il seno nell'arte

dall'antichità al settecento

 

Il Seicento è secolo di sfrenate passioni, che trovano spesso nel seno un emozionante baricentro, catalizzatore di emozioni le più diverse dall’odio all’amore, dal premio al castigo.
Pieter Paul Rubens, irrompe sulla scena artistica europea con la forza travolgente del suo cromatismo generoso e traboccante di colori accesi. Il suo posto è tra i giganti della pittura di tutti i tempi, coagulo di umanesimo italiano rivisitato alla luce della tradizione nordica. Egli ci offre una pittura che è la più esaltante glorificazione dell’esperienza barocca. E’ il riconosciuto recordman nella rappresentazione mammaria.
Le donne dei suoi dipinti hanno sempre seni imponenti e statuari, da tedesca pacioccona, che si muove o gesticola orgogliosa del suo corpo nudo, pervaso da una sensualità ingenua ed ammaliante ed esaltato da un’onda di luce calda, che accarezza le torrenziali grazie in uno sfarfallio di forme opulente, in un frastuono abbarbagliante di musicalità e di sdolcinate rapsodie. E’ spesso un’orgia di nudità, un campionario di anatomie turgescenti, di incarnati carezzevoli resi amorevolmente con colori dolciastri.


figg. 57 e 58

La sua produzione fu veramente copiosa ed è stato molto difficile scegliere pochi quadri per presentare l’artista, perchè gli esclusi gridano vendetta.
E’ del 1618 l’Unione tra Terra ed Acqua (057), conservato all’Ermitage di San Pietroburgo, un’allegoria della fortuna riguardante la città di Anversa, interpretata da Cibele, dea madre della natura e Nettuno, dio del mare. La dea nella mano destra espone i suoi attributi, la frutta rigogliosa, resa con una precisione ottica e con una ridondanza di colori degna del pennello di uno specialista di natura morta. Ma la vera arma di Cibele è il suo seno, altezzoso e dritto, forgiato con un impasto celestiale reso più soave dal rosa tenue dei piccolissimi capezzoli, che offre con apparente noncuranza agli occhi voraci di Nettuno, mentre con lo sguardo languido attira la sua attenzione e con la mano nella mano pare voglia fisicamente attirare il dio verso il paradiso del suo corpo dalle forme perfette.
Nel 1630, ormai avanti negli anni, l’artista sposò in seconde nozze la giovane e bellissima Helene Fourment, che fece da modella a molti suoi dipinti e posò per intriganti ritratti come quello conservato al Kunsthistorisches museum di Vienna, noto come la Pellicetta(058) ed eseguito nel 1638. La fulgida bellezza di Helene, nelle vesti… di Venere, illumina il dipinto pur nell’intimità della rappresentazione. I seni traslucidi della fanciulla danno l’idea della consistenza e della voluttà, una trasparenza di cristallo di carne, una morbida consistenza d’avorio, accentuata dalla grazia dei capezzoli appuntiti, color fragola, preziosi come una gemma luccicante.
Helene rappresentò per il pittore una vivificante iniezione di giovinezza e la sua vena creativa, che sembrava appannata, riprese a pulsare con rinnovato vigore. Dobbiamo immaginarci che la squisita pittura che negli ultimi anni prese forma eterea fu propiziato dalla vista quotidiana degli splendidi seni della fanciulla. L’artista passava lunghe ore svogliatamente a letto, quando Helene gli si avvicinò premurosa, slacciò il suo corpetto e, come un salvifico medicamento, generosamente gli offrì il suo candido seno; l’artista lo accarezzò, lo baciò delicatamente e ne trasse il gustoso nettare, che gli fornì la rinnovata energia per rappresentare sulle sue tele immortali un radioso messaggio di bellezza e gioia di vivere per le generazioni future.


fig.59

E siamo certi dell’elemento autobiografico nella sensuale Angelica e l’eremita (059), anch’essa conservata nel museo viennese, opera della tarda maturità dell’artista, certamente più che energizzato dalla quotidiana frequentazione dei vitalizzanti seni della moglie. Il quadro prende ispirazione da un episodio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, nel quale si racconta che di Angelica s’innamorò un vecchio eremita, profondo conoscitore di pozioni e stregonerie, il quale, alla vista del corpo da schianto della fanciulla mollemente adagiata su un morbido cuscino, decise seduta stante di approfittare delle sue arti magiche e trasportò Angelica su di un’isola deserta. L’opera di piccole dimensioni è in stridente contrasto con le grandi tele di un tempo, animate da un senso di monumentalità nelle scene e di pimpante turgore nelle anatomie femminili, mentre nel tenero idillio tra l’eremita ed Angelica vi è ora il gusto per la finezza della pennellata e l’intimità del tono narrativo.
Simon Vouet, pittore francese, fu profondamente influenzato dalla pittura italiana, dal Caravaggio ai Carracci, dai bolognesi al manierismo romano, trattò soggetti religiosi, scene mitologiche ed allegorie. Risiedette 15 anni a Roma dove le sue opere furono in linea con il verbo caravaggesco, nel gusto dei luministi olandesi, ma in seguito, ritornato in Francia, schiarì la sua tavolozza e fu attento alle esigenze decorative, adottando un linguaggio aulico, barocco nell’ampiezza della composizione, ma classicheggiante per un’interiore esigenza di eleganza.
Il Vouet ebbe numerosi allievi e fu fautore di un caravaggismo di seconda battuta, filtrato dall’interpretazione che gli diedero Carlo Saraceni e Bartolomeo Manfredi, così che, nel giro di alcuni anni, esso non rappresentò più per lui un mito, una religione, una disciplina, bensì un momento di pacata riflessione e di comparazione verso altri modi espressivi, dall’arte del Poussin a quella di Pietro di Cortona, dai quali eclettico ed avido di studiare ed assimilare tutto, prese soluzioni che fece proprie. In seguito il contatto a Roma con Stanzione e soprattutto a Genova con Artemisia Gentileschi produsse una tavolozza più luminosa ed una maggiore attenzione al dettaglio decorativo, in adesione alla nuova sensibilità barocca che andava diffondendosi.


fig.60

La Venere dormiente (060) del museo di Budapest, è un’opera di intensa sensualità pervasa al tempo stesso da una grazia decorativa, eseguita probabilmente tra il 1622 ed il 1625, quando l’artista da Roma inviava a Napoli molte sue creazioni che suscitavano notevoli consensi per il loro modo originale di concepire il caravaggismo, non più scuro, ma vicino alla gamma cromatica della Gentileschi. Infatti egli, che amava vestirsi da militare francese, probabilmente non ha mai messo piede a Napoli, all’epoca viceregno e satellite della Spagna, acerrima nemica della Francia, ebbe però importanti commissioni ed alcuni suoi dipinti incisero sull’arte figurativa locale. Il Vouet amava rappresentare figure mitologiche, eroine del Vecchio Testamento o sante, sempre nella loro bellezza tutta profana, acconciatissime, fiorite come gemme di miniera, fiori di serra inattesi e meravigliosi.
La tela raffigura la dea mentre una leggera brezza scompiglia i suoi biondi capelli ed accarezza il suo corpo vellutato, gloriosamente nudo, ad eccezione di un elegante manto giallo dalle pieghe eleganti, che vuole evidenziare più che coprire le sue forme anatomiche perfette. Il suo prezioso seno, eretto e valoroso, sembra pervaso da una generosità spontanea che invita alla serena contemplazione e fuga i cattivi pensieri. La misura geometrica di questi seni è in armonia con l’altezza e la forma del resto del corpo. Sono magicamente a posto nella loro perfezione. Rivelano inoppugnabilmente la materializzazione della grazia e della finezza. Lo scorrere dei secoli e l’evoluzione non potranno superare la semplice impostazione e la felice collocazione nello spazio e nel tempo di questi seni, leggiadri ed agili, scattanti e pronti al combattimento.
Sono l’indefettibile testimonianza dell’infinita misericordia e lungimiranza del Creatore.
Georges de La Tour è famoso per le sue scene di genere illuminate dalla luce artificiale, ma più che a questi effetti particolari, per quanto insoliti e suggestivi, la sua grandezza è legata alla scarna essenzialità delle sue figure, bloccate in forme intense che trasudano una ricchezza interiore ed una salda spiritualità.


fig.61

Tra le sue opere più note la Serva che si spulcia (061) del museo di Nancy, raggiunge una delle note più toccanti della sua arte con l’affiorare di una schietta sensibilità umana, che trascende il dato realistico per divenire accorata partecipazione alle vicende, anche più umili della vita quotidiana. Di datazione incerta si è discusso a lungo anche sul titolo da attribuire al dipinto, che per alcuni autori poteva essere Pentimento dopo la colpa oppure Prime doglie del parto; ma è oggi assodato che raffigura una donna intenta a spulciarsi, una volta accertata la presenza di un grazioso animaletto tra le unghie della donna, mentre un altro è ben evidente sul ventre. L’incarnato è dominato da ampie zone di rosso stese a piatto che sembrano accendersi, mentre i seni, smunti, fuoriescono dalla veste. Essi, fiocamente illuminati dalla fiammella di una candela nella stanza buia riverberano la luce in maniera misteriosa e sembra vogliano sedurci con il loro tenue biancore, come se fossero a nostra completa disposizione. La tela riflette il fascino impalpabile del grande prestigiatore dei lumi notturni, pittore stupefacente e conturbante, in grado di raggelare ed immortalare in attimi sospesi semplici scene di genere, conferendo alle figure una solenne monumentalità, un’intensità di sentimenti ed una sorta di sacralità vicina alla metafisica. Il suo linguaggio è imperniato sulla luce, misteriosa, sbalorditiva, inenarrabile che si diffonde e si irradia in maniera unica. Ammaliato dai lumi notturni, di cui ben conosce esiti ed estri, si serve di una candela per rischiarare le sue composizioni, che sembrano scaturire dal profondo del suo animo.
Napoli è un centro figurativo di grande respiro e la pittura più importante si svolge a Bologna, a Roma ed all’ombra del Vesuvio, dove una committenza laico borghese, dai gusti raffinati, si affianca alla Chiesa e richiede per la gioia degli occhi e per adornare interminabili saloni, natura morta, paesaggi, scene di battaglia e se pure deve fare capolino un soggetto devozionale o un’immagine di santa, che sia bella, giovane ed ampiamente scollata e se deve raggiungere l’estasi, che questo stato divino sia simile alle vette dell’orgasmo.
Massimo Stanzione fu assieme ad Artemisia Gentileschi il campione riconosciuto di questa pittura dolce ed ammaliante e tra i suoi allievi molti si distinsero con composizioni di alto livello, che facevano la felicità visiva di nobili e ricchi borghesi. Tra questi ricordiamo in particolare Bernardo Cavallino, Andrea Vaccaro e Pacecco de Rosa.
Prima di esaminare Stanzione e gli artisti della sua scuola, per ordine cronologico, ritorniamo al tema di Cimone e Pero, iconografia antica che abbiamo gia vista rappresentata in una piccola scultura del museo Archeologico di Napoli (08).


fig.62

Nel 1607 Caravaggio, giunto da poco a Napoli, dove in pochi mesi rivoluzionerà le arti figurative, ritorna sull’episodio, che incastra in quello spettacolare squarcio dal vero costituito dalla pala d’altare per la chiesa del Pio Monte della Misericordia (062). Sul lato destro della composizione una giovane puerpera offre all’anziano genitore il seno per sfamarlo, raffigurando ad un tempo due opere di misericordia: visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati.
La modella è presa dai vicoli napoletani ed esercita il più antico mestiere del mondo, ma il seno caritatevole, rigoglioso di salute, che con slancio ed amore filiale offre al padre, è pregno di amore più che di nutrimento; da esso sgorga un latte dolcissimo che oltre al corpo è panacea per lo spirito. E’ un seno salvifico, universo simbolico per eccellenza, dove l’erotismo si unisce al nutrimento e dove l’amore e la vita riescono a vincere l’eterna battaglia contro l’odio e la morte.


fig. 63

La lezione caravaggesca di crudo realismo fu ripresa da molti seguaci e tra questi va annoverato Jusepe Ribera, spagnolo di nascita, ma a tutti gli effetti napoletano doc, perchè, giunto giovanissimo in città, vi rimase per oltre 40 anni fino alla morte nel 1652. L’artista amava raffigurare la caducità della carne, a tal punto che Byron affermò che amasse intingere il pennello nel sangue dei martiri. Nella tela che esaminiamo: Donna barbuta col marito (063), oggi a Toledo presso la fondazione Medinacoeli, il pittore ci rende partecipi di un’aberrazione della natura, ritraendo Maddalena Ventura, una donna abruzzese maritata e madre di molti figli, intenta ad allattare l’ultimo nato, pur munita di una faccia totalmente virile, di una folta barba e di un torace egualmente peloso, da cui protrude una mammella ripugnante, gonfia di latte, in grado di spegnere per lungo tempo qualsiasi desiderio erotico in chicchessia. Sulla destra della composizione una lunga epigrafe descrive dettagliatamente la storia paradossale di questa coppia, ripresa dal vero nell’atelier del Ribera in cinque giorni di lavoro.
In primo piano una conchiglia, notorio simbolo ermafrodito o forse, più probabilmente, si tratta di un arcolaio con fili di lana, a rimembrare una tipica occupazione femminile, in stridente contrappasso con la paradossale mascolinità della donna.
Un’oscurità densa e drammatica avvolge i due coniugi, mentre il volto rassegnato del marito è raffigurato con toccante intensità. Le fisionomie dei coniugi sono scolpite con magistrale virtuosismo e restano impresse nella memoria, quanto e più della sferica mammella verso la quale, inconsapevole, rivolge le sue attenzioni l’innocente frugoletto.
Luca Giordano ha dipinto chilometri quadrati di tele ed affreschi, preso da un furore creativo senza eguali. Spesso quando doveva ritrarre belle donne nude in pose lascive utilizzava la moglie, non sappiamo se per risparmiare il denaro per la modella o per la gelosia della consorte.


fig.64

Facciamo la conoscenza con le splendide fattezze della signora Giordano, Margherita Dardi, in un quadro: Venere dormiente e satiro (064), oggi a Capodimonte, ritornato di recente all’onore delle cronache.
A lungo in prestito presso la Camera dei deputati, la tela, che promana evidentemente una vigorosa voluptas, scatenò le ire della neo presidentessa Irene Pivetti, la quale, per non turbare le caste menti dei deputati, fece allontanare il quadro scandaloso, favorendone il ritorno nel museo napoletano. Più di recente l’opera del Giordano non è piaciuta,”la butterei” ha esclamato stizzita, neanche alla nostra first Lady, in visita ufficiale col marito a Capodimonte, facendoci intuire quante difficoltà poteva incontrare un quadro del genere nel Seicento, un’epoca che forse era meno bacchettona della nostra.
Il dipinto è da porre in relazione con altre realizzazioni giordanesche che trattano la stessa tematica ed in particolare con il suo pendant Tarquinio e Lucrezia, un’altra splendida esibizione della signora Giordano nature, esaltante l’amore coniugale e la fedeltà, in stridente contrasto con questa Venere dormiente, un inno all’ebbrezza alcolica ed al sopito…ma non troppo desiderio erotico. Il modello iconografico ispiratore del quadro è il famoso Baccanale del Tiziano del Prado, nel quale il sonno non è dormire, ma dolce abbandono.
La dimensione dionisiaca della scena viene esaltata da piccoli ma significativi dettagli, come la coppa del vino, appena libato, posta ai piedi della dea e l’episodio sullo sfondo, di chiaro significato lussurioso, nel quale un sileno ebbro e panciuto si bea assieme a dei compagni, straripando a cavalcioni il dorso di un bieco animale.
Sul petto, generosamente esposto, protrude un’ombra maliziosa che accarezza i due mondi innocenti, che non ambiscono che ad essere conquistati. Seni liberi e trionfanti che anelano, esigono, proclamano, pretendono di essere santificati.


fig.65

Artemisia Gentileschi, raffinata pittrice dal virtuoso pennello, giunse a Napoli nel 1627, attirata dalle ricche committenze che colà si potevano ottenere e non si mosse più dalla città fino alla morte. Respirò l’aria partenopea e mutò la sua tavolozza, rendendo più mediterranea la resa pittorica dell’epidermide, più dolce e sensuale l’incarnato, più squillante la gamma cromatica. Ci ha lasciato immortali rappresentazioni della bellezza femminile, prendendo a pretesto le grandi donne della storia e della mitologia. Tra i soggetti all’epoca più richiesti: Cleopatra, la leggendaria regina che si dà la morte offrendo al morso dell’aspide la magnificenza del suo seno indifeso, nella sua nuda carnale sensualità, senza enfatizzare l’immagine con l’aggiunta di gioielli e ornamenti elaborati. Un seno fiero e spavaldo che affronta senza paura il temibile serpente, unica difesa la punta acuminata dei più desiderati capezzoli nella storia dell’umanità. La pittrice raffigurò ripetutamente la sfortunata sovrana, raggiungendo l’apice del dramma, intriso di solenne bellezza in un dipinto (065), oggi in collezione privata, eseguito intorno al 1630, dove si compiace di ritrarre la celebre regina nella sfolgorante esaltazione delle sue nudità, delle sue forme procaci e provocanti, che avevano fatto perdere la testa ai potenti della terra, con la mano complice che sembra voler accarezzare l’aspide, prima che le imprima il morso mortale sul capezzolo. Sembrano voler sfidare nella loro soda e prorompente vitalità l’insulto della morte. Cleopatra si appresta a morire con il volto voluttuoso e le labbra appena dischiuse, quasi in estasi e sembra godere della sua fine come una santa che, attraverso la morte, è certa di raggiungere la felicità e la pace dei sensi.


fig.66

I seni partoriti dal fertile pennello di Artemisia, di un incarnato alabastrino, sono carichi di energia, sia che appartengano a Lucrezia che vi infigge vigorosa il pugnale (066) o siano di Betsabea, che li cura e li profuma in interminabili toelette, o della Maddalena che arde di macerarli nella penitenza, o di Ester, di Galatea, di Corisca, di Clio o di tante altre eroine senza paura, pronte ad offrire in olocausto il bene più prezioso di una donna.
Massimo Stanzione fu molto influenzato dalla sfavillante tavolozza di Artemisia ed avendo l’opportunità di vederla ogni giorno dipingere, fu a tal punto rapito dalla freschezza dei suoi colori che si propose di imitarli. Egli fu il cantore appassionato degli affetti familiari e della grazia muliebre, delle raffinatezze sontuose e dei colori brillanti. La sua poetica fu il contraltare della drammaticità esasperata del Ribera. La sua fu una visione gioiosa, una luminosa parabola proseguita dai suoi numerosi allievi.


fig.67

Un capolavoro di sottile malizia e di fascinosa grazia femminile è la tela di Loth e le figlie (067) realizzata da Stanzione intorno al 1645 e conservata nella pinacoteca di Palazzo Reale a Napoli. Il racconto biblico su cui si basa il dipinto è noto: Loth fuggì con la famiglia dalla sua città che doveva essere distrutta da Dio per la sua empietà; la moglie si girò per vedere l’annientamento di Sodoma e Gomorra, contravvenendo al divieto divino di voltarsi e venne trasformata in una statua di sale, mentre Loth e le due figlie si misero in salvo tra le montagne. Le due giovani, distrutta tutta la popolazione, temevano di non potere avere figli e tale era il desiderio di maternità che decisero di sedurre l’anziano genitore. Dopo una abbondante libagione cominciarono a circuirlo, l’una offrendo la grazia di una coscia mica male ed insistendo nel riempire la coppa del vino, l’altra ponendosi sulle gambe del padre e giocando la sua carta migliore: un seno turgido, virginale e pronto ad offrirsi in olocausto. Vinsero ambedue perchè, senza che il padre se ne accorgesse, entrambe rimasero incinte.


fig.68

Nella Susanna e i secchioni (068) del museo di Francoforte Stanzione utilizza il pretesto di un altro celebre tema biblico per mostrarci una giovane fanciulla nuda, dai seni acerbi e dal volto impaurito, facile preda dei due loschi individui che, oltre a circuirla, la invitano al silenzio, certi di poter soddisfare indisturbati la loro brama.


fig.69

Tra gli allievi di Stanzione Andrea Vaccaro è l’artista che ha dedicato maggiore attenzione al nudo femminile, intravisto più che visto, da vesti discinte con abissali scollature. Le sue donne sono spesso sante, a volte martiri, in sofferenza o in estasi, ma sono sempre donne vive, senza odore di sacrestia, quasi sempre provocanti nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo di sposalizio mistico,”col bel girare degli occhi al cielo” e con le splendide mani dalle dita affusolate a ricoprire i ridondanti seni. Per convincersene basta ammirare questa Maddalena (069) della Galleria di Palermo, dal volto languido ed idealizzato, ma dal seno vivo e palpitante, modellata in un morbido accostamento dei colori, ricchi di riflessi e cangiatismi. I seni di Maria Maddalena furono la meraviglia del suo pentimento, più caldi delle sue lacrime, lo spasmodico epicentro della sua contrizione.
La modella, dall’epidermide dorata, è pervasa da una vena di sottile erotismo con il seno di una fresca carnalità più che desiderabile, sulle cui forme il pittore indugia compiaciuto col suo pennello a stuzzicare ed a lusingare il gusto dei committenti, più sensibili alla piacevolezza del soggetto, che a recepire il messaggio devozionale che ne è alla base.
Il volto è velato da una profonda malinconia e con un gran languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate con amore e compiacimento.
L’elegante veste blu elettrico fornisce all’osservatore l’opportuna scossa per partecipare affettuosamente della scollatura, generosa tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma desiderabile. L’ombra dei seni che fuoriesce dalla scollatura è l’ombra ideale della bellezza, il sentiero eccitante che conduce all’estasi, il percorso sdrucciolevole che promette il precipizio dei sensi, la gioia degli occhi e l’infinita palestra della fantasia.


fig.70

Pacecco De Rosa è artista al quale sono particolarmente legato e del quale ho realizzato l’unica monografia esistente, per cui, pur essendo un minore, descriverò due suoi dipinti.
Pacecco assunse un ruolo di protagonista della committenza laica, innamorata delle sue figure femminili, generosamente nude, di ricercata bellezza interpretata da modelle di fascino e grazia tipicamente partenopea dalla carnagione bruna e dai capelli nero corvino.
Tra i dipinti più famosi dell’artista è il Bagno di Diana (070) del museo di Capodimonte, un pretesto mitologico per mostrarci dodici irresistibili fanciulle in pose leziose e conturbanti, di una modernità sconcertante, coperte da qualche raro panneggio, unicamente per sfoggio d’abilità di definizione del pittore. L’opera è la più genuina espressione di un classicismo solare e gaio che, ispirato dal Domenichino, poggia sui colori freddi che definiscono i corpi vellutati delle ninfe attraverso il pennello compiacente dell’artista, che indugia sui nudi femminili per la gioia degli occhi concupiscenti dei committenti. Dai giovani corpi delle fanciulle emana un vigoroso messaggio di voluttà, con le ombre che scompaiono completamente, mentre gli incarnati assumono la lucentezza della più preziosa porcellana.
La modernità del dipinto lascia stupefatti, partendo dalla constatazione che le figure femminili sembrano tutte riprese dal vero con particolare cura, sono ritratti di donne in carne ed ossa, non mere idealizzazioni; in particolare la graziosa fanciulla di schiena in primo piano sulla destra sembra precorrere di secoli le intuizioni di Ingres, per il neoclassico voluttuoso purismo da cui traspare in modo pungente la sincera emozione dal vivo, nella genuinità della posa e nella freschezza del dettaglio ispirativo.
E cosa dire dell’incantevole giovinetta che ci sfugge con lo sguardo sulla sinistra della composizione, dalla pettinatura che sembra uscita da un accorsato coiffeur e dal seno appena accennato eppure così provocante, di avorio purissimo e dalle tenere punte rosate, uno scrigno colmo di dolci segreti e foriero di inebrianti sensazioni. Una creatura diafana che sembra nata in un’epoca in cui imperino le diete dimagranti e non le forme opulente care a Giorgione e Tiziano, una icona dal volto angelicato e dal corpo di una top model.


fig.71

Altra creazione di distillato erotismo di Pacecco è la Venere dormiente scoperta da un satiro (071) del museo di San Martino, nata come elegante sovrapporta della dimora del principe D’Avalos. La modella è una delle ninfe del Bagno di Diana e la composizione è imperniata sull’uso di colori laccati, traslucidi, fortemente contrastati, dal rosso cardinalizio dei tendaggi al blu metallico del prezioso panno su cui è adagiata la dea, dall’incarnato bianchissimo, alabastrino dai riflessi porcellanati, che fa risaltare la carnagione del satiro, paonazzo per il desiderio. Il dipinto è imperniato sulla eccitante figura della dea distesa dolcemente, col braccio rialzato ad esporre meglio la grazia del seno appena accennato, che sembra invitare il satiro a compiere il suo dovere. Il tono è scherzoso: dal sorriso ammiccante del satiro alla stessa Venere, che guarda ad occhi chiusi e sembra accettare volentieri le profferte d’amore e pregustare con compiacimento le gioie dell’amplesso oramai imminente. Nel frattempo i due amorini, complici, dal corpicciuolo delizioso, emanano grazia e gentilezza e ben appagano, in sintonia col corpo nudo della dea e quello muscoloso ed agile del satiro, i gusti di quella particolare committenza desiderosa di un linguaggio profano, esaltato da una sensualità ben esposta.


fig.72

Geronimo De Magistro è poco più che un Carneade nel panorama artistico seicentesco, un nome noto solo a pochi napoletanisti, che lentamente sta emergendo da un oblio secolare. Sua è la Susanna ed i secchioni (072) della collezione Pellegrini a Cosenza, un tema biblico ripetuto all’infinito dai pittori, perchè permette di ritrarre una giovine vergine nature insidiata e molestata da due uomini più che maturi arrapati.
Molto forte è il contrasto che si riscontra nelle fisionomie dei personaggi: grotteschi i due vecchi, in cui è lampante la libido repressa e la sfrenata bramosia di peccato, mentre la casta Susanna, da un lato sembra adombrata per le insistenti attenzioni senili, ma tuttavia non sa nascondere un’inconscia accondiscendenza a delle profferte così sfacciate.
Il pennello del pittore ha indugiato voluttuoso sull’incarnato della donna nuda dalle forme perfette e dalla prorompente bellezza mediterranea, regalandoci un brivido di seduzione indimenticabile.
I seni della Susanna sono dipinti di materia carnosa, opulenta, traslucida, sono eterni, fuori dal tempo e dallo spazio, non si deformano né avvizziscono, archetipo immobile della femminile bellezza.
Rappresentano il porto sicuro verso cui ogni uomo anela di fermarsi e riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare essenze, prorompenti, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di talco.


fig.73

Il contributo della scuola emiliana all’esaltazione del seno è più modesto di quella napoletana e si basa su pochi esempi di altissima qualità, come l’Atalanta ed Ippomene (073) di Guido Reni, conservata al museo di Capodimonte, potente favola di una vergine cacciatrice, imbattibile nella velocità, la quale sfida tutti i giovani che ambiscono alle sue grazie ad una corsa, il cui esito prevedeva o la coniuxio o la morte del malcapitato. Ippomene, voglioso del suo corpo procace, astutamente consigliato da Afrodite, fa scivolare a terra durante la gara dei pomi d’oro che la fanciulla ingenuamente si ferma a raccogliere, arrivando seconda, e dovendo così rinunciare alla sua tanto ambita illibatezza.
La scena ferma l’immagine fissando i corpi scultorei dei due contendenti in un precario equilibrio, mentre il paesaggio scompare in una gelida oscurità, nella quale risaltano gli incarnati illuminati dalle luci di proscenio. Fasci di luce argentea si intersecano in un’astratta geometria di diagonali, che bloccano il movimento nell’attimo in cui la fanciulla, piegandosi, fa danzare vorticosamente i seni, dando loro un rilievo più accentuato ed una più felice esposizione.


fig.74

Padre fondatore indiscusso del classicismo bolognese è Annibale Carracci che, nei primi anni del Seicento, pone mano a Roma agli affreschi della Galleria Farnese, una maestosa serie di decorazioni celebranti la potenza ed il dominio universale dell’Amore, il quale è in grado di soggiogare gli stessi dei dell’Olimpo ed umiliare i terribili poteri degli antichi eroi. L’impresa è annoverabile senza dubbio tra le pagine più alte della storia dell’arte europea per originalità di concezione e per la varietà delle soluzioni figurative. Le prime quattro scene illustrano le vicende di altrettante coppie di amanti della mitologia e per rispetto verso il padre degli dei abbiamo scelto di illustrare l’attrazione fatale tra Giove e la sua sposa Giunone, ammirata in ogni tempo dai viaggiatori, osannata dai critici che la giudicarono una perfetta quanto insuperata manifestazione dell’expression de l’amour. Il signore dei cieli, conquistato dalle seduzioni della sua sposa, abbandona la sua veglia sul campo di battaglia di Troia per i piaceri del talamo, precorrendo di millenni il consiglio dei figli dei fiori ”non fate la guerra fate l’amore” e non poteva essere altrimenti davanti all’offerta della più pura e sacra forma della donna, in pari tempo eterea e materiale, un seno turgido ed invitante, dall’inquietante e morbida consistenza dell’avorio, un seno da dea…(074)


fig.75

Il martirio di Sant’Agata, alla quale, con estrema crudeltà, vennero amputate le mammelle, ha stimolato la fantasia di generazioni di artisti, che dell’evento hanno riprodotto gli aspetti più raccapriccianti. Noi viceversa, per lo sviscerato amore che nutriamo verso il più giocoso attributo femminile, abbiamo scelto una composizione più serena e rassicurante, che rappresenta il prodigio della guarigione, per cui abbiamo preso in considerazione la Santa visitata in carcere da San Pietro e l’angelo (075), eseguita dal Lanfranco intorno al 1613-1614 e conservata nella Galleria Nazionale di Parma.
La prodigiosa curatio mamillarum avviene durante la notte, quando san Pietro, accompagnato da un angelo che illumina il percorso con una torcia, va a visitare sant’Agata da poco ricondottavi dopo il triste supplizio. Egli applica con mano tremula un miracoloso unguento sulle ferite ancora aperte, le quali prontamente si rimarginano, restituendo al seno della giovane vergine siciliana le sue delicate forme, umiliate e lacerate dal coltello sacrilego e restituite per l’arcano prodigio all’innocenza di due universi mai conquistati.


fig.76

 La fama di Guido Cagnacci è in gran parte legata alla consumata abilità con cui sapeva fissare sulla tela delicati nudi femminili, dipinti con sottile sensualità derivata dalla lezione del Reni, ma mentre il divino Guido amava idealizzare i suoi nudi quelli del Cagnacci sono presentati con caratteri di erotica e fisica schiettezza ed il suo seno preferito, che vediamo in quasi tutti i suoi quadri, fu quello della sua amante, una giovane donna che accompagnava l’artista nel suo atelier vestita da uomo, dando l’impressione di essere un suo servo, viceversa, caduti gli abiti, diveniva la sua modella e la morbida linea del suo seno acerbo accendeva l’ispirazione del pittore, permettendogli di realizzare alcuni dei più bei nudi della storia dell’arte. I quadri con tematiche osé ebbero molto successo, al pari delle poesie classiche erotiche, nell’Europa del nord ed alla corte austriaca di Vienna, dove dimorò l’artista e dove oggi al Kunsthistoriches museum si trova il suo più noto capolavoro la Morte di Cleopatra (076), un’iconografia di grande successo che l’artista bolognese potenzia con i seni delle ancelle che soccorrono la sovrana morente, seni plebei, ma vispi e rubicondi come quelli dell’amata padrona, che prima di darsi la morte si è assisa in trono su una grande sedia scarlatta e si è posta sul capo una corona di gemme preziose. Corpi nudi che sembra vogliano opporsi alla morte, sottoposti a fasci di luce penetrante che ne fanno risaltare il pallore dovuto all’emozione.


fig.77

Un piccolo spazio bisogna dedicarlo anche all’artigianato di qualità, ed espressione genuina di devozione popolare è questo originale ex voto in cera e laminato d’argento (077), di collezione privata milanese, eseguito da un ignoto artefice, specialista del settore, probabilmente attivo a metà secolo, quando vi fu una ripresa di un’abitudine risalente alla cultura pagana di offrire alla pubblica meditazione parti del corpo risanate miracolosamente “per grazia ricevuta”. Anche artisti famosi si sono dedicati saltuariamente a questo genere di attività e tra questi ricordiamo: Benvenuto Cellini, Piero della Francesca e Gentile da Fabriano.
Questi ex voto di cui sono zeppe le bacheche delle nostre chiese barocche gareggiano alla pari con le nutrite lipsanoteche che raccolgono le reliquie dei santi e dei martiri; perfette riproduzioni le une, cruda verità le altre. Eppure quanta similitudine tra le due mammelle rosso fuoco che danno l’impressione di carne vera e di sangue coagulato, pezzi anatomici degni di un cesellatore di sala settoria ed i seni di una santa vera, giunti integri fino a noi a dimostrazione tangibile della superiorità dello spirito sulla materia. Per operare il paragone dobbiamo recarci nella cattedrale che conserva i seni di Santa Anacaria, ma non sarà necessario alcun viaggio se non quello sulle ali della fantasia, confortati dalla penna e dalla straripante immaginazione di Gomez de la Serna, il più lirico e melodioso cantore dell’incantato ed incantevole attributo femminile.
“- Di Santa Anacaria - era scritto in uno degli involti custoditi in quella vetrina di cristallo ricoperta di piombo. Alla fine, nel fare un nuovo elenco delle reliquie, uno dei frati si diede a disfare gli involti e giunto che fu alla celebre reliquia della Santa - forse il suo cranio, forse il suo cuore, forse la sua anima - prese l’involto e cominciò a disfarlo dei tessuti, vari e numerosi, che lo componevano. Il primo era un raso verde, con finiture di passamano d’oro, bianco zendado, il seguente, adorno di nastri arancione, molto lungo, che avvolgeva la reliquia a più riprese. Sotto questi due era una specie di corazza di taffettà cremisi sbiadito dal tempo, foderata internamente da due strati di finissimo zendado bianco, pure sbiaditi ed in mille pezzi. Seguiva un altro sottile zendado, color rosso vivo. Tale era la venerazione in cui l’antichità teneva la reliquia che, ritenendo fosse sacrilego lo scoprirla, i tessuti erano stati accumulati l’uno sull’altro.
Dopo tanto disfare, quando il contenuto della reliquia stava per venire alla luce, si verificò che esso era ancora avvolto in lino sottile, e non da una pezza o due ma da molte e piccole.
Il frate notò che si trattava di una cosa molle, il cui tocco produceva una speciale delizia. Era puro, quel frate, ed era entrato in convento molto giovane, sì che dal contatto con quella soavità solo aveva un vago ricordo d’infanzia, del tempo che pappava al seno della madre.
Alla fine, timoroso, ebbro, in preda ad una piacevole contrazione, egli tolse gli ultimi tessuti: apparve un seno, il seno della Santa, prodigiosamente - forse miracolosamente - conservato dall’arte di ammirevoli imbalsamatori.
Il frate si affrettò a renderne conto al suo superiore. Un seno… si tratta di un seno! Che nessuno lo tocchi! Ordinò il superiore.
Tutta la comunità sfilò davanti al seno vergine e martire, che cedeva sotto gli sguardi come avrebbe ceduto sotto le dita, ché era inevitabile fosse cosa morbida, peccaminosa e irresistibile. Conservava intatta la sua Rosellina, poiché gli imbalsamatori erano esperti nell’arte di ridipingere le labbra e san persino ombreggiare, come quelli delle attrici, gli occhi delle donne imbalsamate. Quel seno, quella reliquia, sciolse la comunità. Tutti se ne andarono per il mondo in cerca di un seno che non fosse proibito, un seno come quello di Santa Anacaria. Prima però trasportarono nella cattedrale il seno vivo, morbido; l’avvolsero in molti panni e vi posero la dicitura: “Il cuore di santa Anacaria” invece che “Il seno”.


fig.78

Juan Careno de Mirando, pittore di camera del re Carlo II, succeduto nella prestigiosa carica che fu di Velazquez, ha l’incarico di ritrarre nuda (078 ) e vestita una mostruosità naturale: la piccola Eugenia Martinez Vallejo, la quale, all’età di sei anni, pesava già quasi settanta chili. “ L’altezza è quella di una donna normale, ma il ventre è tanto smisurato quanto quello di una donna grassa prossima al parto” così descrivono impietosamente la bambina i medici di corte, ma il pittore nel suo dipinto decide di attenuare le straripanti misure di Eugenia presentata, col volto venato di malinconia, in veste mitologica con un grappolo di uva a ricoprire le pudende, tra l’altro normalmente non visibili perchè, come recita la relazione medica” le cosce sono talmente grosse e piene di adipe che si intrecciano e nascondono il sesso”. Ma scoperto rimane il seno, repellente e costituito di solo grasso, destinato alla futura solitudine ed all’inattività fisiologica. Triste destino che toccherà anche ai seni delle debordanti modelle di Botero, che ai nostri giorni ricalcheranno le fatali misure anatomiche di Eugenia; non più mostruosità naturale provocata dal malfunzionamento dell’ipofisi, bensì smisurata obesità indotta dall’infernale alimentazione dell’era moderna.


fig.79


fig.80

Nicolas Poussin, maestro del classicismo francese, è stato a lungo in Italia e la sua Peste di Azoth (079), custodita al Louvre, descritta accuratamente nella Bibbia, pare abbia tratto ispirazione dalla terribile pestilenza che infuriò a Milano nel 1630. Tra le scene di disperazione e confusione l’artista fissò, nella parte bassa della composizione (080), un episodio di toccante poesia, dove amore e dolore, vita e morte si confrontano divise da un confine labile lungo il quale il seno salvifico di una donna appena deceduta è in grado di permettere la sopravvivenza ad un neonato che ha da poco perso la sua mamma ed affamato cerca il latte per continuare a vivere; mammelle che continuavano a palpitare e questo loro sopravvivere al di là di ogni regola era ammirevole in una donna giovane ed esuberante, stroncata all’improvviso da un destino avverso, ma ancora in grado di essere indispensabile, anzi decisiva. Un’immagine di toccante poesia che fu replicata all’infinito da tanti pittori napoletani all’indomani della catastrofica epidemia che nel 1656 uccise quasi metà della popolazione partenopea e sterminò quasi al completo una generazione di artisti. Superbe rivisitazioni del tema iconografico sono state fornite da Luca Giordano e Mattia Preti, da Micco Spadaro fino a Giacomo del Po, che a fine secolo introduce l’episodio nella peste di Sorrento. I seni della donna morta sono pallidi e gonfi, immobili ma colmi di latte, che succhiato dal fantolino gli permetteranno di continuare a vivere, mentre tutto intorno imperversa sovrana la morte.


fig.81

Per Poussin un dipinto non era mera rappresentazione della natura, ma idealizzazione della stessa, processo della mente non della vista, per cui le sue donne, per quanto splendide, sono sempre convenzionali, attrici inconsapevoli di un poema magari sensuale fino all’erotismo, ma prive di ogni sessualità. I seni, specchio dell’anima sono falsi ed ingannatori, anche quando sono superbi ed altezzosi, come nel Trionfo di Nettuno del museo di Filadelfia, dove, nel baricentro della composizione (081), giunoniche fanciulle agitano con studiata grazia un drappo rosso, mettendo ben in mostra i frutti acerbi della loro giovinezza. Biondi, lucidi boccioli tutti eguali, come forgiati da un’identica matrice, accarezzati dal vento, non eccitano, ma ci conducono in sogno verso un porto ideale dove potremo fissare all’infinito, senza timore del tempo che scorre, le più armoniose protuberanze che furono mai create.


fig.82

Johan Baeck, nativo di Utrecht, lavora nel solco di una tradizione perpetuata nella sua città dai pittori seguaci dell’insegnamento caravaggesco e si ispira ad alcune iconografie di grande successo come la rappresentazione dei cinque sensi, che potrebbe essere la chiave di lettura del Figliol prodigo tra le prostitute (082), un suo dipinto realizzato nel 1637 e conservato nel museo di Vienna. Nella tela il protagonista è un grande intenditore e palpeggiatore di seni e lo dimostra la maniera in cui tasta vigorosamente le deliziose poppe dallo scintillio carnale della prostituta poggiata sulle sue gambe, che sembra gradire l’attenzione e godere della stretta sapiente da vero raffinato gaudente. L’uomo esercita una leggera trazione per sincerarsi che esse siano ben attaccate al petto e nel goderne la polposa consistenza si avvede di una strana sensazione, non rara a provarsi quando si cerca il piacere nei seni mercenari: gli sembra di palpare una durezza particolare simile al metallo, come se una borsa, anche se piccola, piena di monete d’oro si allogasse nella profondità della carne. La ruvida consistenza del vile metallo addolcita dalla soda trama della carne! Quelli delle prostitute sono seni pieni d’oro, due borse tanto più preziose quanto più belle. Ed a volte queste protuberanze si sviluppano in maniera straordinaria, fino a sfiorare l’opulenza per vincere la temuta concorrenza.
Rembrandt Harmenszoon Van Rijn, o più semplicemente Rembrandt, come tutti i titani della storia dell’arte, si estolle in egual misura dal realismo minuzioso degli artisti olandesi e dall’enfasi retorica del barocco imperante, per orientarsi verso una rappresentazione della realtà vista attraverso i sentimenti più intimi dei soggetti raffigurati. Dotato di prodigiose capacità tecniche e di una vasta cultura figurativa fu insuperabile nel rendere con pochi ed incisivi tratti l’animo dei personaggi, visto attraverso le lenti del suo sentimento, sempre più triste ed angosciato. La luce dei suoi dipinti sembra sprigionarsi dall’interiorità stessa del soggetto raffigurato. Dopo aver raggiunto l’apice del successo un rovescio economico ed un cospicuo cambiamento del gusto estetico, al quale egli non volle adattarsi, concorsero a far dimenticare la sua opera fino alla prima metà dell’Ottocento, ma quando la sua grandezza venne riscoperta, gli uomini avvertirono con chiarezza che la sua penetrazione psicologica, la sua ricchezza spirituale e la sua potenza fantastica gli avevano consentito di raggiungere uno dei vertici più alti cui mai si fosse alzata l’Arte e da allora siede stabilmente al consesso dei più grandi pittori di tutti i tempi.


fig.83

In un catalogo imponente di oltre 800 dipinti ritenuti autografi dalla critica estrapoleremo solo due opere e faremo la conoscenza con i seni più importanti per Rembrandt: quelli di Saskia la moglie e quelli di Hendrickje, la seconda compagna che, divenuto vedovo, gli fu vicino fino alla morte e che non sposò per non perdere la ricca eredità della prima.
Nel 1636 realizza Danae (083), oggi all’Hermitage, prendendo spunto dal celebre dipinto di Tiziano, una cui replica autografa si trova anch’essa nel museo russo. Le radiografie hanno dimostrato che la moglie Saskia prestò il suo corpo per il dipinto, anche se l’artista dopo la sua morte cambiò il volto.
Il riferimento mitologico è certo anche se vi è qualche differenza iconografica, essendo assente la pioggia di monete e d’oro attraverso la quale Giove vuole ingraziarsi Danae, chiusa dal padre in una torre di bronzo e tante ne versa fino a quando non riesce a possederla. La composizione è uno dei rari esempi di rappresentazione di una donna nuda nella pittura olandese, vincolata da una rigorosa morale calvinista e la stessa imperatrice Caterina II, che fu proprietaria della tela, non la teneva in mostra nel suo palazzo, perchè turbata da una nudità così sconvolgente per la sofferta carica di umanità della donna, accentuata da una luce calda e da una pennellata carica di materia. Saskia, la diletta moglie scomparsa non ancora trentenne, fu per lunghi anni la sua modella e Rembrandt era solito ritrarla con un sorriso malizioso o con una dolce espressione rassicurante o nelle vesti sontuose di ricca dama. In questa tela viceversa l’artista ce la offre nella sua pura nudità, esente da ogni ipocrisia o artificiosità, con un impasto di colori armonioso e caldo e con felici toni di luce, che sembrano amorevolmente accarezzare il corpo amato della donna dalle linee morbide e flessuose. I seni piccoli ma graziosi, dalla carnagione delicata e tersa hanno rappresentato per l’artista il porto sicuro dove soffermarsi durante le burrasche della vita. La malattia della moglie incombe minacciosa e l’artista vede quei seni in pericolo e quindi si affretta a fissarli nell’eternità della tela, per poter tornare sempre ad contemplarli e ricordare del tempo trascorso con essi, quando poteva giocare con quei delicati boccioli e sentirsi completamente ristorato come se avesse a lungo bevuto un’acqua diafana, appagato come se avesse conosciuto il più arcano segreto della felicità.


fig.84

La Betsabea con la lettera di David (084), realizzata nel 1654 e conservata al Louvre, ha come modella Hendrickje, la sua governante che poi diverrà compagna fedele fino alla morte. L’episodio sacro è, come spesso capita, un pretesto per una saporosa realizzazione di un nudo integrale reso palpitante da un’opulenza di colori. Il personaggio biblico viene svelato impietosamente da una luce greve ed oleosa che si riversa a coni lividi con un biancore quasi violaceo, che sorprende Betsabea nella sua disarmante nudità. La pennellata estremamente libera ed allusiva, densa di materia pittorica, esalta la concretezza della carne rinascimentale, morbida ed elastica, mentre una luce penetrante scava nell’ombra, conferendo un senso di drammaticità al prodigioso realismo dell’artista. La donna è ritratta con estrema dolcezza ed i suoi sentimenti, dominati dalla tristezza, sono espressi con grande discrezione. Lo sguardo è rivolto verso la serva che le lava i piedi, ma il pensiero è lontano combattuto tra emozioni e malinconie.
Con il passaggio alla poco più che ventenne nuova compagna il Rembrandt non ci guadagna molto sotto il profilo del seno, anche se il nostro giudizio estetico non tiene conto del variare delle mode e dei gusti individuali. Le donne opulente, larghe di bacino e strette di busto erano all’epoca molto ammirate, il grasso era segno di distinzione sociale, quando il pranzo quotidiano non era sicuro, se non nelle classi agiate e nessuno poteva immaginare che un giorno le diete dimagranti avrebbero costituito l’assillo di tante più o meno giovani signore.
Non solo la pittura rende omaggio al seno, indiscusso simbolo della bellezza femminile, venato da un sottile erotismo, ma anche la scultura, fissando nel marmo la delicatezza delle forme, ci consegna immortali esempi di esaltazione delle virtù…fisiche. In Oriente la rappresentazione dell’eros è più esplicita, come abbiamo visto nel Kamasutra e nell’arte giapponese, mentre da noi la cultura cattolica cerca di interessarsi più alle anime che ai corpi e la sessualità è vista come peccato.

 
figg.85 e 86

L’erotismo trasformato in pura poesia lo si può ammirare nell’eccitato ed eccitante gruppo scultoreo dell’Apollo e Dafne (085) della Galleria Borghese, nel quale Gian Lorenzo Bernini, tra il 1622 ed il ’25, ispirandosi alle Metamorfosi di Ovidio, interpreta il mito del folle amore di Apollo per la ninfa Dafne, la quale, per preservare la sua illibatezza si dà disperata alla fuga. Raggiunta, la sua verginità viene salvata dalla repentina trasformazione della fanciulla in un albero d’alloro. Lo spettacolare marmo, tra i massimi raggiungimenti di tutti i tempi, sembra il vertice dell’idealizzazione classicheggiante, dotta manifestazione di una società ricca di cultura umanistica, ma l’episodio è colto con delicato realismo e sovraumana bravura: i capelli fluttuanti al vento si allungano in fronde, le braccia diventano rami, il piede così lesto si fissa nell’immobilità delle radici; si salva il seno, tenero fiorellino, che permane nella sua eterea bellezza senza subire l’onta della metamorfosi. Gli stati d’animo sono ben delineati nella dura materia e l’artista sa magistralmente fondere in un solo attimo la fase della corsa con quella successiva della trasformazione, bloccando per sempre nel marmo, in una sola istantanea, il momento culminante della metamorfosi, prodigio di abilità, mai prima tentato in scultura, che coinvolge lo spettatore, rendendolo partecipe del dramma dei due protagonisti, che sembrano davvero carne.
Fu Maffeo Barberini, intimo del cardinale Scipione, committente dell’opera, che dettò il distico moraleggiante posto sul piedistallo, versi latini per giustificare la collocazione di un’opera tanto sensuale nell’austera dimora di un principe della Chiesa: ”Chiunque insegue il piacere di una forma fugace, resta con un pugno di foglie in mano, o al massimo coglie delle bacche amare”.
In seguito il Bernini intende darci un’idea del tempo che scopre la verità in una potente rappresentazione plastica (086), anch’essa alla Galleria Borghese. L’azione del tempo è una gaia e sorridente fanciulla dai seni poderosi, due teste di bambino dai capezzoli vissuti, che assurge a metaforico splendore luminoso nell’attributo del sole implorato nella mano destra, mentre tutto il corpo nudo, nel suo levigato splendore, riflette ed emana la luce, in calcolato contrasto con l’ombra dell’ampio drappo pieno di pieghe. In tal modo l’artista obbliga la materia inanimata ad esprimersi e ad interpretare il momento culminante di una sequenza, traducendo un concetto in una scena concitata.
Infine sarà proprio Gian Lorenzo Bernini, intorno al 1650, a rappresentare esplicitamente il primo orgasmo femminile dell’arte figurativa occidentale, nell’immortale Estasi di Santa Teresa(087), nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma. Un orgasmo mistico naturalmente, che porta verso la beatitudine del Paradiso e non verso le fiamme dell’Inferno, ma quanta terreste partecipazione emana dal corpo della santa, abbandonato e nello stesso tempo imprigionato nella tenera carne di un marmo traslucido, che irradia la gioia di aver raggiunto la meta tanto agognata, con gli occhi che, pur socchiusi, vedono distintamente e la bocca che si abbandona con ebbrezza al gemito. E nel frattempo l’angelo sorridente si bea alla vista di un così dolce stato e con la freccia acuminata si appresta ad imprimere il fendente risolutore.

 

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