il seno nell'arte

dall'antichità al settecento

 

Nel 1506, ad inizio secolo, Lucas Cranach il vecchio, sensibile interprete della pittura rinascimentale tedesca, ritorna sul tema di Venere ed Adone, già trattato altre volte, ma in questa tela (029), conservata a Roma nella Galleria Borghese, si esprime ad un livello qualitativo mai più raggiunto. L’iconografia è tratta dal mondo pagano, una miniera inesauribile per gli artisti ansiosi di sovrapporre alla narrazione il motivo del nudo, che prima di Cranach nella pittura tedesca era stato affrontato soltanto dal Durer.


figg. 29 e 30

Nei primi anni del XVI secolo l’ideale di bellezza era legato ai principi di proporzione ed armonia, certamente infranti dall’artista, che ci offre una Venere anticonformista, dalle gambe lunghissime e slanciate e dal corpo impudicamente esposto, mentre un velo ai limiti della trasparenza e leziosamente tenuto dalla dea tra le mani accentua maggiormente lo splendido corpo, al quale fa da corona un elegante cappello, calzato con spavalderia.
Il seno, appena accennato e pur solenne, gotico, di vichinga altezzosità risplende nel biancore dell’incarnato porcellanato ed ammicca maliziosamente l’osservatore, incurante dello sguardo innocente dell’amorino, che ai suoi piedi le reca in dono un favo di dolcissimo miele.
Il pensiero della morte è il segno tangibile dello scorrere del tempo e della caducità della bellezza femminile; ogni seno rigoglioso è destinato ad avvizzire e a divenire polvere. I seguaci della reincarnazione possono, anzi debbono credere, che i seni più belli dopo la morte continueranno a vivere in un fiore dai colori smaglianti o in una farfalla dalle ali iridescenti e via via in forme sempre più delicate ed evanescenti, fino a giungere alla perfezione per l’eternità, definitivo archetipo della femminile bellezza. Per i cattolici lo spettacolo della resurrezione della carne sarà memorabile, perchè le donne risusciteranno nude con i loro seni creati ex novo, pulsanti e desiderosi di nuova vita. Non potevano certo sparire dopo aver riempito di gioia e di inquietudine gli uomini ed infatti risorgono imperiosi e seducenti come mai lo furono.
Il tema della vanitas ebbe successo nella cultura nord europea e parimenti la rappresentazione delle tre età della vita. La transitorietà della bellezza fu un tema ispirativo per gli artisti amanti del gusto del macabro e del tragico, in particolare nelle città di osservanza protestante.


figg. 31 e 32

 

Hans Baldung Grien, originario dell’Alsazia, tra i principali esponenti del Rinascimento tedesco, intorno al 1510, ci offre un esempio eloquente di questa iconografia in alcuni suoi dipinti che inducono ad una meditata riflessione: nelle Tre età della donna e la Morte del Kunsthistoriches di Vienna (030) e del Prado (031), ai quali fa stridente contrasto la gioiosa rappresentazione delle Tre Grazie (032), sempre nella pinacoteca spagnola, dove ogni pensiero di morte è lontanissimo e le delicate fanciulle sono tutte prese a gioire dei piaceri della vita; viceversa nelle altre due tavole lo scorrere inesorabile del tempo è magistralmente rappresentato dall’evoluzione dei seni: solenni e maestosi, allegri e spensierati nella giovinezza, disarticolati e flaccidi, rattrappiti e pessimisti, oltre che tristemente pendenti nella vecchiaia, lisci, freddi, violacei quelli della morte, mentre i grani di sabbia nella clessidra scandiscono la caducità del nostro destino.


fig. 33

Del 1513 è il ritratto della Regina di Tunisi (033), attribuito a Quentin Metsys e conservato a Londra nella National Gallery. Espressione di un grottesco portato all’ esasperazione si rifà ad uno schema compositivo molto diffuso nelle Fiandre sul finire del XV secolo. La vecchia raffigurata dal volto raccapricciante e dal capo ingentilito da un’imponente cuffia, veste un corpetto che le preme le zinne avvizzite, provocando un allucinante effetto wonderbra, che avrebbe eccitato forse la fantasia visionaria di Fellini, ma che, fissata anche per pochi minuti, è in grado di provocare un duraturo abbassamento della libido in qualsiasi maschio degno di questo nome.
Anche se una regina di Tunisi vissuta in quegli anni era nota per la sua bruttezza leggendaria, è molto improbabile che il dipinto riprenda la sua reale fisionomia, perchè il quadro si ispira ad un disegno di Leonardo di qualche anno precedente, conservato nel castello di Windsor. Il sommo artista nutriva un insaziabile interesse verso i visi bizzarri e quando ne incontrava uno per strada non se lo faceva sfuggire e ne traeva subito un disegno, perchè era intento ad elaborare un sistema di proporzioni corporee ideali.
Il Metsys è un artista in miracoloso equilibrio tra la sensibilità fiamminga ed il nuovo spirito del Rinascimento e nel dipinto in esame, più che una caricatura, siamo certi che ha voluto tramandare ai posteri un dispettoso capriccio della natura.
L’occhio spietato dell’osservatore cade sul petto rattrappito della donna, che l’eleganza degli abiti non riesce a celare, anzi pone in risalto.
I seni delle vecchie sono il segno più crudele dello scorrere del tempo, anche se la signora in questione doveva essere ributtante anche da giovane, ma forse si faceva forte di un seno prosperoso, di larghe misure e di larghe vedute, che con opportune precauzioni, quali l’aiuto di un provvidenziale cuscino sul volto nel momento culminante, poteva far dimenticare le fattezze repellenti del volto.


fig.34

I seni delle vecchie producono un’invincibile malinconia ed a tutti gli uomini rincresce di vederli flaccidi e tristi, pendenti e spenti, ballottanti o miseramente riassorbiti. Una deriva senza speranza che ci fa maledire il cammino inesorabile delle lancette dell’orologio.
Giovanni Bellini raramente ha trattato soggetti profani ed una delle pochissime eccezioni è costituita dalla tavola (034), conservata al Kunsthistorisches museum di Vienna, eseguita nel 1515, quando l’artista aveva più di ottanta anni. Nella gamma cromatica e nella libertà della pennellata è palpabile l’influsso del Giorgione, scomparso giovanissimo da pochi anni e che era stato un suo allievo. Senza rimanere abbagliato dalla sfolgorante nudità esibita con naturalezza, il Bellini crea un perfetto equilibrio tra la figura della fanciulla ed il paesaggio sullo sfondo, caldo e sensuale il primo, freddo e di un nitore cristallino il secondo, mentre le tonalità gialle e azzurrine del paesaggio collimano con i riflessi dorati del corpo voluttuoso e col colore del fazzoletto che raccoglie con garbo i capelli. L’ombra densa dell’interno si risolve nella vibrante luminosità del panorama prealpino intravisto alla finestra.
Lo specchio nel quale la ragazza si ammira, un motivo carico di significati allegorici, riflette a sua volta l’immagine sull’altro specchio posto sul muro: un inseguimento tra realtà e fantasia.
Gli specchi, se sono molto antichi, hanno riflesso nelle camere di toeletta tanti seni, belli e brutti ed hanno memoria delle immagini appena velate da una punta di malinconia.
La fanciulla del quadro di Bellini sembra appartenere a quella categoria di donne che trascorrono allo specchio ore ad ammirarsi con compiacimento ed i loro seni hanno acquistato quell’orgoglio derivato da una così lunga contemplazione. I seni affilati nel gelo degli specchi sono freddi ed implacabili, perfidi ed acuminati e sono destinati a travolgere ogni ostacolo ed a conquistare ogni cuore.


figg. 35 e 36

Nel Festino degli dei, oggi a Washington alla National Gallery, eseguito nel secondo decennio per il camerino dell’alabastro di Alfonso I d’Este, il Bellini giganteggiò da par suo nella tavolozza, solare, un vero trionfo di colori per la gioia degli occhi e dello spirito. Il soggetto, derivato dai Fasti di Ovidio, viene trattato con toni pacati e con la massima cura nei particolari, resi con un’attenzione quasi fiamminga. Il duca non rimase però completamente soddisfatto del lavoro dell’anziano maestro e chiamò Tiziano al capezzale del dipinto per rendere più drammatico il paesaggio sullo sfondo, con le rocce a strapiombo ed i folti arbusti. Ma in particolare chiese al più giovane pittore di rendere più erotiche alcune figure femminili, che il Bellini aveva dipinto troppo pudiche per un tema profano e godereccio. Tiziano dovette così realizzare un lavoro contrario a quello richiesto a Daniele da Volterra, più noto come brachettone. Infatti l’artista toscano dovette ricoprire le troppo disinvolte anatomie michelangiolesche dalla furia oscurantista della Chiesa, in un periodo di sessuofobia acuta, mentre Tiziano dovette spogliare (035 - 036) le fanciulle dipinte dal Bellini e per incrementarne la seduzione giocò la sua carta vincente, esponendone i seni giovani e prelibati, in bella mostra tra vesti discinte e scollature abissali.


fig. 37

Intorno al 1515 possiamo collocare l’esecuzione dell’intrigante e misteriosa Maddalena (037), di collezione privata svizzera, che Carlo Pedretti, massimo esperto di Leonardo, attribuisce alla mano del sommo maestro, aiutato in parte da un suo allievo, il Giampietrino.
Senza entrare nel merito dell’autografia, bisogna tenere conto dello straordinario paesaggio prealpino che si apre alle spalle della figura in primo piano, con la linea dell’orizzonte che passa a livello degli occhi, esattamente in linea con la prospettiva pittorica postulata dallo stesso Leonardo.
La nostra attenzione cade sul seno, magistralmente esposto, la grande meraviglia del pentimento di Maria Maddalena, più commovente delle sue lacrime, la grande offerta della sua contrizione. La veste, rosso fuoco, si scosta come un sipario e la delicata tulle viene tenuta sapientemente lontana, che nulla celi, ed ecco i fiori della realtà, la più pura e sacra delle forme mai creata, affiorano allo sguardo, coperti semplicemente da una timida collanina con un medaglione che, beato tra le beatitudini, si posiziona nel baricentro della voluttà.
Non vi è alcun dubbio che in essi l’universo intero si è voluto rappresentare; essi sono a un tempo eterei e materiali e come materia sono la più nobile che possa esistere. Ammirandoli incantati siamo indotti a credere a quei vangeli apocrifi e blasfemi, che vogliono narrarci che lo stesso Gesù non seppe resistere alla tentazione e volle concludere a fianco della Maddalena il suo percorso terreno.


fig.38

Più o meno coeva è la Leda ed il cigno (038) del museo di Filadelfia, copia da Leonardo di un originale perduto, eseguita da un ignoto allievo di buon livello, il quale rivisita il mito di Leda, figlia di re Testio e moglie del re di Sparta Tindaro, un sovrano così scettico sulla fedeltà delle donne da far legare nel suo palazzo i piedi della statua di Venere. Leda non seppe resistere alle profferte amorose di un cigno dal lungo quanto turgido collo, sotto le cui spoglie si celava Giove in persona, il quale, mentre la giovinetta giocava innocentemente sulla riva del fiume Eurota, si avventò su di lei e la possedette più volte, dando luogo ad un progenie plurigemellare; nacquero infatti da quella poderosa coniuxio Castore e Polluce, oltre ad Elena e Clitennestra.
Il mito di Leda ed il cigno assurge a simbolo della penetrazione del divino nell’umano, a favola accattivante della bella e della bestia, ad esaltazione del potere di seduzione dell’animalità, che crea non repulsione, ma attrazione.
Il bianco pennuto, dopo averla lusingata con la sua bellezza e con il suo collo flessuoso, che si intrufolava dappertutto provocando brividi di inconsueto godimento, accompagnati da grida di paura e sospiri di delizia, vinse il timore reverenziale della fanciulla ad un accoppiamento innaturale e poté godere delle sue grazie.


fig.39

Il dipinto focalizza il contatto ravvicinato tra l’opulenta fanciulla ansiosa di attirare verso il suo seno lo sfrontato animale, mentre due amorini osservano sconcertati il temerario reciproco corteggiamento. Sullo sfondo un serafico panorama che si distende placidamente, quasi a stemperare la palpitante sensualità della scena intrisa da un erotismo piccante.
Leda è di una bellezza perfetta ma fredda ed è anni luce distante dalle rappresentazioni cariche di sensualità che infonderanno al corpo femminile i pittori veneziani. La fanciulla si fa baluardo dei suoi seni fieri e granitici, voluminosi e tondi, che sfidano senza timore l’assalto animalesco con la grazia di una preziosa corazza cesellata dal più nobile degli artefici, come protetta da uno scudo da regina di tutte le donne ammaliate dal desiderio e sicure del proprio petto, che sembra, nell’inconsueto incontro, giungere quasi all’ebollizione, evento che si verifica unicamente nelle solitudini ardenti delle donne.
Il Cinquecento inaugura la spettacolare serie delle Veneri nude con la più sensuale e misteriosa delle creazioni del Giorgione, il quale, nel 1509, ci fa dono dell’ immagine immortale di una placida fanciulla che sogna e ci fa sognare (039). Il quadro, conservato nella Gemaldegalerie di Dresda, ci mostra la novella Venere, dalle forme tornite ed appetibili, immersa in un ampio e tranquillo paesaggio, con il corpo ignudo spavaldamente esposto, ad eccezione del pube, dove poggia guardingo il palmo della mano.
Il volto sereno, senza ombra di turbamento, irradia una serena beatitudine, mentre la ragazza è teneramente abbandonata nel sonno e si identifica con la calma serafica della natura circostante, ma sembra felice di poter essere contemplata, orgogliosa del suo seno sapientemente offerto, grazie al braccio poggiato con astuzia dietro la testa, che amplifica ed innalza i carnosi pomi dorati con le deliziose ciliegine.


fig.40

Pochi anni prima, nel 1506, Giorgione ci aveva fornito uno dei primi esempi di ritratto di donna dal seno scoperto (040), pregno come tutti i suoi dipinti di sottintesi e simbolismi. Il quadro, oggi al Kunsthistoriches museum di Vienna, raffigura una giovane circondata da rami di alloro, chiaro riferimento al nome Laura, che scosta delicatamente la camicetta, facendo intravedere un seno appena accennato. La donna certamente non è una cortigiana, né una poetessa d’alto lignaggio, come si era supposto in passato proponendo il nome di Vittoria Colonna, bensì trattasi quasi certamente di un ritratto di una futura sposa eseguito poco prima del matrimonio.
Nel Cinquecento mostrare un seno non era considerato disdicevole ed anzi un’immagine del genere, dal vivo o sulla tela, era accolta con gioia senza falsi ed inutili moralismi; soltanto a partire dall’Ottocento un torace nudo femminile provocava turbamenti e nevrosi e veniva interpretato come segno di lussuria ed è solo da quel periodo che i critici hanno ritenuto di identificare in questo genere di rappresentazioni, tanto in voga a Venezia, immagini di cortigiane. Nella tela in esame il committente, un nobile o quanto meno un possidente, fu fiero di presentare la moglie attraverso l’opera di un celebre artista, che potesse immortalarne le attrattive fisiche coniugate alla virtù ed alla castità. Con questa chiave di lettura la pianta può essere interpretata come simbolo di virtù, mentre il velo che cinge il collo è un segno del futuro matrimonio. Esporre una sola mammella poteva inoltre essere un richiamo al mito delle Amazzoni, che secondo un’antica leggenda accettavano di congiungersi agli uomini solo per fini riproduttivi e non per meri desideri sessuali, consuetudine che avrebbe reso felice la regina Vittoria di Inghilterra ed in ogni caso, poiché secondo la morale familiare dell’epoca la procreazione era lecitamente consentita solo nel matrimonio, un chiaro riferimento alle caste abitudini sessuali delle terribili guerriere costituiva un viatico di fedeltà ineccepibile per la futura sposa.
Esporre un seno significava sottolineare l’offerta d’amore con un simbolo legato alla fecondità, porta privilegiata dell’animo e del cuore; tenere l’altro coperto non rappresentava un’antitesi tra virtù e desiderio, bensì l’armonia tra erotismo esposto ed erotismo vissuto, sintesi felice che si realizza soltanto nel matrimonio.
Il committente del celebre ritratto del Giorgione non ha avuto alcuna remora a tramandare ai posteri le fattezze anatomiche della futura sposa ed il suo vero volto, differenziandosi da altri nubendi più timorosi e timorati, i quali ritenendo sconveniente raffigurare la propria amata in vesti discinte ed in pose sensuali, preferivano che il pittore riproducesse delle sembianze standardizzate, potendo alludere al suo matrimonio attraverso una immagine idealizzata.


fig.41

Alla Venere del Giorgione fa eco la Venere (041) del Tiziano, tra i capolavori dell’artista, realizzata nel 1538 e conservata a Firenze nella Galleria degli Uffizi.
Uno splendore di carni sanamente nude ed un anelito a fissare per l’eternità un archetipo di bellezza fisica femminile, in un periodo storico impregnato di un simbolismo neoplatonico, che affonda le sue radici in una rilettura ficiniana della mitologia. Non più l’ideale divinizzato del Botticelli, che, succube dei deliranti sermoni del Savonarola, ritiene che la bellezza risplenda tanto più luminosamente quanto più si avvicina alla bellezza divina, bensì l’esaltazione di una donna vera, libera ed appagata, resa con colori vividi, ambrati. Una dorata e morbida beatitudine, folgorata da improvvise accensioni di luce e penetranti bagliori, che il malizioso pennello del pittore imprime nella tela con felicità. Lo sguardo languido sembra invitare lo spettatore a godere, con la vista e la più sfrenata fantasia del giovane corpo, nel quale due piccoli seni rifulgono come due boccioli di rosa, impalpabili ed esposti con orgoglio all’ammirazione. Il triangolo acuto che va dai capezzoli alla base del collo della Venere di Giorgione diviene equilatero in Tiziano, quasi a dischiudere l’armonia sonnolenta della fanciulla, che intende trasmettere la sensazione dell’attesa, se non addirittura dell’eccitazione sessuale.


fig.42

Tiziano, insuperato ritrattista, si confrontò più volte col nudo femminile, creando archetipi immortali, come, nel Baccanale (042) del Prado, la figura di Arianna, ebbra di vino, dormiente nella sua luminosa nudità spudoratamente offerta, immagine radiosa alla quale si ispirarono molteplici artisti, tra cui lo stesso Giordano, mentre nel centro della composizione, sono presenti due ragazze assai leggiadre, l’una bruna e l’altra bionda. Quest’ultima è Violante, la figlia di Palma il Vecchio, della quale Tiziano era pazzamente innamorato. La fanciulla regge nella destra un flauto ed un foglio pentagrammato con una canzone che inneggia alle poderose ubriacature:”Chi beve e non ribeve, non sa bere”. Tiziano pur di lasciare una traccia duratura della sua passione, con sfrontatezza, appone la sua firma nella scollatura della fanciulla, segno indelebile dell’eternità dell’amore.


fig.43

Anche il tema biblico interessò la sua fertile fantasia come nella tela, sempre al Prado (043), in cui sono raffigurati i nostri primi antenati alle prese con la tentazione. Nel quadro possiamo ammirare il serrato contrasto tra le forme rudi e virili del corpo di Adamo e quelle dolci e femminee di Eva, intenta a cogliere con la mano sinistra la mela fatale, che un bimbo con la coda di serpente gli porge. La figura di Adamo, sorpreso per la decisione di Eva, ha la solida rozzezza del selvaggio, mentre quella di Eva ci appare traboccante di fecondità, con l’ampio bacino ed i dolci seni verso i quali Adamo rivolge la sua mano alla ricerca del piacere e dell’essenza primordiale della vita, che sente vibrare nella calda morbidezza delle carni, ben espressa in una caldo accordo di toni dorati e porporini.
Paris Bordon, artista nato a Treviso si forma a Venezia nella suggestione di Tiziano e della produzione del maestro predilige quel nutrito filone di ritratti femminili, molto richiesto dalla committenza, che decretò un lusinghiero successo a quella miriade di fanciulle, allettanti e sensuali, nelle loro vesti sgargianti, ma sempre un po’ discinte ad offrire, senza ombra di allusioni o complessi simbolismi, il seno come epicentro della seduzione. Sono cortigiane o gentildonne, poco importa, ma soprattutto sembrano fremere di voluttà.


fig.44

Un esempio di questo prototipo ci è dato dal Ritratto di giovane donna delle Galerie Canesso di Parigi (044), nel quale possiamo ammirare un modello stereotipato, dalle lunghe chiome biondo rossastre legate in interminabili trecce punteggiate da perle, con un volto efebico, dal quale è assente ogni perversità così come ogni inquietudine, con il tenero incarnato di un biancore da sfidare l’alabastro e le stoffe cangianti che scintillano come smalti. Il volto della fanciulla è ripreso con una sensibilità così vicina al gusto moderno da indurci a pensare, se non ci soccorressero i dati storici e le considerazioni formali, di trovarci davanti ad una creazione di un pittore preraffaelita o addirittura ad un’invenzione della fantasia di Delvaux. La fanciulla senza falsi pudori ci offre alla vista uno sferico seno dall’areola appena percettibile, mentre, con sapiente abilità, ci tiene nascosto l’altro, in tal modo l’esibizione prevale sull’astuto calcolo, il piacere degli occhi sulle emozioni del cuore e la calda sensualità accende lentamente la miccia dell’erotismo.
Mostrare un seno e tenere nascosto l’altro non risponde più, come abbiamo visto in Giorgione, a complessi significati allegorici, bensì ad un’astuzia tutta femminile di stimolare il desiderio attraverso la più sfrenata fantasia.
Il Correggio svolge quasi tutta la sua attività a Parma ed è universalmente apprezzato per la delicatezza del suo pennello, che sa coniugare con rara perizia una trepida dolcezza di sensi in forme di classica armonia. Le sue donne nude, dalla pelle vellutata, sono calme e serafiche e si offrono alla contemplazione in pose seducenti e nell’abbandono più completo, come nel caso di Antiope, che si fa ammirare da Giove nello splendore del suo giovane corpo nudo senza esitazioni e senza falsi pudori.


figg.45 e 46

Il dipinto (045), collocabile cronologicamente al II decennio del secolo è conservato al Louvre ed è interpretato da alcuni critici come Venere e Cupido sorpresi da un satiro. Esso è tra le più felici espressioni dell’elegante sensualità dell’artista, il quale ambienta la scena nell’ombra trasparente di un boschetto, con il flessuoso corpo di Antiope in sboccio come un fiore che apra gioioso la sua corolla, pronta al rito dell’amore.
La tavolozza è pervasa da una luminosità calda e struggente, mentre negli scorci dei corpi si insinuano ombre finissime ed inquiete segno ineludibile di una nuova sensibilità che prelude l’immaginazione barocca.
La testa rovesciata ed il braccio rialzato pongono in evidenza i seni morbidi e carezzevoli, dolci come un frutto da gustare, freschi come acqua di roccia, sferici, piccoli, leggiadri, fibrillanti, che già pregustano le dolci carezze e le gioie dell’amplesso.
Tintoretto, del quale abbiamo già visto la Nascita della via Lattea (05), fu grande ritrattista di vegliardi, ma, nello stesso tempo, fu appassionato cantore della bellezza femminile, in grado di materializzare magistralmente i seni delle sue contemporanee e farli apparire cose vere e pulsanti e non fittizie e vane rappresentazioni. E possiamo accorgercene nel dipinto della Dama che si scopre il seno (046) del Prado, nel quale il dolce attributo risplende in tutta la sua delicatezza in una fredda gamma di colori, in cui predomina delicato e soave il grigio perla. L’artista si impegna in una accurata ricerca dei vari toni dell’incarnato con una precisione di esecuzione della carnagione femminile e dei capelli che rasenta la perfezione. Alcuni critici hanno ritenuto di identificare nella donna la celebre cortigiana Veronica Franco, ma noi crediamo che si tratti dell’amante del pittore, seguendo il parere di Gomez de la Serna, al quale cediamo volentieri la parola:” I seni più veri dell’Arte sono quelli di Tintoretto, quando dipingeva la sua amata con un seno di fuori e con una fogliolina verde di gelso tra il seno e il corpetto, onde ne derivasse più freschezza e rilievo. Non voleva il Tintoretto perder tempo a contemplare la sua bella completamente vestita in quelle pose per i suoi numerosi ritratti. Ma per non perdere la gioia degli occhi, le tirava fuori un seno, un seno opulento, rustico ed esuberante, e glielo metteva al fresco; lasciandolo poi al fresco per l’eternità. - Eccoti un anticipo della mia amata, con il suo tipo di donna che si vede, che solo ha una missione da compiere concedersi- pare che ti dica. Il seno più naturale dell’arte è questo della bella del Tintoretto, che nelle sale del museo del Prado mostra il suo seno d’ambra imbrunita dall’odor delle vernici e dall’insistenza dei pennelli. Sotto il sole di Madrid, per lunghi anni, questo seno è divenuto maturo, più bello, accumulando l’ottimismo delle mattinate, indipendente da ogni cosa di questo mondo, giacché nulla conta per lui la morte del re o quella del critico d’arte. Il museo spalanca porte e finestre tutte le mattine con quel medesimo ottimismo dell’arte. Quale conforto mi ha dato nei giorni in cui credevo di morire…- ma se il museo riaprirà oggi le robuste persiane di ferro alla luce serena e libera dei musei! - dicevo a me stesso in quei giorni. E rimanevo tranquillo disposto a morire rassegnato. Di tutta quella luce tiepida e zuccherina delle mattine s’è riempito il seno dell’amata del Tintoretto; seno come la fruttiera della sala da pranzo in cui vi sia sempre della frutta fresca”.


fig.47

Nel 1520, il principe dei pittori, il divino Raffaello, trasferisce il seno della sua musa amante dalla caducità della carne all’immortalità della tela, così che noi, miracolo dell’Arte e dell’Amore, a distanza di secoli possiamo ancora ammirarlo, anche ora che è divenuto polvere e potranno goderne per sempre altri occhi ed altre menti, fino a quando tra gli uomini sarà vivo il gusto del bello. La ragazza romana, Margherita, figlia di un fornaio, da cui l’appellativo del celebre dipinto: la Fornarina (047), aveva già posato per alcune delle più incantevoli Madonne di Raffaello, ma l’artista, sentendo approssimarsi la morte, che lo ghermì a soli 37 anni, volle lasciare ai posteri l’immagine di un seno indimenticabile, che delineò lentamente, accarezzandolo col pennello con un sentimento sincero di affetto e partecipazione. Nel ritratto volle inserire un dettaglio rivelatore, firmandosi sul nastrino che stringe il braccio carnosetto dell’amante seminuda. L’acconciatura accurata dei capelli, fermati da una perla, contrasta con la quasi nudità, esibita con un sorriso dolce e un po’ imbarazzato, appena velata da un tulle trasparente, mentre con la mano destra la fanciulla sembra offrire il frutto del suo seno all’incantato osservatore, un bocconcino prelibato come due sorbetti di crema dalle puntine di fragola, dal sapore del miele e dalla consistenza del marmo.


fig.48

A metà secolo, nell’arco di pochi anni, vediamo all’opera sul tema del nudo femminile alcuni degli artisti più illustri, da Palma il Vecchio al Bronzino, fino allo stesso Raffaello.
Il primo divise con Giorgione e Tiziano l’onore e l’onere di modernizzare e rigenerare l’arte veneziana, portando a saturazione alcuni temi del primo Cinquecento. Le sue donne sono creature floride, matronali, fulgide e ci appaiono sempre come se si trovassero davanti ad uno specchio, in contemplazione soddisfatta e vana di se stesse, bandiere senza anima di una bellezza rigogliosa. Nel Ritratto di donna discinta (048) del museo Poldi Pezzoli di Milano l’artista entra in sintonia con le esuberanti forme anatomiche della modella, nell’abbondanza delle straripanti chiome biondo rossastro, delle morbide carni, delle soffici vesti, che lambiscono il seno e pare vogliano accarezzarlo. I capelli, foltissimi, sono di quel biondo tiziano che vira verso il rosso, una tonalità di colore di gran moda a Venezia in quegli anni, ottenuta grazie a raffinate quanto segrete tinture La donna sembra voglia rappresentare solo se stessa in un delirio di narcisismo e desidera l’ammirazione delle sue curve opulente. Il seno, con malcelata malizia, diventa il punto focale della composizione con la camicetta che scopre e nasconde nello stesso tempo, eccitando l’occhio incantato dell’osservatore. Sembra quasi che faccia suo il suggerimento che Pietro Aretino mette in bocca nei Dialoghi all’esperta cortigiana Nanna, la quale, mentre istruisce la sua allieva su come mostrarsi per catturare l’attenzione degli uomini, le raccomanda vivamente “ di tenere le pocce in seno facendone più carestia che non ne fanno dovizia alcune le quali par che le voglino gittar via col farle saltar fuora del petto e del vestimento”.


fig.49

Il Bronzino fu un abile manierista e seppe interpretare perfettamente il gusto di un’aristocrazia vuota, circondata di fasto e di apparenza. I suoi personaggi erano studiati più nelle pose che nelle fisionomie e nei suoi ritratti, realizzati con una tavolozza fredda e disincantata, mescolava con rara abilità il soggetto mitologico con complesse allegorie, come nel suo capolavoro: un’Allegoria di Venere (049) conservata alla National Gallery di Londra, un inno pagano, un cantico solenne all’amore lussurioso ed al pieno soddisfacimento dei sensi.
La tela, databile al 1545 e destinata a Francesco I di Francia, è impregnata di un profondo simbolismo variamente interpretato dagli studiosi, ma, al di là dei sottintesi, prorompente è la carica di viva sensualità che gronda dal ritmico articolarsi delle spettacolari anatomie, che si intrecciano soggiogate dal desiderio, spinto fino agli estremi di un irrefrenabile erotismo.
Il ritmo narrativo è filtrato dal frigido intellettualismo che sottende alla sottile dialettica del sentimento amoroso, cara alle dissertazioni pseudo filosofiche del Cinquecento, ma la forza erotica che promana potente dalla tela, vince ogni vana discussione allegorica, con il corpo della dea che anela a fondersi con l’irresistibile Cupido dal culetto protrudente, abile titillatore di zone erogene.
Attorno al seno di Venere, ambiguamente abbracciata al suo stesso figlio, si compie il rito della seduzione e della più perfida lussuria, con il capezzolo turgido, eccitato dalla palpitante carezza del Cupido, il quale cerca nel bacio divino il premio per la sua consumata perizia di seduttore.
I corpi di un incarnato lucente, porcellanato sono fissati per l’eternità in una raffinatissima sintesi scultorea, che bene esprime l’acme della voluttà.
Un insuperato capolavoro dell’erotismo e della potente carica di seduzione del più fascinoso attributo femminile.


fig.50

Il popolino napoletano l’ha sempre chiamata affettuosamente la fontana delle zizze (050), per l’acqua che nei secoli sgorgava copiosa dai capezzoli delle graziose mammelle della splendida sirena alata che domina il monumento. Rintracciare oggi questa fontana, sita in una stradina limitrofa all’università, è impresa ardua, perchè gli stessi abitanti della zona non ne conoscono esattamente l’ubicazione, dal titolare del bar al parcheggiatore abusivo, dalla vasciaiola al garzone della spesa, tutti vagamente ne hanno sentito parlare, ma poi indirizzano erroneamente verso la vicina fontana sita in piazzetta Grande archivio. Il motivo dell’equivoco è banale, tutti quando riferiscono di averne sentito parlare si confondono con le zizze, ma quelle vere, non quelle eterne ed impassibili dell’omonima fontana, la cui memoria storica è andata smarrita.
La costruzione della fontana si perde nella notte dei tempi, infatti il Celano la colloca nel 1139, mentre la Platea delle acque del 1498 ci informa che da tempo in quel luogo sorgeva una fontanina alimentata dalle acque del pozzo di san Marcellino, ma è con don Pedro da Toledo, il benemerito vicerè di Napoli, che il monumento prende la forma attuale, probabilmente ad opera dell’architetto Giovanni Merliano. Al centro della composizione è rappresentato il Vesuvio eruttante alla cui furia devastatrice si oppone il latte mellifluo secreto dalle generose mammelle della sirena, come si evinceva chiaramente da una scritta, citata dalle fonti e da tempo scomparsa: Deum Vesuvii siren incendia mulcet, a significare che la bellezza di Napoli, ben rappresentata dalla sinuosa Partenope è l’unica forza che può opporsi alle fiamme iraconde dello scontroso vulcano. Una idrica e pettoruta grazia ammaliatrice potente almeno quanto il carisma di san Gennaro. La sirena, archetipo eterno della femminile bellezza, creatura fascinosa dalla potente seduzione, evoca con il suo prorompente seno nudo una pacata sensazione di tranquillità e ci trascina indietro nel tempo a temi ed immagini del mondo pagano, un imprinting genetico che ha marcato indelebilmente il Dna dei napoletani.
Attivo nella seconda metà del secolo Giovanni Stradano, nome umanistico del pittore fiammingo Jan Van Der Straet, inserisce nel filone del manierismo di matrice vasariana soluzioni di luce e di colori prettamente nordiche. Viaggiò a lungo per l’Europa, da Napoli fin nelle Fiandre. Il suo universo iconografico, la qualità della sua pittura e la straordinaria inventiva come disegnatore, furono di fondamentale importanza per la diffusione e la divulgazione di tematiche religiose, letterarie e scientifiche in tutta Europa.


fig.51

Nel suo più famoso quadro, l’Allegoria dell’Amor sacro e dell’Amor profano (051) ospitato al Louvre, si riconoscono le due anime che compongono i suoi modi pittorici, debitori della tradizione fiamminga quanto al manierismo fiorentino. I colori sono algidi, la posa dei due protagonisti leziosa, la situazione intrigante.
La fanciulla scopre la grazia virginale del suo seno fiorente scrollandosi abilmente la sottile e trasparente veste che la ricopre, quindi porta la mano sul seno e lo strizza dolcemente, come ad offrirne il nettare al giovanotto, che la guarda con serie intenzioni di passare a vie di fatto. Gli sguardi, complici, si incrociano maliziosamente e sembra che l’intesa sia oramai raggiunta, con l’inevitabile ed auspicata vittoria dell’amore profano sull’amore sacro.
Francois Clouet, figlio di Jean e successore del padre come pittore di corte nel 1541, fu portatore di una cultura italianizzante, dalla quale traspare la conoscenza di Leonardo, di Tiziano e dei manieristi fiorentini, vincolata da un’applicazione meticolosa al particolare naturalistico di sapore fiammingo. Rimase inoltre influenzato dalla scuola di Fontaineblau, formata da artisti italiani chiamati in Francia dal re. Lavorò a lungo, prima con Francesco I e poi con Enrico II e Carlo IX.


fig.52

Nella Dama al bagno (052), eseguita forse nel 1571 e conservata alla National Gallery di Washington, l’identità della figura principale, rappresentata in una scena di bagno in un interno, non è certa, ma si è propensi ad identificarla con Diana di Poitiers, favorita di Francesco I ed in seguito ereditata come amante da Enrico II. La maniera di trattare il delicato incarnato della giovane donna è indicativo del modo di guardare dell’artista all’arte italiana, specie nel purismo classicista, prezioso ma freddo e compassato del nudo femminile. Il Clouet si ispira al mito di Venere, intriso da allegorie letterarie e culturali oggi di difficile interpretazione. Il garofano nella mano destra può simboleggiare un pegno d’amore, la balia dal petto straripante può alludere ad abbondanza e fecondità, mentre l’immagine dell’unicorno alle spalle della serva sullo sfondo è un chiaro richiamo alla castità della giovane.
Il seno, radioso e soave, della fanciulla inquadrata in una vera e propria quinta teatrale con tanto di sipario, risplende su quello prosperoso e pregno di latte della balia in secondo piano, una allusione forse al contrasto tra seno verginale e puerperale. Il volto è molto bello, ma non è la sua fronte, né il suo sorriso, né i suoi occhi ad attirarci, bensì la soave dolcezza dei suoi seni, nei quali il segreto più recondito della materia s’è consolidato come in nessuna altra forma. Nella contemplazione serena dei due carezzevoli emisferi vana e lontana ci appare la sfera terrestre, mentre la fantasia può correre a briglia sciolta tra i sentieri della pura immaginazione.
Bartholomeus Spranger, chiamato a Praga alla corte di Rodolfo II, si trovò al centro di un ambiente colto e raffinato dove le esperienze del manierismo francese ed italiano furono sublimate in un elegante eclettismo. I suoi dipinti, storie mitologiche tinte di un erotismo elegante, furono sempre definiti con rara eleganza e grondavano di una sensualità morbosa. Le sue frizzanti allegorie, derivate da un’attenta lettura delle Metamorfosi di Ovidio, furono prive di originalità, ma concorsero a far pervenire in Austria ed in Boemia la morbida sinuosità delle forme del Parmigianino e la vibrante sensualità del Correggio, contribuendo alla diffusione del manierismo internazionale.


fig.53

Vulcano e Maia (053) è un piccolo ma prezioso esempio della morbosa sensualità dell’artista, in grado di trasformare il racconto mitologico in ardita scena d’amore. Realizzato nel 1590 ed oggi al Kunsthistoriches di Vienna, il quadro ci descrive con maliziosità un preliminare con il dio del fuoco, ardente di desiderio, che accarezza dolcemente il seno della ninfa. Il perno della narrazione ruota intorno al corpo sinuoso della giovane fanciulla e trasuda un caldo erotismo, accentuato dall’acceso cromatismo dei drappeggi e dalla freschezza della frutta in primo piano.
L’incarnato burroso della ninfa risalta nel contrasto con la carnagione rubizza di Vulcano, reso paonazzo dall’eccitazione ed i seni magnifici, ritti, di ineguagliabile splendore costituiscono il viatico irresistibile per l’imminente amplesso. Seni che non dicono frottole, rotondi, bianchissimi, dispensatori di felicità e nello stesso tempo dolci e rassicuranti, densi e diafani.
Joseph Heintz, nativo di Basilea, dapprima seguace di Holbein, divenne poi pittore di corte dell’imperatore Rodolfo II a Praga e le sue opere sono affini a quelle dello Spranger e del von Aachen. Si mosse nell’ambito del manierismo internazionale, rivisitando il Correggio, il Parmigianino ed i pittori veneti. I suoi dipinti, anche se non sempre esenti da qualche accademismo, si fanno apprezzare per la fluidità della linea e per le tonalità del colore. I temi mitologici furono la sua fonte di ispirazione, intrisi però da una sottile vena di erotismo e con una tavolozza calda e luminosa.


fig.54

Nella Venere addormentata (054), eseguita nell’ultimo decennio del secolo e conservata al Kunsthistoriches museum di Vienna, Heintz ci offre la perfezione di un corpo nudo, in apparente abbandono, dalla carnagione levigata e dall’abbagliante biancore, sapientemente esaltato dal giallo dell’oro e dalle perle intrecciate in un ricercato e preziosissimo gioiello, che sottolinea, con insidiosa insistenza, la provocante nudità esibita con malcelato compiacimento. Dal dipinto trasuda un erotismo gelido, estremamente studiato, che rammenta le tele di Baldung Grien. Un ornamento originale è lo spinther, un pesante bracciale posto sopra un fazzoletto, mentre avvolgente e completamente adiacente è l’altro preziosissimo gioiello, che accarezza dolcemente senza sfiorarlo il seno della fanciulla, certamente la favorita di un ricco signore.
I seni, preziosi più dei gioielli che cercano di imbrigliarli, sono così teneri e graziosi e si innalzano audaci come cuspidi, da emettere un canto melodioso; infatti ogni seno, quando è così delicato come quello della Venere assopita, possiede una particolare vibrazione musicale ed il suono, delizioso, possiede sempre una diversa nota culminante.


fig.55

Il secolo si chiude con uno dei ritratti in cui il simbolismo legato al seno della donna è portato all’apice. Poco prima del 1595 a Fontainebleau un ignoto artista della celebre scuola eponima realizza due enigmatici nudi di donna, oggi al Louvre, ripresi quasi specularmene (055). Le due fanciulle sono Gabriella d’Estrees e la sorella, duchessa di Villars, immerse, secondo l’uso dell’epoca, in un bagno comune, che funziona anche da quinta teatrale con tanto di sipario di velluto rosso aperto ai lati. I seni delle due sorelle dialogano piacevolmente e sono circondati da un’arcana atmosfera carica di simbolismi, come simbolico è il gesto della sorella minore che tocca il capezzolo di Gabriella, secondo i critici più benevoli, che guardano l’anello tra le dita della donna, alludendo all’auspicato matrimonio con Enrico IV, mentre i più maliziosi interpretano il gesto come un richiamo all’imminente maternità della nobildonna, che tra non molto, infatti, darà alla luce il duca di Vendome, bastardo del re; e la conferma della seconda ipotesi è data dalla cameriera che, sullo sfondo, è intenta alla preparazione del corredino.
Ad un osservatore moderno la scena richiama anche quel sottofondo inconscio di latente omosessualità che spesso, tra sorelle o cugine, o nel chiuso ambiente dei collegi, faceva la sua timida apparizione e quale raffinatezza maggiore che stimolare il capezzolo, fulcro e punto di partenza del piacere.
Il tema del bagno o della toilette ebbe molto successo in quegli anni e non solo nella scuola di Fontainbleau, sull’onda del prestigio di un’opera attribuita a Leonardo: la versione nuda della Gioconda, della quale tanto si è favoleggiato, ma purtroppo tra gli esemplari giunti fino a noi solo un disegno conservato a Chantilly, sembra essere vicino alla tecnica dell’insuperato genio. L’iconografia era il pretesto per ritrarre una donna nuda a mezzo busto per la felicità visiva del committente, che spesso voleva immortalare le grazie di una favorita.


fig.56

Un’altra tela della scuola di Fontainbleau utilizza il tema tanto diffuso, si tratta di una Signora alla toilette (056) del museo di Digione, l’immagine di una bella donna della nobiltà francese intenta alla scelta dei gioielli, i cui colori rifulgono sul caldo incarnato del suo seno, espresso con una tavolozza vivida e vivace, ben lontana dalla carnagione fredda di Gabriella d’Estress, a conferma del pennello di un diverso pittore.
La carica di sottile erotismo che promana dalla figura è accentuata dal gesto misurato delle mani e dalla ripetizione del volto nello specchio dalla preziosa cornice. Uno scialle impalpabile copre parzialmente le delicate fattezze della giovane signora, la quale armeggia con calma serafica tra i suoi gioielli, tra i quali ha scelto un anello, probabile richiamo ad un agognato matrimonio. Anche se il nome della donna non ci è noto ed altresì ci sfuggono i sottili simbolismi che sottendono alla composizione e dei quali abbiamo perso la chiave di interpretazione, non occorre di più al nostro gusto di moderni per delibare il delicato erotismo che trasale da questa ieratica figura.

 

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