
Dal seno efebico a quello prorompente, dalle forme opulente ed ipercolesterolemiche, glorificate nel Cinquecento e nel Seicento, ai seni a goccia o a pera, cari sia ai pittori pre rinascimentali che alle avanguardie del Novecento.
Una carrellata affascinante alla ricerca di una chiave di lettura, di una impossibile quadratura del seno, l’instabile oggetto del desiderio nel quale, pittori e scultori di ogni tempo hanno travasato le follie, i sogni, le ossessioni, i giochi fantastici, i pensieri di milioni di uomini, ansiosi di trovare una impossibile risposta alle loro ansie ed alle loro chimere.

 
figg.21 e22

Nel 1425, in perfetta sintonia temporale, il Van Eyck, nel polittico di Gand (021) ed il Masaccio, nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine a Firenze (022) ci forniscono l’immagine di un seno dicotomico, prima e dopo il peccato originale.
Eva, prima della punizione divina, non sa cosa sia la vergogna ed espone senza imbarazzo la nudità del suo seno acerbo e l’addome ignaro della tremenda laboriosità dei futuri parti, ma nella mano destra impugna, inconsapevole delle funeste conseguenze, il pomo più nocivo nella storia dell’umanità, che offre ad Adamo con fanciullesca innocenza. Un cono d’ombra sotto il collo, che contrasta con un punto di piena luce sul ventre, mentre sul fianco della coscia si intravedono delle erotiche pelurie, che un pennello italiano non avrebbe avuto l’audacia di rappresentare, smarrite in una sorta di semi oscurità, che il pittore accarezza con infinito amore e assoluta precisione.
Dopo la cacciata dal Paradiso Terrestre la nostra sventurata progenitrice, immortalata dal pennello del Masaccio, con plastico rigore morale, conosce all’improvviso un nuovo sentimento: la vergogna, che la induce a coprire pudenda e mammelle e di questa nuova necessità è triste e disperata allo stesso tempo.


figg. 23 e 24

Jean Fouquet, uno dei massimi protagonisti del fecondo dialogo tra Settentrione e Mezzogiorno che domina la pittura europea del Quattrocento, ci dà una interpretazione della Madonna col Bambino (023) maliziosa ed innocente nello stesso tempo, nella tavola oggi ad Anversa nei Musées Royaux des Beaux Arts.
La sferica mammella sinistra della Vergine, che fuoriesce generosa, debordando dall’abito, richiama a viva voce i seni siliconati di una chirurgia estetica di basso rango, ma, stupefacente, è carne vera, che si mostra impudica all’osservatore con la silenziosa approvazione degli angeli, dipinti di un rosso fuoco, incerti tra incredulità e stupore.
L’artista, che dipinge nel 1450, ben prima dei furori iconografici controriformisti, riproduce nei tratti della Madonna il viso e la bellezza devastante di Agnes Sorel, la favorita di Carlo VII, morta giovanissima in quello stesso anno.
Piero Di Cosimo segna il passaggio della pittura toscana dal primo Rinascimento al Cinquecento. Artista dalla precisione fiamminga e dalla fertile vena creativa nel ritratto di Simonetta Vespucci (024), amante di Giuliano de’ Medici, eseguito intorno al 1480, oggi nel museo Condè a Chantilly, ci offre un seno lieve, pallido, appena accennato, dai delicati capezzoli rosa con la punta in su, sul quale striscia minaccioso un elegante serpente, già presago della prossima prematura morte della bellissima fanciulla, dal fascino misterioso e dalla profonda malinconia, accentuata dallo studiato effetto di contrasto della nube scura che incornicia il volto, dominato da una splendida quanto preziosa acconciatura, tra le più celebri della storia dell’arte, mentre il Poliziano, che aveva dedicato una poesia alla fanciulla, aveva descritto un ”lieto viso” incorniciato da “crini d’oro” sciolti ad esaltare la verginità di Simonetta. Il serpente, insidioso, si muove con circospezione tra il collo e la collana e già pregusta di mordere a tradimento il capezzolo e di suggerne avido il nettare, dopo di che, drizzando orgoglioso per tutta la sua lunghezza, agiterà armoniosamente la coda, come a dirigere una incantevole melodia.


figg. 25 e 26

Pochi anni dopo, tra il 1485 ed il 1490, Hans Memling, campione nordico della pittura a carattere religioso e devozionale, si confronta, e lo farà una sola volta, con il nudo femminile nella Betsabea al bagno (025), conservata a Stoccarda nella Staatsgalerie. Il dipinto è uno dei rarissimi esempi di nudo muliebre nella pittura neerlandese del Quattrocento e come tale ha risvegliato l’interesse degli studiosi. La scena allude al piacere dell’intimità domestica, con una cameriera pronta a porgere l’accappatoio alla sua padrona che, con fare distratto, sta per calzare le pantofole. Un tenero idillio borghese con un palpabile tocco di erotismo. Il Memling, rifacendosi ai raffinati modi pittorici del Van Eyck, ha impresso un vivace senso di movimento alla figura della donna dai contorni di un’astratta bellezza. L’incarnato lucentissimo, alabastrino ci dà l’idea del marmo, ma di un marmo caldo, palpitante di vita e di desiderio. I seni sembrano assecondare la descrizione ideale che Ugo de Fouillot, celebre cantore della bellezza femminile ne fece in un suo sermone di commento al Cantico dei Cantici:” belli sono infatti i seni che sporgono di poco e sono modicamente tumidi…trattenuti, ma non compressi, legati dolcemente senza che ondeggino in libertà”.
Fernando Gallego è un pittore spagnolo attivo tra il 1466 ed il 1507 in quel grande centro di cultura ispano fiamminga che fu Salamanca. E fu il maggior esponente di quella scuola che venne a formarsi a seguito degli scambi commerciali tra le Fiandre da un lato ed i regni di Castiglia e di Aragona dall’altro. Nella sua produzione palpabili sono gli influssi dei grandi maestri fiamminghi, risolti in un espressionismo così appassionato da lasciar presumere contatti anche con la pittura tedesca in particolare con Witz e Schongauer.
Nel Martirio di Santa Caterina (026), una tempera su tavola eseguita sul finir del secolo e conservata nel museo del Prado a Madrid, la figura della giovane vergine sottoposta al martirio è resa con un realismo aspro e patetico che richiama potentemente la lezione del Van der Weyden e del Bouts.
Caterina era la figlia di un re, molto erudita e molto bella. A 18 anni affrontò Massenzio e cercò di convertirlo. Messo in difficoltà, Massenzio, nonostante l’aiuto di 15 filosofi che lo spalleggiavano, non riuscì a replicare ed irato condannò la sfrontata fanciulla ad essere dilaniata attraverso delle ruote con denti e seghe.
La crudeltà del supplizio ha stuzzicato la fantasia degli artisti che in tutti i tempi hanno rievocato l’episodio, ma nessuno ha avuto il coraggio di rappresentare la giovane fanciulla vergine, completamente nuda, assorta in preghiera, mentre offre in olocausto i suoi seni di uno splendore abbagliante, in grado di restituire miracolosamente la vista ai ciechi e talmente audaci e sprezzanti del pericolo da indurre coraggio ed eccitazione agli stessi impotenti.


fig. 27

Una rappresentazione potente nella quale sensualità e misticismo si coniugano alla perfezione, restituendoci un’immagine sacra e profana nello stesso tempo.
Jean Bourdichon è famoso miniatore francese, ma l’unico suo lavoro come pittore è un trittico (027), realizzato prima del 1494 e conservato al museo di San Martino a Napoli. Sulla centina dello sportello sinistro vi è raffigurato San Michele Arcangelo che combatte contro una diavolessa dai seni diabolici. Il Santo è simile a come appare in due manoscritti autografi del Bourdichon, le Houres di Carlo VIII e quelle di Aragona eseguite, le ultime con certezza, per Ferdinando I re di Napoli. Il polittico è eseguito con la finitezza e l’accuratezza del dettaglio propria del miniatore, mentre la gamma cromatica si articola su toni freddi di bruno, grigio e violetto.
Nella lotta furibonda tra San Michele e la diavolessa risalta lo scudo rosso vinaccia, che richiama le fiamme infernali sgorganti sotto i glutei della soldatessa delle tenebre, munita di ali, coda e creste sulla testa e gesticolante in preda ad una scriteriata furia da tarantolata.
Produce una fastidiosa sensazione dover descrivere delle mammelle luciferine, il contrario della grazia e del fascino, il segno ineludibile di una sensualità oscura e bavosa da far scomparire ogni pulsione e far precipitare nel buio delle tenebre. Assomigliano agli occhi di un mostro o di un grosso rospo dagli occhi terribilmente sgranati. Sono seni dal puzzo marcescente che sprizzano bagliori rosso fuoco dai riflessi ardenti, ventate di calore soffocante che tolgono il respiro ed assopiscono per sempre qualsiasi desiderio erotico. Sono infinitamente immondi e rimbombanti, certamente diversi da quelli che immaginiamo possegga la moglie di Belzebù. Egli ha potuto scegliere tra i seni di tutte le donne precipitate all’Inferno per i loro peccati. La sua scelta è avvenuta tra milioni di puttane di mestiere e dilettanti, cortigiane e favorite dei potenti della Terra e, siamo certi, si sarà riservato la più appariscente, dai seni più grossi ed appetibili, bianchi come il latte, per favorire uno stridente contrasto con il rosso della sua pelle e per essere più visibili alla miriade di dannati costretti, oltre all’eterna castità ed al divieto perpetuo di poter toccare il petto di una donna, a bollire d’invidia con occhi assetati alla vista dei seni più belli dell’Inferno.


fig.28

All’ultimo decennio del secolo possiamo assegnare il dipinto raffigurante Giuseppe e la moglie di Putifar (028), conservato nella pinacoteca di Monaco e realizzato da un ignoto pittore conosciuto con il nome di convenzione di Maestro della leggenda di Giuseppe. L’episodio di scaltra seduzione femminile è tra i più noti episodi biblici ed ha ispirato numerosi artisti.
Giuseppe venduto come schiavo dai fratelli fu preso a servizio da Putifar, un eunuco comandante le guardie del faraone. Essere la moglie di un eunuco è alquanto imbarazzante ed infatti si vociferava che la donna fosse ancora vergine. E’ comprensibile quindi che smaniasse di essere posseduta dal suo servo, che tentava di invogliare in ogni modo a consumare l’amplesso. Ma Giuseppe era irremovibile nel non tradire la fiducia del padrone, anche se la moglie era molto bella e possedeva un seno tra i più belli della città. Ed è su questo valido attributo che la donna tenta l’ultima carta. Si copre il capo per esaltare la nudità del busto e cerca di trascinare il giovane nel suo letto. Giuseppe scappa via, ma la donna gli strappa la veste, che poi mostra al marito dicendo che il servo aveva tentato di violentarla. Il marito, salvo per miracolo dalle corna, va su tutte le furie e fa imprigionare Giuseppe, nonostante la sua innocenza e l’eroica fedeltà. Il dipinto fissa il momento culminante della narrazione quando la donna, contando sulla forza d’urto del suo splendido ed appetibile seno, si avvinghia sul giovane riottoso, che volge altrove lo sguardo conscio che non vi è altro modo per resistere, perchè la vista di quel paradiso terrestre, più del canto melodioso delle sirene, non avrebbe permesso a nessuno di rimanere insensibile.

 

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